verdenero
inchieste
Stefania Divertito Amianto Storia di un serial killer
© 2009, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2009, Stefania Divertito Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100%
Finito di stampare nel mese di ottobre 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)
STEFANIA DIVERTITO
AMIANTO Storia di un serial killer
indice
le piume e l’eternità di Alessandro Sortino prologo
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truppa inconsapevole
La divisa impolverata Gita al porto I palazzi silenziosi
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articolo primo
L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro Danno più beffa Carta straccia
61 73 96
polvere in casa
Le case bianche Dove finisce la polverina Camici bianchi
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uno sguardo in giro
Amianto nel mondo
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epilogo
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appendice
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fonti
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ringraziamenti
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le piume e l’eternità di Alessandro Sortino
Per introdurre questo libro vi voglio raccontare una favola. Oh, no, non ci sono draghi, nani o cavalieri in questa favola, né maghi fate o principesse. Il protagonista di questa favola è un omino comune, così comune che se ci fosse una gara tra tutti gli omini comuni del mondo per eleggere il più comune, lui non vincerebbe, perché nessuno si accorgerebbe di lui. Il nostro comunissimo eroe si chiama mister Franz. Mister Franz lo potete anche disegnare, tanto è semplice la sua faccia: viso tondo, naso un po’ a patata, baffetti, occhi piccoli e vispi, occhiali, quasi calvo, un tipo simpatico insomma, di quelli che nessuno si sognerebbe mai di incontrare in ascensore senza dirgli: «Buongiorno mister Franz, bella giornata oggi, eh?» oppure, «Ha visto che pioggia mister Franz...» e via discorrendo. Mister Franz abita in una zona dove ci sono solo villette, ha una moglie carina che da giovane faceva la pittrice e ora si diverte col decoupage, ha un bambino biondo biondo, talmente intelligente che è un peccato verso Dio la sua svogliatezza, un cagnetto vispo (fin troppo), e intorno a Natale una suocera che – chissà perché – lo disapprova e gli borbotta dietro.
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Mister Franz ama passeggiare in montagna ed è socio di un’associazione che tutela il verde dalla speculazione edilizia. Ogni tanto scrive sulle riviste di alpinismo qualche articolo dal titolo mistico, tipo: “La vetta e il viandante”, oppure: “Oltre il sentiero”. Insomma, un tipo che se anche mai si trovasse a far male a una mosca, prima le chiederebbe il permesso. Ma non è per tutte queste comunissime caratteristiche che l’amabile mister Franz è il protagonista della nostra storia. In verità lo è in ragione del suo lavoro: egli infatti da un anno o poco più, riveste la carica di capo dirigente di una ditta che porta un nome strepitoso, a tal punto che solo il nome vale chissà quanto sul mercato dei marchi. La ditta infatti si chiama ETERNITÀ, anzi, ad essere esatti: ETERNITÀ ESSE-PI-A. La ditta ETERNITÀ ESSE-PI-A possedeva un brevetto geniale. I mattoni fabbricati con... le piume. Sì, avete capito bene, con le piume, è proprio così. E mica parliamo dei mattoncini giocattolo per le costruzioni dei bimbi, al contrario! I mattoni fatti con le piume venivano usati per le ville, per i palazzi, per le dighe, per i ponti, per i grattacieli. La formula dei mattoni ETERNITÀ, la inventò anni prima un geniale allevatore di polli del paese di Ovograd, che non sapendo che fare di tutte le piume e piumette che gli avanzavano, le infilò nel frullatore, le mescolò a tutta una lista di ingredienti rimasti segreti (ma certamente c’erano lo smarino di una cava, la colla di pesce, e un pizzico di sale) ne venne fuori una pasta portentosa che a cuocerla diventava dura più dura del diamante, e flessibile nello stesso tempo come un pezzetto di fil di ferro. Insomma un miracolo. I mattoni erano leggeri leggeri, ma indistruttibili. L’allevatore guardò
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la sua creazione, piegò con un piccolo scatto del collo il capo da un lato, proprio come facevano i suoi polli ai quali aveva finito, a forza di frequentarli, per assomigliare, e poi pronunciò quella parola magica che avrebbe segnato la storia: eternità. In breve i mattoni ETERNITÀ conquistarono tutta la città, e da lì la nazione e da lì il mondo. Nessuno voleva una casa, se non era fatta di piume. La ditta crebbe, venne quotata in Borsa, diventò una multinazionale, il suo inventore fece una fortuna ma anche se era ricco aveva sempre una faccia da pollo e quando si guardava intorno muovendo la testa a piccoli scatti bisognava sforzarsi per non ridere. Così un bel giorno, fresco di laurea, master e baccalaureato in ingegneria costruttiva, il nostro mister Franz diventò dirigente capo della fabbrica con uno speciale contratto che faceva salire il suo stipendio in relazione all’andamento delle vendite. Ma nulla era meno rischioso, nulla più garantito del successo dei mattoni ETERNITÀ. Per cui mister Franz era molto soddisfatto, e faceva il suo lavoro con puntualità, precisione, e un pizzico di leggerezza, come si conviene a chi vende mattoni fatti con le piume, convinto che il proprio bene coincidesse con quello dell’azienda, e quello dell’azienda con quello della città, e quello della città con il bene del mondo intero. Era una mattina di autunno, una di quelle mattine d’autunno che si sarebbe detta disegnata da un pittore, tanto scintillanti apparivano i colori delle foglie accesi da una luce affettuosa, quando mister Franz trovò sul suo tavolo un plico con su il timbro dell’Università degli Studi di Ovograd. Lo aprì col suo
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tagliacarte, inforcò i suoi occhialetti e lesse il titolo del libretto che si trovava nella busta: MATTONI E POLMONI, UNA RELAZIONE? Mamma mia che noioso doveva essere quello studio, e che buffa idea: mattoni e polmoni. Proprio in quel momento un caporeparto dei suoi dopo aver rispettosamente bussato, entrò nell’ufficio con l’intenzione di chiedere un aumento. Mister Franz non trovò di meglio che utilizzare lo studio dell’università per spiegargli quanto fosse faticosa la vita di un povero dirigente quando tutti lo scocciavano con storie assurde. «Già mica si respirano i mattoni...» disse l’operaio per compiacerlo, «eppure... eh sì... c’è n’è di scocciatori» rispose mister Franz accompagnandolo alla porta facendogli capire che lui era di quel novero. Poi una volta chiusa la porta in faccia al caporeparto gettò il libricino in un armadio pieno di altri libricini e non ci pensò più. E invece... sei mesi dopo proprio il giorno prima della riunione con gli azionisti, che sarebbero i proprietari della fabbrica, mister Franz, si pentì amaramente di non aver per lo meno sfogliato quel libretto. Infatti sul giornale di Ovograd, nell’inserto scientifico del lunedì, lesse un articolo così intitolato: “Se i mattoni perdono le piume”. Nell’articolo si paventava il rischio che nel corso delle lavorazioni edilizie, dai mattoni ETERNITÀ si potessero staccare piccoli frammenti di piuma che poi sarebbero stati idonei a intossicare i polmoni di chi li avesse respirati. Seguiva un elenco di casi sospetti finiti in ospedale. Oh, che guaio. Pensò mister Franz, e in quel momento squillò il telefono, e lo investì la gentilissima ma pungente vocina del suo capo, l’ingegner Krubb.
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«Mister Franz?» «Mi dica.» «Ha letto?» «Sì, ho letto.» «E cosa ne pensa?» «Non sono uno scienziato, ma... mica si respirano i mattoni.» E giù tutti e due a ridacchiare. La battuta del caporeparto era tornata utile, e visto che anche l’ing. Krubb aveva riso, a mister Franz tornò il buon umore. Di nuovo gli pareva proprio bizzarra l’idea che un mattone potesse intossicare un polmone. Anche perché secondo l’articolo: «Un frammento di piuma di pollo che si staccasse dai mattoni ci metterebbe ventiquattro ore a scendere per un metro, e anche quando ti fosse entrato dentro, quel piccolissimo frammento, potrebbe impiegare trent’anni prima di risvegliarsi e dare problemi». Trent’anni? Campa cavallo... A mister Franz l’immagine lieve della piumetta che fluttua pian piano verso i polmoni di qualche malcapitato quasi gli fece tenerezza, quanto ai trent’anni, non riuscì nemmeno a concepire un lasso di tempo così sproporzionato rispetto alle sue immediate scadenze, visto che da lì a qualche giorno ci sarebbe stata la riunione annuale con gli azionisti ed era suo dovere implementare le vendite. Mister Franz, che aveva ricevuto un’offerta da una fabbrica di vernici e contava di cambiare lavoro da lì a poco, per scrupolo decise di convocare l’esperto di comunicazione della fabbrica, che arrivò come al solito in pompa magna con la sua corte di ragazzetti neolaureati che indossavano occhiali colorati e si agghindavano
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con pettinature bizzarre. L’esperto sentenziò: «Non esiste un difetto che non possa essere trasformato in un pregio». E così l’esperto chiamò uno stilista di grido, che infatti parlava a piccoli urli tipo: «Je adore!!» e gli fece disegnare delle bizzarre mascherine di protezione per gli operai, con lo scopo di farle diventare un must della collezione autunno-inverno. Lo stilista infatti organizzò una sfilata, modelli e modelle vestiti da operai vintage, con le mascherine variopinte sul viso, il tutto fu presentato alla fiera campionaria di Ovograd con grande soddisfazione delle maestranze, anche se poi le mascherine finirono in uno scatolone perché dopo il successo di immagine nessuno si ricordò di farle indossare agli operai. Lo stilista chiamò un giornalista (la fabbrica possedeva anche una quota della più importante società editrice), il giornalista approfittò dell’evento mediatico della sfilata per compiacere il suo direttore (che come è noto “ci teneva”) scrivendo un articolo dal titolo “La sicurezza prima di tutto”. L’articolo faceva piovere sui lettori un diluvio di dati sull’occupazione e sui profitti della fabbrica ETERNITÀ che tenevano in piedi l’economia nazionale nonostante le «voci» di «possibili», ma «niente affatto certi», «effetti nocivi» dei mattoni fatti con le piume. Effetti che si produrrebbero solo però se utilizzati senza le normali precauzioni indicate dalla fabbrica che «aveva a cuore prima di tutto» la sicurezza dei suoi lavoratori «che considerava il suo patrimonio più prezioso», per non parlare dei clienti. L’articolo fu letto da un parlamentare che possedeva anche lui delle azioni della fabbrica ed era il cognato dell’amministratore delegato. Il parlamentare andò nella sua dispensa di parlamentare e da un barattolo viola a strisce gialle estrasse una manciata di commi astrusi, tipo: «La norma di cui al precedente capoverso
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non trova applicazione nel caso dovessero verificarsi le previsioni di cui all’art. 7 secondo comma del decreto 97 come modificato dal regolamento attuativo 2908 del 1978» e così almanaccando. Il parlamentare sparse i commi nella legge che la camera dei rappresentanti stava per approvare sulla messa al bando dei mattoni piumati, un avvocato lesse quei commi e quando quella legge andò davanti a un giudice lui utilizzò quel pastrocchio di parole e numeri per ottenere dal giudice di lasciare tutto com’era prima della legge. D’altronde aveva studiato tanto per questo... E mentre accadevano questi fatti, gli anni passavano e le piumette invisibili e minuscole si staccavano dai mattoni e fluttuavano nell’aria per ore e ore fino a che non si depositavano nel fondo dei polmoni della gente, come fossero foglie secche nei tombini delle nostre strade che quando piove si allaga tutto. E infatti dopo trent’anni i polmoni della gente che aveva a che fare con quei mattoni smisero di funzionare, si riempirono d’acqua e le persone presero a morire nel proprio letto come fossero affogate nell’oceano. E mister Franz, direte voi? No, no che non me lo sono dimenticato: mister Franz, quando tutto questo accadeva già aveva cambiato lavoro, e poi cambiò ancora, e poi ancora una volta, ed essendo una persona per bene, operò sempre solo il bene delle ditte per cui lavorava, con abnegazione e onestà specchiatissima, così accumulò una cospicua ma meritata pensione e si dedicò più spesso di prima al trekking divenendo anche presidente onorario del club alpino della città. Un giorno, quando mister Franz era già in pensione, e passava le sue giornate dividendosi tra il giardinaggio e la sua neonata
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nipotina, gli arrivò a casa una lettera di quelle che i timbri dello Stato rendono minacciose. “Ahia, le tasse” pensò subito mister Franz, e invece si trattava di una notifica del tribunale di Ovograd. Mister Franz era convocato in aula per un processo con dei capi di imputazione terribili: disastro ambientale, attentato alla salute pubblica, provocati dallo sfarinamento dei mattoni ETERNITÀ. «Ma cose da pazzi», pensò Mr Franz, «e che c’entro io?». Contattò un avvocato, si recò all’udienza, e si difese con correttezza e precisione sostenendo che i dati allora non erano chiari, che lui sì era un dirigente, ma non era mica l’unico, che poco dopo se ne era andato, e che i mattoni con le piume ai suoi tempi sembravano una cosa geniale, e che la fabbrica a quanto gli risultava aveva rispettato tutte le leggi, e anzi aveva partecipato a renderle più severe – a quanto ricordava anche se queste cose non erano compito suo – proprio in materia di sicurezza. I giudici mostrarono di credergli, anche perché in cuor loro consideravano una crudeltà imputare a omini così innocui fatti così grandi e terribili, come un’intera città ammalata. L’avvocato infatti lo rassicurò, gli disse che se la sarebbe cavata massimo con una contravvenzione, o poco più, perché nessuno mai avrebbe potuto provare la sua intenzione di far male a tutta questa gente, e le carceri erano troppo piene per poter ospitare i semplici colpevoli senza intenzione. Ma mentre attraversava l’aula del tribunale per uscire e tornarsene a casa, mister Franz fece un incontro inaspettato. Gli si parò davanti il suo caporeparto, quello che un giorno gli aveva chiesto l’aumento. Aveva proprio una brutta cera, un incarnato
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gialluto, gli occhi brillavano ancora ma sprofondati in due ombre nere. Il vecchio operaio si reggeva al braccio di una donna più giovane presumibilmente la figlia, e parlava con un filo di voce. «Mister Franz? Si ricorda di me? Sono il vecchio caporeparto.» «Oh, salve come sta?» «Eh...» «...» «Aspettavo la pensione per godermela un po’... Volevo girare il mondo e invece giro per ospedali.» «Mi dispiace, oh se mi dispiace» disse mister Franz sinceramente commosso. «Si faccia sentire che un giorno facciamo una grigliata in giardino e parliamo dei vecchi tempi.» Ma l’invito non doveva essere stato proprio una bella idea perché il caporeparto abbassò lo sguardo e bofonchiò qualcosa di incomprensibile ma che suonava come: «Temo che mi resti troppo poco da vivere per sprecare tempo a chiacchierare dei vecchi tempi di merda». I due si salutarono, ma mentre mister Franz aveva quasi raggiunto la porta dell’immensa aula del tribunale gli parve di sentire ancora la voce del caporeparto che gli ripeteva beffarda: «Mica si respirano i mattoni, eh mister Franz». Quella notte mister Franz fece uno strano sogno: c’era lui medesimo, nel sogno, con indosso una tutina da operaio. Il suo compito era quello di costruire un muro. Ma non sapeva a che servisse, quel muro. Sapeva solo che doveva farlo bene. E ci si impegnava tanto. Poi girandosi vedeva altri omini, come lui impegnati a costruire altri pezzi di muro. Lui provava a chiedere
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in giro, ma sembrava proprio che nessuno conoscesse il progetto per intero. Però riconobbe un sacco di amici: il suo ex capo, l’ing. Krupp, e poi: il consulente d’immagine, lo stilista, il direttore del giornale, il giornalista, il parlamentare , tutti con la tuta indosso e la cazzuola in mano, che costruivano il loro pezzetto di muro. A guardarli bene però tutti quegli omini avevano qualcosa di strano, sembravano anzi no erano, identici a lui, cioè piccini, quasi calvi, con i baffetti e gli occhiali. E voltandosi fu sorpreso di scoprire alle sue spalle un esercito, anzi no, di più: un popolo di piccoli mister Franz con la tuta da operaio che tiravano su, con grande dedizione, ciascuno il proprio muretto. A un certo punto l’opera fu completata, e si riconobbe il senso del lavoro di ciascuno: era una fabbrica, identica a quella vera, nei cui uffici aveva lavorato, ma rispetto a quella vera più bianca, talmente bianca da riflettere il sole e abbacinare gli occhi. Sulla porta c’era una scritta in caratteri d’oro, per leggerla dovette ripararsi gli occhi. C’era scritto: “ETERNITÀ”. Mister Franz varcò il cancello della fabbrica. Anche dentro c’era tanta luce che penetrava a raggi obliqui dai finestroni in alto, e la luce faceva brillare un pulviscolo sospeso, a guardar bene si trattava di una miriade di minuscole piume che fluttuavano accese dai raggi del sole come tante piccole stelle. In basso decine, anzi centinaia, anzi migliaia di letti, dove giacevano tanti poveri cristi, tutti senza fiato, tutti con l’aria afflitta di chi sta per morire e gli pare troppo presto. Fu allora che mister Franz cacciò un grido e si svegliò. Poi andò in cucina, bevve mezzo bicchiere di latte, ritornò a letto, diede un bacio sulla fronte della moglie che si era destata, e si rimise a dormire senza sognare più.
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E qui finisce la favola di mister Franz, e comincia il libro di Stefania Divertito. La favola è inventata, l’inchiesta che segue invece racconta fatti veri: l’amianto, l’asbestosi, i processi, le lobby, la vita dei malati, la loro battaglia per ottenere giustizia. Ma forse alla fine la storia è la stessa: è la storia di come sia costruito il nostro inferno presente. È composto da tante piccole bugie raccontate da uomini troppo comuni per portare il peso del male, ma abbastanza cattivi da accettare un po’ di soldi per mentire quel tanto che serve.
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Risarcire un operaio morto costa meno che salvargli i polmoni Massimo Carlotto
prologo
Due metri di mogano scuro. Passo le mani sulla poca superficie libera della mia scrivania e come tutte le sere provo piacere a lisciarne il legno compatto. Il profumo del lucidante è sempre più occultato dalla polvere accumulata sulle cartelline color rosa pesca. Sono tutte uguali, banalissime ali di cartone di un rosa pallido. L’unica differenza è l’intestazione: centinaia di nomi, quasi tutti uomini. Nonostante i miei sforzi, non riesco a tenerli in ordine alfabetico. Ormai sono troppi, tanto che neanche li conto più. Li ho suddivisi per categoria: i lavoratori delle acciaierie, i marinai, i ferrovieri e poi tutti gli altri. Centinaia di nomi in ordine sparso. Dopo anni continua ancora a piacermi scrivere il loro nome a mano. Non è un vezzo, è come se così potessi prendermi cura di loro. Di tutte quelle storie raccolte in anni di lavoro. Non mi va di delegare l’impressione di questi nomi e cognomi a una fredda stampante: quando il pugno stringe la penna e l’inchiostro calca la carta ruvida, mi sembra di poter fissare quelle storie per sempre. Contro il volere di chi le ha sotterrate nel silenzio. Fisso i loro nomi, ma fisso anche la fatica che mi è costata ritrovarli uno ad uno. Parlare con le mogli, ora vedove, con i figli, orfani, con le madri, strette in un lutto perenne.
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Fisso le loro vite e i viaggi che mi hanno portato a loro. Pordenone, Torino, La Spezia, Genova, Brindisi, Padova, Napoli, Taranto, Roma. Ho imparato molto in questi anni. Ho viaggiato tanto e tanto dovrò viaggiare ancora. Perché questa vicenda è eterna, proprio come il nome delle lastre che ricoprono i tetti delle nostre case. All’inizio per me la parola amianto indicava un generico rischio, relegato a una determinata categoria di persone. Chi lavora a contatto con questa fibra, deve per forza essere consapevole del rischio. In ogni caso, pensavo, è una vicenda lontana. Lontana anni luce dalla mia casa vicino al mare. Ma oggi, che sono quasi alla fine del mio percorso, ne sono certa: il rischio amianto riguarda tutti noi. Ho letto che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità sono stati 125 milioni i lavoratori esposti a questo pericolosissimo materiale in tutto il mondo. Ogni anno i morti sono 100 mila, ma gli scienziati continuano a ripetere che si tratta di un valore sottostimato. Nei soli paesi industrializzati dell’Europa, dell’America del Nord e del Giappone si registrano ogni anno circa 20 mila morti per cancro al polmone e 10 mila casi di mesotelioma dovuti all’amianto. E nessuno conta gli indiani, i pakistani, i vietnamiti, che ogni giorno, sottopagati, lavorano tubi e pannelli di Eternit, ancora oggi estratti in Canada. A differenza di altre malattie dovute alla contaminazione ambientale, quelle causate dall’amianto ne riportano una traccia indelebile. Un marchio di fabbrica, un’impronta. È come la prova del Dna nei polizieschi contemporanei. Esistono quattro malattie provocate sicuramente da questa sostanza: la fibrosi polmonare (asbestosi), le lesioni pleuriche e peritoneali, il carcinoma bronchiale e il mesotelioma pleurico. Se compare una
prologo
di esse, c’è stata un’esposizione. Non vi possono essere dubbi. Ogni anno muoiono solo in Italia 4.000 persone con mesoteliomi e asbestosi. Una vittima ogni cinque minuti, secondo quanto riportato da Carlo Lucarelli in una documentatissima puntata di Blu notte. E molti di loro non avevano mai lavorato né in una fabbrica né tantomeno nel settore dell’edilizia. Erano semplici cittadini, nati troppo vicino a una discarica abusiva o inconsapevoli dirimpettai di tettoie pericolose. Dal Dopoguerra fino alla messa al bando del 1992, in Italia sono stati usati più di 20 milioni di tonnellate di amianto e prodotte 3,75 milioni di tonnellate di amianto grezzo. Lo dice l’Ispesl, l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, secondo cui fino alla fine degli anni Ottanta siamo stati il secondo produttore europeo di amianto dopo l’Unione Sovietica. Estraevamo fibre a ritmi forsennati fino alla metà degli anni Settanta; il picco l’abbiamo raggiunto nel 1976 con 164.788 tonnellate prodotte. La produzione interna, però, non bastava a soddisfare le esigenze del comparto industriale: il massimo delle importazioni c’è stato tra il 1976 e il 1979 con poco più di 77 mila tonnellate. La legge per la messa al bando è arrivata, invece, a ridosso di un triennio caratterizzato da grandi numeri: tra il 1989 e il 1991 nei nostri confini entravano ancora 60 mila tonnellate annue di amianto. E le esportazioni non erano da meno: dal 1945 al 1992 ne abbiamo venduto all’estero quasi 2,3 milioni di tonnellate. C’è però chi ci batte: il Canada, ad esempio, ancora oggi lo estrae e lo esporta. La curva della produzione è seguita poi di pari passo da un’altra curva, quella delle patologie polmonari. Il tasso d’incidenza dei mesoteliomi, la forma di tumore indotta
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dall’esposizione all’amianto, è di circa 3,5 casi ogni 100 mila abitanti negli uomini e di 1 ogni 100 mila abitanti nelle donne. Da noi questa tipologia di cancro, per cui è impossibile la guarigione, colpisce circa 1.200 persone l’anno. E non c’è una dose minima al di sotto della quale potremmo essere sicuri di non ammalarci dopo aver respirato asbesto. Lo ha ribadito la Commissione europea il 14 aprile 2009, rispondendo a un’interrogazione scritta presentata dall’eurodeputato comunista Willy Meyer Pleite. Mi ha sempre affascinato la capacità del tempo, a volte, di scorrere assai lentamente. Trent’anni sono davvero tanti. È il tempo che può impiegare un mesotelioma a manifestarsi. Ed è anche quello che non è stato ancora sufficiente all’Europa per svegliarsi e cominciare a combattere seriamente la polverina killer che ha imbiancato il continente. Nel mondo, tra il 1900 e il 2000 sono stati prodotti 173 milioni di tonnellate di amianto. E anche se nel 1977 tutti i tipi di amianto erano già classificati come cancerogeni nell’archivio delle Nazioni Unite, in quel periodo si producevano ancora 4,5 milioni di tonnellate l’anno di fibre. In Europa, il primo paese a prendere coscienza del rischio è stato la Danimarca, nel 1986, decidendo di proibirne l’uso. A seguire sono venute l’Islanda e la Norvegia. L’Italia non si è fatta certo attendere e ha emanato una legge in questo senso nel 1992. Attualmente un bando completo o parziale dell’amianto è in vigore in numerosi paesi, tra cui Arabia Saudita, Argentina, Austria, Belgio, Cile, Polonia, Regno Unito e Svizzera. Ma non basta: nel 2000 Brasile, Cina, India, Giappone, Russia e Thailandia ne avevano consumato più di 60 mila tonnellate, pari all’80% di tutti i consumi mondiali.
prologo
L’Europa non ha ancora trovato un accordo per porre il divieto sull’impiego dell’amianto. E di rinvio in rinvio ha sistemato in questo calendario dai tempi biblici un’altra data: il 2010. Ora vedremo se le potenti lobby industriali riusciranno ancora una volta a manipolare a proprio piacimento le decisioni della Commissione europea. Ho imparato che i numeri possono fare paura. Mentre raccolgo i miei pensieri ci sono 32 milioni di tonnellate di fibra d’amianto sparsi ovunque: non riesco a guardare una tettoia senza pensare che ne possa essere piena e che potrebbe sfilacciarsi da un momento all’altro. I rivestimenti dei magazzini, le scuole, gli edifici pubblici, le intercapedini. Tutto m’insospettisce e mi genera un dubbio: la mia vita è veramente al sicuro? Anche se si tratta di un materiale fuorilegge, la rimozione dei pannelli è molto complicata dal punto di vista burocratico e ha costi assai elevati: è più facile, quindi, disfarsene in altro modo. Ogni giorno, infatti, nei registri delle Forze dell’ordine vengono segnate nuove discariche abusive, scoperte nella pancia di questa nostra terra martoriata. Scavano buche nei boschi, sotto i ponti, a ridosso delle autostrade e ci infilano lastre e strati di amianto. Anche a pochi metri dall’epicentro del terremoto che ha sconvolto l’Abruzzo il 6 aprile 2009 avevano scoperto discariche abusive. Ho potuto verificare personalmente cosa succede alle lastre esposte agli agenti atmosferici. Prendono la consistenza solida del caramello che guarnisce la crema catalana. Rigide come il vetro, friabili come lo zucchero. Si spaccano in mille pezzi: quella fibra usata ovunque per la sua resistenza diventa nulla. Si sfalda in miliardi di piccoli aghi che prendono il volo. Contaminando l’ambiente circostante.
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Ricordo l’incontro con l’epidemiologo Valerio Gennaro: fu lui ad aprirmi gli occhi. Mi disse che di amianto si morirà almeno fino al 2040, che il picco arriverà tra quattro o cinque anni, e che si tratta di un problema che riguarda tutto il mondo: sono più di 100 mila, infatti, le persone uccise ogni anno dal cancro bianco. Il 54% di tutti i tumori professionali. E l’Oms l’ha ribadito: il picco di mortalità arriverà tra il 2025 e il 2030. La chiamano morte bianca, ma io che l’ho vista arrivare e maciullare un corpo ancora giovane, so che il nome trae in inganno. La fibra di amianto è tutt’altro che compatta. Presenta degli aculei finali piantati su una struttura filamentosa a spirale che s’infilano nel tessuto polmonare. Aculei che possono restare dormienti anche per 40 anni, ma che poi, improvvisamente, s’infiammano. E quando iniziano il loro sporco lavoro non lasciano scampo: compiono micromovimenti elicoidali sbriciolando i tessuti sani fino alla consunzione totale. Ho deciso di occuparmene quattro anni fa, quando conobbi la lotta infaticabile dei pensionati, che ancora oggi elemosinano una più giusta normativa col solo obiettivo di veder riconosciuto un diritto: ricevere i benefici per aver lavorato tutta una vita a contatto con l’amianto. Trovo ingiusta questa lotta. Ingiusta perché non dovrebbe esistere. E invece è la figlia di una burocrazia apparecchiata giustappunto per rendere la loro vecchiaia un inferno lastricato di ricorsi, speranze disattese, suppliche al politico di turno, timore di ammalarsi e non avere, infine, nemmeno i soldi per potersi curare. Ho dedicato una sezione del mio archivio a questi pensionati: ho bisogno di leggere le loro storie, di figurarmi la loro
prologo
vecchiaia e immaginare le loro difficoltà per trovare la giusta motivazione ad andare avanti, quando un ostacolo di troppo mi si pone lungo il cammino. Hanno tutti un denominatore comune: una vita al cantiere, o alla fabbrica, o sulla nave. Una vita di lavoro. Poi, quando davanti non si ha che la pensione e un po’ di anni da trascorrere al parco con i nipotini, arriva quella tosse insistente, quel dolore alla spalla, quel senso di spossatezza. Senza risarcimenti, senza scuse, senza indennizzi: si capisce allora che gli ultimi anni saranno segnati da un male terribile, che ti lascia esausto a letto, senza fiato. Spesso povero. Perché le cure costano e perché il regolamento necessario all’assegnazione dei fondi stanziati non è stato ancora emanato. Non ci sono le coperture finanziarie, è stata questa la risposta della Corte dei Conti. Difficile a credersi, ma è proprio così. Quando penso a queste persone, vedo i loro occhi e la loro dignità, respiro l’indignazione che mi sale dalla pancia, m’infiammo, e solo più tardi, allora, posso ricominciare a lottare.
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