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Io, Tiziano e Walter Bonatti di Alberico Alesi
dico mentre penso che forse è proprio lui quello veramente indicato a raccontare, se solo potesse trasformare tutta la sua carica e la sua dirompente anima in parole scritte. Sono ancora più in crisi: è probabile che io non riesca a fare un lavoro dignitoso, Tiziano non va raccontato solo come alpinista. Era bravo, si sa, aveva compiuto belle imprese, è vero. Un mucchio di libri di alpinisti che raccontano le proprie gesta sulle ardite pareti sono illeggibili. Un mucchio di libri scritti su alpinisti scomparsi sono altrettanto illeggibili quando è tutto un raccontare di imprese che non vanno minimamente al di là della nuda e cruda cronaca di una scalata, importante o meno che sia. Ma la persona che scala, chi è? Basta essere bravi? E se poi oltre che bravo a scalare un alpinista è anche stronzo, falso, opportunista e fondamentalmente “non amico”? La figura del compagno di cordata rimane, non solo per me, un elemento chiave affinché l’alpinismo sia qualche cosa di veramente pieno, vero, forte, e quello che vorrei è proprio questo: fare in modo che esca da queste pagine lo straordinario compagno che Tiziano era e quanto una scalata con lui si trasformava in una fetta di vita veramente vissuta!
“Tike Saab” è un libro del 1972 scritto da un alpinista che a me piaceva molto, Guido Machetto. L’idea di far scrivere e raccontare anche da altri chi fosse Tiziano non è mia, l’ho rubata a Machetto ed al suo libro. Mi sono innamorato della sua figura e del suo unico splendido libro, che non sta quasi più in piedi per le troppe volte che l’ho aperto, non fosse altro che per rileggere qualche breve brano. Ad un certo punto dice: “Quattro giorni, sono solo quattro giorni in mezzo a moltissimi altri passati in parete ma quella compagnia sorridente, quel capirsi profondamente al di là della “prima invernale”e quel luogo solitario, mi permettono di dire: se uno scala vuol dire che è un tipo, e un giorno il suo occhio si sofferma su un posto che non può essere che suo e dice che la vita che ha vissuto intimamente fino adesso è lì riflessa…”.
Ecco cos’era Tiziano per tutti noi che siamo stati legati alla sua stessa corda: quel compagno sorridente e amato con il quale si aveva la certezza di stare nel posto giusto al momento giusto. E chiunque abbia scalato con lui sa che c’è un solo posto che non può essere che suo: la più grande, bella e selvaggia parete del Gran Sasso, di cui rimane ancora oggi l’indubbio grande protagonista. Il Paretone.
Ci prendiamo il caffè. Chiedo loro se hanno ancora voglia di leggere le poche pagine che ho scritto, e lo dò per scontato quando Renata senza dire una parola prende i fogli e va a sedersi sul divano. Valentina si siede sul bracciolo dello stesso ma appiccicata alla madre. Roberto sta in mezzo, tra me e loro. La voce leggermente graffiata di Renata traduce in suoni le poche pagine
Il rifugio nel ghiaccio. Foto: M. Marcheggiani
Tiziano venne investito in pieno da una profonda crisi. Lo vidi inizialmente incupirsi, poi sedersi sullo sgangherato letto, prendersi la testa tra le mani e dopo poco iniziare a piangere. Un marasma di pensieri negativi e di ripensamenti si impadronirono di lui, cominciava a pensare di aver fatto una grande cazzata ad imbarcarsi in questa avventura, non avrebbe dovuto lasciare Renata sola con il piccolo Riccardo che ora, si accorgeva, gli mancava più di qualsiasi altra cosa. Non avrebbe dovuto lasciare l’intera fattoria sulle spalle di sua moglie, se pur con qualche aiuto da parte di amici; non si sentiva per niente bene, non voleva stare lì, avrebbe preso il primo aereo possibile e sarebbe tornato di corsa a casa dai suoi cari. Non sapevo che fare e che dire di fronte ai singhiozzi e le lacrime del mio amico; come un cretino me ne stetti
di fronte a lui farfugliando qualche scemenza e l’unica cosa forse buona fu un abbraccio, che stava a significare che ero disposto a tornare indietro anche io, senza problemi. Significava che gli volevo bene, che mi dispiaceva per il suo dolore, che poteva contare su di me e decidere come riteneva più opportuno. Non durò poco quella crisi, poi esausti dal lungo viaggio, dal fuso orario e dalla tensione del disagio ci addormentammo fino al giorno dopo. In seguito Tiziano scrisse: “Mio figlio Riccardo aveva due anni, ero distrutto dal pensiero che stavo rischiando di non poterlo riabbracciare; ero paralizzato. Il dolore mi aveva fatto toccare un limite a me sconosciuto, piangevo e pensavo che non ero tagliato per quella vita…”.
Quanto influisce su di noi la condizione meteo? Chissà! Il mattino successivo a Rio Callegos il vento era scomparso, c’era una luce solare radente, brillante, l’aria era pulita e fresca. Andammo a prendere un caffè “cortado” e mi viene da pensare, ora che sto scrivendo, che qualcosa o qualcuno ci avesse messo lo zampino affinché le cose si aggiustassero, e Tiziano ritrovasse la sua serenità e vivesse due mesi, mi permetto di pensare, tra i più belli della sua vita. Tiziano ora guardava avanti, ed io ero entusiasta della piega che stavano prendendo gli eventi. Risoluto e deciso mi spronò a cercare la stazione degli autobus diretti a El Calafate e a prenotare il viaggio (tra i due solo io masticavo lo spagnolo), poi andammo a comperare tutto il cibo che ci sarebbe stato necessario per una lunga permanenza in montagna. Ritornò la sua contagiosa risata e ogni tanto affettuosamente mi sollevava da terra in una sorta di scherzoso abbraccio. Mi faceva sentire bene, ero felice! Diverse ore di autobus ci portarono in quello sperduto e mitico paese che prende il nome da una caratteristica bacca locale commestibile, il Calafate: una leggenda locale racconta che chi la mangia sia destinato a tornare.
Il piccolo centro era composto da piccole e dignitose case, qualche baracca di lamiera e tutto era circondato da milioni di ettari di “pampa”. Tiziano davanti a questa infinita distesa rimase incantato, e mentre stavamo appoggiati ad uno steccato, come parlando a se stesso disse: “Quanta bella e buona terra!”. Due fratelli si avvicinarono e ci offrirono gentilmente il loro cortile dove poter montare la tenda e contemporaneamente un caffè, insieme ad una “dritta” per raggiungere le montagne. Sembrava che in cambio non volessero nulla e mi pare di ricordare che così fu. Al mattino infatti gratuitamente salimmo sul cassone di un camion con tutto il nostro bagaglio e dopo ore di polvere e vento giungemmo al termine della strada con gli occhi, oltre che pieni di polvere, saturi della visione stratosferica della nostra montagna che da svariati chilometri vedevamo svettare su tutta l’infinita “pampa”.
Il Fitz Roy. Foto: M. Marcheggiani
Sopra, Tiziano sotto la crepaccia terminale del Fitz Roy. 1986. Sotto, Tiziano alla “fontana” del campo base del Fitz Roy. 1986. Foto: M. Marcheggiani
Marcheggiani e lo stupendo granito del pilastro Goretta. 2° giorno di scalata. 1986. Foto: Arch. Cantalamessa
Tiziano in sosta sulla via Franco-Argentina al Fitz Roy. 1986. Foto: M. Marcheggiani
tornò su e, anche se stravolto, chiamò i suoi colleghi del soccorso alpino comunicando dettagliatamente le coordinate per il soccorso.
Con grande determinazione riuscì a portarci, in maniera non facile (eravamo tutti traumatizzati) al sicuro per i restanti 300 metri di canale fino in vetta. Eravamo al di sopra del ghiacciaio del Calderone quando dall’elicottero del soccorso ci informarono che avevano individuato i nostri compagni alla base della parete: per loro non c’era più niente da fare. Ognuno con il suo silenzio e dopo non so più quanto tempo, distrutti, ci ritrovammo a valle.
Non nascondo che nel rievocare questo episodio vengo preso da un pianto incontrollato, per un ricordo che ancora oggi porto vivo dentro di me, di quegli amici e soprattutto di quella guida che ci aveva insegnato il suo grande “dare” e che rimarrà in modo indelebile nella mia mente”.
Il racconto di Vincenzo è crudo, sincero: mette paura anche solo immaginare la terribile esperienza che tutti quei ragazzi devono aver vissuto, lo shock e il timore e la grande urgenza di uscire in vetta senza altri imprevisti drammatici; è una parete infinita quella. Si chiuse con quel terribile epilogo quella che doveva essere un gioiosa, seppur faticosa e impegnativa avventura. L’avventura di ragazzi appassionati, belli nel loro essere alpinisti in compagnia di quanto di meglio il mondo delle guide alpine poteva offrire: la conoscenza, la classe, la passione, l’affabilità di Tiziano!
Tiziano quel giorno scese dal Paretone, dal Gran Sasso, dalla montagna che era stata la sua seconda casa e che aveva amato senza riserve, per l’ultima volta. Già lo sapeva, ne era cosciente.
Scese un passo dopo l’altro: centinaia e centinaia di passi mai stati cosi pesanti, tristi, amari come non mai; ogni passo verso il basso sapeva essere l’ultimo, non ci sarebbero stati più passi in salita, non avrebbe lasciato mai più le sue impronte su quelle nevi immacolate né su quei sentieri scoscesi.
Scendeva e sapeva già che le sue mani forti, grandi, belle e capaci non avrebbero più stretto con forza e passione, come fossero carezze, quelle rocce uniche.
Scendeva senza mai voltarsi indietro, i suoi splendidi occhi non brillavano più. Scese fino a valle, posò per l’ultima volta il suo zaino, chiuse delicatamente alle sue spalle una porta invisibile. E lasciò la montagna.
Poco più di un anno dopo, il 12 maggio del 1999 io ero in casa, stavo stirando. Me lo ricordo come fosse ieri. Squillò il telefono: - “Pronto?” - “Pronto Massimo, sono Angela da Ascoli. C’è stato un incidente… Tiziano”.
“E nulla più rimane in questo spazio immenso solo gli aliti di vento a trascinar via lontano parole e sogni”.
(da “Sulle sponde del fiume amico” Vincenzo Abbate)
RINGRAZIAMENTI
Caro Tiziano, nell’inverno passato sulla nostra montagna ci sono stati dei ragazzi, di cui uno veramente molto giovane, che hanno portato a termine una grande scalata, come quelle che facevi tu e che ci sbalordivano sempre. Quel tipo di alpinismo che dopo la tua salita al “Diedro di Mefhisto” non si era più visto. Questi ragazzi, Andrea Di Donato, Andrea Di Pascasio e il giovanissimo Lorenzo Angelozzi (usciti dopo tre giorni da “Fulmini e saette” sull’anticima del Paretone) ti hanno dedicato la loro ascensione. Sono stati grandi, sia nella loro impresa che nell’affettuosa attenzione nei tuoi confronti, nonostante non ti abbiano mai conosciuto di persona.
Voglio iniziare a ringraziare loro, anche se ai fini del libro non c’entravano nulla, perché questa loro dedica è una chiara testimonianza di quanto tu sia ancora fortemente presente nei nostri pensieri e per dirti (e dire ai tuoi figli Riccardo e Valentina e a tua moglie Renata) che al di là di una enorme stima come alpinista, ti volevamo tutti quanti un bene immenso.
Il mio ringraziamento principale è però per la tua famiglia, che mi ha permesso di scrivere questo modesto libro aprendomi ripetutamente la porta della vostra casa ad Ascoli, che a differenza della casa in campagna non avevo mai visto, mettendomi a disposizione la tua intimità, i tuoi pensieri e i loro racconti.
Poi ci sono tua sorella Daniela, tuo fratello Tonino e soprattutto il tuo fratello “piccolo” Roberto, che con i suoi viscerali racconti mi ha trascinato in un vortice di dolore e di ulteriore conoscenza della tua vita, e dei tragici attimi in cui l’hai persa.
Un grande aiuto poi mi è arrivato dai tuoi amici storici di Ascoli Piceno: Stefano Pagnini, Tito Ciarma, Alberico Alesi e Franchino Franceschi, che nonostante i tanti anni passati hanno rivisitato la loro memoria ricostruendo fatti ed emozioni, dando vita e particolarità a una buona parte del libro.
Per lo stesso motivo sono grato a Silvia Marone e Marco Vallesi che hanno raccontato altri pezzi di storie vissute con te.
Giuseppe Antonini, Guido D’Amico e sopratutto Giampiero Lacchè mi sono stati di grande aiuto nel ricostruire la dinamica del tuo incidente a Genga, del quale Renata sapeva molto poco ed io praticamente nulla.
Anche Vincenzo Torosantucci è stato determinante per ricostruire il drammatico incidente sulla via Jannetta al Paretone, e mi dispiace avergli creato un ulteriore dolore nel ricordare quella tristissima vicenda.
Avendo forti dubbi sulle mie capacità letterarie, ho chiesto a Roberto De Luca, Marika Simeoni, Vincenzo Abbate e alla stessa Renata lo sforzo di leggere il libro nella stesura di massima per avere un giudizio critico e sincero, poiché non mi sarei perdonato se avessi messo in circolazione un guazzabuglio di parole. Li ringrazio di tutto cuore, perché non dubitando della loro onestà intellettuale, mi hanno incoraggiato con il loro giudizio positivo.
Un grazie speciale ai miei figli Riccardo e Federico che, con infinita pazienza, mi hanno guidato nell’uso di un computer che ho appositamente acquistato per scrivere questo libro.
Ancora grazie a Livia Steve, che per la seconda volta si è ritrovata impelagata a correggere le bozze di quest’altro mio libro lottando contro la mia grammatica dimenticata (o forse mai imparata).
Un ringraziamento particolare va a Loretta Spaccatrosi: pur non avendoti mai conosciuto, da quando si è affacciata al mondo dell’alpinismo è sempre stata affascinata dalla tua figura, tanto che l’idea di un libro su di te è principalmente sua.
Infine non io, ma tutti noi vogliamo ringraziare te Tiziano, per essere stato nostro compagno di cordata e per tutto quello che a tua insaputa ci hai trasmesso, da un semplice sorriso fino all’avventura totalizzante del vivere.
Massimo Frascati, 20 novembre 2018
POSTFAZIONE
Grazie a mia madre per avermi messo al mondo A mio padre semplice e profondo Grazie agli amici per la loro comprensione Ai giorni felici della mia generazione Grazie alle ragazze, a tutte le ragazze Grazie alla neve bianca ed abbondante A quella nebbia densa ed avvolgente Grazie al tuono, piogge e temporali Al sole caldo che guarisce tutti I mali Grazie alle stagioni, a tutte le stagioni Ma che film la vita, tutta una tirata Storia infinita a ritmo serrato Da stare senza fiato Ma che film la vita, tutta una sorpresa Attore spettatore tra gioia e dolore Tra il buio e il colore Grazie alle mani che mi hanno aiutato A queste gambe che mi hanno portato Grazie alla voce che canta i miei pensieri Al cuore capace di nuovi desideri Grazie alle emozioni, a tutte le emozioni Ma che film la vita, tutta una tirata Storia infinita a ritmo serrato Da stare senza fiato Ma che film la vita tutta una sorpresa Attore spettatore tra gioia e dolore Tra il buio e il colore.
(da “Ma che film la vita” di Augusto Daolio con I Nomadi)