Un dottore tutto matto, sulla testa un gatto

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Le illustrazioni di Dottor Pincherle sono state gelosamente conservate dai suoi piccoli pazienti e dai loro genitori, ormai diventati nonni. Ringrazio: Chino Alzetta, Miriam Coen, Fulvia Costantinides, Angela Danelon, Alma Dorfles, Valentina Goldschmidt, Piero Kern, Tristano Matta, Arturo Paschi, Laura Safred, Luisa Stock, Oliviero Stock, Nicoletta Brunner Tamburini, Alba Tartarelli, Margherita Terzi, Irma della Toffola, Luisa e Silvano Rotteri Turona e Anna Volli per i loro racconti e per avermi messo a disposizione i disegni da loro conservati; Monica Rebeschini per le ricerche storiche; l’Istituto per la Storia della Resistenza di Trieste per avermi aperto l’Archivio Pincherle; l’Archivio Cartelle Cliniche dell’Azienda Ospedaliera Triestina; gli operatori dell’Archivio di Stato di Trieste; Valerio Fiandra; Ruth Isaak e Livio Sirovich che mi hanno regalato un mondo; Bruna e Sandro Scrimin, librai da generazioni, che mi hanno trasmesso l’amore per i libri; i miei figli Filippo e Cecilia che mi danno fiducia nel futuro e voglia di raccontare.

www.editorialescienza.it www.giunti.it © 2004, 2018 Editoriale Scienza srl via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - Italia via Beccaria, 6 - 34133 Trieste - Italia Testi: Federica Scrimin Illustrazioni: Bruno Pincherle Prima edizione: novembre 2004

Stampato presso Lito Terrazzi srl Stabilimento di Iolo


FEDERICA SCRIMIN

Un dottore tutto matto, sulla testa un gatto

Bruno Pincherle: storia e storie di un pediatra con i disegni di Bruno Pincherle




Alzi la mano chi ha visto il suo pediatra cadere in acqua! Quante mani... Valentina, Miriam, Franco, Aldo, Piero, Rita. In realtĂ i pediatri non cadono spesso in acqua, come potrebbe sembrare dal numero delle mani alzate, ma Dottor Pincherle era un pediatra speciale. Si buttava anima e corpo nel lavoro, nelle discussioni e spesso si dimenticava di guardare per terra, come successe quel giorno al ricevimento di gala nel parco del famoso castello di Miramare a Trieste. E poi, disegnava...


Le storie raccontate in questo libro sono vere: Dottor Pincherle fu un pediatra molto amato a Trieste, dove visse e lavorò fino al 1968. Alcuni episodi mi sono stati raccontati da mamme (ormai nonne e bisnonne) che lo avevano conosciuto come medico dei loro bambini; altri li ho tratti dalle cartelle della Clinica Lattanti, dove erano registrati con la sua inconfondibile grafia. Le storie di Jenner, Snow e Semmelweiss le ho lette nei numerosi volumi di storia della medicina di Dottor Pincherle. Alcuni di questi libri provenivano dalla libreria antiquaria del suo amico Umberto Saba e furono protagonisti di un coraggioso salvataggio notturno... I disegni sono tutti opera di Dottor Pincherle: sono stati amorevolmente conservati per anni dai suoi pazienti, dai suoi amici e dai suoi “nemiciâ€? che me li hanno affidati con gioia. Sono molto grata a tutti.

Federica Scrimin



STORIA E STORIE DI UN PEDIATRA

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Dottor Pincherle, le balie e la Clinica Lattanti Tutti gli amici si domandavano perché la tasca della giacca di Dottor Pincherle fosse sempre gonfia. – Che cosa ci terrà? – si chiedevano, vedendo spuntare un cartoccetto bianco che lui si affrettava a ricacciare dentro. C’era però chi conosceva benissimo il contenuto inesauribile di quella tasca e ogni mattina, puntuale, si presentava all’entrata della Clinica Lattanti, in via Manzoni, a reclamare la sua dose di mentine prima di andare a scuola: erano Piero, Licia, Angelina, Igor, Uccio. Dottor Pincherle affondava la mano, la riempiva di zuccherini bianchi, tondi come monetine al sapore di menta e i bambini, come colombi, si affrettavano a conquistare la loro razione. In quegli anni non esistevano le caramelle, le gomme americane, i cioccolatini. San Nicolò e la Befana, se arrivavano, portavano un’arancia, un mandarino, un bastoncino di liquirizia, qualche pistacchio, carrube e castagne secche. Quel giorno di aprile del 1931, il nostro dottore si avviò verso l’ospedale più lentamente del solito; era così assorto nella lettura di un foglietto che, attraversando la strada, inciampò in uno scalino. Su quella carta, tra ritratti e disegni appena abbozzati, erano segnati dei nomi: li lesse e rilesse per assicurarsi di non aver dimenticato nessuno. Finalmente raggiunse la macelleria. – Ecco la lista dei pazienti! Tono, il macellaio, rise; si guardò il grembiulone bianco

I bambini come colombi...


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tutto sporco di sangue e si sentì più importante del farmacista. – Le faccio lo sconto, dottore, perché vedo che la famiglia diventa ogni giorno più numerosa! Dottor Pincherle sapeva che molti dei suoi bambini avevano fame e si ammalavano, così aveva fatto una convenzione con Tono: gli portava la lista due volte alla settimana e saldava il conto una volta al mese. Quando arrivò all’ospedale, in ambulatorio lo aspettava la signora Giustina: teneva in braccio la piccola Adele di tre mesi e aveva uno sguardo molto preoccupato. Gli porse la bambina senza dire una parola. Dottor Pincherle la appoggiò dolcemente sul lettino e cominciò a scioglierle le fasce. Era avvolta in un panno di tela tenuto fermo in vita da una lunga stoffa arrotolata e fissata con uno spillone da balia. Comparve un corpicino magro, asciutto, un po’ grinzoso, pallido. Il culetto invece era rosso, infuocato. Il dottore pizzicò lievemente la coscia della piccola per sentirne lo spessore: era così sottile… – Che cosa mangia? – chiese a Giustina. – Non ho latte, – si scusò la donna. – Ho cominciato a darle pappette di farina cucinata con un po’ d’acqua. Dottor Pincherle estrasse la sua penna dalla tasca e segnò sul librone dei ricoveri: “Adele. Distrofia da farina”. Poi scorse con lo sguardo i nomi dei bambini ricoverati nei giorni precedenti: quante volte si ripeteva quella maledetta diagnosi! – Nella farina mancano le proteine, le vitamine, i grassi… – pensava tra sè il dottore. – Come fa un bambino a crescere! Intanto la signora Giustina aspettava, silenziosa. – Questa bambina ha bisogno di latte e di pappe più sostanziose, – sentenziò alla fine. Sulla cartella che compilava per ogni bambino ricoverato, iniziò a scrivere i dati di Adele e la sua storia. A Dottor Pin-


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cherle interessavano molto quelle storie, spesso le ripensava tra sé e sé cercando di risalire alle cause delle malattie dei suoi piccoli pazienti. A volte, tra una visita e l’altra, si fermava a raccontarle all’amico Umberto Saba, che, sepolto tra la polvere e i libri antichi nel suo negozietto, lo ascoltava un po’ invidioso. Quel giorno anche Giustina, sconsolata, iniziò a raccontare la sua storia e quella della piccola Adele. Dottor Pincherle scriveva fedelmente nella cartella, con la sua grafia regolare. – Mi accorsi di essere incinta al mio paese, a Rovigno, ma il papà di Adele non mi volle sposare. I miei genitori erano poveri e si vergognavano. Mi mandarono a partorire a Pola, in modo che i vicini non sapessero niente. Quando uscii dall’ospedale non sapevo dove andare, non avevo una casa, un lavoro. Scoppiai a piangere e la suora che dirigeva il reparto maternità mi consigliò: “Vai in una città più grande. A Trieste tante famiglie cercano una domestica”. Così trovai un passaggio su un carro e partii. Durante il viaggio mi accorsi che, forse a causa del gran dispiacere, avevo perso il latte. E Adele


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piangeva, piangeva, tanto che l’uomo che guidava il carro si impietosì: “Mia moglie ha un bambino piccolo, lasciaci Adele per qualche giorno, finché ti trovi un lavoro. Dove succhia uno, possono succhiare in due”. E per dire la verità sono stata fortunata, perché di lavori ne ho trovati due: da una famiglia vado la mattina e da un’altra il pomeriggio, così ho ripreso subito Adele con me. Ma il latte non mi è tornato e non potevo mica rubarlo. Una signora mi ha raccontato che ai suoi bambini faceva delle pappette con l’acqua e la farina. Così ho provato anch’io: quando gliele do, Adele smette di piangere. Costa poco… – Quanto pesava Adele alla nascita? – la interruppe Dottor Pincherle. – Due chili e mezzo – si affrettò a rispondere Giustina. Dottor Pincherle posò la bambina sulla bilancia: “Due chili e trecento grammi, a tre mesi”, annotò sospirando nella cartella, “causa del ricovero: stato di gravissima distrofia, rachitismo”. Sulla riga successiva scrisse la terapia: “Latte quattro volte al giorno, pappette di riso due volte al giorno, olio di fegato di merluzzo, acido ascorbico o succo di limone”. Così, grazie all’alimentazione più ricca, dopo qualche mese la piccola Adele poté tornare in buona salute dalla sua mamma. In quegli anni i medici avevano scoperto nei cibi freschi, – frutta, verdura, carne, pesce – delle sostanze che sono indispensabili per vivere e, proprio per questo, le avevano chiamate “vitamine”. Dottor Pincherle raccontava spesso una storia ai suoi piccoli pazienti che facevano i capricci e non volevano mangiare la frutta e la verdura. Tanti anni fa Cristoforo Colombo riuscì ad attraversare l’oceano e a scoprire l’America solo perché, per caso, un

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marinaio aveva fatto caricare tanti limoni nella stiva della Niña, della Pinta e della Santa Maria. Così tra i marinai fu di moda la limonata e alla fine del viaggio si accorsero che nessuno aveva avuto i consueti malanni di cui soffrivano quando stavano per mesi in mare: ulcere in bocca, piaghe, fastidio alla luce, agitazione nervosa. Infatti solitamente, dopo tanti giorni di navigazione, tutti diventavano scorbutici, come diciamo noi adesso, perché venivano colpiti dallo scorbuto, una malattia causata dalla grave carenza di vitamina C. Stavano tanto male che dovevano ritornarsene a terra e non riuscivano mai ad arrivare in America. In conclusione, la scoperta dell’America non si deve solo a Cristoforo Colombo, ma anche a quel marinaio goloso di cui però nessuno sa il nome. – E l’olio di fegato di merluzzo? – chiese un giorno Livio, con una smorfia, ricordando quanto era amaro. – Questa è un’altra storia. E così, mentre le sue mani instancabili tracciavano nel ricettario disegnini di renne, di neve, di bambini che sciavano, cominciò a raccontare. C’era una volta, un medico che abitava in un Pease del Nord dove fa sempre freddo e i bambini coperti da berretti, maglie, sciarpe e cappotti prendono poco sole. Questo medico aveva un cruccio: molti di loro crescevano con le gambe storte, la gobba alla schiena, le ossa del torace così ricurve e incavate che a volte facevano fatica a respirare. Il medico pensava: “Non riescono a crescere belli dritti perché



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sono costretti a fare fin da piccolini lavori pesanti in campagna e nelle miniere”. Spesso la sera, prima di dormire, il suo pensiero riandava a ciascuno dei suoi piccoli pazienti, alla vita che facevano, ai loro genitori, insomma alle loro storie; pensa e ripensa, si accorse di una cosa che fino ad allora non aveva notato: nessuno dei figli dei pescatori di merluzzo aveva quella malattia, eppure anch’essi aiutavano i genitori, scaricando cassette di pesce dalle barche. Nei giorni successivi, il dottore si recò a casa di molti di questi bambini: “Voglio sapere che cosa fanno di diverso dagli altri, forse dormono su letti speciali, o svolgono qualche attività che allunga loro le ossa”. Ma non notò niente di diverso. L’alimentazione, naturalmente, era molto spesso a base di merluzzo. Le mamme, in particolare, insistevano perché i bambini mangiassero un ragù di fegato di merluzzo, poiché si tramandava che facesse bene alla salute. Il nostro medico scrisse tutto diligentemente nel suo quaderno, ma non giunse a nessuna conclusione. Molti anni dopo si scoprì che l’olio di fegato di merluzzo è ricco di una sostanza, la vitamina D, indispensabile, insieme ai raggi del Sole, a far crescere ben dritte le ossa. Dottor Pincherle infatti raccomandava a tutte le mamme dei suoi piccoli pazienti: – Un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo al giorno li farà diventare alti e dritti! Non diceva però che il sapore, come molti ricordano bene tuttora, era veramente orribile.


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