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La gestione del rischio

Lo step 5 riguarda un concetto chiave delle Gestione del Rischio, che è quello di informare. Chi partecipa ad una attività deve essere informato sui rischi della stessa, deve sapere cosa fa l’organizzazione in merito (trattamento dei rischi, gestione delle emergenze), e quali sono i rischi residui non eliminabili. Con la Gestione del Rischio viene ribaltato il tradizionale approccio sulle responsabilità: non è l’organizzatore che declina le proprie, ma è il

partecipante che assume le sue, tramite l’accettazione formale (per iscritto) dell’informativa sui rischi. Si vedono in giro molti documenti di “scarico delle responsabilità” o simili. Nella maggior parte dei casi non sono scritti in modo adeguato per una corretta informazione agli utenti e per una valida tutela legale dell’organizzatore in caso di incidente. Spesso includono clausole vessatorie che sono invalidate in sede di giudizio. Suggeriamo perciò l’approccio sopra menzionato (accettazione dei rischi e non scarico delle responsabilità) e, naturalmente, il parere di un legale esperto.

Foto: Jeff Achey

RESILIENZA

La moderna Gestione del Rischio è in continua evoluzione. È significativa la recente adozione dei concetti e metodi della Resilienza (Resilience Engineering) nelle situazioni in cui l’approccio classico del Risk Management ha delle limitazioni, ossia quando: • l’evento è imprevisto o molto raro • ci si trova in una emergenza e non c’è il tempo materiale per una valutazione esaustiva dei rischi; • in generale, quando il sistema allo studio è molto complesso (non lineare) e ad alta correlazione, per cui l’analisi con i modelli causali diventa difficile o impossibile. In questi casi la Resilienza interviene sul modo in cui i parametri di un sistema ne influenzano la stabilità o, tradotto in altri termini, il mantenimento del livello di sicurezza desiderato. La Resilienza mira a riconoscere preventivamente le possibili variazioni di questi parametri (proactive indicators), e fornire strumenti adeguati per una immediata ed efficace azione di risposta, soprattutto tramite la capacità di adattamento alle variazioni dei parametri stessi. Con la Resilienza saremo meglio preparati a reagire ad un imprevisto, a superare un’emergenza e, in certe situazioni di rischio, ad evitare un possibile incidente. E tutto questo senza necessariamente fare ricorso ad una lunga esperienza sul campo o alla conoscenza di procedure. Alcuni concetti già visti nella Gestione del Rischio classica, se applicati, rendono una organizzazione resiliente; per esempio il riconoscimento dei segnali di allarme, la gestione dei margini di sicurezza, la tolleranza agli errori, l’adozione di soluzioni ridondanti. Per uno studio sistematico e approfondito sulla gestione del rischio in montagna, si consiglia di leggere il testo Libertà di rischiare di Filippo Gamba, Versante Sud. Lo stesso autore pubblica sulla pagina www. facebook.com/outdoorriskmanagement news sul tema, aggiornamenti, e case studies (analisi di incidenti).

La copertina del manuale di Filippo Gamba, LIBERTÀ DI RISCHIARE. Gestione del rischio in alpinismo, arrampicata e negli sport d’avventura, Versante Sud, 2013

Autosoccorso: padroneggiare l’uso della catena di sicurezza “artva, pala e sonda” in un evento valanghivo, saper fare un paranco in ghiacciaio o su una via strapiombante quando il secondo penzola nel vuoto senza possibilità di risalire con le proprie forze, sono alcune situazioni non così remote. Quando capita, agire tempestivamente prima dell’arrivo del soccorso organizzato, può cambiare l’esito di una situazione potenzialmente drammatica. Certo che spendere parte del nostro caro tempo libero, passando giornate e giornate ad imparare manovre, invece di macinare tiri estetici su fessure perfette, risulta davvero noioso, ma è tempo investito benissimo.

Buco: o crepaccio, uno dei pericoli oggettivi più ricorrenti quando si affronta una qualsiasi salita che comporti anche il solo breve attraversamento di un ghiacciaio. Che si cammini con ramponi ai piedi, o che si scivoli sopra un bel paio di sci la caduta in un buco poco visibile o la rottura di un ponte di neve sono eventualità che dobbiamo affrontare preparati, necessaria quindi attrezzatura adatta e capacità di compiere un eventuale recupero, oltre naturalmente alla conoscenza del terreno.

Cresta: camminare a fil di cielo, la purezza della linea che parte da un colle e punta alla cima, dividendo versanti, tra ombra e luce. Regno della progressione in conserva, anche se a volte le difficoltà tecniche sono modeste, gestire la sicurezza su aerei spartiacque, spesso senza punti di assicurazione fissi, ma con ancoraggi naturali e protezioni mobili, è un’arte antica che si basa più sull’esperienza accumulata che sulle ripetute con carichi. Macinarne a più non posso è la via maestra.

Diedro: tipica struttura della verticale, come lo è la placca, la cengia e lo strapiombo. La scalata multipitch, su pareti alte o altissime con le mani sporche di magnesio e scarpette ai piedi, utilizzando scarponi, picche e ramponi, ci obbliga comunque a dover sfoderare un bagaglio di competenze abbastanza complesso. Partiamo dagli avvicinamenti a volte complessi e difficili come salite vere e proprie. E poi nodi, manovre, istinto, lettura della roccia e della linea. Siamo abituati a uscire leggeri e con il materiale giusto per una progressione chirurgica e veloce. Bene ma non benissimo, non deve comunque mancare materiale d’abbandono e per l’autosoccorso.

Progressione

in conserva nel Massiccio degli Écrins

oltremisura crollano. Il problema sovviene quando i nostri itinerari incrociano la traiettoria di caduta delle masse ghiacciate. Inutile dire che quando siamo a potenziale tiro di un seracco il pericolo oggettivo del nostro itinerario raggiunge un valore ragguardevole. Giustissimo agire nelle ore più fredde della giornata e fuggire l’irraggiamento diretto, ma la previsione di caduta non è una scienza esatta.

Traccia: scegliere l’itinerario di salita o discesa su un versante o una parete è anche un fattore estetico, si avvicina per un alpinista all’opera d’arte. Incrociando le nostre capacità tecniche e l’analisi dei pericoli oggettivi con la morfologia del terreno, la nostra traccia dovrebbe essere la più sicura possibile.

Ultra: vocabolo entrato nel glossario della montagna, quasi sinonimo di attività anche estremamente lunghe, ma nel segno della maggior leggerezza e velocità possibile. La leggerezza e la velocità per verità, sopratutto rapportate all’esposizione al rischio oggettivo, sono di per sé parametri di sicurezza. Vedendo impressionanti exploit fast & light o gare spettacolari in altissima montagna si rischia però di falsare la percezione del rischio, magari non utilizzando il materiale adatto al terreno oppure progressioni non rapportate al proprio livello. In montagna leggeri sì, ma con tutto il materiale necessario al terreno che abbiamo scelto, addosso e nello zaino.

Valanga: paura ancestrale delle popolazioni alpine, evento concretissimo per chi si muove sulla neve. Negli ultimi trent’anni la tecnologia, introducendo strumenti di ricerca e sicurezza sia attivi che passivi, ha innalzato di molto la possibilità di sopravvivere a un evento valanghivo. Gli studi e la conoscenza della materia sono cresciuti a dismisura e oggi, per chi non mastica la materia, è molto facile reperire informazioni o partecipare a corsi che possano gettare le basi di un corretto approccio alla neve. Da sottolineare la rivoluzione del nuovo format dei bollettini che da qualche mese utilizziamo sulle Alpi italiane.

W.W.W.: i siti specializzati e i social, hanno notevolmente agevolato la pianificazione delle nostre gite. Sappiamo oramai le condizioni dei nostri itinerari quasi in tempo reale. Attenzione però alle sirene che fregarono anche Ulisse: la voglia repressa sfogata davanti a un monitor può essere foriera di cattivi consigli in termini di sicurezza, sopratutto restando abbagliati da foto “specchietti per allodole”, scattate pensando più al proprio ego, che non al fornire informazioni precise e puntuali, ma che vengono costantemente caricate sui social e siti specializzati. Basarsi su esse può rivelarsi molto pericoloso.

Xtreme: L’estremo, dagli anni Ottanta del secolo scorso, mai come prima, questo vocabolo sopratutto in montagna è diventato di uso comune. Exploit era la parola d’ordine. Discipline come l’arrampicata sportiva, lo sci estremo, i concatenamenti, il parapendio e il deltaplano conquistarono il grande pubblico. Il sesto grado, limite massimo umano quando ancora si usavano le scale chiuse di classificazione delle difficoltà, poteva quasi essere erroneamente e malamente tradotto in qualcosa tra il quinto e il 6a della scala francese. Non va dimenticato che la storia e le difficoltà di una salita vanno rapportate e calibrate al momento e alle condizioni dell’apertura. Ci sono vie che fanno epoca, e che poi diventano delle classiche, ma quando furono salite la prima volta alzarono l’asticella. Altre visionarie per stile e intuizione preparano da sempre le sfide di domani, l’alpinismo estremo grazie a Dio non è mai morto, né tanto meno è diventato più facile di prima e gode ancora di ottima salute.

Y: una delle inversioni classiche dello scialpinismo lascia sulla neve l’impronta di questa lettera. Uso questa metafora per parlare della rinuncia, ovvero quando è meglio per la sicurezza tornare indietro; possiamo trovare condizioni peggiori del previsto, può essere il giorno che non stiamo bene come vorremmo e siamo lenti, oppure quando il tempo sta cambiando. Le montagne ci aspettano la volta dopo. Sempre.

Zero termico: in estate ma anche in inverno serve ad identificare la quota del freddo, il clima però sta cambiando. In montagna il global warming è decisamente più facile da avvertire che altrove. Questo vuol dire che deve cambiare anche il nostro approccio all’ambiente alpino e soprattutto dobbiamo sganciarci dai modelli di riferimento climatici che avevamo anche solo pochi decenni fa.

La copertina del manuale di P. Tombini e L. Macchetto, SICUREZZA IN MONTAGNA. Materiali, manovre e tecniche per affrontare al meglio l’alpinismo e l’arrampicata, Versante Sud, 2011

ENGINEERED IN THE

DOL OMITES

Foto: Andrew Kornylak prestare la massima attenzione, la massima cautela. E allora, dove troviamo la giusta via di mezzo per gestire questo problema? La risposta è, in parte, nell’eredità – ma senza notaio. Essendo l’arrampicata un’attività radicalmente culturale, la garanzia del giusto comportamento all’interno della comunità deriva dalla relazione dei nuovi arrampicatori con i vecchi, una conoscenza e dialogo intergenerazionale (di generazioni “arrampicatorie”, e non necessariamente biologiche) che trasmetta l’eredità storica e culturale per agire con consapevolezza. Insomma, collegare il più possibile quella comunità “originaria”, di cui dicevamo (o almeno le sue idee, le sue visioni, la sua etica), con le nuove comunità nate dalle palestre. D’altronde l’etica, che è incarnata anche nel modo in cui sono chiodate le vie, nasce dalla pratica locale delle pareti: dalle comunità che ci sono cresciute sopra. E dunque è compito dei fruitori delle falesie premurarsi di parlare, capire, imparare da chi è venuto prima come comportarsi in situazioni di restauro delle vie: chiedere ai chiodatori, o a chi li ha conosciuti, e/o agli scopritori del posto, agendo alla luce del sole e dopo aver consultato quanti più local possibile e mediato coi “vèci” è sempre l’etichetta da seguire per muoversi al meglio (ed evitare spiacevoli incidenti diplomatici). Questo anche superando eventuali divergenze personali. In un’era di boom dell’utenza dell’arrampicata indoor e outdoor, in un’era di grandi media che spingono al massimo modelli internazionali che spingono a comunicare tra loro orizzontalmente le giovani comunità di arrampicatori, è sempre più fondamentale che si mantenga anche quella comunicazione verticale, intergenerazionale, radicata localmente, per portare avanti nella maniera più saggia possibile la vita delle falesie.

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