Vite spericolate

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verdenero 17

noir di ecomafia


Patrick Fogli Vite spericolate

© 2009, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2009, Patrick Fogli Immagine di copertina: © Corbis Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di maggio 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

Gli autori devolvono una parte delle proprie royalties al progetto SalvaItalia di Legambiente. VerdeNero è una campagna di mobilitazione contro l’ecomafia e il silenzio che l’avvolge, un’occasione concreta per affermare nel paese una nuova cultura della legalità a difesa dell’ambiente. Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


patrick fogli

vite spericolate



A Diego Ad Alessandra E a Lina



Voglio una vita esagerata, voglio una vita come Steve McQueen. Vasco Rossi, Vita spericolata



Il buio è ovunque. È l’unica frase che gli scivola fra i pensieri. È nella stanza, nella casa, nella pioggia nera, spessa, continua, che gli ricorda goccia dopo goccia tutto quello che invece andrebbe dimenticato. Anche che il buio è ovunque. E gli fa paura. Apre gli occhi. La stanza riappare lenta dalla penombra. C’è sempre un barlume di luce, pensa. Qualcosa che ti permette di vedere, anche quando non sembra. A volte basta un dettaglio, una sfumatura di grigio. Un rumore.

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Il luccichio di un soprammobile di metallo, in fondo, contro al muro. Si alza a sedere sul letto. Abbassa lo sguardo, cerca di vedersi le mani. Nel nero, nella notte, nel buio. Sospira. Ogni cosa sembra sparita, anche il suo corpo. Si passa una mano sul viso. La sente gelida. Appoggia i piedi sul pavimento. Gelido anche quello. Sono giorni che è diventato solo pensieri. Giorni che non ha altro che ricordi. Chiude gli occhi. Non c’è differenza, tranne il rumore della pioggia che così sembra più forte. È cominciato tutto con la pioggia, lo sa. Con le prime gocce. I ricordi sono un temporale più forte degli altri che ti sveglia a metà della notte e non ti lascia più dormire. Un lampo che spacca la schiena del cielo e ti fa capire all’improvviso che ogni cosa può essere spazzata via. Anche quelle che credevi solide, resistenti. Infinite. Un albero. Una casa. La tua vita. Solo il buio non se ne va mai. Apre gli occhi. «Il buio è ovunque» sussurra. Poi sente i primi passi. 10


La luce di un corridoio che si accende, qualcuno che riempie l’alone giallastro della soglia. La notte che prende forma. «Sapevo che ce l’avresti fatta» dice. E anche se non riesce a vedere, è sicuro che lo stia fissando negli occhi. E sorride.

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Caterina attraversa la strada e si guarda intorno. Cerca con un gesto nervoso gli occhiali da sole, affondati fra i mille oggetti che continua a portarsi a spasso nella borsa. Li infila veloce, per placare la luce e nascondere lo sguardo. Sono neri. Come il giaccone di lana, il maglione quasi informe, gli anfibi, la borsa di tela. Una volta servivano anche a mascherare i lineamenti. Ormai, però, il suo è un viso qualunque, dimenticato quasi da tutti. La luce è dappertutto, non si ricordava che fosse così. Nella sua mente la piazza, le case, l’edicola sotto al portico sono parte di un mondo in bian-

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co e nero che non è più sicura sia esistito veramente. Una realtà parallela in cui il Paese è rimasto quello della sua infanzia e che si aspettava di ritrovare fotogramma per fotogramma, oltre vent’anni dopo. Non è più tornata da allora. Non sarebbe tornata se non fosse stata costretta. Quando è partita, il mare ha cominciato a mancarle dietro la prima curva, insieme al silenzio, allo spazio, alla libertà di guardarsi intorno e non vedere nessuno per chilometri. Una volta odiava la solitudine. Ora le sembra quasi impossibile. Forse anche la sua vita precedente è solo un sogno di bambina. Gira l’angolo e attraversa il parco. Un cane corre aspettando che il padrone lo raggiunga. L’uomo vorrebbe accelerare, ma non ce la fa. Il cane si arrende, si siede sulle zampe posteriori, ciondola la lingua e la testa, come un rimprovero. Solo lei, il padrone che ora rallenta, si ferma, accarezza il muso dell’animale. Fuori dal parco, molte tapparelle abbassate, le finestre sigillate della domenica mattina presto. Non è arrivata a quest’ora per caso. Quando ha 14


pensato al suo ritorno, la prima immagine è stata la piazza, il bar pieno della domenica pomeriggio, la gente che esce per fare colazione, per andare a pranzo fuori. La tranquilla monotonia di una giornata di festa, all’inizio dell’inverno. Per lei, invece, non c’è nessuna festa. Il Paese non è più casa sua da molto tempo. Eppure, ha voluto arrivare il giorno prima. Così ha viaggiato di notte, la musica accesa, una bottiglia d’acqua sul sedile del passeggero, l’autostrada deserta e scura. Ha parcheggiato all’alba davanti all’albergo. Il tempo di una doccia e ora questa passeggiata senza meta, a riprendere la distanza dalle cose e dal passato. L’unica che intenda concedersi. Oltre alla visita a Paola, uscirà solo per andare al cimitero. Esce dal parco, si infila in una stradina che gira quasi su se stessa e alla fine sbuca nel viale. Quando si rende conto di dove si trova, si ferma a metà del marciapiede, le gambe improvvisamente incapaci di muoversi. Alza lo sguardo. La Fabbrica, in fondo alla strada, sembra apparsa dal nulla. 15


Il vecchio cancello, i muri logori, il coperchio di cemento sotto cui hanno cercato di nascondere quello che non può essere nascosto. Solleva gli occhiali, la luce non sembra più così forte. Ecco dove stavo andando, pensa e per un attimo è sicura che l’ammasso di mattoni, ferro, plastica, ricordi e morte finirà per comporre una voce, una frase o un’eco con cui farle capire che la stava aspettando. E che continuerà ad aspettarla sempre, anche quando se ne sarà andata. Il rumore di una moto lontana spezza l’incantesimo. E quando la realtà torna a reclamare il mondo, Caterina abbassa di nuovo gli occhiali, affonda le mani in tasca, si volta e se ne va. Qualche minuto dopo rientra in albergo. L’unico pensiero che ha in testa è il funerale di sua madre. «Come procede?» L’avvocato si sistema sulla poltrona. L’uomo che gli ha fatto la domanda non lo guarda nemmeno. Resta accanto all’enorme finestra alle spalle della 16


scrivania, le tende appena scostate a guardare le Alpi imbiancate dalla neve. Si volta solo un istante, per sollecitare una risposta che non arriva. «Allora?» L’avvocato si schiarisce la voce. Avrebbe bisogno di una sigaretta o di un dito di cognac. L’uomo che gli ha fatto la domanda, però, non beve e non fuma. E pretende lo stesso da tutti i dipendenti. «Tecnicamente siamo in una situazione di stallo.» Fa una pausa. Si schiarisce la voce. «Stiamo cercando di recuperare quei documenti. O almeno di aprire una trattativa.» «Non mi interessa quello che sta cercando di fare. Solo i risultati.» L’avvocato deglutisce a fatica. Il sapore del tabacco, fra le labbra. Un’illusione che la sua mente si diverte a far venire a galla. «Certo, signore.» L’uomo si volta. Solo una breve rotazione del capo. Lo guarda con lo stesso stupore con cui un bambino potrebbe ammirare un animale allo zoo. Un’occhiata che dura qualche secondo. Di troppo. 17


«Allora vada. Ci vediamo domani.» L’avvocato si alza. Pochi istanti dopo è fuori dallo studio. Si vedono o si sentono ogni giorno alla stessa ora. E se lo incontra di persona, l’uomo non lo degna di uno sguardo. Tranne quando è contrariato da quello che sente. Mentre l’ascensore lo riporta silenzioso e deserto al garage sotterraneo, l’avvocato sfoglia la rubrica del cellulare alla ricerca di un numero. È una legge di natura. Il pesce grosso mangia quello più piccolo, il più forte molesta il più debole. La catena alimentare funziona perfettamente da milioni di anni. E la persona che sta chiamando si trova, purtroppo per lui, a un gradino più basso del suo. «Finisce qui» dice qualcuno e Caterina si sveglia. La luce della lampada, sul comodino. Il portatile aperto sul tavolo, la tenda tirata, la sera calata veloce fuori dalla finestra, il giallo tiepido della stanza d’albergo. Un quadro con un volto di donna, talmente stilizzato da sembrare deforme, sopra al tavolo. Il silenzio rotto solo dal suo respiro. 18


Si alza, tira la tenda, guarda l’orologio. È ora di cena, ma non ha fame. Per troppo tempo la sua giornata è stata scandita da altre urgenze, ripristinare la normalità sarà un processo lungo. Ammesso che accada. Si avvicina al comodino. Un messaggio non letto sul cellulare. Paola. Facciamo domani sera. È successo qualcosa. Riappoggia il telefono, non sarà costretta a mangiare. La seconda frase però le galleggia fra i pensieri con insistenza, richiama alla mente quella con cui si è svegliata dal sonno. Finisce qui. Cerca di ricordarsi quanto tempo è passato da quando l’ha sentita. Il luogo, il momento, la persona che l’ha pronunciata. È tutto fin troppo chiaro. Per definire quell’istante usa spesso la frase di un film, l’ultimo giorno della mia vita precedente. A ripensarci ad anni di distanza, non si è ancora decisa se c’è qualcosa che rimpiange. Forse il momento in cui si rendeva conto che un’intuizione era giusta. La ricostruzione di un fatto, la ricerca – a volte addirittura la caccia – di una verità possibile. La scoperta che non era solo possibile, ma addirittura probabile e spesso certa. Tutto il resto era solo una conseguenza, molte 19


volte fastidiosa. Il trucco, la telecamera, i complimenti, il dover essere sempre gentile, disponibile, magari divertente. «Non ero io» sussurra. E si chiede se lo abbia detto per convincere se stessa o perché lo pensa veramente. Una domanda che ricorre, come quella frase che l’ha buttata fuori dal sogno, una frase senza nome e senza voce. Appartiene alla vigliaccheria di troppi per avere una paternità sola. Entra in bagno e si lava la faccia. L’acqua è gelata, la pelle non la gradisce, ma Caterina continua. Due volte, tre, fino ad avere le dita fredde, quasi doloranti. Si passa le mani umide fra i capelli. «Da bambina eri ancora più bionda, quasi bianca.» La voce di sua madre, Laura, come l’ha sempre chiamata, le strappa una smorfia che non riesce a decifrare. Resta lì, davanti allo specchio, a guardare il suo viso e a chiedersi che persona è diventata. Sono come un criceto in una ruota, pensa. Mi muovo, mi agito, faccio fatica e alla fine non mi sposto nemmeno di un centimetro. Alla fine, tutto quello che resta è la mia gabbia. Scuote la testa. Si spoglia, apre l’acqua della doccia. Bollente, questa volta. Una nevrosi anche quel20


la. La doccia quotidiana, alla sera, prima di andare a letto. Il rito con cui chiude la giornata, acqua a lavare qualcosa che forse non l’ha mai sporcata, bagnoschiuma ad accarezzare la pelle, shampoo a distendere i capelli. E poi di nuovo lo specchio e il letto e un’altra notte ad ascoltare ogni fremito nel respiro, ogni colpo di tosse che giunge dalla stanza accanto. Qualcosa di cui occuparsi. Un debito di sangue da saldare prima che la morte ti impedisca di farlo. Un debito estinto, ora. Un debito che, a un certo punto, ha sperato si estinguesse alla svelta, per poi cambiare idea improvvisamente, implorando, quasi pregando che il tempo finisse per dilatarsi, per allungare ogni attimo, per allontanare un momento che sia lei che Laura sapevano ormai vicino. «Sono solo un’egoista di merda» dice alla stanza deserta. «Un’egoista di merda» ripete e si butta sul letto, l’asciugamano umido stretto al seno. Il telefono, sul comodino, le ricorda che la batteria si sta scaricando. Lo mette in carica, legge di nuovo l’sms di Paola. Risponde. Sono in albergo. Perfetto per domani. Attende l’invio, guarda le tre chiamate perse, spegne il terminale. 21



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