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Introduzione di Massimo Marcheggiani

Lui il Paretone, tra estate e inverno l’ha salito almeno 150 (centocinquanta) volte. Non meraviglia che vi abbia aperto le vie più lunghe dell’Appennino (la Cantalamessa-Tosti e la Martina) o che vi abbia compiuto il più memorabile dei concatenamenti invernali (i quattro pilastri) e salito in prima invernale la via più difficile (Diedro di Mefisto): per questo Tiziano è stato, va detto senza alcuna esitazione, il più forte alpinista che l’Italia appenninica abbia mai avuto. Non c’è alcuna volontà di sottovalutare il valore dei compagni che, di volta in volta, lo accompagnavano nelle sue imprese: tra numerosi altri Stefano Pagnini nella fase di esordio, poi Bruno Tosti, il forte Franchino Franceschi, con cui ha raggiunto i più alti risultati. Cambiare compagni era una necessità per lui, perché gli altri non potevano tenere il suo ritmo.

Con Massimo Marcheggiani Tiziano ha forse incontrato il suo “alter ego”: uno per cui la montagna è stata ed è scelta totalizzante e definitiva. Per questo il loro sodalizio è stato il più duraturo: di fatto, è durato dal 1984 (a fasi alterne anche a causa del suo lavoro di guida) fino al 1999, anno in cui Tiziano è caduto da una parete che non stava scalando, ma su cui stava lavorando.

Con Massimo Tiziano ha iniziato la fase delle spedizioni extraeuropee che, anche in veste di guida, lo hanno portato in Patagonia, Himalaya, Pakistan, Perù, Africa.

Era bello Tiziano, piaceva molto alle donne ed affascinava gli uomini: la sua allegria e la sua vitalità prorompevano anche quando avrebbe dovuto essere sofferente, magari in un letto di ospedale dove la sorte lo ha più volte costretto. E fu proprio lì che Renata, una ragazza ribelle decisa a non sacrificare la sua indipendenza per “mettere su famiglia”, incontrandolo casualmente vide crollare tutte le sue certezze: “Ho capito che di quell’uomo non mi sarei mai stancata”.

Fu sempre Renata, mentre il chirurgo che aveva operato Tiziano nel 1996 (dopo un terribile incidente accaduto durante una esercitazione di soccorso alpino) le stava spiegando che non si poteva sperare in un ritorno alla normalità, a pensare: “Tu non conosci Tiziano!”.

Alberico Alesi

Proseguo per la cresta, la vetta non è lontana. Sale la nebbia, pettina la parete ed esce come un’onda dalla punta per fare un looping nel cielo. È come quei giorni di primavera mentre si cammina per le prime volte dopo la neve, con i prati e le foglie di quel verde tenero, con gli animali che non sono ancora spaventati; si cammina nel delicato equilibrio dei nostri pensieri e poche volte succede che un uomo sia così garbato con la propria anima.

Tike Saab (Guido Machetto, Tike Saab, Arti Grafiche Persico Dante, Cremona, 1972)

INtROduzIONE

Tiziano è morto il 12 maggio del 1999: se la memoria non mi inganna, l’avevo conosciuto 22 anni prima, nell’estate del 1977. Ricordo molto bene quel giorno, anzi quell’alba, perché stavo dormendo al rifugio Carlo Franchetti al Gran Sasso: quella solida costruzione in pietra situata su di un dosso molto pronunciato nel Vallone delle Cornacchie dal quale, nelle belle mattine soleggiate, è possibile vedere in lontananza il Mare Adriatico. Ha di fronte a sé la bella parete est del Corno Piccolo che quel giorno era già inondata di sole, alle spalle la ovest della Vetta Orientale che invece come sempre al mattino è fredda e buia. Poi, più giù, tutti I boschi, I prati, le colline e pianure del teramano incorniciati tra il vertiginoso abisso della cresta nord dell’Orientale e la cresta nord-est del Corno Piccolo. A completare il quadro decine di taccole, svolazzanti con poca grazia e gracchianti il buon giorno ad ogni nuovo giorno.

È il rifugio per eccellenza per chi pratica alpinismo al Gran Sasso ed io mi stavo lentamente avvicinando a quella che sarebbe stata in seguito l’attività più importante della mia vita: scalare montagne.

Come tutti gli occupanti del rifugio stavo dormendo, perché era davvero presto; inoltre il giorno prima avevo scalato aprendo una via nuova, che in seguito sarebbe diventata una delle scalate più frequentate dell’intero massiccio roccioso. Dormivo quindi perché ero anche molto stanco. All’epoca ero

uno che si arrangiava alla meno peggio, un autodidatta che lentamente e spesso rischiando grosso, si approcciava all’arte della scalata. Avevo avuto però la sfacciata fortuna di incontrare un grande scalatore di 17 anni di nome Pierluigi Bini: di nove anni più giovane di me, senza nessun problema accettava che io mi legassi alla sua corda nonostante i miei rigidi e pesanti scarponi in cuoio, mentre lui stava già rivoluzionando tutte le canoniche certezze dell’alpinismo con un paio di Superga ai piedi, tutt’altro che profumate.

Ero molto stanco perché mantenere la velocità di Pierluigi non era semplice e io non ero ancora pronto a scalare, anche se da secondo di cordata, le lisce e stupefacenti placche della seconda spalla al Corno Piccolo, così come non ero pronto ad accettare un fantastico (nel senso del non reale) altro compagno di cordata di nome “Vito Plumari” e che il giorno prima era diventato per sempre “Il Vecchiaccio”.

Stavano scomparendo, grazie a loro, i punti fermi dell’alpinismo: il senso della conquista, i pesanti scarponi di cuoio, i pantaloni alla zuava, i calzettoni di lana rossi e le camicie di flanella a quadri. I miei due compagni scorrazzavano sulle pareti in scarpe da tennis, tute ginniche, velocità e sano divertimento - mentre io, vestito da “alpinista”, cercavo ancora di capire da che parte cominciare.

Dormivo un sonno inquieto e agitato, dal momento che sapevo che al risveglio mi aspettava una povera colazione (eravamo in giro con pochi sol di) e un’altra giornata con la lingua di fuori, appiccicato su qualche parete per me troppo dura appresso ai miei due compagni di cordata, quando il mio sonno e quello di tutti gli altri fu bruscamente interrotto da un violento bussare alla porta.

Oltre al frenetico bussare si udiva una voce forte e inquieta che chiedeva aiuto. Prima si svegliò uno, poi un altro e un altro ancora: in montagna, nella silenziosa pace dell’alba, basta un nonnulla per alterare quel perfetto equilibrio silenzioso. Il primo a scendere le scale e ad aprire la porta ad un giovanissimo Tito Ciarma (stravolto dalla corsa in salita) fu il gestore del rifugio, la guida alpina Pasquale Iannetti.

Uno di seguito all’altro scendemmo di corsa la ripida scala di legno dai gradini consunti dal saliscendi, perché Pasquale ci chiamava a gran voce: il compagno di cordata di Tito era caduto da un’altezza di oltre dieci metri ed ora è steso in terra gravemente ferito.

Eravamo almeno sette-otto persone, ancora con i pantaloni da chiudere o le scarpe da allacciare; dopo aver preso in spalla una barella, ci affrettammo a seguire con passo molto veloce Tito e Pasquale verso la base della parete est

del Corno Piccolo. Il vantaggio che offre il rifugio Franchetti è proprio questo, che molto rapidamente e quasi in discesa si raggiunge la bella e assolata parete di ottima roccia sulla quale negli anni sono stati tracciati molti itinerari di scalata.

Ero molto intimorito nell’avvicinarmi alle tre persone immobili alla base delle rocce, di cui una in ginocchio, un’altra seduta (Alberico, che conoscerete più avanti) che teneva tra le gambe la testa del loro compagno steso a terra, quasi a proteggerlo. Entrambi erano visibilmente scossi. In quel momento della mia vita non ero ancora abbastanza esperto di alpinismo e quel primo, violento incontro con il potenziale rischio che comporta scalare le montagne mi creò un forte disagio: preferii stare un po’ in disparte, vedere e non vedere, pur obbedendo alle disposizioni che Pasquale stava già impartendo. Nella sua immobilità e tradendo smorfie di dolore, il ragazzo ferito seguiva tutto attentamente, con due occhi sorprendentemente azzurri, belli e spaventati da tutto il nostro movimento per metterlo nella barella nella maniera più delicata possibile.

Cadendo dalla parete per la fuoriuscita di un chiodo era piombato pesantemente a terra e lamentava forti dolori alla schiena. Pasquale si era reso conto della gravità della situazione: un movimento di troppo o fatto male avrebbe potuto causare danni gravissimi e irreversibili al giovane alpinista. La tensione per l’operazione era altissima, nessuno di noi era preparato a situazioni così delicate ma, non esistendo ancora il soccorso alpino organizzato come è oggi con elicotteri, personale medico a bordo e immediatezza nelle comunicazioni, non potevamo fare altro che questo. Senza neanche respirare e coordinati da Pasquale, tutti insieme e nello stesso momento sollevammo il ferito e delicatamente lo adagiammo nella barella, lo coprimmo con una coperta portata dal rifugio e discutemmo sul da farsi. Eravamo soltanto all’inizio dell’operazione, a questo punto la cosa più difficile sarebbe stata farlo arrivare il più presto possibile fino a Prati di Tivo portando la barella a spalla lungo il sentiero scosceso, cercando di non creare scossoni, sperando che qualcuno degli improvvisati barellieri non cadesse mettendo in pericolo il ferito.

Al via di Pasquale sollevammo in sincrono la pesante barella e i primi quattro volontari se la misero in spalla e così iniziò la lunga e faticosissima discesa. Dal momento che eravamo dispari, Pasquale spedì di corsa uno di noi a valle ad avvisare l’ospedale di Teramo di inviare urgentemente un’ambulanza. L’aria fresca e frizzante del mattino ormai non c’era più e grondavamo sudore mentre le spalle compresse dal peso della barella erano sempre più

doloranti. Di tanto in tanto ci davamo il cambio, e chi non portava il ferito stava vicino ad un barelliere, attento ad aiutarlo nei tratti più esposti o sconnessi del sentiero. Una volta superato il tratto impervio del sentiero e giunti sull’enorme spallone erboso dell’Arapietra, ci concedemmo una pausa per riprendere un po’ di forze; adagiammo in terra il ferito e chiacchierando tra di noi si allentò anche l’enorme tensione creatasi per la difficile e lunga discesa. Da qui alla strada sarebbe stata solo fatica, senza difficoltà.

Stavamo tutti intorno a questo ragazzo che spostava i suoi occhi su di noi, ci guardava e rispondeva con fatica alla nostra sciocca domanda su come si sentisse. Pasquale, per sdrammatizzare, gli chiese se si rendesse conto di che onore avesse avuto ad essere stato portato a spalla, tra gli altri, da un alpinista fuoriclasse come Pierluigi Bini, che era già una leggenda nel mondo degli scalatori (particolare che a me era sfuggito e che stavo lentamente realizzando). Il ferito, in un dialetto a me ancora sconosciuto e con molta ironia, rispose che l’aveva fatto apposta a farsi male per avere appunto quell’onore. Seguì una risata che fece bene a tutti quanti e quando Pasquale gli chiese chi fosse tutti sentimmo il suo ancora sconosciuto nome: “Mi chiamo Tiziano Cantalamessa e sono di Ascoli Piceno”. Notai che aveva gli scarponi di cuoio ai piedi.

Venne l’estate del 1983. Non avevo più né visto né sentito parlare di lui, solo fugaci informazioni sulle conseguenze dovute alla caduta: aveva riportato seri danni alla colonna vertebrale e per questo era stato costretto ad indossare per un lungo periodo un busto ortopedico e una ingessatura al braccio sinistro per la frattura del polso.

Nel frattempo mi stavo impadronendo dell’alpinismo, o lui di me, in modo più o meno inconsapevole. Quell’estate andai per la seconda volta al Monte Bianco e riuscii a portare a termine delle importanti salite insieme a Simone Gozzano e Fabio Delisi. Per questioni economiche non stavamo nei rifugi, notoriamente molto cari, ma in tenda al campeggio Tronchey, sotto il versante italiano delle Grandes Jorasses.

Fu proprio alle tende, di ritorno da una di queste salite, che incontrai di nuovo Tiziano: era da poco sceso da un’altrettanto importante grande scalata, la temuta e credo mai ripetuta (almeno da alpinisti del centro Italia) via Major, sul versante sud del Monte Bianco, sopra il caotico e pericoloso ghiacciaio della Brenva. Stava con Alberico Alesi, un altro di quella generazione variegata di ascolani che si stavano affermando come alpinisti molto forti e determinati.

Venti giorni dopo ci incontrammo casualmente a Prati di Tivo. Tiziano stava con Tito Ciarma e lo zio di questi Giuseppe “Peppe” Fanesi, colui che li

aveva iniziati all’alpinismo. Avevano intenzione di andare a ripetere una difficile via di Giampiero Di Federico ed Enrico De Luca. Io ero da solo e dopo due chiacchiere e un caffè fu proprio Tiziano a chiedermi di unirmi a loro per affrontare quella superba via sull’impressionante scudo roccioso del Monolito, il cuore della parete est del Corno Piccolo. Io ormai mi ero convertito alla novità delle scarpe leggere da arrampicata (effettivamente molto più efficaci sulla ruvida roccia) , così come senza rimpianti mi ero disfatto dei pantaloni, maglioni e calzettoni che tanto mi avevano fatto sentire un alpinista.

Mi legai con Tiziano in quella bella giornata di sole, per la prima di tantissime altre volte, ed ebbi in quel momento la netta percezione di cosa fosse un “compagno di cordata”: un piacere che scorreva nitido attraverso la corda che ci univa e lungo le pieghe della roccia che stringevano le nostre mani, riempiendomi di una nuova e gradevole sensazione. Era il piacere palpabile di condividere l’avventura della scalata con una persona che stavo scoprendo bella, piacevole, intensa, complice, modesta, forte. Una persona dalla quale trapelava senza filtri la classe del grande alpinista, che già era e che ancora di più sarebbe diventato. A tiri alterni e baciati dal sole, superammo senza grandi difficoltà l’intera parete: io con le mie leggere e moderne scarpette e lui, così come Tito e “Peppe”, con i pesanti scarponi in cuoio.

Conservo come un tesoro il ricordo di un complimento che mi fece durante la salita. Lui aveva fatto da primo il tiro del traverso, e dalla sosta poco sotto lo strapiombo mi guardava salire lungo la successione di piccoli buchi della monolitica placca. Ad un certo punto mi disse in un finto dialetto romanesco: “Ahò, pare che stai a sona’ ’n pianoforte co’ quee’ mani!”. Mi faceva spesso complimenti, e io li accettavo con sciocco narcisismo, mentre non ero capace di avere questo genere di attenzione nei suoi confronti.

Sono passati dodici anni dalla sua morte; il suo ricordo, la sua figura, la sua risata contagiosa, la sua schiettezza e sincerità, i suoi begli occhi azzurri, le sue mani forti, il suo farsi sentire amico e ancora di più le sue belle ed importanti imprese sono ancora oggi un frequente argomento tra la ormai vasta comunità alpinistica. Molto spesso si parla ancora di lui e la sua figura diventa sempre più “mitica”.

Ho scalato molto con Tiziano, dalle classiche arrampicate senza storia fino alle spedizioni in Patagonia, in Perù e in Himalaya: sono state esperienze che mi hanno dato la grande opportunità di condividere con lui lunghi periodi a stretto contatto. Ci sono stati gli abbracci e i vaffanculo, ovviamente. La memoria però non mi fa dimenticare quanto io sia stato privilegiato nell’essere stato legato alla sua stessa corda e per questo ho la presunzione di

poter raccontare qualcosa. Anche molti altri scalatori prima, durante e dopo di me hanno condiviso con lui la bellezza delle scalate: per questo ho pensato che sarebbe stato bello che anche altri raccontassero la loro storia con Tiziano. Così ho chiesto prima di chiunque a Renata, sua moglie, se era d’accordo che si scrivesse un libro su di lui, che lo scrivessi io, e se fosse disposta ad aiutarmi. Ottenuto il suo consenso ho messo a fuoco quelle che secondo me sono state alcune delle sue scalate più significative, successivamente ho rintracciato i compagni di quelle salite ai quali ho chiesto la disponibilità a collaborare.

A Stefano Pagnini ho chiesto di raccontare, a distanza di un’eternità, la loro stupefacente salita della parete nord del monte Camicia, nel massiccio del Gran Sasso. Stupefacente perché, sottolinea Stefano, loro due al momento della scalata erano poco più che ragazzini, appena affacciatisi al mondo delle scalate. La nord del Camicia è una parete non bella, cupa e di roccia friabile. Non dà quasi mai la possibilità di mettere dei buoni chiodi, ammesso che i due ragazzini fossero in grado di farlo. La salita di questa parete non è un’impresa tecnica, è piuttosto un’impresa mentale.

Tito Ciarma, che era uno dei tre amici di Tiziano presenti il giorno della sua caduta, ricorderà invece l’apertura di una grande via quasi mai ripetuta per la sua lunghezza e difficoltà complessiva: la via Martina sulla parete est della vetta orientale del Gran Sasso. I pochissimi ripetitori parlano di un viaggio infinito in uno degli angoli più remoti e selvaggi dell’intera montagna.

Dopo 35 anni di attività ho ancora una visione piuttosto romantica dell’alpinismo: per questo non ho potuto evitare di chiedere ad Alberico Alesi di raccontare della loro salita alla via Major al Monte Bianco. Una parete selvaggia, isolata, inquietante nonostante la sua bellezza. La grande storia dell’alpinismo al monte Bianco passa su questa e altre poche pareti. A me Tiziano non ha raccontato quasi mai nulla, lui era uno che ascoltava; sono stato quindi contento di sentire da Alberico la storia della loro scalata sulle tracce dei grandi alpinisti, primo fra tutti Walter Bonatti che di questa parete era profondo estimatore e conoscitore.

Cercando di dare anche una continuità cronologica alle scalate scelte, racconterò invece io, ma nella seconda parte del libro, di quando nella seconda metà degli anni ’80 con Tiziano andammo in Patagonia per due lunghissimi mesi, da soli, con l’intenzione di scalare il formidabile Pilastro Goretta alla parete nord del Fitz Roy sulle tracce del grande Renato Casarotto. Tutta la storia fu una bella impresa che mi fa sempre piacere ricordare, così come quando a solo un anno di distanza ci proiettammo verso un bell’obiettivo

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