GERTRUDE BELL
ia, posso provare uno dei tuoi abiti?
– Quale ti piacerebbe indossare? – le chiesi mentre chiudevo il faldone dei documenti che stavo correggendo, ben consapevole che mi sarebbe stato impossibile proseguire ora che mia nipote Pauline era entrata nella stanza.
– Quello con tutti i pizzi e le pietre che luccicano – disse lei guardandomi speranzosa.
– Mhmm… è il tuo preferito?
– Forse, non so. Devo decidere. Sorrisi. Iniziava sempre così il nostro gioco. Ogni volta che rientravo dai miei viaggi nella grande casa di famiglia, in Inghilterra, Pauline, fglia di mia sorella Molly, trovava una scusa per intrufolarsi nelle mie stanze.
Il guardaroba era la sua stanza dei travestimenti e ogni abito che indossava era il pretesto per un racconto. “Facciamo che io sia te” diceva indossando ora un cappello o una stola, ora un mantello. Così insieme a lei sfogliavo il mio “album” dei ricordi.
In lei vedevo me da piccola quando, per sfuggire alla nostra istitutrice, la povera Miss Klug, galoppavo allʼimpazzata sulla spiaggia di Redcar verso le falesie di Saltburn, riuscendo sempre a convincere mio fratello Maurice a seguirmi. Non ero cer-
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Una regina del deserto viaggia con stile
to stata una bambina facile da gestire né per la mia paziente matrigna, Florence, né per la servitù, che mi divertivo a esasperare con i miei comportamenti da maschiaccio.
– Allora, posso indossare questo abito? – a Pauline luccicavano già gli occhi.
– Va bene, puoi indossarlo – le risposi come se fosse una concessione, quando tra me e me avevo già deciso di dirle di sì dal primo istante.
– E poi tu mi racconti la storia?
Senza ascoltare la mia risposta, si era già rifugiata dietro il paravento per cambiarsi, giocando a fare la signora.
– Eccomi… – disse afacciandosi alla porta.
Era meravigliosamente bufa; con le manine cercava di sollevare l’enorme gonna di crinolina che strisciava a terra, mentre il corpetto tempestato di pietre che brillavano come ghiaccio, troppo grande per lei, dondolava a ogni suo passo mandando infniti bagliori.
– In una scatola di velluto vicino all’abito c’era anche questo – con il dito indicò il diadema che aveva messo tra i capelli e che le cadeva sbilenco sulla fronte.
– Hai fatto bene, così l’abito è completo.
– Dove sto andando? – Era la domanda di rito in cui lei smetteva di essere Pauline e, a ogni cambio d’abito, si trasformava in me, Gertrude Bell, in un momento diverso della mia vita.
– Vai a Buckingham Palace, dalla regina. Nel cortile ti aspetta la carrozza. Il papà e la tua matrigna Florence sono giù nel salone che ti attendono, quando ti vedranno resteranno senza parole. Oggi è il grande giorno del ballo delle debuttanti e tu, insieme alle giovani di famiglie nobili e importanti, avrai l’onore di essere presentata alla regina Vittoria.
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– Allora mi devi insegnare a danzare! – ribatté lei. – Io non ne sono capace e per essere te, al ricevimento della regina, devo assolutamente imparare.
Accesi il grammofono e cominciammo a muovere passi gof e improvvisati divertendoci come matte, prestissimo però ci trovammo a terra ingarbugliate nel grande strascico.
– È bellissimo questo vestito zia, ma è troppo ingombrante, come si fa a ballare?
Pauline si ritufò nel guardaroba pronta a indossare un altro abito. Dopo un po’ si afacciò alla porta con una lunga toga nera e un tocco con la nappa sui capelli biondi.
– Quella è la mia divisa dell’università – le dissi sorridendo.
Mi rividi a Oxford: era il 1886 e la mia presenza fu un evento storico, ero l’unica “gonnella” dell’ateneo e sarebbero passati altri trent’anni prima che le ragazze fossero ammesse. Con la toga che sforava gli stivaletti, il tocco con la nappa sui miei capelli color mogano, attraversavo il cortile del campus a testa alta, ogni giorno. Ero orgogliosissima. In soli due anni, anziché tre, avevo superato tutti gli esami con il massimo dei voti.
– Se indosso questo, invece, dove sono?
Pauline mi distolse dai miei pensieri, indicandomi un manicotto di pelo piegato in una grande scatola.
– Stai scendendo dal treno a Bucarest – decisi di assecondare ancora un po’ il suo gioco.
– E cosa ci sei andata a fare a Bucarest?
– Papà e Florence avevano pensato che mi meritassi un viaggio dopo la laurea e mi proposero di raggiungere zia Mary, la sorella di Florence; suo marito era ambasciatore nella Piccola Parigi, come veniva allora chiamata Bucarest. È stato il mio primo viaggio e fu meraviglioso. Tornare poi a Londra mi sem-
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brò noiosissimo. Per fortuna lo zio e la zia si erano nel frattempo trasferiti a Teheran, in Persia, e io ebbi il permesso di raggiungerli.
E mentre guardavo mia nipote rovistare tra alcune scatole dell’armadio, mi tornarono in mente i giorni passati in treno attraversando la Germania, l’Austria e poi giù fno a Costantinopoli. La prima volta che avevo visto il deserto a Teheran me ne ero innamorata, così quando un’amica mi aveva invitato a raggiungerla a Gerusalemme, dove il marito si era trasferito per lavoro, non me lo ero fatta ripetere due volte. Era stato in quell’occasione che avevo deciso di imparare l’arabo, una lingua difcilissima. Ci sono almeno tre suoni impossibili da pronunciare per una gola europea. Il peggiore è quello che presenta una “h” molto aspirata. All’inizio riuscivo a pronunciarla solo se premevo la lingua con un dito. Ma non si può conversare con un dito in gola, vero?
A Gerusalemme, dopo aver esplorato la città, mi ero spinta sempre più lontano, con la frustrazione di dover rallentare il
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passo con la mia cavalcata all’amazzone. E se togliessi la sella?, mi ero chiesta un giorno; era un azzardo ed era proibito, ma ero a migliaia di chilometri dalle convenzioni sociali inglesi e così avevo iniziato a cavalcare come un uomo. Il problema delle gonne lo avevo risolto facendomi cucire una gonna pantalone.
Finalmente, poco tempo dopo, ero pronta per la mia prima spedizione. Alla guida della carovana, avevo cavalcato per più di cento chilometri lungo la sponda orientale del Mar Morto.
Quando ero arrivata alla pianura del Giordano, mi ero trovata immersa fno alla vita in un mare di fori color porpora, ranuncoli scarlatti, aglio bianco, margherite gialle, malva selvatica, cipolla viola, anemoni rossi…
Tutti mi scambiavano per un uomo. Il vestito ingannava: la gonna pantalone di lino bianco era coperta da un’ampia giubba in cotone cachi, poi c’era la kefah, il tradizionale copricapo bianco con il quale avevo preso l’abitudine di proteggere una parte del volto dal sole implacabile, mentre un sottile velo azzurro con i fori mi riparava gli occhi. Ma quando ero ospite degli emiri e dei capitribù accampati nel deserto, indossavo i miei abiti più eleganti e tutti gli accessori del mio rango. Per loro ero la Regina del deserto.
– È vero che ti chiamavano la Regina del deserto?
La voce di Pauline mi riportò al presente, dovevo aver parlato ad alta voce senza rendermene conto.
– Sono ancora la Regina del deserto – le dissi pizzicandola bonariamente sulla guancia.
– E hai fatto anche l’archeologa?
– Avevo un’abilità particolare con le mappe e le misurazioni dei siti archeologici. Portavo sempre con me una fotocamera. Se andrai a visitare la School of Historical Study della Newcastle
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University troverai oltre settemila mie fotografe lì custodite. Ho imparato anche a determinare la posizione mediante l’osservazione topografca e astronomica. Grazie a queste abilità, ho cartografato l’Eufrate e mappato numerosissimi siti archeologici. Sono stata la prima a realizzare la mappa dell’immenso palazzo di Al-Ukhaidir vicino a Karbala, nell’odierno Iraq.
– È stato allora che sei diventata amica di Lawrence d’Arabia?
La curiosità di mia nipote era insaziabile, ma mi divertiva ripercorrere con lei le tappe più importanti della mia vita.
– L’ho conosciuto in un sito archeologico nel quale lavoravamo insieme e siamo diventati presto amici. Avevamo la stessa passione per l’archeologia e per i popoli di quelle terre.
– È vero che eri invitata a tutte le feste? Piacerebbe anche a me essere la Regina del deserto per essere invitata a tutti i ricevimenti!
– Diciamo che non erano proprio ricevimenti, a volte sì, altre meno. Certo, ero diventata una specie di autorità – dissi sorridendo. – Ambasciatori, mudir o valì, i governanti delle province, ma anche sceicchi e capitribù cercavano la mia compagnia perché sapevano che ero una persona informata dei fatti, raccolti di prima mano. Una volta però mi fecero prigioniera.
Come in un sogno, rivissi con mia nipote la serata in cui mi fu chiesto di aiutare il mio Paese diventando una spia.
– Miss Bell, la ringrazio di aver accettato il nostro invito!
Il funzionario del Ministero degli Esteri inglese mi aveva porto una sigaretta invitandomi a sedere.
– È un piacere – avevo risposto assaporando il tabacco. – In cosa posso esservi utile?
La guerra contro la Germania, come sa, si fa sempre più
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probabile e il governo sta osservando con attenzione la situazione politica dell’Arabia centrale, dove la Germania consolida i rapporti con l’Impero Ottomano fornendo all’esercito turco addestramento, armi e ferrovie. Vorremmo che lei raggiungesse Hā’il.
Ero rimasta per un attimo in silenzio, avevo lasciato cadere la cenere della sigaretta nel portacenere d’argento, mentre facevo correre i pensieri: Hā’il è la mitica città al centro dell’Arabia. Arrivare
lì era la sfda estrema per i viaggiatori del deserto; dal punto di vista geografco, e per le difcoltà del tragitto, era un viaggio quasi impossibile, senza contare i rischi e le incognite a causa delle lotte tra le diverse tribù.
– Non è tutto, Miss Bell – l’uomo mi aveva guardato con aria quasi colpevole.
– Cos’altro devo sapere?
– Vorremmo che proseguisse a sud, fno a Riyad.
– Riyad? Ma saranno almeno 2500 chilometri!
– Ci rendiamo conto che è una richiesta estrema… – aveva risposto visibilmente in imbarazzo.
– Altroché…
– Ma per l’Inghilterra è un momento critico, e questa spedizione potrebbe fornirci informazioni essenziali.
– Capisco, tuttavia non so se…
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– Se c’è una persona che ha una sola possibilità di farcela, questa è lei, Miss Bell.
– E tu, ti sei rifutata? Gli hai detto chiaro e tondo che erano matti?
Pauline stava quasi gridando e mi riportò alla realtà. Con una mano le arrufai i capelli: – No, Pauline, sono partita. E l’ho fatto con stile…
La invitai a seguirmi nel guardaroba: – Apri quel baule, è l’unico che ho conservato di quella spedizione.
La vidi sollevare piano il pesante coperchio e davanti ai suoi occhi si dispiegarono abiti da sera, scarpe col tacco, lunghi bocchini d’argento ed ebano, ma anche stivali di tela, giubbe di cotone…
– Nelle calze di seta nascondevo le scorte di munizioni, negli stivali le armi – le dissi facendole l’occhiolino. – Nei bauli c’erano candelieri d’argento, tovaglie di lino per le cene con i diplomatici, gli ambasciatori e gli sceicchi. Le cose, Pauline, vanno sempre fatte con stile, ricordatelo. E poi non mancavano i compassi, la carta cartografca, gli strumenti per i rilievi topografci. Nella mia vita ho viaggiato come turista, poi come esploratrice e archeologa e, infne, come spia del governo britannico.
– Una vera spia?!?
Sì, sono stata la prima donna con un grado di ufciale nella storia del servizio segreto militare britannico.
– E continuavi a vestirti da uomo? Anch’io un giorno voglio poterlo fare!
– Certo! Solo per i grandi inviti rispolveravo gli abiti lunghi.
È in quel viaggio che ti hanno fatto prigioniera?
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Mi ritrovai a pensare a quello strano viaggio. Ero ormai certa di avercela fatta. Dopo settimane di marcia ero riuscita a raggiungere Hā’il. Il Visir era venuto ad accogliermi con tutti gli onori fuori dalle mura della città, poi all’improvviso mi ero trovata segregata in un’ala del suo palazzo. Mi portavano cibo e bevande, ero circondata dalle donne dell’harem, osservavo la loro vita in gabbia, ma ero io stessa una prigioniera. Ero rimasta rinchiusa quasi una settimana, senza una spiegazione, senza un perché. Poi, all’improvviso, le porte del palazzo si erano aperte. Avevo raggiunto, scortata, il resto del-
la mia carovana che attendeva fuori dalle mura e, senza una parola di spiegazione, le guardie del Visir mi avevano lasciato partire. Ero di nuovo libera. Anche a distanza di anni non scoprii mai perché mi avessero fatto prigioniera per poi liberarmi. La spedizione era poi proseguita fno a Riyad, e io ero riuscita a compiere la mia missione.
– Chi sono le persone in questa foto, zia? – in uno dei bauli Pauline aveva trovato una fotografa di pochi anni prima.
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Questa l’abbiamo scattata il 22 marzo del 1921; pochi mesi
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prima ero stata nominata segretaria diplomatica per l’Oriente. Qui è l’ultimo giorno della Conferenza del Cairo. Vedi? C’è la Sfnge sullo sfondo. Questo signore sul cammello alla mia destra è il Segretario di Stato delle colonie, Winston Churchill. Quello in gessato alla mia sinistra è Thomas Edward Lawrence. In mezzo ci sono io, con il mio cappello a fori. Quella mattina, Churchill aveva inviato un cablogramma a Londra. Era nato l’Iraq. Per volontà britannica il nuovo Stato aveva assunto la forma di una monarchia retta dal re Faysal ibn al-Husayn, l’uomo che io, con il mio lavoro di relazioni e contatti, avevo individuato per questo ruolo.
– Adesso cosa fai in Iraq?
Dopo la Conferenza del Cairo, i miei doveri di ufcio non sono più gli stessi, così sono tornata a dedicarmi all’archeologia. Vorrei fondare un museo nazionale iracheno per tutelare i diritti dell’Iraq; è per questo che tra pochi giorni tornerò là, nella mia casa di Baghdad.
– Appena papà e mamma mi lasciano viaggiare ti raggiungo – disse lei abbracciandomi.
– Ti aspetterò! – risposi stringendola forte. – Così ci vestiamo tutte e due da uomo. Promesso.
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