tascabili dell’ambiente
Stefano Carnazzi 100 domande sul cibo manuale di sopravvivenza tra il supermercato e la tavola
realizzazione editoriale Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it coordinamento redazionale Anna Satolli progetto grafico: GrafCo3 Milano immagine di copertina: igorkosh/Shutterstock © 2009, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax 02 45487333 ISBN 978-88-96238-19-6 Finito di stampare nel mese di ottobre 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia - Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100%
Stefano Carnazzi
domande sul cibo
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Manuale di sopravvivenza tra il supermercato e la tavola
sommario
1. Cos’è il cibo? 2. Di cosa ci siamo accorti, dieci anni fa? 3. Cos’è la “mucca pazza”? 4. Quanto ci è costata la “mucca pazza”? 5. Cos’è l’influenza aviaria? 6. L’influenza, che c’entra col cibo? 7. Cosa hanno in comune tutti gli ultimi allarmi alimentari mondiali? 8. Come si distingue un falso allarme da uno vero? 9. I cartoni della pizza sono velenosi? 10. Le padelle antiaderenti fanno male? 11. Patatine e snack con l’acrilamide sono cancerogeni? 12. L’allarme bufala era un’altra bufala? 13. Da lunedì a dieta? 14. Additivi, coloranti, aromi… ce n’è solo un pizzico, che male faranno? 15. Cosa sono gli additivi? 16. I conservanti sono inevitabili? 17. Quali sono i coloranti artificiali? 18. Quali altri “codici E” è meglio evitare? 19. C’è un colorante fatto con gli insetti? 20. Gli additivi sono cattivi? 21. Guardare la tv cambia il modo di mangiare? 22. Rischiamo di comprare qualcosa che non è come sembra? 23. C’è scritto “filiera controllata”, quindi è genuino?
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24. Quanto pesa la bistecca? 25. Diventiamo ecotariani? 26. La carne si può produrre in laboratorio? 27. Una sofisticazione alimentare può essere legale? 28. Quali sono state le più clamorose sofisticazioni alimentari? 29. La margarina è più leggera del burro? 30. Le patatine fritte fanno male? 31. L’acqua minerale è migliore? 32. L’acqua di rubinetto sa di cloro? 33. Il caffè decaffeinato fa meno male? 34. Che differenza c’è tra olio di oliva ed extravergine? 35. L’olio di semi è più leggero? 36. Lo zucchero fa venire la carie? 37. Quali dolcificanti usare? 38. Biologico? No, qui solo roba normale 39. Il “bio” fa bene solo a chi lo produce? 40. Il biologico è sicuro? 41. Un bicchiere di latte contro l’osteoporosi? 42. Il vino è sincero? 43. Perché gli aromi artificiali sono dappertutto? 44. Cos’è il glutammato monosodico? 45. Ti va una merendina? 46. Perché se ingrassi non è colpa di McDonald’s? 47. Le polpettine di pollo sono fatte di pollo? 48. Un frutto su due è contaminato da pesticidi? 49. Pesticidi e bambini? 50. Alla mensa bisogna sempre accontentarsi? 51. La gallina non è un animale intelligente? 52. Amara verità, o dolce come il miele? 53. Perché le api stanno scomparendo? 54. Chi lo vuole il popcorn di Frankenstein? 55. Le noci si lavano con la candeggina? 56. È bella rosa e tenera la fettina di vitello?
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57. Quante arance ci sono nell’aranciata? 58. Si fa il pieno d’energia con le bevande isotoniche? 59. Cos’è la taurina degli energy drink? 60. La carne fa sangue? 61. Il 90% della pastasciutta italiana è Ogm? 62. Il buon pane e salame? 63. Perché il prosciutto cotto costa meno del crudo? 64. Cos’è la hamburger connection? 65. L’aglio è pesante da digerire? 66. Perché la pizza mette di buonumore? 67. È ancora allarme rosso (peperoncino)? 68. Cosa sono i grassi vegetali idrogenati? 69. Cos’è l’amido modificato? 70. C’è ancora la carne agli ormoni? 71. Perché gli antibiotici fanno sempre meno effetto? 72. La clonazione è fantascienza? 73. Cosa c’è nel dado da brodo? 74. Quanto è reale il pericolo diossina nei cibi? 75. Mi fa stracciatella, cioccolato e… proteina sintetica Isp? 76. Che differenza c’è tra il gelato artigianale e quello industriale? 77. Con cosa si fa il pesto genovese? 78. Con una scatoletta di tonno si sta leggeri? 79. I bastoncini del capitano possono mancare dalla tavola? 80. Il cocktail di gamberetti è una prelibatezza? 81. Il cibo in scatola sembra un po’ povero? 82. I vegetariani sono pallidi, tristi e anemici? 83. Perché bisogna ridurre la carne? 84. Quando potremo assaggiare la fragola-pesce?
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1. cos’è il cibo?
Gioia. Gola. Cultura, piacere, convivialità. Fecondo argomento di conversazione, serbatoio di tradizioni. Sfida al supermercato, inviti al ristorante. Il cibo non è soltanto materia che transita nel corpo. Ci permette di rimanere in vita e di compiere lavoro: crescere, muoversi, rinnovarsi. È la fonte di energia della nostra esistenza, fucina di materiali con cui il nostro corpo si costruisce e si ristruttura, fonte d’elementi protettivi per la salute. Energia. Per svolgere qualunque lavoro, anche solo per rimanere in vita, occorre energia. Ed è il cibo a fornirla. La si calcola in calorie, che indicano la capacità degli alimenti di sviluppare energia che può essere utilizzata subito dall’organismo oppure messa da parte come sostanza di riserva (sotto forma di grassi nei tessuti adiposi o di glicogeno nei muscoli e nel fegato). Tecnicamente una caloria è la quantità di calore necessaria a innalzare la temperatura di 1 grammo d’acqua da 14,5 a 15,5 gradi. Le sostanze nutritive più caloriche sono i grassi (9 chilocalorie per grammo), seguono carboidrati e proteine. Ma questa banale valutazione non basta, non serve a comprendere quanto un cibo sia effettivamente “nutriente”. Il conto meccanico delle calorie indica solo la capacità energetica del cibo ma non dice nulla sul valore nutritivo in termini di vitamine, sali minerali, qualità delle proteine, funzionalità biologica, vitalità, gusto, piacevolezza, genuinità. È limitativo e scorretto definire nutriente un cibo solo perché è molto calorico.
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Struttura. Il cibo serve letteralmente a costruire il corpo, ossa, muscoli, tendini, e a rinnovarlo: ovvero, soddisfa il fabbisogno plastico. Le sostanze necessarie alla costruzione e al continuo rinnovamento dei tessuti sono moltissime, dalle proteine, di cui sono composti i muscoli, ai sali minerali necessari per la struttura ossea, all’acqua. Salute. Il cibo può avere una funzione protettiva e, con qualche accortezza, terapeutica. Fibre, vitamine, sali minerali e migliaia di micronutrienti, abbondanti nei cibi più sani, contribuiscono in modo decisivo alla vitalità, alla buona salute, alla giovinezza, a contrastare alcune malattie. Purtroppo, però, non c’è mai tempo. Siamo stressati. L’inquinamento. Il marketing e la pubblicità, i pregiudizi e le abitudini errate. Tutto interferisce con queste funzioni base dell’alimentazione. La mancanza di tempo ci costringe a scelte frettolose e a consumi compulsivi. Lo stress cronico surriscalda le nostre ghiandole surrenali distruggendo le capacità di rigenerazione. L’inquinamento appesta i campi e la chimica s’insinua subdolamente in ogni piatto. Tattiche di marketing aggressive stravolgono le nostre abitudini alimentari, lasciandoci in balìa di preconcetti errati. Gli strumenti a nostra disposizione per ripristinare gli equilibri e compiere nuove scelte critiche, però, sono numerosi. Cominciamo a leggere. Dalle notizie di cronaca degli ultimi vent’anni alle righine microscopiche degli ingredienti in etichetta, il cibo è una buona fonte di informazioni.
2. di cosa ci siamo accorti, dieci anni fa?
Due ondate di “mucca pazza”, una di prosciutti e uova alla diossina, un’ecatombe di afta epizootica in Inghilterra e in Cina, ritiri di monumentali quantità di hamburger in America, un paio di influenze aviarie e una suina. Negli ultimi dieci anni il mondo è stato spazzato da scandali alimentari di proporzioni mondiali che hanno scosso la nostra tranquillità, il nostro pacifico godimento delle gioie della tavola. Il primo grande evento europeo s’è registrato nel 1999.
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Polli, uova e prosciutti alla diossina. Abbiamo scoperto d’aver mangiato insalata di pollo condita con olio di macchina usato. Lo scandalo ha inizio il 28 maggio 1999 quando il governo belga diffonde una comunicazione sulla presenza di Pcb, precursore della diossina, in polli e uova. C’erano stati precedenti in Usa (350 allevamenti di pollame chiusi nel 1997 per diossina nella bentonite, additivo dei mangimi) e in Francia (nel 1998 alcuni inceneritori avevano inquinato i pascoli del Nord del paese). Ma questa volta la contaminazione sembra non essere stata accidentale. Il Pcb, policloruro bifenile, trovato in livelli pericolosi nei polli allevati in gabbia, le uova e anche prosciutti provenienti dal Belgio, è un componente degli oli da motore, trasformatori, condensatori e motori elettrici. Gli animali venivano foraggiati con mangimi contenenti oli minerali usati e residui di carburanti. I telegiornali hanno cominciato a mostrare le immagini delle orribili condizioni delle galline allevate in batteria. Ci siamo trovati bombardati da notizie allarmanti e contraddittorie che hanno provocato un crollo nel consumo della carne in genere e portato in primo piano il tema della sicurezza alimentare. Dall’inizio dello scandalo a fine dicembre 1999 il Ministero della Sanità italiano ha emanato ben 23 provvedimenti tra sequestri di polli vivi, carne e uova dal Belgio, controlli e restrizioni estese a carni bovine e suine. A seguito dello scandalo l’Unione Europea è stata nuovamente sollecitata a mettere al bando i mangimi ottenuti dagli scarti della macellazione e dagli oli esausti. Nel contempo il Comitato veterinario dell’Unione Europea nell’agosto 1999 decide di raddoppiare, da 100 a 200 nanogrammi per grammo di grasso, la quantità di diossina consentita nei prodotti alimentari di origine animale. Otto anni dopo… Arriva una notiziola nell’ottobre 2006. L’autorità belga dell’alimentazione, la Vwa, trova livelli di diossina 25 volte superiori alla norma in una partita di strutto. La Profat TM, l’azienda produttrice, si rifiuta di commentare. Secondo la stessa Vwa, “il materiale contaminato è talmente poco da non costituire allarme diretto per la salute pubblica”.
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La messa al bando di mangimi ottenuti da scarti della macellazione e oli esausti è andato a regime nel 1994, ma, a quanto pare, non è bastato per impedire che si ripresentassero casi di polli e uova alla diossina e di “mucca pazza”.
3. cos’è la “mucca pazza”?
L’encefalopatia è una malattia che fa diventare il cervello come una spugna. L’interesse per queste patologie causate da particelle proteiche infettive, i prioni, è esploso negli anni Novanta quando si scoprì una nuova variante umana del morbo di Creutzfeldt-Jakob (nvCJD), e si giunse alla conclusione che la nvCJD e l’encefalopatia spongiforme bovina (Bse) erano causate dallo stesso prione. Ciò fece spaventare tutti, avvalorando l’ipotesi che mangiare carne potesse far ammalare, ipotesi suffragata dalla coincidenza di tempo-luogo-malattia dell’epidemia e dalle caratteristiche specifiche dell’agente patogeno. Il rapporto governativo inglese Bse Inquiry, sintetizzato da Le Monde il 28 ottobre 2001, ricapitola così la questione, per parole chiave: “Mortale – La Bse è causa di una malattia che contagia gli esseri umani; nell’ora in cui questo rapporto è stato scritto oltre ottanta persone in Inghilterra, in maggioranza giovani, sono morte o stanno morendo. Industria – È stato stroncato un intero settore industriale, con grave danno di decine di migliaia di persone. Gli allevatori hanno visto uccidere 170 mila loro capi e altre migliaia in via precauzionale. Intensiva – La Bse ha assunto carattere epidemico in seguito alla diffusione di una pratica zootecnica intensiva consistente nel riciclaggio di proteine animali nell’alimentazione dei ruminanti. Questa pratica, non contestata per decine d’anni, si è rivelata disastrosa. Rischio – Il caso solleva questioni sulla gestione del rischio, conosciuto per il bestiame, sconosciuto per l’uomo. Variante – Dei casi di una nuova variante di Creutzfeldt-Jakob si è occupata una commissione indipendente concludendo che l’esistenza di un legame con la Bse era ragionevole. Il legame tra Bse e variante umana è ben stabilito, anche se le modalità di trasmissione non sono chiare”. A far impazzire le mucche sono stati i prioni contenuti nei loro mangimi, ricavati da animali ammalati.
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Come ci sono finiti lì, i prioni? Da anni i manuali universitari di zootecnia avevano cominciato a parlare dell’uso di farine animali come integratori dei mangimi. Da anni ossa, carnicci e scarti non idonei al consumo umano diventavano mangime dopo aver transitato da diversi impianti di trasformazione. Dopo anni in circolo, le proteine sono mutate. Sono diventate prioni. I bovini ammalati di Bse sono rientrati nella catena alimentare, sia come carne sia come mangimi per altri bovini. I primi casi tra le mucche pare si siano registrati in Gran Bretagna tra il 1989 e il 1994. Ma nonostante l’embargo europeo imposto sulle carni inglesi “non cambia il menù apparecchiato dai mangimifici per l’allevamento industriale – fa notare Marco Travaglio su L’Espresso – sangue, ossa, zoccoli, peli, piume, interiora, animali morti, malati, malformati o inutili come i cavalli da corsa dopo la selezione degli esemplari migliori, le pecore da lana ormai improduttive o le centinaia di tonnellate di pulcini macinati giornalmente dalle grandi industrie dell’incubazione (i maschi delle razze ovaiole e le femmine delle razze da carne vengono scartati) e persino gli escrementi del pollame, ancora ricchi di elementi nutrizionali, frutta avariata e partite di cereali aggrediti da parassiti o roditori e contaminati dagli escrementi di questi ultimi… anche i fanghi di depurazione delle acque di scarico. S’ammanniscono ai bovini, che hanno un apparato digerente in grado di metabolizzare la cellulosa, anche scarti come segatura, trucioli, giornali, imballaggi (appurato da un’inchiesta governativa negli Stati Uniti)”. A ciò si sommano lo stato di forzosa immobilità degli animali, gli ambienti in cui sono ammassati, il trattamento con estrogeni e anabolizzanti vari, i cicli farmacologici ininterrotti. Ecco l’ambiente nel quale si è riprodotta la proteina incriminata. Un nuovo embargo. Nel luglio 1997 una seconda ondata d’allarme spazza l’Europa. Si parla di violazioni dell’embargo, di partite di carni inglesi infette che girano per il continente. I titolari delle dieci aziende che producevano mangimi alle farine di carne vendendoli a migliaia di allevamenti italiani vengono rinviati a giudizio per violazione della legge sui mangimi, la numero 281 del 1963. Alcuni patteggiano, altri vanno a processo, ma per la depenalizzazione del 1999 i produttori fuorilegge verranno assolti “perché il fatto non è più previsto dalla legge come
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reato”. Imbottire le mucche di potenziali agenti della Bse in Italia smette di essere reato. Alcuni poi vengono però condannati per frode in commercio, e – dopo la scoperta del primo caso umano di “mucca pazza” – incriminati per commercio di alimenti nocivi per la salute (fino a tre anni di galera). L’11 gennaio 2000 un comitato scientifico nominato dalla Commissione europea, insediato per valutare il rischio di contagio attraverso gli alimenti, presenta scenari inquietanti: se nel processo di produzione industriale di salsicce, pâté, gelatine e ripieni fossero finiti solo 20 chilogrammi di carne infetta, sarebbero esposte al rischio di contagio da 225 mila a un milione e 125 mila persone. Secondo un’ipotesi suggerita dagli studiosi di altre encefalopatie umane come la Kuru, diffusa tra le popolazioni indigene dedite a pratiche di cannibalismo, la nvCJD potrebbe avere un periodo di incubazione di quarant’anni. Non si è raggiunta una spiegazione unanime sulla diffusione della Bse. Non si è raggiunta certezza sul collegamento con la variante umana, il morbo di Creutzfeldt-Jakob. L’unica certezza è che alle mucche, animali notoriamente erbivori, sono state date da mangiare, per anni, altre mucche, alcune delle quali malate.
4. quanto ci è costata la “mucca pazza”?
La prima a essere scoperta è stata la Mucca 103 della Cascina Malpensata di Pontevico, in provincia di Brescia. Nel gennaio 2001, l’orgoglio dell’italianità fino ad allora esibito da allevatori e politici si tramuta in un tremore simile a quello che colpisce le mucche malate. Perché poi di mucche ammalate di Bse se ne sono scoperte parecchie. Una mucca ogni diecimila è stata trovata positiva dall’Istituto zooprofilattico sperimentale di Torino al test per l’encefalopatia spongiforme bovina durante i controlli del 2002. Non poche, considerando che sono otto milioni quelle che finiscono in tavola ogni anno. Di fronte alle cifre enormi di animali, l’allora ministro Umberto Veronesi ha provato a fare il punto: “nel Regno Unito, 180.500 casi di Bse bovina e 88 casi umani; in Francia, rispet-
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tivamente 233 e 3; in Irlanda, 487 e 1. In Inghilterra ci sono stati oltre 180 mila casi di ‘mucca pazza’ contro 88 morti umane. Questo nonostante il fatto che tutti gli inglesi, nel periodo peggiore dell’epidemia animale, si siano alimentati con carni infette. La misura del rischio è un caso su un milione”. Il 27 marzo, con un’ordinanza firmata dal ministro della Sanità, l’incubo dei macellai fiorentini diventa realtà. La carne con l’osso viene bandita dal primo aprile al 31 dicembre, in applicazione a una direttiva europea. Il conto, prego. Dopo che nel febbraio 2002 viene reso noto il primo caso di malattia umana (vittima una giovane donna di Catania) si comincia a parlare di un “ticket” sulla carne. Polemiche, contrasti, e alla fine, il 20 marzo, le Camere danno il via libera al decreto sull’emergenza “mucca pazza” per finanziare le misure d’indennizzo degli allevamenti colpiti dal morbo e di ritiro del materiale di scarto. Quattrocento miliardi di vecchie lire la spesa prevista. L’Agea, azienda di intervento pubblico sui mercati agricoli, spende i 400 miliardi per comprare direttamente dalle ditte produttrici e incenerire farine animali. Seicentomila tonnellate di farine animali bruciate in inceneritori e cementifici. Il governo ha dovuto mettere in bilancio altri miliardi per finanziare nuovi controlli. Nel nostro paese si consumano circa 18 milioni di tonnellate di mangime all’anno, cosa che rende impraticabili i controlli a tappeto: chi può apprestare e garantire la tenuta di un sistema di controllo per cui i costi pubblici sarebbero elevatissimi? Centinaia di miliardi di vecchie lire da aggiungere a quelli già andati in fumo per test rapidi e controlli anti Bse, smaltimento delle farine animali, abbattimento delle mucche e finanziamenti agli allevatori in crisi. Il ministro Gianni Alemanno, nel frattempo subentrato, vara infine un ultimo piano in cinque punti da altri 300 miliardi di lire per uscire dall’emergenza, destinato soprattutto alla risoluzione dei problemi legati all’emergenza Bse e allo smaltimento delle parti a rischio: anagrafe zootecnica, una banca dati con tutte le informazioni sull’animale (come è stato allevato e cosa ha mangiato), un sistema ramificato di controlli con tre nuclei specializzati dei Carabinieri (Noe, i Nac e i Nas) e il rafforzamento dell’Ispettorato centrale repressione frodi. In
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Italia a causa della “mucca pazza” s’è fatta un’ecatombe di 200 mila capi, i cui costi – non è certa la cifra precisa – sono stati coperti anche dalla Comunità europea. In Europa. Gli allevatori inglesi, fiaccati dalle ondate di “mucca pazza” prima, dall’apocalittica afta epizootica (ricordate le terribili immagini dei roghi di migliaia e migliaia di animali nelle campagne inglesi, dell’estate 2001?) e ostacolati dalle più rigide misure di controllo, subiscono ritiri da tutti i mercati europei. La Francia, nonostante una pronuncia avversa della Corte di Giustizia, mantiene a oltranza l’embargo contro carni provenienti dall’Inghilterra, ritenendole “non sicure”. La Germania è stata autorizzata dall’Ue a erogare agli allevatori della Nord Westfalia forti sussidi economici “riconoscendo l’eccezionalità della crisi del mercato della carne”. In Belgio i consumatori di carne si vedono caricare sulle spalle i costi necessari per i test che individuano il morbo della “mucca pazza” nei bovini. La disposizione prevedeva un’imposta sulle carcasse dei bovini, compresi i vitelli, da percepire al macello con aumenti del prezzo della carne bovina. Anche il Portogallo piomba a metà marzo 2002 nel “Gruppo IV” delle zone ad alto rischio geografico di contaminazione da Bse, dopo un’impennata del numero dei bovini infetti nel 2001. Tra l’altro, cosa inquietante, lì ben 77 animali infetti erano nati tra il 1994 e il 1997, cioè dopo la messa al bando di farine di pesce e bovine per i mangimi. I transiti transfrontalieri di carne a livello mondiale, dopo la “mucca pazza”, sono calati complessivamente di un terzo. Miliardi di tonnellate di carne in meno in giro per il mondo.
5. cos’è l’influenza aviaria?
Una sera del dicembre 2005 si leggono in tv, a pagina 101 di un media text di un’emittente nazionale, i seguenti titoli, nell’ordine: • Influenza aviaria, nuovi focolai;
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• Influenza aviaria, virus per via respiratoria; • Influenza aviaria, casi sospetti in Turchia; • Influenza, a rischio 6 milioni di italiani. Si strillano dati riguardanti una pandemia aviaria, rilanciando nella stessa cornice, con lo stesso peso, un’informazione banale e routinaria come le stime del numero di italiani a cui sarebbe venuto il raffreddore. È una delle trappole in cui sono caduti i media, amplificando allarmi e confusioni tra l’influenza aviaria da virus H5N1 e la normale, ricorrente influenza stagionale, spingendo così a un’impennata nel consumo di vaccini. È solo l’ultima di una serie di falsificazioni. La variante umana del virus dell’influenza aviaria non ha mai lambito noi europei, ma la sua paura sì, eccome, non appena s’è saputo delle vittime nel Sudest asiatico. Ma noi viviamo qui, in Italia. I regimi alimentari e le condizioni igieniche medie nei paesi occidentali fanno sì che il nostro organismo sia inattaccabile da agenti patogeni che al contrario, in aree depresse del Sud del mondo, sono temibilissimi (lo spaventoso virus Ebola, causa di sanguinose falcidie in Africa, non è mai nemmeno approdato sulle coste europee). Quando invece per esempio, in piena influenza aviaria, un paio di gatti in Austria cominciano a starnutire, per un pelo non si apre anche una caccia al gatto nazionale. “Nessun aumentato pericolo – rassicura il microbiologo Michele La Placa dell’Università di Bologna – il contagio di un gatto con il virus H5N1 non rappresenta un segnale di rischio per la salute umana”. Poi i tre gatti, inizialmente portatori del virus H5N1, guariscono. Come riferito da un portavoce dell’Agenzia per la sicurezza alimentare austriaca “sono stati contagiati dopo un contatto con degli uccelli, ma il loro organismo se n’è sbarazzato”. E gli uomini? “Ci possiamo ammalare di aviaria solo in cinque modi – chiosa dalle colonne de L’Espresso Michele Serra – 1. Leccare un cigno morto; 2. Andare appositamente in Asia e rotolarsi nudi nella cacca di pollo per un’ora; 3. Inghiottire al volo un tordo crudo; 4. Pulire con la lingua un cornicione imbrattato dai piccioni; 5. limonare con un barbagianni”. Allarme commerciale. È l’immunologo Attilio Speciani a suggerire per primo ai microfoni di LifeGate Radio che “l’aviaria è un’emergenza
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commerciale. Non sanitaria”. Tra gennaio e settembre 2005 le vendite del farmaco usato per contrastare l’influenza aviaria hanno toccato gli 859 milioni di franchi svizzeri, pari a 554 milioni di euro. Nei nove mesi dell’emergenza il fatturato del gruppo svizzero produttore dell’antivirale è cresciuto del 16%, raggiungendo 16,5 miliardi di euro. Le vendite della divisione farmaceutica sono aumentate del 20%, portandosi a 19,43 miliardi di franchi. L’allarme per gli uomini s’è rivelato totalmente sovradimensionato. Non così per gli uccelli. Ne ha colpiti centinaia di milioni, a partire dal 2003, dall’Asia alla Russia fino alla Turchia, e da qui nel resto del continente. I polli e i tacchini di centinaia di allevamenti italiani sono stati uccisi e i loro corpi inceneriti. Andavano a prendere i tacchini per il collo, bardati con scafandri da guerra batteriologica, per portarli nelle camere a gas. A contribuire ad allontanare i nostri connazionali dai banchi del pollame anche le immagini televisive con animali morti, con la loro soppressione. Ma anche gli 80 mila polli e le 7.000 uova sequestrati dai Carabinieri del Nas di Napoli in Calabria e Sicilia. E quanto la paura abbia attecchito lo ha detto una rilevazione di Eurobarometro del febbraio 2006 secondo cui l’83% degli italiani erano preoccupati dall’insorgere dell’influenza aviaria. La nuova reazione emotiva dei mercati ha più che dimezzato i consumi di carne di pollo per un anno.
6. l’influenza, che c’entra col cibo?
L’influenza aviaria è divampata nel 2005, ma c’erano tanti, tanti focolai, tutt’attorno. Sars. Chiusura degli aeroporti, impossibilità di viaggiare liberamente in tutta l’Asia e di coordinare direttamente il lavoro che normalmente là veniva svolto… “Dopo i pericoli per gli esseri umani, la Sars è una minaccia per il nostro stile di vita, il benessere diffuso, il consumismo di massa”, scriveva Federico Rampini, inviato di Repubblica, nel 2003. Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome) è una forma atipica di polmonite apparsa per la prima volta nel novembre 2002 nella provincia del Guangdong
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(Canton) in Cina. Tutto è iniziato da lì. È stato riferito che il primo caso s’è registrato a Shunde, un allevatore finito al Primo ospedale del popolo di Foshan. Il paziente poco dopo è morto. La Sars si è diffusa in altri paesi per via di viaggi internazionali di individui infetti. Una malattia mortale dal 7 al 15% dei casi in cui ha completato il suo corso. Si ritiene che il virus della Sars fosse originariamente un virus animale che ha attraversato la barriera della specie per infettare l’uomo. Sembra che l’animale dal quale il virus proveniva fosse lo zibetto, un piccolo mammifero simile a un gatto, dal muso allungato e spesso appuntito, come quello di una lontra. Gli zibetti e altri animali simili costituiscono delle pietanze abbastanza frequenti nei ristoranti in cui si serve selvaggina, e vengono spesso macellati nei mercati di animali vivi della Cina meridionale. Non appena è stato stabilito questo collegamento, nel 2004, sono stati abbattuti circa 10 mila zibetti, insieme ad altri animali sospettati di Sars, come tassi e procioni. Febbre suina. L’allarme più recente sull’epidemia del 2009 di influenza o febbre suina che colpisce anche gli esseri umani poteva indurre a una contrazione dei consumi di carne di maiale. Il Ministero del Welfare italiano, come del resto tutti gli esperti e l’Organizzazione mondiale della sanità, sono stati concordi nel dire che il virus H1N1, responsabile dell’epidemia in Messico, non si trasmette consumando carne di maiale. La trasmissione della malattia non avviene per via alimentare, ma attraverso il contagio tra esseri viventi. Sars, influenza aviaria e febbre suina nascono e si sviluppano nei settori degli allevamenti animali, nelle condizioni igieniche endemiche in cui si ritrovano i paesi del Terzo mondo.
7. cosa hanno in comune tutti gli ultimi allarmi
alimentari mondiali? Dopo lo scoppio dell’ennesima epidemia di matrice animale, non ci si può non accorgere che “il problema esiste e la nuova epidemia, dopo la sindrome della ‘mucca pazza’ e l’aviaria, tira in ballo di nuovo la que-
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stione del benessere dell’animale” cerca di sottolineare Silvio Barbero in un comunicato di Slow Food Italia. “Molti studiosi sospettano uno stretto legame tra il metodo di allevamento industriale, dove gli animali vivono ammassati l’uno contro l’altro in condizioni che poco hanno a che fare con la vita naturale, e la febbre suina. Sembra molto probabile infatti che il contagio, ma soprattutto la mutazione dei virus siano più facili dove vi sia una grande concentrazione di animali come può avvenire negli allevamenti industriali, dove gli esemplari sono sottoposti a stress e a continui trattamenti terapeutici, per cui si generano le condizioni migliori per la trasformazione dell’agente virale”. Nuovi pericoli. A conforto di questa posizione un nuovo studio della Soil Association del 2009 suggerisce che l’uso eccessivo di antibiotici potrebbe essere un fattore importante nella creazione di agenti patogeni super-resistenti agli antibiotici. Si sono riscontrati ceppi di batteri resistenti proprio nelle grandi aziende agricole che allevano suini. Tutti i più spaventosi e costosi allarmi alimentari internazionali degli ultimi dieci anni: • hanno riguardato animali e prodotti animali; • hanno causato danni economici miliardari e durature contrazioni dei consumi, nonché un’irreparabile perdita di fiducia e serenità nell’acquisto; • hanno avuto origine o sono stati aggravati dal sistema di allevamento intensivo.
8. come si distingue un falso allarme da uno vero?
Accanto a queste enormi deflagrazioni causate da storture strutturali del sistema produttivo e commerciale mondiale, di volta in volta abbiamo anche assistito a tanti diversi scoppiettii di disturbo. C’è un pentolone di informazioni, che ribolle e borbotta. Siamo obbligati a nutrirci quotidianamente, per forza; qualcosa dobbiamo pur sempre mettere sotto i denti. Ma non abbiamo, né noi né i media, tutti gli strumenti di conoscenza scientifica per decodificare e inquadrare correttamente notizie e ricerche (i paroloni fanno paura); e, a causa di
manuale di sopravvivenza tra il supermercato e la tavola
“mucca pazza” & Co., abbiamo le papille gustative e i nervi tesi. Tutto ciò costituisce un cocktail esplosivo che ci predispone a reagire con allarme spropositato a notizie che meriterebbero un’enfasi molto minore. Anche nella casistica delle bufale sono rintracciabili elementi comuni. Simili falsi allarmi potrebbero essere riconoscibili per la presenza di tratti di cronaca comuni: • riguardano comparti produttivi specifici e categorie produttive molto circoscritte; • sembrano campagne diffamatorie orchestrate; le perdite commerciali o d’immagine di quel comparto procurano vantaggio ad altri; • si esauriscono nel giro di poche settimane, un mese o due al massimo.
9. i cartoni della pizza sono velenosi?
“Un milione e trecentomila pizze al giorno escono dal forno, entrano in un astuccio di cartone, pronte per essere portate a casa. Vi restano per molti minuti, il tempo di essere trasportate a destinazione, e, una volta giunte, di essere mangiate nello stesso contenitore. Sempre che non finiscano nei forni di casa per essere riscaldate, sempre negli stessi cartoni, prima di finire in tavola. Un rito, un piacere collettivo per molte famiglie italiane ma, secondo quanto ha scoperto Il Salvagente, anche una fonte di pericolo alimentare non sottovalutabile”. L’inchiesta giornalistica. Così s’apre l’articolo pubblicato dal settimanale Il Salvagente nell’aprile 2006, che attraverso due studi specialistici rileva la presenza di sostanze indesiderabili per la salute umana nei cartoni per la pizza da asporto. Benzene, naftalene, ftalati, fenoli e Dibp. Sostanze che passerebbero dal cartone alla pizza attraverso il calore di quest’ultima, che deriverebbero – dicono gli esperti – da collanti e sbiancanti usati per far assomigliare la carta riciclata a quella vergine. Secondo le analisi condotte nei Laboratori di ricerche analitiche alimenti e ambiente dell’Università degli studi di Milano, analizzando diversi contenitori di materiale cellulosico destinati al trasporto di pizza sarebbe stata identificata la presenza di una sostanza (il di-isobutilftala-
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to) “in quantità altamente preponderante rispetto a tutti gli altri componenti della frazione volatile evidenziabile [...] già alla temperatura di 60 °C [...] simulante la condizione meno drastica di stoccaggio della pizza in fase di ‘home delivery’”. La direttiva 2004/14/Ce non contempla questa sostanza tra quelle ammesse per la fabbricazione di contenitori di cartone destinati a venire a contatto con gli alimenti. In realtà, l’aggettivo “preponderante” si riferisce agli altri elementi volatili, tutti presenti in quantità pressoché imponderabili. Essendo questi elementi, appunto, volatili, essi si volatilizzano in breve tempo. Si tratta di sostanze onnipresenti nelle lavorazioni industriali, dagli interni dell’auto (in cui viviamo diverse ore al giorno) ai mobili della camera da letto. Non sono certo i cartoni della pizza a costituirne la prima fonte d’esposizione umana. Il fatto che si tratti di rilevazioni sporadiche conferma la relativa innocuità di quest’allarme. E soprattutto: nessun test è stato condotto... sulle pizze!
10. le padelle antiaderenti fanno male?
Nel 2006 le nostre paure sono state fomentate da un altro allarme. Si tratta ancora di veleni, per puntualizzare una cosa che desta sempre la nostra attenzione, soprattutto quando si parla di cucina. L’Epa, l’agenzia di protezione ambientale americana afferma che anche livelli molto bassi di una sostanza chimica usata per produrre il Teflon™ “potrebbero comportare un rischio per la salute”. Da qui, la semplice (semplicistica) associazione d’idee tra le nostre padelle e il “veleno” che potrebbe impregnare la nostra frittata. Si usa negli stabilimenti. Ebbene, si sa da anni che l’acido perfluorottanoico, o Pfoa, ha effetti negativi sulla salute ed è inquinante (è una sostanza Pop, Persistent Organic Pollutant, estremamente persistente nell’ambiente e rigidamente limitata dal Trattato di Johannesburg del 2000. Per capirci, in compagnia di Ddt, diossine e Pcb, fino agli spaventosi policloro-dibenzo-P-diossine – Pcdd, dibenzofurani – Pcdf e Pcb coplanari – Co-Pcb, usati per decenni in agricoltura). Però, non si tratta del Teflon™.