verdenero 22
noir di ecomafia
Elisabetta Bucciarelli Corpi di scarto © 2011, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2011, Elisabetta Bucciarelli Immagine di copertina: © Barbara Serra Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di marzo 2011 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR)
Gli autori devolvono una parte delle proprie royalties al progetto SalvaItalia di Legambiente. VerdeNero è una campagna di mobilitazione contro l’ecomafia e il silenzio che l’avvolge, un’occasione concreta per affermare nel paese una nuova cultura della legalità a difesa dell’ambiente. Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
ELISABETTA BUCCIARELLI
CORPI DI SCARTO
a Francesco
Siamo ognuno lo scarto parziale o totale di qualcuno.
Uno
Potevi suonare l’arpa sulle costole sporgenti. Avresti magari inciampato in qualche ruga di pelle, un grumo, un’escrescenza. Poi la sensazione fastidiosa di incontrare la materia ruvida sarebbe subito passata. Liscia la pelle, che t’immaginavi chiara perché sottile, ti avrebbe portato velocemente dal collo fino alle orecchie. Morbide, lanuginose, con il bordo estremo frastagliato da battaglie. Piccoli morsi, crosticine, tratti vellutati e aspri. Gli occhi mobili erano aggettanti, per la magrezza del lungo naso, che sbuffava umidore dalle narici, pronte per riscaldare. Eccolo sull’altura, a distanza, adesso lo vedi, è di profilo, cammina piano ma senza sosta. Nervoso, impaziente. La colonna vertebrale è come una scala armonica. La puoi contare con gli occhi. Non scorgi tutte le gambe, esili come bacchette, sembrano muoversi a scatti consequenziali. E ti pare una sola, unica. Ora si ferma, puoi mettere a fuoco che è un cane maschio, facile da disossare, basterebbe un coltello che tagli, uno da bistecca. Un cane costola, orecchia, collo. Un cane coda stretta, senza ricciolo. Strappa qualcosa dal mucchio, tira, come fosse uno straccio, una pezza, un gioco. Aspetti di guardare e vedi che strappa ancora e lacera con i denti bianchi. Sbrandella, sbatte, schizzi di giallo e
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muso unto. Lo vedi cane, ma lo percepisci uomo. Non è la forma quanto piuttosto la predisposizione. Quel cercare senza sosta apparente. Silenzioso e in solitudine. Ti avvicini piano, in modo che non ti senta. Lui si ferma e senza girare nemmeno gli occhi ti ha già percepito. Ha sentito il tuo odore tra gli odori. È la sua natura, che non si piega, non soccombe neanche a quella fine di rovine, ruderi e macerie, di rifiuti, avanzi e scarti che ti circonda. La fame è ancora lì. Non è servito a niente il pasto strappato alla terra, al mucchio indistinto, non è servito neanche a riempire una porzione di quel ventre bisaccia. Non è servito per resettare l’olfatto. Comanda ancora cibo senza distinguere gli ordini. Non impone di mettersi al riparo né richiama l’istinto sessuale. Il cane si ferma e poi riprende, tira più forte, pare un brandello di gomma, tira ancora, strappa un pezzo, lo addenta, lo inghiotte, di nuovo, da capo, afferra alla base, fino a perdere l’equilibrio. Si rimette in piedi e infila il muso nel sacchetto verde acido appena dissotterrato, una poltiglia gelatinosa che si spande a macchia e si allarga. Liquido bianco e denso. Pezzi di qualcosa. Analogie animali. Scarti, interiora, grasso. L’hai chiamato il Nero.
Due
«Sei insolita, ecco sei insolita» disse il ragazzo guardandola negli occhi. Era forse il più bel complimento che la ragazza avesse mai ricevuto. Ci stava giocando con quella parola che vagava già nella memoria. Insolita. Che farsene, non lo sapeva ancora. Il ragazzo era orizzontale quando si scontrarono, lei non l’aveva neanche visto. Stava trattenendo il fiato, per non respirare il fetore dell’aria e mentre il debito d’ossigeno raggiungeva il livello di guardia aveva inciampato in qualcosa di ignoto quasi cadendo a terra. Erano le gambe del ragazzo. Che non sembrava neanche fossero pezzi di corpo, quanto piuttosto un legno di traverso, stracci a coprirlo, sporchi, sdruciti. Lui si era messo in piedi quasi di scatto e le aveva teso la mano. Poteva sembrare la richiesta di un’elemosina, lei aveva pensato che fosse lì, sdraiato, per quello, ma non era così. Al passaggio della ragazza un richiamo atavico, fortemente maschile, lo aveva ridestato dal suo punto di osservazione. La terra, quel livello che non si tocca mai. Il basso. Era rasente al suolo per sentirlo bene, spalle, glutei, talloni. Punti di contatto aderenti, precisi. Non era certo la prima volta che la osservava transitare sul marciapiede. Non era mai riuscito a comprendere la regola di quel passaggio, se e in quale giorno
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sarebbe ancora avvenuto, l’unica costante gli era parsa l’orario. Poteva accadere all’inizio della settimana, alla fine oppure il mercoledì, ma sempre nelle prime ore del pomeriggio. L’istinto sano della ragazza gli aveva stretto la mano tesa. Era tornata a casa cercando il bagno e aprendo il getto forte dell’acqua calda. L’aveva strofinata a lungo fino a farla arrossare, per non lasciare traccia nemmeno lontanamente di quel contatto estraneo, così diretto e germinante di probabili cause virali, stafilococchi e gram positivi. Il ragazzo si chiamava Iac. La ragazza Silvia.
Tre
Lo ziggurat formava un bastione di controllo sul lato a sinistra. Saddam lo zoppo, era seduto sul primo gradone, non riusciva ad arrampicarsi se non aiutato almeno da due altri. Ma una volta arrivato sulla cima restava per ore da solo, a guardare l’orizzonte, da tutti i lati. Gli strati erano cinque, sovrapposti uno sull’altro, e formavano una piramide perfettamente simmetrica. La prima di dieci, allineate e pronte per l’uso. Gli abitanti della discarica ci saltavano sopra quando l’umore era alto. C’era poco da trovare, ormai la compressione aveva reso tutto omogeneo, tuttavia poteva sempre capitare di sfilare qualcosa di utile. Dalle zone off limits soprattutto, quelle che venivano bruciate di nascosto, alle prime ore del mattino, quando nessuno avrebbe né visto, né sentito. Nessuno tranne loro, gli abitanti della zona viva: Saddam lo zoppo, Lira Funesta, Argo Zimba e Iac. Disomogenei per età e provenienza. Ma stabili sul territorio. Ognuno con la propria baracca. La casa, come la chiamava Saddam. Il covo, quello di Argo. E il rifugio, quello di Iac. Lira Funesta invece, era in transito provvisorio, non aveva ancora deciso di abbandonare il tetto solido della casa materna. Andava e veniva. Lo ziggurat consentiva sempre di osservare la superficie dall’alto. Sull’ultimo gradone si riusciva persino a verificare
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l’arrivo dei camion. La discarica era estesa qualche chilometro, forse sette, in teoria avrebbe dovuto rimanere nei confini del muro, ma nella pratica proseguiva fino quasi a lambire i termovalorizzatori. A terra, nella parte ovest, quella degli ziggurat come l’aveva denominata il turco, c’erano i rifiuti già trattati, in belle porzioni quadrangolari, tenuti insieme e compattati come fossero mattoni da costruzione. Saddam sosteneva di aver visto sul volantino di un’agenzia viaggi, dei templi antichissimi con quella identica forma architettonica. Montagne sacre dall’alto delle quali si dominava il mondo. Nella zona chiamata la putrida, rasente al muro nord, erano ammucchiati i sacchetti sfatti, quelli brodosi e marcescenti sommati ad altro materiale non ben precisato. Limitrofi alla putrida, verso il centro della discarica, venivano appoggiati i sacchetti della pattumiera integri, gli uni sugli altri. Colorati e sfacciati nei loro odorosi rigonfiamenti, ma anche solidi e puntuti. Tutto il resto era anarchia. L’insieme creava un panorama disomogeneo e globalmente effervescente, ci ritrovavi la Mesoamerica, l’India e l’Argentina. Ti pareva di rivedere l’Africa e la Sicilia, l’Egitto e il Brasile. Ombre di gabbiani, escavatori e scavi, memorie quasi d’altri tempi.
Quattro
Saddam lo zoppo stava seduto con le gambe a penzoloni sul punto più alto della discarica. Recitava a memoria litanie incomprensibili e simulava spesso il richiamo di un muezzin. Conosceva molto bene l’italiano. Scuro di capelli e bruno di carnagione. Non tanto alto, ma forte, nonostante una gamba corta. Aveva raccontato che era stata la poliomelite a ridurlo in quelle condizioni. Lui così bello, così capace di trafficare con i tappeti al mercato di Istanbul, così veloce a entrare in moschea quando si doveva, così amato dalle ragazze. Poi la malattia. Nessuno aveva capito niente della sua trafila medica lacrimosa e tragica, solo il finale, quello che era diventato. In grado di spazzare via la vita precedente e di lasciare un presente da reinventare. Ma non nella sua terra, dove veniva additato e compatito sia dai familiari che dai conoscenti. Chiamato lo zoppo, ma soprattutto, trattato da zoppo. Messo com’era non avrebbe avuto altra possibilità che chiedere l’elemosina ai bordi delle strade. Così Saddam si era imbarcato per l’Italia, perché aveva pensato che uno Stato a forma di gamba avrebbe forse potuto restituirgli una certa speranza. Tra gli scarti si era creato una casa, quasi fosse un’abitazione vera, assemblando oggetti colorati e accumulando un discreto numero di utensili necessari alla sua grande passione, la cucina.
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Durante il giorno saltava da una parte all’altra, affondando la stampella nella morbidezza dei rifiuti trattati. Poi quando arrivava l’ora giusta, tra le dieci e le dodici del mattino, diventava la vedetta ufficiale. Il suo compito era urlare all’arrivo dei bestioni. I grossi mezzi di trasporto che rimescolavano, scaricavano e spostavano le masse enormi di residui cittadini. Erano grandiosi escavatori, i più grossi dei quali entravano una volta al mese, scegliendo di transitare dalla parte dei rifiuti non trattati. Mescolavano le carte, muovevano le cataste di indifferenziato creando nuove disposizioni e deposizioni. Sollevavano, spostavano, innalzavano. A volte distruggevano e sotterravano, ma altre invece offrivano inaudite possibilità. Come quando riemerse una bombola di gas, quelle per i fornelli da campeggio. Saddam aveva rimediato una scatola di cous cous alla mensa dei poveri e con i resti della verdura raccattati al mercato ortofrutticolo aveva cucinato un taboulé con i fiocchi.