Confessioni di un ecopeccatore

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Da dove vengono i prodotti che acquistiamo ogni giorno? Chi li ha fatti, e con quali costi per l’ambiente? Che cosa gli succede dopo che vengono buttati? Per rispondere a queste domande Fred Pearce, uno dei più quotati giornalisti ambientali del mondo, ha viaggiato in più di venti paesi per conoscere le persone e i luoghi da cui provengono le cose che usiamo quotidianamente. Dalle miniere d’oro del Sud Africa agli allevamenti di gamberi in Bangladesh, dalle fabbriche di giocattoli cinesi ai campi di cotone in Australia, Pearce indaga sugli aspetti economici, ambientali e morali di quel gigantesco processo chiamato “globalizzazione”. Ne emerge un quadro spiazzante, che mette in discussione luoghi comuni e presunte verità care a una parte del pensiero ambientalista, e indica soluzioni possibili ai grandi problemi della nostra epoca. Riscaldamento globale, problema demografico e crisi energetica: Pearce sottolinea come ciascuna di queste sfide possa essere vinta servendoci di ingegno, capacità di adattarci e fiducia, le nostre qualità più preziose.

22,00 euro 978-88-96238-24-0

CONFESSIONI DI UN ECO-PECCATORE

Prefazione di Luca Mercalli

confessioni di un eco-peccatore

“Un libro splendido. Fred Pearce è uno dei pochi che capisce la Terra per come è realmente: dobbiamo ascoltarlo tutti.” James Lovelock

FRED PEARCE

Fred Pearce

Fred Pearce , vive a Londra ed è il consulente ambientale di New Scientist. Collabora regolarmente con The Independent, The Guardian e con London Daily Telegraph e ha scritto svariati rapporti per l’UNEP, la Banca Mondiale e per l’Agenzia europea per l’ambiente. Nel 2001 è stato nominato giornalista ambientale dell’anno in Gran Bretagna. È autore di tredici libri, tra cui Un pianeta senz’acqua. Viaggio nella desertificazione contemporanea (il Saggiatore 2006). Tiene una rubrica dedicata al greenwashing sulla rivista Internazionale.

Cibo, abiti, telefoni, computer, giocattoli, aerei, automobili... L’elenco è sconfinato, e comprende quasi tutte le cose che mangiamo, beviamo o di cui facciamo uso ogni giorno. Di rado però ci fermiamo a considerare il fatto che ognuno di questi prodotti ha una storia che precede e segue l’intervallo, più o meno breve, durante cui ce ne serviamo, e che questa storia è spesso intrecciata con sovrasfruttamento delle risorse, inquinamento e ingiustizie sociali. Confessioni di un eco-peccatore ricostruisce i contesti da cui vengono gli oggetti che affollano le nostre vite e il risultato, come sempre succede quando ci si mette di mezzo Pearce, è spiazzante. Se è vero che avidità ed egoismo sono diffusi a ogni latitudine, è altrettanto vero che la creatività e la determinazione di milioni di uomini e donne riescono a infondere ottimismo anche al più scettico degli eco-peccatori.

Viaggio all’origine delle cose che compriamo Edizioni Ambiente

Questo volume è a Impatto Zero®, ridotte e compensate le emissioni di CO2


FRED PEARCE

CONFESSIONI DI UN ECO-PECCATORE Viaggio all’origine delle cose che compriamo

Edizioni Ambiente


Fred Pearce CONFESSIONI DI UN ECO-PECCATORE viaggio all’origine delle cose che compriamo realizzazione editoriale

Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it titolo originale

Confessions of an Eco-Sinner Travels to Find Where My Stuff Comes From Copyright © Fred Pearce, 2008 traduzione

Patrizia Zaratti edizione italiana a cura di

Luca Mercalli redazione

Diego Tavazzi progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Agenzia X Milano immagine di copertina: © Corbis

© copyright, 2009 Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-96238-24-0

Le emissioni di CO2 conseguenti alla produzione di questo libro sono compensate da processi di riforestazione certificati Finito di stampare nel mese di settembre 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100%


sommario

prefazione

di Luca Mercalli parte prima – a mo’ di introduzione

1. Impronte: io e le mie cose 2. Oro: una bussola per il mio viaggio parte seconda – il mio cibo

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3. Caffè: una bomba nel mondo del commercio equo e solidale 4. Prodotti locali: birra, formaggio e altre delizie gastronomiche 5. Creature selvatiche: morte in alto mare e sulle colline 6. Crostacei al curry: il magico mondo di Mr. Gambero

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uno su un miliardo: agnes, la nonnina dell’aids

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7. Terra bruciata: olio di palma e zucchero 8. Quando la banana perse i suoi semi e altre storie dei frutteti 9. La magia di Montezuma: Joseph, coltivatore di cacao, diventa un guerriero verde 10. Perché mangiare i fagiolini kenioti fa bene al pianeta

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uno su un miliardo: severina, la regina della favela

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parte terza – i miei abiti

11. Re cotone: siccità, ruspe e segreti sporchi 12. Siano benedetti i miei calzini di cotone 13. Pantaloni: la verità sulle aziende di Dhaka 14. La mia maglietta, la schiavitù e la morte del Lago d’Aral

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uno su un miliardo: nellie, la ragazza del chiosco di fiori

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parte quarta – il dragone cinese

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15. Mouse, schede madri e il nuovo impero di Suzhou 16. Zhangjiagang: la capitale mondiale della distruzione della foresta pluviale 17. Dagli stuzzicadenti alle placente, tutto passa da Yiwu

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uno su un miliardo: ely, l’(ex) proprietario di schiavi

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parte quinta – miniere, metalli e potere

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18. La mia lattina di birra: impronte gigantesche nel paradiso degli uomini 19. Shock e minerali grezzi: l’origine del mio metallo 20. Impronte sulla neve: gli ultimi giacimenti di petrolio 21. Elettricità: il vecchio re Carbone continua a vivere a Drax 22. Ruote, ali e rotaie: il mito del viaggiare “verde” 23. Londra: il mio ruolo nel metabolismo di una capitale

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uno su un miliardo: greg, l’uomo dell’oro

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parte sesta – lungo la corrente

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24. La mia spazzatura: nel fiume e nel mondo 25. Commercio, non aiuti: unirsi alla grande vendita di beneficenza mondiale 26. Una nuova vita per il vecchio telefono di Joe 27. La regina della spazzatura e altri giganti cinesi del riciclo 28. Spazzatura elettronica: cosa fare dei vecchi computer parte settima – i dottori dell’impronta

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29. Compensazione del carbonio: frode verde o panacea indolore? 30. Un pianeta troppo piccolo: la scienza del terrore si riunisce a Siena

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uno su un miliardo: paul, il latifondista africano

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parte ottava – la mia specie e la salvezza del pianeta

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31. Perché siamo tutti figli di Toba 32. Perché siamo in grado di nutrire il mondo 33. Perché siamo in grado di rendere più ecocompatibili le nostre città 34. Perché siamo in grado di arrestare i cambiamenti climatici 35. Perché siamo in grado di interrompere la crescita demografica e salvare il mondo fonti e ringraziamenti

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prefazione di Luca Mercalli

Mi è piaciuto il viaggio di Fred Pearce alla scoperta delle lunghe e complesse strade che compiono i nostri acquisti e i nostri rifiuti. In una quarantina d’anni ho visto anch’io cambiare molte cose dalla mia finestra di osservazione alla periferia di Torino, un po’ come quella di Londra. Quando avevo dieci anni mia nonna mi mandava a comprare le verdure di fronte a casa, in un grande orto urbano che serviva i mercati rionali. La famiglia di venditori di verdure lo vendette alla fine degli anni Ottanta, e oggi al suo posto c’è un palazzo di dieci piani. E poco più in là, dove c’era un ottocentesco istituto scolastico per la sperimentazione agricola, incaricato di capire come si fa a rendere più produttivo il suolo, nel 1990 venne costruito un grande stadio per i mondiali di calcio, una gigantesca e costosa opera giudicata indispensabile e avveniristica, che proprio ora che scrivo, dopo solo 19 anni di utilizzo, è stata abbattuta per essere “rinnovata”. Tonnellate di cemento e ferro che vanno ad aggiungersi a quei grandi cumuli che si incontrano tra le pagine che vi accingete a leggere. Pearce segue cibi e oggetti, dalla miniera alla discarica, al fine di fare un bilancio della sua impronta ecologica e sociale. Sono quasi sempre d’accordo con lui e provo qui a riassumere rapidamente il mio bilancio ecologico seguendo lo schema dei capitoli che seguono, usando come base la mia attuale abitazione extraurbana a 25 chilometri da Torino. In casa ho pochi oggetti esotici, e non mi interessa averne: non ho zanne di elefante né pellicce di castoro. Porto la fede al dito e sono responsabile delle due tonnellate di detriti rocciosi scavati in Sud Africa per estrarre l’oro con cui è stata fabbricata. Prodotti del mercato equo e solidale: talvolta li acquisto e sono d’accordo con la filosofia che ne sta alla base, ma rifuggo da quelli che non sono


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peculiari di certi paesi. Cacao sì, curry sì, ma è assurdo che compri fagioli in Sud America quando crescono qui da me, saranno pure solidali ma hanno consumato troppa energia per essere trasportati. In questo dissento dai fagiolini kenioti molto cari a Pearce. Egli vuole nobilmente aiutare gli agricoltori africani e suggerisce di continuare ad acquistare a Londra i fagiolini kenioti che arrivano in aereo a Natale, sostenendo che le emissioni derivanti dal loro trasporto siano accettabili. Ma io ritengo che a Natale si possano mangiare con soddisfazione patate, cavoli, broccoli e porri. I fagiolini li mangio a giugno. I nostri amici kenioti possono coltivare ciò che noi non abbiamo e – come si faceva un tempo con le spezie – ciò che non ha bisogno di un aereo per giungere fresco sulla nostra tavola ma può permettersi un sostenibile viaggio in nave di quindici giorni. Anche io prediligo i prodotti locali: il pane lo faccio in casa quando posso oppure lo compro dal mio fornaio di montagna a due passi da casa, dove trovo anche il formaggio dei pastori locali, i mirtilli quando ci sono, le castagne e il miele. Le fragole a gennaio sono vietate dalla mia coscienza, ma mia moglie ne coltiva di magnifiche sul terrazzo, ottime da maggio ad agosto, insieme a ribes e lamponi nell’orto. Partecipo all’esaurimento delle riserve ittiche mondiali con qualche scatoletta di tonno al mese, ma non alimento la mafia dei gamberi surgelati perché non ne consumo mai. Odio l’olio di palma negli alimenti e consulto attentamente le etichette dei prodotti alimentari: appena vedo scritto “olio vegetale” mi rifiuto di acquistare il prodotto, a difesa delle mie arterie e delle foreste tropicali. Le banane mi piacciono, ma le mangio come quando ero bambino: una volta o meno al mese, come regalo. Confesso invece che non potrei rinunciare al cioccolato, ma è un prodotto ad alta densità di materia e di piacere, lo si commerciava già quattro secoli fa su bastimenti a vela e ne basta poco per essere contenti. Cerco di usare e riusare i miei abiti: di certo non ne acquisto 35 chilogrammi all’anno come la media inglese, e le mie magliette fanno ben più di 25 lavaggi nella loro vita, in genere fino a sfilacciarsi per usura. Se abbandono abiti è perché non ci entro più, non per futili ragioni di moda. Scelgo sempre tagli classici, che reggono al tempo che passa. Spero così di non contribuire eccessivamente alla desertificazione del Mar d’Aral o allo sfruttamento del lavoro nell’industria tessile asiatica. Sto scrivendo su un computer Acer come quello dell’Autore, molto probabilmente prodotto in Cina nel distretto di Suzhou: mi spiace di contri-


prefazione

buire alla devastazione della terra cinese, ma lo uso come mezzo di lavoro, senza cambiarlo ogni pochi mesi solo per moda o perché è uscito il modello nuovo! Quello vecchio l’ho portato ai miei amici della Cooperativa Arcobaleno di Torino, che smontano e recuperano i componenti senza farli bollire nell’acido come in India. In casa abbiamo tutti mobili di recupero, giunti da cantine e vecchi alloggi di nonni e parenti. Oltre che trasudare storia, evitano di distruggere parte della foresta pluviale tramite il mercato nero del legname di Zhangjiagang. Detesto gli oggetti inutili, che a casa mia – nonostante ve ne siano ancora troppi – non entrano più da anni. Evito dunque di alimentare l’industria idiota e ambientalmente insostenibile della cinese Yiwu “capitale mondiale del ciarpame”. Ho troppe cose più importanti da fare che trastullarmi con il “babbo natale che suona il sassofono”: meglio guardare le nuvole o leggere Seneca. Riciclo le lattine di birra e le bottiglie di plastica. Nel mio comune è attiva la raccolta differenziata porta a porta. So cosa vuol dire lo smodato consumo di acqua: la zona montuosa dove abito d’estate è arida ed esposta a sud, la cisterna per la raccolta dell’acqua piovana che ho fatto installare non basta mai, e ad agosto è tristemente vuota. Conscio del picco del petrolio e dei danni inflitti alle regioni di estrazione, ho installato una caldaia a gas a condensazione integrata da pannelli solari termici, e d’inverno lascio la temperatura di base in casa a 16 °C, portandola a 20 nelle stanze dove vivo di più tramite una efficiente stufa a legna a combustione inversa. Pearce consuma oltre 2500 metri cubi di gas all’anno, io quasi dieci volte di meno. Ma in effetti lui ammette che la sua casa è un colabrodo energetico, io ho fatto l’isolamento termico del tetto e ho messo i vetri doppi basso emissivi (sui quali lui è scettico sostenendo che l’alluminio dell’infisso consuma più di quanto il vetro camera renda, ma non è così, perché l’alluminio un domani sarà riciclato; in ogni caso io ho scelto il serramento in legno). L’elettricità di casa mia, compresa quella che fa funzionare il pc su cui sto scrivendo, è interamente prodotta da un impianto fotovoltaico da 1,8 kW di potenza di picco: in un anno produco più di quanto consumo. Pearce dice che la produzione di celle fotovoltaiche è energeticamente sfavorevole: non è più così da tempo, attualmente l’investimento energetico dei pannelli viene recuperato in due anni con una vita produttiva di circa 30. Capisco che non si possa essere informati e aggiornati su tutto, ma questo

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è anche un monito: quelli affrontati da Pearce sono temi complessi e in rapido divenire, l’importante è porsi le giuste domande e andare a caccia delle giuste risposte, evidentemente variabili nel tempo secondo i nuovi sviluppi tecnologici o i nuovi disastri ambientali. Non riesco a fare a meno dell’auto come Pearce, ho una vecchia auto a gasolio, Euro 2, ma con buona manutenzione dopo 350.000 chilometri mi fa ancora 18 chilometri con un litro. Cambiarla sarebbe peggio: ci sarebbe da metter in conto tutta l’energia e le materie prime per la costruzione di una nuova auto che peserebbero troppo. Ho deciso dunque che la porterò a fine vita, dovrà cadere il motore perché la cambi. Uso spesso il treno per muovermi, anche se vedo che i calcoli sulle emissioni per passeggero/chilometro sono spesso poco veritieri e vi sono treni tutto fuorché ecologici, come quelli ad alta velocità, ai quali mi oppongo optando per un miglioramento del servizio diffuso. Da sempre ho avuto un orto a disposizione, ora i miei 200 metri quadrati di terra che coltivo con mia moglie sono una miniera di verdure ottime e a bassissimo impatto ambientale. I rifiuti organici vengono in parte smaltiti dalle mie tre galline e in parte producono compost per concimare. Sono d’accordo a esprimere ottimismo verso l’agricoltura artigianale che in tutto il mondo dimostra di saper integrarsi con le esigenze del territorio, come predica il mio amico Carlin Petrini che a 70 chilometri da casa mia ha fondato Slow Food. Però attenzione alle soluzioni troppo facili: l’agricoltura artigianale e l’autoproduzione, da sole difficilmente potrebbero nutrire 7 miliardi di umani affamati. I numeri sono numeri e le illusioni da giornalista sono pericolose. Sono processi che necessitano di un grande apporto di inventiva e di ricerca scientifica. Non mi fa paura un’Italia con basso tasso di fecondità, mi fa paura il contrario, un’Italia sovrappopolata, con 60 milioni di persone su 300.000 chilometri quadrati di territorio, in gran parte montuoso: abbiamo solo 5000 metri quadrati di suolo a testa, meno di un campo da calcio. Qui Pearce semplifica di nuovo eccessivamente, sottovaluta il problema demografico ritenendo che ormai tutti i popoli stiano diminuendo il loro tasso di fertilità e dopo un ulteriore aumento – si ritiene a 9 miliardi per il 2050 – la popolazione mondiale andrà naturalmente a declinare. In un mondo dove l’impronta ecologica supera già oggi le potenzialità planetarie, l’ottimismo di Pearce è per me spostato di un cinquantennio: vedremo cosa sarà restato allora delle risorse del pianeta!


parte prima a mo’ di introduzione


1. impronte: io

e le mie cose

Viviamo in un mondo incantato. Se abbiamo i soldi, possiamo comprare qualsiasi cosa. La maggior parte di noi ha un tenore di vita impensabile solo una o due generazioni fa. Uno scienziato che ho incontrato qualche tempo fa mi ha detto di aver calcolato che la casalinga media, europea o nordamericana, possiede così tanti elettrodomestici e una varietà di cibo e vestiti tale che al tempo degli antichi romani, per riprodurre lo stesso stile di vita, sarebbero stati necessari 6.000 schiavi – cuochi, camerieri, giullari, addetti alle ghiacciaie, taglialegna, ragazze con ventagli e molti altri ancora. Così ho iniziato a pensare alle statistiche. Secondo lo scienziato, ci affidiamo a macchinari e all’energia a prezzi convenienti per svolgere quei lavori che una volta gli schiavi eseguivano per un’élite, mentre il resto della popolazione ne faceva a meno. Naturalmente, non è tutto così semplice. Ogni cosa comporta conseguenze a livello ecologico. Deprediamo la Terra per trovare i materiali necessari per costruire questi macchinari e l’energia a basso costo che li fa funzionare inquina il nostro pianeta e riscalda il nostro clima. Inoltre, esistono ancora molti schiavi; solo che ora, invece di vivere in edifici grandiosi, sono sparsi per il mondo a coltivare il nostro cibo, a costruire i nostri macchinari e a cucire i nostri vestiti. Si parla tanto dell’impronta del carbonio, ma l’impronta di ognuno di noi è molto più grande, sia dal punto di vista sociale sia da quello ecologico. Il guaio è che, nel nostro mondo incantato, sappiamo poco sulla natura delle nostre impronte. Succede tutto in luoghi così lontani. Le persone e l’inquinamento che rendono possibile il nostro stile di vita rimangono per noi invisibili. Io voglio che tutto ciò cambi. Scopo di questo libro è scoprire il mondo nascosto che ci permette di portare avanti il tenore di vita a cui siamo abituati. Per farlo, ho esplorato i confini della mia impronta individuale.


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Ho viaggiato in tutto il mondo per scoprire da dove vengono il cotone della mia maglietta, il caffè nella mia tazza, i miei scampi al curry, il computer sulla mia scrivania, il telefono che tengo in mano e tanti altri oggetti. Volevo conoscere chi coltiva o estrae o fabbrica i miei oggetti, volevo scoprire dove vanno a finire una volta gettati, e capire se avrei dovuto vergognarmi dei miei acquisti e del loro impatto sul pianeta o se avrei potuto essere fiero di aver contribuito ad aiutare alcune economie locali sostenendo delle comunità in difficoltà. Ho cercato di non selezionare e programmare troppo attentamente i miei viaggi. Mi sono limitato a scegliere quelli che sembravano più interessanti. Ho deciso che non avrei cambiato il mio modo di vivere per evitare di provare imbarazzo. Queste confessioni sono sincere, e spero che questo viaggio verso le origini della mia impronta aiuti i miei lettori a capirne di più a proposito della loro. Ho calcolato di aver percorso circa 180.000 chilometri, visitando più di 20 paesi. Questo viaggio mi ha portato alla fine della strada in cui abito e ai confini del nostro pianeta, nelle foreste pluviali africane e nei deserti dell’Asia centrale, nelle aziende che sfruttano i lavoratori del Bangladesh e nelle fabbriche cinesi di computer, nei bordelli di Manila e nelle favelas di Rio, in cima alle montagne, nella tundra artica, nelle zone di pesca dell’Oceano Atlantico e nelle viscere della Terra. Lungo il cammino, ho incontrato uno stupefacente spaccato degli oltre 6 miliardi di persone con cui condividiamo il pianeta, fra cui pochi fra i più ricchi e molti fra i più poveri. Tutto ciò mi ha fatto riflettere sul passato e sul futuro tanto della nostra specie quanto del nostro pianeta e, cosa più sorprendente, mi ha lasciato un senso di ottimismo riguardo l’umanità e il grande potenziale che essa possiede di creare un futuro migliore. È facile rimanere sconvolti dalle stranezze dell’umanità: le tribù che vivono in giungle remote e le sette urbane, i terribili regimi della Corea del Nord, del Myanmar e di altri paesi, i fanatici e i visionari, i signori della guerra e i malviventi, l’oscena ricchezza dei super ricchi e lo stato miserevole dei super poveri e dei malati di Aids. Tuttavia, nei miei viaggi ho incontrato soprattutto la normalità, fatta di miliardi di persone comuni: povere, ma non ridotte alla fame; poco o per niente istruite, ma non prive di educazione. Questo libro è il risultato di questi incontri, una cronaca dell’umanità rappresentata dalle persone che


parte prima | a mo’ di introduzione

producono, fabbricano e smaltiscono gli oggetti che utilizzo e consumo nella mia vita di tutti i giorni. Però, prima di continuare, vorrei interrompermi un attimo e descrivere questa strana specie, l’Homo sapiens, che ha così perentoriamente conquistato la Terra. Ho compilato un elenco di cose che accomunano più di un miliardo di persone e sono rimasto colpito sia dalle cose che condividiamo sia da quelle che ci dividono. Eccolo qui, dunque, l’Homo sapiens del 2008, in tutto il suo splendore e la sua follia. Per esempio, un miliardo di persone guida un veicolo; un altro miliardo possiede telefoni cellulari; un miliardo parla inglese e un altro miliardo mangia riso ogni giorno; un miliardo di persone non possiede un bagno con acqua corrente. Alcuni di noi condividono più di uno di questi attributi. L’umanità sembra una versione gigantesca di un diagramma di Venn* con insiemi interconnessi che mostrano le nostre differenze e le nostre somiglianze. Un miliardo di persone vive in baraccopoli, un altro ha accesso a Internet, un altro sono indiani, un altro tifa per una squadra di calcio, un altro vive a meno di un chilometro da dove è nato, un altro beve caffè, un altro possiede un televisore, un altro non ce la fa a mantenere la sua famiglia. Un miliardo di persone si è trasferito da un paesino alla città, un altro è musulmano, un altro ha la pressione alta, un altro usa regolarmente contraccettivi, un altro dipende dal pesce come principale fonte di proteine, un altro indossa scarpe da tennis, un altro è analfabeta. Un miliardo di persone è agnostico, un altro cucina su fuochi a legna, un altro possiede una bicicletta, un altro ha sentito parlare di Muhammad Alì, un altro alleva polli, un altro è indebitato con un usuraio, un altro non mangia mai prodotti caseari, un altro non possiede magliette e un altro non ha l’elettricità in casa. Tutte queste statistiche mi hanno restituito un’immagine caleidoscopica dell’Homo sapiens. Siamo la razza arcobaleno. Un miliardo di persone è salito almeno una volta su un autobus, un altro è malnutrito, un altro va a scuola, un altro non possiede l’acqua corrente in casa. Un miliardo di persone ha un’età inferiore ai 10 anni, un altro è circonciso, un altro

* Un diagramma di Venn è la rappresentazione grafica di un insieme che consiste nel racchiuderne gli elementi all’interno di una linea chiusa non intrecciata. Gli elementi dell’insieme vengono evidenziati con punti interni alla linea, gli elementi che non appartengono all’insieme con punti esterni a essa, ndR.

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indossa jeans, un altro possiede un frigorifero, un altro fuma sigarette, un altro è portatore del batterio della tubercolosi, un altro mangia le banane, un altro possiede dell’oro, un altro va in ferie ogni anno, un altro va al cinema, un altro paga un affitto, un altro vive con meno di un dollaro al giorno. Un miliardo di persone beve Coca Cola, un altro sta per divorziare, un altro ha sentito parlare di David Beckham, un altro è cattolico, un altro vivrà più di 60 anni, un altro è sovrappeso, un altro è cinese, un altro mangia pane ogni giorno, un altro assume meno proteine di un gatto domestico occidentale. Spero che questa diversità comune emerga in tutti i capitoli del libro. Tuttavia, allo scopo di sottolinearla ho inframmezzato i principali capitoli con brevi ritratti di sei persone particolari che ho incontrato durante i miei viaggi e che più di altri sembravano evidenziare come siano davvero pochi quelli di noi che si identificano con categorie nette. All’esistenza di alcuni di loro non avrei mai creduto se non li avessi incontrati. Sei, in rappresentanza di sei miliardi. Uno su un miliardo. Ho promesso che si sarebbe trattato di un viaggio personale. Quindi, permettetemi di presentarmi e, ancora più importante, di presentare gli oggetti che mi hanno accompagnato. Sono un giornalista cinquantenne, sposato con figli ormai adulti; vivo a Londra e lavoro da casa. La maggior parte delle mattine mi sposto nella camera sul retro e accendo il mio computer. Scrivo di ambiente e sviluppo nel mondo e, per svolgere il mio lavoro, viaggio molto. Ciò è un male per la mia impronta del carbonio, ma non credo che si possa conoscere e raccontare il mondo standosene immersi in una realtà virtuale. Il mondo è molto più bizzarro e sorprendente, e spesso più felice e positivo, di quanto si immaginerebbe leggendo e guardando i notiziari, e questo l’ho scoperto soprattutto seguendo la mia impronta individuale. Ho scoperto che, a volte, la mia impronta potrebbe essere veramente virtuosa. Un giorno, mentre stavo preparando l’elenco dei luoghi in cui avrei dovuto viaggiare per scrivere questo libro, ho ispezionato casa mia per scoprire l’origine delle cose che possiedo. È stato uno shock capire fino a che punto sono diventato un consumatore globalizzato. Quando esco per fare acquisti, sono una persona che si contiene, che si chiede se realmente desidera una cosa e se il prezzo non sia eccessivo; a volte, decido semplicemente che non mi va di sobbarcarmi la fatica di portare a casa la merce. Eppure, è stato impressionante constatare come, nel corso di una vita


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e dopo un paio di viaggi in uno dei supermercati Sainsbury’s, io sia riuscito a raccogliere una così grande quantità di cose provenienti dai luoghi più disparati. Il posto più ovvio da dove cominciare è stata la credenza. C’erano noci del Brasile e bottiglie di acqua minerale scozzese; sardine inscatolate in Portogallo e un barattolo di alici dalla Spagna; polpa di pomodori italiana e maionese francese; farina d’avena di Oldham e mostarda di Digione; caffè della Tanzania, marmite* del Sussex e zuppa di una fattoria di Peterborough; chutney di mango dell’India, zucchero semolato delle Mauritius e cocco disidratato delle Filippine. In alcuni barattoli sul fondo ho trovato basilico secco egiziano e salvia turca; fecola di maranta tailandese e pepe della Giamaica; citronella malese e galangal cinese; noce moscata di Granada, zafferano spagnolo e un sacchetto di pepe bianco comprato anni prima al mercato di Kuching, Borneo. E ancora: noci dalla Cina, papadom da Mumbai, chiodi di garofano dall’Indonesia, origano dalla Turchia, vaniglia dal Madagascar, cardamomo e zenzero dall’India. Inoltre, olio d’oliva spagnolo e pasta italiana, datteri iraniani e foglie di alloro provenienti da... un’enorme pianta che cresce nel nostro giardino posteriore. Nella fruttiera, pompelmi della Florida, mandarini dell’Argentina, banane del Costa Rica, pesche noci della Spagna e mele della Nuova Zelanda. Nell’altra credenza, pane fatto con farina proveniente dal Gloucestershire, miele da api messicane e marmellata preparata da mia moglie con le arance di Siviglia; birra prodotta da monaci belgi, da birrai in pullover del Dorset e dalla più antica fabbrica di birra del paese, immersa nei campi di luppolo del Kent. C’erano diverse bottiglie dei miei whisky di malto preferiti provenienti dalle Ebridi e alcuni liquori dei Paesi Bassi, che stavano lì, ancora chiusi, da vent’anni. Nel frigorifero peperoni rossi olandesi, parmigiano italiano e “la marca di formaggio più venduta al mondo”, preparata nelle brughiere di Bodmin Moor con latte della Cornovaglia, cetrioli dall’Essex e lattuga dal Cambridgeshire. Burro e margarina sarebbero potuti venire da qualsiasi posto. Nella stanza da bagno, ho scovato un olio per massaggi ai chiodi di garofano di Zanzibar, un altro olio alla citronella cinese, uno ricavato da un

* Uno dei prodotti inglesi più popolari, a base di estratto di lievito ottenuto dal processo di produzione della birra e molto usato come pasta da spalmare sui toast, ndT.

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albero del tè che cresce nell’entroterra australiano, oltre a una serie di bottiglie di lozioni e linimenti acquistati al Body Shop e da Boots, privi però dell’indicazione di provenienza (Mr. Boot, da quale miniera proviene precisamente il suo talco? Perché ci sono miniere veramente pericolose, ne è al corrente?). Nel mio studio, ho esaminato una cartella in pelle molto bella, che mia moglie mi ha regalato lo scorso Natale; è stata confezionata a Chennai, India, da Dilip Kapur, un bambino originario dell’ecovillaggio chiamato Auroville. Computer, stampante e telefono sono stati prodotti da aziende di Taiwan che utilizzano la manodopera a basso costo della Cina continentale; la carta per la stampante viene dalla Slovacchia. Un controllo casuale tra i libri sugli scaffali mi ha permesso di scoprire che sono stati stampati in Inghilterra, India, Hong Kong, Danimarca, Stati Uniti e Italia. In giro per casa, altre tracce dei miei viaggi precedenti: un panama dall’Ecuador, una sciarpa di seta dalla Russia, un dragone di carta dalla Cina, un orso polare di plastica dall’Alaska, un coccodrillo fatto di una sostanza brasiliana simile alla gomma, un piccolo Buddha dall’India, un mazzo di tesserini sovietici con l’immagine di Lenin, vari ventagli giapponesi e un ornitorinco di legno fatto a mano, portato a mia figlia dal Queensland. Nel mio armadio, magliette dalle Mauritius, Indonesia, Marocco, Cambogia, Stati Uniti e Hong Kong, oltre a un paio di vestiti coloratissimi, ricordo dei viaggi in Cina e Ghana e mai indossati. C’erano anche un maglione, un po’ bucato, fatto a mano da una donna incontrata nelle isole Falkland, un kimono giapponese, una tuta da lavoro dell’esercito russo e un cappello realizzato con sacchetti di plastica da un’anziana donna di una bidonville del Sudafrica. In salotto ho piazzato una stuoia egiziana, uno sgabello ashanti dal Ghana e la statua in legno di uno spirito intagliata da una colonia di artisti in Nigeria. Nella stanza sul retro, un tappeto proveniente dalla Giordania e una panca di mogano che avevamo portato via da un appartamento che avevamo affittato. Un flauto d’argilla e un tamburo rappresentano gli unici sopravvissuti di un gruppo di oggetti d’arte che nel 1984 ho acquistato in Messico a un prezzo irrisorio. Nell’ingresso, il campanaccio di una mucca di Auvergne in Francia, che utilizzavo come gong per i pasti. Sinceramente, il nostro mobilio è un po’ semplice, comprato qua e là, ma possediamo un tavolo da cucina proveniente da un ospizio vittoriano dalle parti di Battersea, un tavolo a ribalta forse ancora più antico, regalo di


parte prima | a mo’ di introduzione

nozze di mio padre, e una solida scrivania in faggio nel mio studio. Abbiamo anche un pianoforte, fabbricato a Londra intorno al 1890 da un’azienda di nome Philips, Cambridge & Co., che non compare negli attuali elenchi di fabbricanti di pianoforte. Il nostro accordatore afferma che non vale la pena accordarlo, ma continua a farlo comunque. Non siamo sicuri che il legno sia palissandro o mogano, ma sicuramente i tasti sono d’avorio, probabilmente arrivato dall’Africa centrale all’epoca della più grande carneficina di elefanti mai vista. Durante il decennio del 1890, la Gran Bretagna importò infatti 500 tonnellate di avorio all’anno, causando la morte di circa 15.000 animali. Esistono altri oggetti sulla cui moralità e legalità nutro forti dubbi. In un armadio ho riposto due piccoli sacchetti di pelle di foca, donatimi durante un viaggio in Siberia. Possediamo insalatiere di tek burmese e posate da insalata risalenti all’epoca dell’apartheid in Sudafrica. Anche la provenienza di alcuni arredi da giardino è dubbia; di sicuro, dato che lo ha scolpito il cugino di mia moglie, il leone in pietra è fatto con un blocco di calcare di Cotswold. Il rivestimento dei nostri mobili da cucina assomiglia terribilmente a un pezzetto di legname tagliato illegalmente in Nuova Guinea e datomi da Greenpeace. Ho pensato anche agli oggetti che buttiamo. Cosa accade al contenuto del mio secchio della spazzatura, per esempio? Dove vanno a finire le nostre fognature? Gli oggetti che getto nei cassonetti per la raccolta differenziata presenti nel parcheggio di Sainsbury’s vengono veramente riciclati? I cartelli sui cassonetti mi lasciano perplesso; uno dice OGNI TONNELLATA DI CARTA RICICLATA SALVA IN MEDIA 15 ALBERI: in che senso “salva”? Qualcuno sa veramente cosa succede alla carta che infilo nel cassonetto? Riciclare una bottiglia o un barattolo di vetro consente di risparmiare l’energia necessaria ad “alimentare un televisore per 20 minuti”: in che modo? 25 bottiglie di plastica “producono una giacca di pile”, ma io credevo che tutta la plastica gettata andasse a finire in Cina. Come fanno a sapere cosa le accade una volta arrivata lì? Donare la cartuccia della stampante laser “contribuirà a salvare piccole vite”, fornendo denaro contante per “Tommy’s, l’ente di beneficenza per i bambini”. E chi è? Non posso affermare di essere giunto alla fonte o alla destinazione di tutti questi oggetti. Avrei impiegato una vita intera, e ne ho una sola da vivere. Tuttavia, la mia ricerca si è concentrata su alcuni degli oggetti più significativi e, spero, interessanti della mia vita. Sin dall’inizio sono stato determinato a far sì che il viaggio fosse incentrato tanto sulle persone

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confessioni di un eco-peccatore

quanto sull’ecologia. Quali che siano i lati negativi della globalizzazione, uno di quelli positivi consiste nel fatto che essa ci fa entrare in contatto con molte persone in molti luoghi diversi. Di solito, questi collegamenti sono nascosti, ma il mio viaggio li porterà alla luce.


Da dove vengono i prodotti che acquistiamo ogni giorno? Chi li ha fatti, e con quali costi per l’ambiente? Che cosa gli succede dopo che vengono buttati? Per rispondere a queste domande Fred Pearce, uno dei più quotati giornalisti ambientali del mondo, ha viaggiato in più di venti paesi per conoscere le persone e i luoghi da cui provengono le cose che usiamo quotidianamente. Dalle miniere d’oro del Sud Africa agli allevamenti di gamberi in Bangladesh, dalle fabbriche di giocattoli cinesi ai campi di cotone in Australia, Pearce indaga sugli aspetti economici, ambientali e morali di quel gigantesco processo chiamato “globalizzazione”. Ne emerge un quadro spiazzante, che mette in discussione luoghi comuni e presunte verità care a una parte del pensiero ambientalista, e indica soluzioni possibili ai grandi problemi della nostra epoca. Riscaldamento globale, problema demografico e crisi energetica: Pearce sottolinea come ciascuna di queste sfide possa essere vinta servendoci di ingegno, capacità di adattarci e fiducia, le nostre qualità più preziose.

22,00 euro 978-88-96238-24-0

CONFESSIONI DI UN ECO-PECCATORE

Prefazione di Luca Mercalli

confessioni di un eco-peccatore

“Un libro splendido. Fred Pearce è uno dei pochi che capisce la Terra per come è realmente: dobbiamo ascoltarlo tutti.” James Lovelock

FRED PEARCE

Fred Pearce

Fred Pearce , vive a Londra ed è il consulente ambientale di New Scientist. Collabora regolarmente con The Independent, The Guardian e con London Daily Telegraph e ha scritto svariati rapporti per l’UNEP, la Banca Mondiale e per l’Agenzia europea per l’ambiente. Nel 2001 è stato nominato giornalista ambientale dell’anno in Gran Bretagna. È autore di tredici libri, tra cui Un pianeta senz’acqua. Viaggio nella desertificazione contemporanea (il Saggiatore 2006). Tiene una rubrica dedicata al greenwashing sulla rivista Internazionale.

Cibo, abiti, telefoni, computer, giocattoli, aerei, automobili... L’elenco è sconfinato, e comprende quasi tutte le cose che mangiamo, beviamo o di cui facciamo uso ogni giorno. Di rado però ci fermiamo a considerare il fatto che ognuno di questi prodotti ha una storia che precede e segue l’intervallo, più o meno breve, durante cui ce ne serviamo, e che questa storia è spesso intrecciata con sovrasfruttamento delle risorse, inquinamento e ingiustizie sociali. Confessioni di un eco-peccatore ricostruisce i contesti da cui vengono gli oggetti che affollano le nostre vite e il risultato, come sempre succede quando ci si mette di mezzo Pearce, è spiazzante. Se è vero che avidità ed egoismo sono diffusi a ogni latitudine, è altrettanto vero che la creatività e la determinazione di milioni di uomini e donne riescono a infondere ottimismo anche al più scettico degli eco-peccatori.

Viaggio all’origine delle cose che compriamo Edizioni Ambiente

Questo volume è a Impatto Zero®, ridotte e compensate le emissioni di CO2


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