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Gli aspetti psicologici del rischio

Editoriale

Testo Eugenio Pesci

Montagna, arrampicata: rischio, pericolo, riflessione. Una tematica che ha, e ha avuto, una grande rilevanza concettuale, etica, e storica; una tematica che è stata spesso al centro di feroci discussioni, ma che, al contempo, è stata spesso evitata e volutamente ignorata, poiché è intellettualmente scomoda e poco redditizia. Questo numero di Up Climbing si presenta come un tentativo di aprire un dibattito su questi argomenti delicati, attraverso i contributi di personaggi di primo piano dell’alpinismo internazionale. Alpinisti e arrampicatori che sono o sono stati, nella loro attività verticale, a strettissimo contatto con esperienze di rischio e pericolo molto forti e continuative. Per certi versi alpinisti e uomini che, per bravura e fortuna, sono sopravvissuti a imprese di altissimo livello. Personaggi, dunque, in grado di parlare di questo tema fondamentale con piena cognizione di causa e autorità: da Igor Koller, a Paul Pritchard, da Andy Kirkpatrick a Maurizio Giordani e Matteo Della Bordella, da

Ermanno Salvaterra a Patrick Gabarrou, fino a protagonisti di imprese recenti ed estreme come Philip Babicz, Marcin Tomaszewski, Dario Eynard. Senza, però, dimenticare gli aspetti più tecnici e oggettivi del rischio in montagna, che sono stati trattati in maniera professionale da Arno Ilgner, Paolo Tombini, Filippo Gamba, Emanuele Avolio. Tutt'altro che secondaria infine – e ormai legata alla rivista – la riflessione di un'alpinista giovane e attenta a ciò che accade nel mondo verticale, come Federica Mingolla. Dunque un numero totalmente monografico, quasi un libro, concepito e realizzato proprio per dare al pubblico dei lettori interessati, e soprattutto a chi si avvicina per la prima volta al mondo del verticale, una panoramica non superficiale inerente gli aspetti cruciali di quanto e come si rischi nell'alpinismo e nell'arrampicata. Un numero di Up Climbing che vorrebbe lasciare un segno tangibile e stimolare la coscienza che si dovrebbe avere verso rischio e pericolo quando si pratica l'alpinismo in tutte le sue forme. In modo che – come scrive qui Andy Kirkpatrick – l’alpinismo stesso si leghi al massimo grado alla vita e non, soprattutto, all’opposto di quest’ultima.

Bivacco su portaledge, al decimo giorno su Holstind, Antartide. Foto: Arch. Andy Kirkpatrick

Gli aspetti psicologici del rischio

Testo Arno Ilgner Traduzione Silvia Rialdi

Vi siete mai trovati in una situazione in cui siete sfiniti, molto lontani dall’ultima protezione, di fronte a un volo spaventoso? Vi state chiedendo “Come cavolo mi sono ficcato in questa situazione?” Quello che pensavate fosse un rischio accettabile si è trasformato in una situazione nella quale vi sentite impreparati ad affrontare le conseguenze di una caduta. Che cosa è successo?

Foto: Karsten Delap

Foto: Andrew Kornylak La maggior parte degli arrampicatori si trovano in queste situazioni. Si è verificato uno scollegamento tra il modo in cui hanno valutato il rischio e la realtà del rischio. Come climber, sappiamo che l’assunzione del rischio fa parte dell’arrampicata e dell’alpinismo. Eppure, lo valutiamo erroneamente e ci troviamo ad assumerci rischi che potrebbero danneggiarci. Quando ciò accade, tendiamo a cercare delle scuse per le difficoltà in cui ci troviamo, incolpiamo qualcun altro o qualcos’altro, e ci sottraiamo dalla responsabilità per gli effetti che noi abbiamo creato.

Il rischio è di due tipi: fisiologico e psicologico. I rischi fisiologici potrebbero comportare a un infortunio o la morte. Quando le conseguenze di tali rischi si manifestano, potremmo non essere più in grado di continuare ad affrontare la salita, perché siamo infortunati o morti. I rischi psicologici potrebbero compromettere la nostra volontà di assumerci rischi. Potremmo non aver subito danni fisici, ma siamo talmente traumatizzati psicologicamente che perdiamo tutta la motivazione ad affrontare ancora la salita. Senza un nuovo coinvolgimento, non possiamo superare questi traumi, assumerci nuovi rischi e continuare a divertirci arrampicando. Gli infortuni fisici guariscono con il tempo, per conto loro, con un nostro minimo contributo. Facciamo semplicemente quello che il medico ci dice e con il tempo guariamo. I danni psicologici non guariscono da soli, con il tempo. Se non facciamo qualcosa per cambiare lo stato psicologico traumatizzato che abbiamo generato, i danni psicologici persistono. Possiamo invece prendere l’iniziativa e imparare nuovi modi per superare le esperienze psicologiche traumatizzanti. Come punto di partenza, però, dobbiamo accettare la responsabilità degli effetti che abbiamo creato e che hanno causato i danni. Possiamo diminuire le probabilità di subire danni psicologici o fisici attraverso la psicologia – il nostro approccio alla valutazione del rischio. La valutazione del rischio è composta da due parti: la raccolta di informazioni e le decisioni sul rischio. La raccolta di informazioni coinvolge il nostro intelletto, la capacità analitica della nostra mente di raccogliere informazioni dettagliate. Le decisioni in merito al rischio coinvolgono sia il nostro intelletto che la nostra intuizione quando stimiamo il rischio e prendiamo una decisione. La raccolta riguarda tre tipi di informazioni. Dovete conoscere la fine del rischio, per esempio dove si trova la protezione successiva. Conoscerne la fine vi fornisce una direzione e una distanza. Se sapete dove termina il rischio potete determinare approssimativamente quanta energia vi serve per raggiungere quel punto. Conoscere la fine vi aiuta anche con il secondo tipo di informazione: le conseguenze della caduta (le conseguenze del fallimento). Guardando in basso, potete immaginare la lunghezza del volo e vedere se ci sono ostacoli nell’area di caduta. Il terzo tipo di informazione è il vostro piano di arrampicata fino alla fine del rischio. Essenzialmente, determinate se avete le capacità e l’energia sufficienti per affrontare il rischio. Vi fate quindi un’idea se, assumendovi tale rischio, cadrete (ovvero fallirete) o meno. Le decisioni sul rischio, la seconda parte, valutano le informazioni che avete raccolto confrontandole con la vostra esperienza. Ma quale tipo di esperienza? L’esperienza con le conseguenze; cadere o fallire! Quanta esperienza di caduta avete? E com’è la vostra

esperienza rispetto alla possibile caduta che state affrontando in questo momento? Determinate se il rischio che state correndo è sì-cado (aree di caduta che avete già sperimentato) o no-non cado (aree di caduta che non avete sperimentato). Ricordate, “infortunarsi” coinvolge sia aspetti fisiologici che psicologici. Potete rompervi le ossa e rimanere traumatizzati, “rompendo” così la vostra volontà di prendervi rischi. Questa distinzione tra sì-cado/no-non cado è la parte intellettuale della decisione sul rischio. Quella successiva è la parte intuitiva. La vostra “sensibilità dell’appropriatezza”. Quanto vi sembra adeguato il rischio? Determinate ciò osservando quanta paura percepite e quanta resistenza avete per impegnarvi nell’arrampicata, entrambe che partono dal vostro corpo. Queste due parti della valutazione del rischio sembrano logiche. Tutti noi abbiamo raccolto informazioni sul rischio e preso decisioni in base a queste. Che cosa interferisce, quindi, con il processo? È il nostro approccio alla valutazione del rischio. Tende a non funzionare in due modi. Primo, sopravvalutiamo il successo. Secondo, abusiamo dell’intelletto. Gli aspetti psicologici del rischio includono i nostri pregiudizi, che influenzano il modo in cui usiamo la nostra attenzione. In altre parole, i nostri preconcetti creano illusioni riguardo il rischio e concentrano la nostra attenzione su quelle illusioni. Analizziamole una per una. Primo, la sopravvalutazione del successo avviene quando siamo più interessati a conseguire risultati che al processo di apprendimento che ci conduce a essi. Immaginate per un momento la sequenza temporale di una salita. Quanto tempo ci vuole per salire dalla base della via fino alla cima? Quanto tempo dura il successo una volta che avete raggiunto la cima? Sono domande relativamente semplici a cui rispondere. Ci vuole più tempo per salire la via che per sperimentare il momento del successo. Sì, solo un momento di successo quando raggiungete l’obiettivo. Sottolineo questo per enfatizzare che la maggior parte della vostra esperienza di arrampicata è costituita dal viaggio, non dalla destinazione. Quindi, vi divertirete molto di più arrampicando se sarete motivati dalle difficoltà e dalle gioie del processo lungo la via per il conseguimento dei vostri obiettivi. Sembra logico, no? Quindi, che cosa interferisce con la valutazione del processo? A un livello base, è il vostro ego, come create la vostra identità o il vostro senso del sé. Molti di noi si sentono più importanti quando raggiungono dei risultati. Quindi, leghiamo l’identità del nostro ego con i risultati che realizziamo. Ci sentiamo bene con noi stessi quando riusciamo e male quando falliamo. Questo crea un centro esterno di controllo. Come ci sentiamo con noi stessi dipende da qualcosa che non possiamo controllare: il risultato. Possiamo solo controllare ciò che facciamo nel momento presente. Questo centro esterno ci fa sentire privi di controllo, generando ansia e paura. A livello psicologico, la vostra attenzione viene distratta dai compiti che dovete eseguire nel momento presente. L’ansia e la paura dirigono la vostra attenzione verso la preoccupazione di ciò che potrebbe accadere, il pensiero di raggiungere il risultato o la speranza di non cadere. Ciò annebbia la vostra intuizione e la consapevolezza del corpo, che invece vi offre validi segnali sul rischio effettivo davanti a voi. Questo dialogo mentale sulla sopravvalutazione dei risultati, e la vostra identità legata a essi, crea un modo di

Foto: Andrew Kornylak

Foto: Scott Perkins impegnano più attivamente. Il vostro “oggetto per concentrare l’attenzione” è il corpo. Vi concentrate sul respiro, rilassate le tensioni non necessarie e mantenete una postura allungata. Potete rimanere fermi per cinque minuti al mattino e concentrarvi in questo modo. Alla fine, fissate un’intenzione per concentrare la l’attenzione all’interno del vostro corpo durante tutta la giornata. Poi, mentre svolgete le attività quotidiane, osservate quando siete persi nei pensieri e portate nuovamente l’attenzione al vostro corpo. Queste pratiche vi aiutano a diventare più consapevoli di cosa sta succedendo nella vostra mente e nel vostro corpo, e ciò vi aiuta a mettere ordine nel processo decisionale. Esiste un’altra cosa utile da fare: provare a cadere. Ho detto che si valuta l’esperienza di cadere confrontandola con le conseguenze della caduta che si sta affrontando nel momento presente. A meno che non proviate a cadere volontariamente, non avrete mai nulla da mettere a confronto. Quindi, provare a cadere regolarmente è molto importante per ottenere tale esperienza. Un avvertimento importante, però. Provare le cadute è pericoloso. Quindi, è importante farlo nel modo giusto. Affrontatelo come imparate qualsiasi altra abilità: gradualmente. Concentrate l’attenzione sull’efficacia del vostro apprendimento. Un allenamento professionale è fondamentale a tal fine. La questione è molto più sottile di quanto si creda. Infatti, il desiderio di “farla finita con” interferirà con l’allenamento.

“VOI SOFFRIRETE LE CONSEGUENZE DELLE VOSTRE

DECISIONI SUL RISCHIO, NON GLI ALTRI CHE EVENTUALMENTE VI INCORAGGIANO A PRENDERVI DEI RISCHI. L’APPROCCIO MIGLIORE È ACCETTARE QUANTA PIÙ RESPONSABILITÀ POSSIBILE E APPLICARE QUESTI STRUMENTI, COSÌ DA IMPEGNARVI CONSAPEVOLMENTE NEI RISCHI CHE DECIDETE DI ASSUMERVI.

Tutto ciò che ho descritto qui ridurrà la frequenza con cui vi troverete lontani dalla protezione, di fronte a una caduta, chiedendovi “Come cavolo mi sono ficcato in questa situazione?” Non è una bella posizione in cui trovarsi. Imparare questi aspetti psicologici del rischio vi aiuterà ad assumervi rischi adeguati a voi.

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