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Francesca Vesco Cedimenti © 2011, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2011, Francesca Vesco Immagine di copertina: © Gettyimages Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di ottobre 2011 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)
Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
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Uno
Mercoledì 7 ottobre, mattina Mezzo paese si era radunato davanti alla chiesa di San Cosimo in attesa della macchina delle pompe funebri. Il marchese Scaduto era un personaggio in vista a Cannaria e, anche se era morto novantenne, le persone che lo avevano conosciuto sentivano il dovere di partecipare alle esequie. Poi, come sempre, c’era il gruppo dei curiosi, che non avevano avuto nessun rapporto con lui ma assistevano egualmente al funerale come a uno spettacolo televisivo. Volevano vedere chi c’era, con chi era venuto il tale, come era vestita la tal’altra, e nel caso in particolare tutti quanti erano interessati alla presenza della nipote di Ignazio Scaduto. Che era in piedi accanto al portone della chiesa, crocifissa da decine di sguardi più o meno diretti. Martina era a disagio e non tanto per le occhiate che si sentiva addosso quanto per il caldo che cominciava a tormentarla. Che a ottobre ci fosse una temperatura così rovente non se l’era aspettato davvero. Si tolse la giacca di lana grigia e arrotolò le maniche della camicia. Ma continuava a sudare. Sbuffando rovistò nella grande tracolla in cerca di qualcosa per sventolarsi e trovò la cartina stradale che aveva comprato per arrivare a Cannaria dall’aeroporto. Ma quanto tempo ci mettevano? Non sapeva neppure dove fosse l’ospedale da cui doveva arrivare la salma per la cerimonia. Forse si trovava nel paese più grande, a una quindicina di chi-
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lometri da lì. Lei non c’era andata all’obitorio, le faceva orrore il solo pensiero di mettere piede in un posto simile. Lanciò sguardi esasperati in giro nella speranza di vedere Tullio Matranga o la coppia che lavorava alla villa di suo nonno, le uniche tre persone che conosceva. Ma sia a destra sia a sinistra colse solo lo scatto di teste e occhi che si distoglievano da lei all’improvviso. Il giorno prima Martina aveva comprato un biglietto sul primo volo disponibile Milano-Palermo non certo perché ci tenesse a partecipare al funerale. La notizia della morte di suo nonno l’aveva lasciata indifferente. Non lo vedeva da un sacco di tempo e gli unici giorni passati insieme – secoli prima – non avevano fatto scattare nessun feeling parentale. Ma la telefonata del notaio si era rivelata interessante. C’era un testamento da leggere, aveva detto, e lei doveva essere presente. Le era sembrato il segnale che avrebbe ereditato qualcosa. E se si trattava di un patrimonio consistente, allora un cambiamento di vita era alle porte. La prospettiva meritava che si precipitasse in Sicilia senza perdere tempo. All’aeroporto di Punta Raisi aveva noleggiato una macchina e in poco più di un’ora era approdata a villa Scaduto, fuori del paese di Cannaria e proprio davanti alla spiaggia bianca e bellissima di Valduci – almeno così la ricordava lei che di quell’unica, lontana visita aveva conservato solo qualche flash nitido e una manciata di fotogrammi incerti. Svoltò oltrepassando il cancello e proseguì lungo il viale d’ingresso che formava un anello intorno a un’unica palma altissima, per poi allargarsi in uno spiazzo ampio di fronte alla casa. Parcheggiò ai piedi della breve scalinata e guardò la facciata a due piani che terminava con una torretta squadrata a un’estremità e una terrazza sul lato opposto. L’elemento più scenogra-
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fico dell’insieme era una immensa pianta di gelsomino che disegnava ghirigori sull’intonaco scrostato e ricadeva come una tenda dalla tettoia a vetri sopra il portone. Il battente si aprì proprio mentre lei lo fissava e ne uscirono un uomo e una donna che scesero gli scalini andandole incontro. «Sono Beppe Ajello, e lei è mia moglie Fortunata» disse lui d’un fiato. «Il notaio Matranga ci ha avvisato del suo arrivo, signorina» intervenne la donna. E con un sorriso che migliorò di un buon cinquanta per cento la sua faccia appuntita, spianandole una ruga tra le sopracciglia che le conferiva un’espressione scontrosa, aggiunse: «Lavoravamo già qui quella volta che venne a trovare il marchese con sua madre». «Ah, davvero? È passato così tanto tempo...» si scusò Martina che non era mai stata fisionomista e aveva l’impressione di vedere la coppia per la prima volta. Beppe si offrì di portarla subito all’obitorio dell’ospedale dove era stata allestita la camera ardente, proposta che respinse dicendo che preferiva andare direttamente al funerale, l’indomani. «Era ricoverato da molto tempo?» s’informò pensando che un tracollo fisico fosse più che normale a novant’anni. «No, no, don Ignazio era ancora in gamba. In ospedale ce l’hanno portato dopo l’incidente, ma purtroppo era già... tardi» spiegò Fortunata. Martina non sapeva niente dell’incidente e così Beppe le raccontò che il marchese era caduto tra gli scogli durante la sua passeggiata quotidiana verso il promontorio che delimitava il golfo. Preoccupato di non vederlo tornare, era andato a cercarlo e l’aveva trovato tra le rocce in un punto in cui il sentiero correva alto sul costone. Il medico aveva detto che aveva battuto la testa e probabilmente era morto sul colpo. Intanto erano entrati in casa procedendo l’uno dietro l’altro:
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Fortunata faceva strada mentre Beppe chiudeva il corteo portando il bagaglio di Martina. Dall’anticamera salirono per una scala arcuata ed elegante al primo piano e raggiunsero una porta a metà di un lungo corridoio. Fortunata l’aprì spiegandole che aveva preparato la stessa camera che aveva occupato durante la sua precedente visita. A quell’epoca i suoi genitori stavano divorziando e sua madre aveva insistito per essere ricevuta nella casa natale dopo un’assenza lunghissima. Forse aveva bisogno di soldi, immaginava Martina, e aveva tentato di ricucire il rapporto con il padre interrotto da quando era diventata maggiorenne. Ma Ignazio Scaduto era stato chiaro e irremovibile. L’ultimatum alla sua unica figlia suonava più o meno così: o resti a vivere con me oppure non avrai un soldo. Figurarsi! Camilla era diventata una belva. Avevano rifatto le valigie ed erano ripartite per sempre. Adesso, entrando nella stanza, la memoria cominciò a funzionare. Il letto con le colonne ai quattro angoli, che un tempo reggevano una zanzariera lunga fino al pavimento, se lo ricordava benissimo – ogni volta che ci si era coricata le era parso di essere una principessa – anche se fino a ora non avrebbe saputo dire dove e quando ci avesse dormito. E quei tralci di mimosa dipinti tutto intorno al soffitto, con un uccellino che pareva svolazzare sulla parete... un po’ sbiadito, per la verità, ma all’improvviso così familiare. Raggiunse la finestra ormai impaziente di ritrovare l’unico ricordo preciso che aveva conservato negli anni: la vista della spiaggia e del mare. Ma quando spalancò le persiane rimase senza fiato per la sorpresa. Il paesaggio era sparito. Nella fascia brulla di terreno che divideva il giardino della casa dalla spianata di sabbia del lido si snodava lo scheletro grigio di una lunga costruzione appena abbozzata, ma che già mo-
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strava l’aspetto sciupato delle cose abbandonate. Una foresta di pilastri univa basamenti e coperture di cemento destinati a diventare pavimento e tetto di un edificio ancora privo di pareti. «Cos’è questa schifezza?» chiese allibita girandosi verso l’interno e incontrando gli occhi celesti di Beppe. «Quello è il residence Rivazzurra» spiegò lui. «L’hanno cominciato più di un anno fa ed è stato un vero colpo per don Ignazio. Fino a quel momento non aveva saputo niente della faccenda, voglio dire, che c’era l’intenzione di costruire. L’ha scoperto solo quando è arrivata la squadra.» «Che squadra?» «Gli operai del cantiere. Don Ignazio era fuori di sé. È corso dai carabinieri e poi dal sindaco, dall’assessore, da tutte le autorità, perfino dal presidente della regione, mentre qui i muratori continuavano a lavorare. È riuscito a bloccare la costruzione, ma ora vedrà che ricominceranno di sicuro.» «Ma è una porcheria! Con quell’orrore lì davanti questa villa vale meno della metà». Beppe sospirò e si strinse nelle spalle. «Che ci vuole fare, signorina mia.» Nel tardo pomeriggio Martina andò a trovare il notaio. Piccolo, asciutto, con i capelli sale e pepe impastati di gel, Tullio Matranga la salutò abbozzando un mezzo inchino mentre mormorava qualcosa che aveva a che fare con «... la triste circostanza». Non si perse in altri convenevoli e quando si fu seduto alla scrivania estrasse da una cartellina gialla un foglio formato protocollo. «Questo studio, signorina Berni, ha sempre assistito il suo povero nonno, prima di me nella persona di mio padre buonanima, peraltro suo grande amico. Io stesso ho raccolto e redatto le sue intenzioni testamentarie in data...» gettò un’occhiata sul
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foglio «in data nove maggio duemilacinque, alla presenza dei testimoni dottor Livio Caronia e signorina Vita Mistretta. Si tratta dei miei collaboratori», spiegò guardandola per la prima volta in faccia, come per accertarsi che fosse pronta. «Do quindi lettura del testamento.» Ci siamo, pensò Martina emozionata, sporgendosi in avanti per non farsi scappare nemmeno una delle parole che Tullio Matranga andava snocciolando velocemente, con una cantilena monotona come una litania. Rallentò solo quando lesse «... nomino pertanto mia nipote Martina Berni unica erede della mia casa, di quanto in essa contenuto e dei terreni di seguito elencati eccetera eccetera...». Solo a questo punto si rilassò e cercò di darsi un contegno dignitosamente interessato. Ma dentro di sé esultava. Unica erede! E già la sua fantasia partiva a briglia sciolta disegnando un futuro di sperperi. «Secondo le disposizioni del marchese» continuò Matranga riponendo il foglio nella cartellina, «dovrà provvedere lei stessa a versare una somma di ventimila euro agli Ajello, la coppia al servizio del marchese da molti anni.» «Naturalmente. Disporrà tutto lei stesso. E mi dica, questi terreni...» E qui arrivò la prima doccia fredda. «Purtroppo il patrimonio del marchese negli ultimi anni si era molto assottigliato. Investimenti sfortunati, consigli incauti, in poche parole gran parte della proprietà è stata venduta pezzo a pezzo. A parte il giardino della villa naturalmente, e l’uliveto di Piano Pinto. O almeno quello che ne rimane...» «Perché, s’è venduto anche quello?» Il notaio le lanciò un’occhiata indecifrabile. «Be’ non esattamente. Ma sa, a volte le ostili condizioni ambientali... come saprà in questa nostra sfortunata isola...»
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Martina aveva sentito parlare di cambiamenti climatici, di desertificazione del meridione, ma aveva creduto che fossero tragedie di là da venire, non avrebbe mai immaginato che la mancanza d’acqua fosse già un problema così grave. «Per quanto poi riguarda la villa, una valutazione recente non è stata fatta, ma è certo che il suo valore, spiace doverlo ammettere, non sarà più lo stesso, ora che hanno cominciato a costruire il residence.» «Già» ammise Martina abbattuta «un vero obbrobrio. Ho sentito però che i lavori sono fermi.» «A questo proposito...» proseguì il notaio. Che altro tirerà fuori adesso? si chiese lei, mentre sentiva che l’entusiasmo iniziale si andava affievolendo. «Don Ignazio si è battuto con tutte le sue forze per salvare Valduci, rimettendoci tempo, soldi e salute. Praticamente solo. Io stesso gli consigliai più volte di non esporsi troppo» qui Matranga allargò le braccia in un gesto di resa. «Ma che vuole» continuò «era affezionato a quella casa e a quella spiaggia. Era il suo mondo, non sopportava che glielo portassero via. E bisogna ammettere che alla fine l’ha spuntata. Almeno questa soddisfazione l’ha avuta, prima di andarsene. Pensi che qualche anno fa, prima che cominciassero i lavori, un’offerta gliela fecero, ma lui di vendere la villa non ne volle sapere. E non avrebbe fatto un cattivo affare, parlando dal punto di vista strettamente economico. Ma non era questo che interessava a suo nonno.» Era evidente. Di sicuro non era stato il buon senso la dote principale del marchese. «Però non capisco: perché solo? E perché lei lo sconsigliò? Quella costruzione è a pochi passi dal mare e ha tutta l’aria di essere abusiva.» Le dita magre del notaio tamburellarono per qualche istante
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sulla scrivania, poi si bloccarono e lui si chinò verso di lei, abbassando la voce. «Signorina, non fingiamo di essere ingenui. Certo che è abusiva. La legge a questo proposito parla chiaro. Ma il proprietario del cantiere, Iraci,» e qui la voce si ridusse a un sussurro «non è un tipo molto raccomandabile. Un grosso costruttore, e qui da noi, lei può ben immaginare... Insomma non era affatto prudente mettersi contro di lui. Ma suo nonno da questo orecchio non ci sentiva ed è andato avanti come un leone fino a che...» concluse con un gesto sconsolato. «Fino a che, molto opportunamente, non è passato a miglior vita» concluse Martina. «Ora il cantiere riaprirà, immagino. Era questo che intendeva dire.» «Precisamente. Ora che il marchese Scaduto non c’è più, è probabile che i lavori riprendano.» Il trillo acuto del citofono interno li interruppe. Matranga parlò brevemente poi tornò a rivolgersi a lei. «Purtroppo i miei impegni... ma avremo modo senz’altro di rivederci presto. Ci sono ancora alcuni adempimenti. Il direttore della banca è stato avvertito del suo arrivo e l’aspetta domani.» Si alzò per accompagnarla alla porta ma Martina lo fermò. «Ancora una cosa notaio, sia gentile. Potrebbe consigliarmi un’agenzia? Io, cantiere o no, la casa vorrei venderla al più presto.» «Un’agenzia?» fece lui sorpreso. «Ma vedrà, con ogni probabilità non ce ne sarà bisogno. Sono certo che, date le circostanze, un compratore lo si troverà anche senza. Ossequi signorina, sempre a sua disposizione.» Mercoledì 7 ottobre, mattina Non lontano dalla chiesa, al quarto e ultimo piano di una palazzina anni Sessanta, la signora Santamaria aveva appena co-
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stretto suo figlio a infilare una vecchia giacca di almeno un paio di taglie inferiori alla sua che gli tirava dappertutto. «Mamma, io così non vado da nessuna parte» disse Paolo facendo il gesto di togliersela. «Per favore, fammi contenta. Dai, che siamo in ritardo. Tuo padre è già sceso e ci aspetta.» «Ma è mai possibile!» sbuffò lui scocciato. «Vengo in vacanza per quattro giorni, dico quattro giorni, e mi devo pure sorbire il funerale di un vecchio solo perché è un parente di centesimo grado. E per giunta vestito da schifo.» «Ti prego, non perdiamo tempo» disse Marisa, evitando di rinfacciargli per l’ennesima volta di non essersi portato dietro una delle sue giacche. Lo afferrò per un braccio e lo spinse con un colpetto deciso fuori della porta. Non appena li vide uscire dal portone il professore Santamaria, in attesa impaziente all’ombra di un arancio cresciuto direttamente dal marciapiede, gettò via la sigaretta ormai fumata fino al filtro e senza una parola prese a camminare svelto in direzione della piazza principale. Era un maniaco della puntualità – quando insegnava ancora nel liceo locale era stato il terrore dei ritardatari – e l’orologio gli aveva confermato che erano già passati dieci minuti dall’orario previsto per l’inizio della cerimonia. «Nicola, non correre così che con questo caldo ti fa male» lo raggiunse la voce della moglie che affrettava il passo dietro di lui. «Ma lascialo in pace» disse Paolo nervoso. Ce l’aveva con lei perché in quella tenuta si sentiva goffo, ridicolo e già in un bagno di sudore. «Già. Intanto, se poi sta male chi lo cura? Tu? No, io.» «Ma se è in forma perfetta» ribatté lui solo per contraddirla. In effetti, da quand’era andato in pensione suo padre aveva perso lo smalto di un tempo e appariva invecchiato e di malumore. Un po’ di depressione, aveva diagnosticato suo cognato che era
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pediatra ma veniva consultato per qualsiasi tipo di disturbo da tutta la famiglia, a cominciare da Paolo che via e-mail lo teneva informato costantemente riguardo ai suoi disturbi di stomaco. Intanto, il professore era sbucato nello slargo davanti alla chiesa dove si rese subito conto che il feretro non era ancora arrivato. Ci scommetteva: tutta colpa del viadotto chiuso che deviava il traffico sulla statale provocando ingorghi da incubo nelle ore di punta. Giuliano Chimenti digitò il nome del suo blog e quando il collegamento fu stabilito fletté un paio di volte le dita e partì pigiando a raffica sui tasti: “Ignazio Scaduto sta per essere seppellito. Più di un anno fa le sue ripetute denunce erano riuscite a bloccare la costruzione abusiva del residence Rivazzurra sulla spiaggia di Valduci. Speravamo di assistere alla demolizione di quest’ennesimo mostro. E invece è ancora lì, ad abbellire il paesaggio. Che succederà ora che Scaduto è morto?” Lo immaginava perfettamente quello che sarebbe successo. L’imprenditore Giacomo Iraci, responsabile negli ultimi dieci anni delle più spettacolari porcate edilizie della costa, avrebbe potuto terminare la speculazione a Valduci in tutta tranquillità grazie al provvidenziale incidente che gli aveva levato dai piedi quel vecchio incazzoso. Giuliano detestava l’aristocrazia di qualunque epoca, nazionalità e genealogia fosse, ma aveva simpatia per il marchese: un ultraottantenne rigido come un ghiacciolo ma con il cervello lucido e il coraggio di un samurai. Il giorno prima ne aveva scritto un breve ricordo per il giornale locale e annunciato data e ora del funerale nella rubrica “Il dito nell’occhio” che conduceva due volte a settimana su Radio Montolivo. Ora si accingeva a inondare i social network con tutta l’irruenza della sua indignazione. Ogni argomento che aveva a che fare con lo scempio del territorio e le iniziative per com-
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batterlo costituiva la scintilla capace di innescare il fuoco delle sue invettive. Ormai però, dopo anni di delusioni, nessuna delle accuse feroci, delle parole graffianti che la sua mente era in grado di concepire gli dava più soddisfazione. Avrebbe voluto con tutto se stesso trovare un modo efficace per contrastare la sistematica rovina a cui assisteva giorno dopo giorno. Teoricamente ammirava le dimostrazioni estreme, ma non gli si era mai presentata l’opportunità di passare ai fatti. Solo una volta aveva preso in considerazione l’idea di agire decidendo di aderire all’invito dell’esercito di liberazione dai Suv il cui obiettivo era danneggiare quei bestioni super inquinanti accanendosi sulla carrozzeria “con chiodi, chiavi, vernice e ogni altro mezzo utile”. Al tempo in cui Iraci aveva cominciato a massacrare il golfo di Cannaria, Giuliano aveva pensato di sfregiargli il fuoristrada appena uscito dal concessionario. Si era messo in tasca un grosso chiodo aspettando l’occasione propizia, ma non gli si era mai presentata o forse non l’aveva voluta cogliere, visto che l’imprenditore era bene ammanicato con la mafia e deturpargli la macchina poteva perfino costargli la vita. Sullo schermo apparve il messaggio di Ultimascimmia che chiedeva notizie sul “complesso Belsorriso”, sorto nello stesso golfo di Cannaria già rovinato dal residence Rivazzurra. L’opera era in via di completamento, rispose Giuliano, e anche questa “firmata” da Iraci. “Una vergogna. Scaduto era un vecchio ma ha saputo combattere con coraggio. Dobbiamo raccogliere la sua eredità.” Mentre Beppe si fermava al bar Nobel per bersi un chinotto, Fortunata si fece largo tra la folla che aveva riempito la piazza salutando i conoscenti. Fu bloccata da Nino La Franca, che era stato fattore del marchese quando ancora le tenute erano sue. «Povero don Ignazio, era ancora così giovanile, pareva non do-
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vesse morire mai», commentò l’uomo che aveva una decina d’anni meno di Scaduto ma assomigliava a una tartaruga centenaria. «... la volontà di Dio», sospirò Fortunata e passò oltre avvicinandosi alla sua amica Catia Prestigiacomo, che insieme al marito gestiva l’edicola dei giornali sul corso principale. «Allora, che tipo è la nipote?» bisbigliò Catia accennando con la testa a Martina, sempre in cima alla scala ma ora in compagnia del notaio. «Bella è bella, come sua madre.» «Anche di più, ma che carattere ha, non lo so. Quasi non ci siamo parlate. Però dev’essere meno sconsiderata di Camilla. Mi è parso di capire che almeno ha finito gli studi e che lavora.» «Ma don Ignazio lo conosceva?» «Una volta sola è venuta, per pochi giorni, ed era ancora piccola. Sua madre e suo nonno litigarono subito e non sono più tornate.» «Neppure dopo che la madre è morta?» «No, Martina se ne è andata a stare con il padre, credo all’estero.» «Cosa faceva lui? Il pittore?» «Così ho sentito. Il problema era che aveva il doppio degli anni di Camilla e quando si sono messi insieme era ancora sposato con un’altra. Don Ignazio non lo poteva vedere. Anzi, non l’ha mai visto.» In quel momento furono raggiunte da Beppe, e Fortunata salutò in fretta l’amica sapendo che al marito stava antipatica e la considerava una gran pettegola.
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Quattro
Venerdì 9 ottobre, mattina La sveglia suonò alle nove. Ma chi cazzo l’aveva caricata! Paolo faticò a bloccarla accecato dal cuscino che si era tirato sulla faccia. Ricordò che era stato proprio lui a puntare la sveglia nel pieno della notte, convinto che da solo non sarebbe mai riuscito ad alzarsi a un orario decente. Franco Gueli lo aspettava a mezzogiorno ma prima doveva passare a prendere Martina. Sorrise pensando a lei. E continuò a sorridere anche sotto la doccia e mentre si sbarbava, canticchiando ossessivamente We are the champions dei Queen, gloriosa colonna sonora del suo primo rapporto sessuale. Quando entrò nella cucina scintillante di sole per bersi il caffè trovò sua madre in pieno fervore culinario. «Già all’opera?» le disse allegro, scoccandole un bacio rumoroso sulla guancia. «Preparo il brociolone per pranzo», annunciò lei e per stroncare l’inevitabile commento sulla pesantezza del piatto aggiunse: «così hai tutto il tempo di digerirlo». Paolo fissò la caffettiera già preparata sul fornello e gli mancò perfino la forza di accendere il fuoco. Certo i suoi si aspettavano che passasse con loro quell’ultimo giorno a casa. E Marisa si stava ammazzando di fatica per preparargli la pietanza elaborata per cui da bambino andava pazzo. Non era proprio il caso di giustificarsi dicendo che intendeva andarsene in giro con la lontana cugina. Doveva trovare un’altra spiegazione.
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«Mi dispiace tanto, mamma, ma non posso mangiare con voi. Ieri ho incontrato un vecchio amico che non vedevo da tanto, figurati dai tempi del liceo! E ho promesso di pranzare con lui.» «Quale amico?» chiese Marisa, bloccandosi con il mestolo di legno per aria e rivolgendogli un’occhiata da terzo grado. «Saro Guccione» rispose, sparando l’unico nome che gli venne in mente, quello del più scemo dei suoi compagni di scuola. «Saro Guccione è morto», disse lei secca. «È morto?», gridò Paolo. «Ma sì, da almeno dieci anni. Ti ho anche telefonato per informarti, nel caso volessi mandare un telegramma.» Infatti il telegramma lo aveva mandato. Che testa! Sua madre intanto aveva ripreso a mescolare il soffritto di cipolla con l’aria offesa. E ora? Come farsi perdonare? «Dai, per favore, non ti arrabbiare», disse accarezzandole un braccio. «Mi sono confuso con i nomi. Che vuoi, sto perdendo la memoria, non mi ricordo come si chiama la maggior parte delle persone che vive qui.» «Vabbe’, vabbe’, non ti preoccupare», disse Marisa con una metamorfosi repentina dell’umore che lo lasciò di stucco. E mentre accendeva il fuoco sotto la caffettiera continuò: «Ah, mi era venuto in mente che forse stasera potevamo invitare Martina, se è ancora a Valduci». L’ennesima prova del famoso “sesto senso” di sua madre. «Vuoi dire la nipote di don Ignazio?» «Già, hai capito benissimo.» «Non saprei, magari è già ripartita. Comunque, se vuoi telefonale. Lascia stare! Provo io più tardi e ti faccio sapere. Ora devo scappare, il caffè lo prendo fuori. Ciao, mamma, ti giuro che il brociolone lo mangio stasera.« Spalancò la porta e imboccò le scale di corsa con l’impressione di essere inseguito dalle congetture visionarie di sua madre.
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L’autostrada era trafficatissima come pure l’ingresso in città e le vie del centro. Colonne di macchine avanzavano con strappi nervosi, contendendo ferocemente ai motorini ogni nuovo centimetro di spazio, mentre l’esultanza dei clacson salutava con perfetta regolarità la luce verde ai semafori. Tra il viaggio e la ricerca del parcheggio vicino al tribunale, impiegarono quasi due ore. I controlli di sicurezza all’ingresso furono altrettanto snervanti e quando bussarono alla porta dello studio del giudice mezzogiorno era passato da un pezzo. Franco Gueli non si era accorto del ritardo, assorto com’era nella stesura di una sentenza urgente. Ci aveva lavorato già prima dell’inizio delle udienze, rinunciando perfino alla rapidissima rassegna stampa a cui gli piaceva dedicarsi quotidianamente. Da quando sua moglie era morta, quattro anni prima, ogni mattina usciva di casa molto presto e andava a piedi al tribunale. Quasi un’ora di strada con una fermata a metà percorso per un caffè e una pasta nel suo bar preferito. Alle sette e quaranta si sedeva alla scrivania e scorreva i titoli dei giornali, soffermandosi a leggere qualche recensione musicale e gli articoli di cronaca locale. Poi, con una sigaretta spenta tra le labbra, iniziava la sua battaglia quotidiana. Perché di battaglia si trattava. Sebbene nella sua ormai lunga carriera avesse acquisito una conoscenza sempre più precisa della realtà che lo circondava e gli fossero piovute addosso un certo numero di delusioni, il giudice non aveva perduto l’energia del combattente che scaturiva dalla sua fede nella giustizia. Ma se la necessità di applicare le norme lo spronava a comportarsi in modo intransigente, l’accresciuta esperienza delle debolezze umane lo induceva spesso a un’indulgenza malinconica. Così era diventato un discreto psicologo, e con l’età il suo intuito si era ulteriormente affinato permettendogli di afferrare e catalogare caratteri e intenzioni con rapidità straordinaria.
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Ora, vedendo entrare nella stanza Martina e Paolo, colse al volo alcuni indizi sul loro stato d’animo di cui nessun altro forse si sarebbe accorto. Il gesto con cui Paolo, nel cederle il passo, sfiorò quella bellissima figliola; una piega perplessa sulle labbra di lui, una certa tensione nei gesti di lei. Segni minimi ma tutto sommato leggibili: attrazione, preoccupazione, tracce di isteria. «Mio caro, che piacere!» disse abbracciando Paolo dopo aver stretto la mano a Martina. «Allora, a Parigi ti trovi sempre bene?» Gueli era amico dei Santamaria dall’epoca della prima nomina nella pretura di Cannaria e i loro rapporti erano stati sempre stretti. «Sì, abbastanza. E tu Franco, come stai?» «Non mi lamento. Ma, accomodatevi, accomodatevi», li invitò indicando le sedie su un lato della scrivania. «Purtroppo non ho da offrirvi nient’altro che un bicchiere d’acqua minerale.» Gueli riprese il suo posto e sorrise ai due visitatori che gli stavano di fronte. Paolo cominciò a parlare di qualcosa che riguardava una certa questione di famiglia di cui il giudice era già a conoscenza e per un po’ si scambiarono notizie e considerazioni che a Martina non interessavano affatto. Visto che Paolo non sembrava avere fretta di introdurre l’argomento per il quale lei si trovava lì, alla prima pausa decise di saltare i preamboli e prendere l’iniziativa. Tirò fuori dalla borsa i documenti che aveva trovato nello studio del nonno e si lanciò nell’esposizione dei suoi dubbi sull’incidente capitato al marchese. Il giudice la ascoltava, attento ai suoi gesti, agli sguardi, alla voce. E vedeva confermarsi la sua prima impressione. A mano a mano che parlava, la signorina Berni appariva sempre più infervorata. La voce saliva, il respiro si accorciava, le guance si colorivano, mentre le sue mani si muovevano continuamente,
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sottolineando le parole con cenni sempre più affrettati. L’animazione cresceva di pari passo alla convinzione di essere nel giusto. Forse il solo fatto di trovarsi lì, in un tribunale, davanti a un magistrato, la spingeva a considerare ancora più vera la sua ipotesi. Anche Paolo doveva essersi accorto che l’esaltazione della sua amica era salita al livello di guardia, perché intervenne un po’ imbarazzato per giustificare quell’interminabile sfogo. «Ecco, Franco, sono stato io a suggerire a Martina di parlarti delle sue perplessità. Tu, con la tua competenza, puoi valutare la cosa più obiettivamente e...» «Scusa, in che senso obiettivamente?» lo interruppe Martina sorpresa. «Vuoi dire che mi lascio influenzare da chissà quali fantasie? Ieri sembravi meno scettico visto che mi hai consigliato di venire qui.» «È vero, tuttavia si tratta solo di sospetti, non di fatti...» «Fatti? Mio nonno è riuscito a bloccare i lavori dell’impresa edile: questo è un fatto. Iraci ne è stato danneggiato, e questo è un altro fatto. Qualcuno ha incendiato l’uliveto: un terzo fatto. E poi c’è la pistola e quello che ha detto Fortunata.» Ora fissava Gueli, con gli occhi che scintillavano, contando sulle dita «i fatti», mentre Paolo la guardava con una faccia stranita, come colpito da un’improvvisa rivelazione. Ci sta cascando, pensò il giudice. E non c’era da meravigliarsene: lei era bella davvero e la sua foga rischiava di avere la meglio sulla proverbiale razionalità del figlioccio. Intanto Martina continuava: «Iraci però si è trovato davanti un avversario diverso dal solito, qualcuno che non aveva paura. La sua intimidazione non ha avuto l’effetto sperato, dato che il nonno ha continuato a ostacolare i suoi affari. Così ha pensato di eliminarlo, o di farlo eliminare. Giudice, non le sembra logico quello che dico?»
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Gueli sorrise. «Vede, signorina, capisco che sia le denunce del marchese Scaduto sia i comportamenti di Iraci possano averle fatto nascere dei sospetti. Però, dal punto di vista giuridico non c’è nessun elemento per formulare un’ipotesi di omicidio. Che la morte di suo nonno sia stata o no accidentale, potrebbe stabilirlo solo un’autopsia.» «E allora facciamola!» «Né io né lei possiamo decidere un procedimento del genere. Occorre un’ingiunzione di riesumazione della salma da parte del pubblico ministero. Certo, se lo desidera, può sempre richiederla, ma sinceramente non credo che la otterrebbe.» «E perché?» «Glielo ripeto: mancano gli elementi. Quello che ha in mano, ed è pochissimo mi creda, non basta.» «Come non basta? Abbiamo una persona che abitualmente non rispetta la legge, che per i propri interessi distrugge tutto ciò che è bello e perfino uccide per completare quest’opera di distruzione. Ma a quanto pare nessuno può punirlo, e per nessuno dei suoi reati.» «Le accuse vanno provate, signorina, e non si può ragionevolmente pensare di procedere contro qualcuno senza prove evidenti a suo carico. Ora sono in corso delle indagini su presunte irregolarità, e in questo caso faranno il loro corso, e se daranno dei risultati si concluderanno con una sentenza di condanna.» «Se, se, se! La verità è che non c’è nessuna garanzia di giustizia!» Gueli sospirò. Quell’affermazione, che sapeva parzialmente vera, lo feriva ancora, nonostante i tanti anni di esperienza. «Si calmi, cara signorina, per favore. Su, Paolo... Paolo? Versa un po’ d’acqua alla tua amica. Ecco... Mi dispiace di non averle potuto dire quello che magari si aspettava di sentire, ma le cose stanno così. E poi dia retta a me: non disperi sul corso della
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giustizia, è lento ma prima o poi...» lasciò la frase a mezzo: da come andavano le cose non c’era proprio da fare pronostici sul se e quando la giustizia avrebbe trionfato. «Ad ogni modo non mi tiro certo indietro e sono a sua disposizione per qualsiasi parere, consiglio o suggerimento.» Il suo sguardo pieno di benevolenza paterna passò dall’uno all’altra dei suoi interlocutori e alla fine si fermò su Martina. «Se ha bisogno mi telefoni o mi venga a trovare, quando vuole.» Di nuovo in macchina, sulla strada per Cannaria, rimasero per un bel pezzo muti e di cattivo umore. L’emozione della notte precedente e poi la complicità un po’ infantile che era nata tra loro mentre andavano a trovare Gueli sembravano sparite. «D’accordo, non è stata una grande idea, mi dispiace.» «Lascia stare, non è certo stata colpa tua. Com’è che ha detto Gueli? Non ci sono gli elementi, ecco: a me sembra tutto così chiaro e lampante che arresterei Iraci oggi stesso. Ma evidentemente le cose non funzionano così.» E meno male, pensò Paolo, meno male che non bastavano i sospetti di una in preda all’esaltazione per sbattere in galera la gente. «Che pensi di fare adesso?» «Adesso? Mi procuro un po’ di esplosivo e faccio saltare tutto in aria. Tanto, ho capito che non ci sono alternative...» Si agitò, sbuffò, si slacciò la cintura di sicurezza che la soffocava. «Ma che fai? Guarda che allo svincolo di solito c’è la polizia...» «Oppure senti, perché non mi parli di quell’altro metodo? Ma sì, quello che hai detto ieri sera... Il metodo silenzioso.»
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indice
parte prima parte seconda parte terza parte quarta parte quinta epilogo
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suggestioni e commenti
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e se tutto questo fosse vero?
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verdenero
noir di ecomafia
1. Sandrone Dazieri,
bestie
2. Giacomo Cacciatore, Valentina Gebbia, Gery Palazzotto, fotofinish 3. Eraldo Baldini, melma
4. Piero Colaprico, l’uomo
cannone 5. Simona Vinci, rovina 6. Giancarlo De Cataldo, fuoco! 7. Wu Ming, previsioni del tempo 8. Licia Troisi, i dannati di malva 9. Loriano Macchiavelli, sequenze di memoria 10. L. Gori, M. Vichi, bloody mary 11. Tullio Avoledo, l’ultimo giorno felice 12. Girolamo De Michele, con la faccia di cera 13. Carlo Lucarelli, navi a perdere 14. Francesco Abate, Massimo Carlotto, l’albero dei microchip 15. Valerio Varesi, il paese di saimir 16. Gian Luca Favetto, le stanze di mogador 17. Patrick Fogli, vite spericolate 18. Alfredo Colitto, il candidato 19. Giancarlo Narciso, solo fango 20. Paolo Roversi, pescemangiacane 21. Deborah Gambetta è tutto a posto 22. Elisabetta Bucciarelli corpi di scarto 23. Francesco Aloe il vento porta farfalle o neve
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romanzi
il pozzo dei desideri Alice Audouin, emilie, ecologista in carriera Piersandro Pallavicini, a braccia aperte Francesco Falconi, gothica. l’angelo della morte Kai Zen, delta blues Nicoletta Vallorani, lapponi e criceti Serge Quadruppani, la rivoluzione delle api Alessandra Montrucchio e poi la sete Martino Ferro c’era una svolta Sabina Morandi,
inchieste
la città delle nuvole Roberto Scardova, carte false A. Miotto, M. Scanni, L. Brogioni, l’italia chiamò Stefania Divertito, amianto PeaceReporter, guerra alla terra Carlo Vulpio,
Maurizio Torrealta, Emilio Del Giudice,
il segreto delle tre pallottole Luca Scarlini, ladri di immagini Daniele Biacchessi, teatro civile Peppe Ruggiero, l’ultima cena Petra Reski sulla strada per corleone Stefania Divertito toghe verdi Giulio Cavalli nomi,
cognomi e infami Motel Connection h.e.r.o.i.n. Carl Safina un mare in fiamme Martín Caparrós non è un cambio di stagione
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