Cambiamenti climatici racconti
Il concorso I cambiamenti climatici - The grand challenge è stato realizzato da Shylock Centro Universitario Teatrale e Comete con la collaborazione di:
Centro Euro-Mediterraneo per i
Cambiamenti Climatici
e con il patrocinio di: CITTA’ DI VENEZIA
Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici Assessorato all’Ambiente e Città sostenibile
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sfumature
Cambiamenti climatici. Racconti a cura di Bianca Nardon © 2012 Libreria Editrice Cafoscarina ISBN: 978-88-7543-313-0 Immagine in copertina: Dhaka, Bangladesh. Foto scattata il World Habitat Day 2011 © Safin Ahmed/Demotix/Corbis Libreria Editrice Cafoscarina srl Dorsoduro 3259, 30123 Venezia www.cafoscarina.it Tutti i diritti riservati. Prima edizione febbraio 2012
Alla Terra e agli esseri che giĂ attraversano gli effetti del cambiamento
Indice
Carlo Carraro Premessa
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Luca Mercalli Prefazione
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Bianca Nardon Nota introduttiva
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RACCONTI Maria Francesca Silvestre Quello che resta
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Nicola Tonelli Stabat mater
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Cristina Barberis Negra Vento da sud
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Silvia Maltagliati Niente è cambiato Francesco Grasso La rocca del ciclope
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Danilo Zagaria Singolo impegno collettivo
83
Lorenzo Mandelli Il ragno e la tigre
97
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Gigi Dal Ponte Brioches
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Leandro Miglio Poche api
133
Wanda Scuderi Forse‌
145
Luciano Canova I ghiacci di Soren
161
Marta Coghetto I fiori sepolti
167
Italo Grassi I pellegrini del freddo
181
Gli autori
199
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Leggere i cambiamenti climatici attraverso i racconti. È uno dei modi per parlare di un tema di grande attualità e di grande importanza per tutti noi e per le generazioni del futuro, ma che spesso appare lontano nel tempo, oppure troppo tecnico, per coinvolgere il grande pubblico. Mentre invece il tema è drammaticamente di attualità, ed è importante trovare un approccio coinvolgente ed interessante anche per chi non è un esperto. Un approccio di questo tipo quindi fa la differenza perché ciascuno si assuma realmente le proprie responsabilità e contribuisca, dal basso, a modificare un processo di crescita altrimenti potenzialmente catastrofico. Accordi internazionali, incontri al vertice, discussioni tra esperti o protocolli d’intesa mondiali, sono passaggi importanti. Ma non è solo attraverso questo percorso che si può pensare di contrastare o controllare i cambiamenti climatici. I gravi problemi connessi al mutamento climatico non sono dietro l’angolo, ma ci aspettano poco più avanti. Per questo è necessaria una serie di azioni che sono possibili solo se ciascuno di noi fa la propria parte. L’Università Ca’ Foscari ha deciso di investire sulla sostenibilità in tutte le sue accezioni, inserendo nelle sue pratiche comportamenti che favoriscano la riduzione dell’impatto ambientale e stendendo assieme al Ministero dell’Ambiente un protocollo sul carbon management che è diventato punto di riferimento per tutti gli atenei italiani interessati ad adottare questo tipo di best practices. Cito questi come esempi per sottolineare come è indispensabile che ciascuno si impegni nell’ambito di propria competenza. E realiz-
zi piccole o grandi iniziative per contribuire ad uno sforzo che è necessariamente collettivo e per un bene comune. Questo libro è un tassello di questo mosaico. In realtà rappresenta una serie di tasselli perché è il frutto di un lavoro articolato che parte da un concorso letterario dedicato al tema dei cambiamenti climatici e arriva fino a questa piccola antologia che raccoglie alcuni dei migliori testi candidati. I racconti pubblicati sono in effetti solo una parte degli oltre ottanta lavori arrivati da tutta Italia. Ciascuno è il pezzo di un puzzle che va composto con il contributo di tutti. È un lavoro che ha il merito di affrontare il tema dei cambiamenti climatici da un punto di vista maggiormente divulgativo, più accattivante e di più largo interesse rispetto a quello strettamente e formalmente scientifico. I racconti proposti sono un ottimo modo per regalarsi qualche ora di piacevole lettura costruttiva. Capace di far riflettere. E di innescare positive reazioni a catena. Carlo Carraro Rettore Università Ca’ Foscari
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Sono una bella sorpresa questi racconti presentati al Concorso Letterario dal tema “I cambiamenti climatici”. Non importa se in qualche dettaglio traspare un’imprecisione scientifica piuttosto che un’ingenuità letteraria. Perché sono prima di tutto racconti consapevoli, ed è questo che importa. Dimostra che gli autori hanno colto la sfida epocale alla quale l’uomo si va confrontando, e ne indagano soprattutto i tormenti emotivi, i conflitti individuali e collettivi: sono pagine che riguardano più l’antropologia che i fatti del cambiamento climatico. C’è in tutte queste esperienze narrative una prevalente vena di frustrazione: quasi sempre i protagonisti sono vittime di un mondo sfigurato dal mutamento climatico al quale si devono adattare con tristezza, rassegnazione e sofferenza, ricordando un passato di avvertimenti sottovalutati e prevenzione inattuata. È un sentimento del tutto giustificato in quanto emerge da un mondo attuale dove la priorità assegnata a questi temi nella politica, nel dibattito intellettuale e nell’informazione, è scarsa. Il rischio climatico e ambientale, di cui si sente parlare in sottofondo da anni, è ormai divenuto uno dei tanti problemi non risolti con cui si convive quotidianamente quasi sperando non sia più importante di altri. Tanto riguarda il futuro, e c’è sempre qualche cosa di più pressante di cui occuparsi! Tra i tredici racconti selezionati emergono ricorrenti citazioni dai classici della fantascienza, come il cibo sintetico Soylent che appare nel film “2022: i sopravvissuti” (1973) ripreso da Cristina Barberis Negra con il Littlefood nel suo “Vento da Sud”, e da Wanda Scuderi con il Carotalit in “Forse…”.
Ci sono scenari post-apocalittici infestati da bande armate come ne “La rocca del Ciclope” che Francesco Grasso ha ambientato in Calabria, ci sono analisi realistiche del boom economico e delle sue conseguenze positive e negative nella campagna veneta, come ha documentato Nicola Tonelli in “Stabat Mater”, e una reminiscenza di “Primavera silenziosa” della Carson che Leandro Miglio cosparge in “Poche api”. Ma due racconti mi hanno particolarmente colpito. Uno è “Niente è cambiato” di Silvia Maltagliati: con intima delicatezza vi è tratteggiata la figura di una giovane biologa marina, Rigel, che si lascia vivere in rassegnata solitudine nel panorama di un’afosa città del futuro in preda ai blackout da condizionatori, lavorando stancamente in un’agenzia viaggi, con la sensazione di “sprecare la vita”. Poi un messaggio da un amico studente di geologia che individua un granchio boreale in una grotta dove non dovrebbe stare, risveglia in Rigel passioni ed entusiasmi. Un trascurato manuale di oceanografia rimette in moto la curiosità scientifica sopita, Rigel ha la sensazione di “rituffarsi in un mare noto e calmo che lenisce i dolori della mente”. Pianta il noioso lavoro dell’agenzia di viaggi e un mese dopo è su una nave a cercare nell’oceano le risposte ai grandi cambiamenti climatici sentendosi parte del fluire del cosmo, del suo passato e del suo futuro. L’altro racconto che mi ha messo in risonanza è “Brioches” di Gigi dal Ponte. C’è un Luca “che sa di meteorologia e glaciologia e ama il suo Piemonte” e che si occupa delle implicazioni paleoclimatiche del ritrovamento della mummia Oetzi al ghiacciaio del Similaun. Non ho potuto fare a meno di sentire una certa affinità… C’è una conferenza di James Hansen al Politecnico di Milano, che parla di forzanti climatiche in occasione della presentazione in Italia del suo libro “Tempeste. Il clima in eredità ai nostri nipoti 12
e l’urgenza di agire”. Ci ho scritto la prefazione per quel libro… Poi c’è la sorella di Luca, Sina, che – attivista ambientale – è recentemente andata in Val di Susa alle manifestazioni contro la nuova linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione. Il 3 luglio 2011, al grande corteo di 70.000 persone presso il cantiere della Maddalena di Chiomonte (che è un villaggio neolitico di duemila anni precedente a Oetzi, ora calpestato dai mezzi blindati!) dove Sina viene intossicata dai lacrimogeni all’orto-clorobenziliden-malononitrile, c’ero anch’io. La limpida sintesi sull’inutilità e i danni indotti della grande opera che viene proposta nel racconto, mi sorprende per correttezza e rigore. I dati scientifici che scoraggiano la costruzione di queste infrastrutture affette da gigantismo non vengono considerati come chiede invece la gente che protesta, e hanno anche a che fare con il clima: oltre all’improponibile modello economico espansivo su cui si basa, il progetto Tav mostra un bilancio energetico disastroso. Ebbene, la conclusione del racconto è che alle forzanti climatiche di Hansen tocca aggiungere l’indifferenza e la corruzione. Ma proprio come Hansen si è fatto arrestare negli Stati Uniti durante una manifestazione contro il carbone, così lotte come quella contro il Tav in Valsusa possono rappresentare la forzante positiva di cui abbiamo più bisogno: la resistenza civile. Ecco, questi due racconti mi sembrano ben riassumere la tensione emotiva di cui soprattutto gli studenti dell’Università di oggi possono e devono nutrirsi: lo stupore e la meraviglia per l’indagine scientifica, che rigenera Rigel dal male di vivere e le dona una ragione profonda di esistere e di lavorare per capire dove va il mondo, e la necessità di fondare una nuova politica a partire da una militanza consapevole, rigorosa e determinata come quella di Hansen e di Sina. 13
Affinché il “Singolo impegno collettivo” del racconto di Danilo Zagaria possa aiutare i pinguini “pellegrini del freddo” di Italo Grassi a esaudire la loro richiesta: “che il freddo rimanga sulle labbra di questo oceano, nel grembo nevoso di queste coste, nell’anima sommersa dei ghiacciai dell’Antartide”. Luca Mercalli Presidente Società Meteorologica Italiana
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Stabat mater Nicola Tonelli
Sto aspettando Marina seduto al tavolo del cucinotto. Mi ritrovo sempre in questa stanza, piccola come una cella. Un bicchiere d’acqua in mano e la certezza che non c’è altro da fare. Dopo quello che farò non sarà più come prima, ma questo è un bene per tutti. L’orologio indica che mezzanotte è passata da pochi minuti, e il vetro della finestra rimanda l’immagine del mio viso. Sono stanco di non poter contare le stelle. Demetra La prima volta che la sentii respirare ero sdraiato su una distesa di papaveri, quelli rossi che nei mesi caldi riempivano i campi di casa mia. Avevo undici anni e ero con Giulia, la mia amica del cuore. Avevamo fatto una corsa a chi arrivava prima alla grande quercia. Aveva vinto lei per un filo d’erba messo di traverso. La quercia era là, da prima che io nascessi e prima che nascesse mio padre e il nonno di mio padre. Era stata ferita da un fulmine, squarciata e mutilata, ma con i suoi rami era tenace e non voleva lasciarsi morire. Con il cuore a mille e il respiro che annaspava mi ero gettato a terra e fu allora che lo sentii. Era simile a un soffio di vento, appena percettibile, anzi, per chi stava in piedi come Giulia non lo poteva nemmeno avvertire perché si confondeva con gli altri rumori della natura che erano tanti in quel pomeriggio d’inizio estate. Trattenni il fiato perché avevo paura fosse il mio respiro affannato. Invece continuai a percepire quell’alito. Dava
pace e guardando le nuvole bianche che passavano, pensai a quanto ero fortunato. E non era neppure il vento che soffiava tra le foglie. Era un respiro che veniva dal profondo. Stavo bene. La sensazione era che nulla mi potesse accadere e sperai di unirmi ai fili d’erba che mi stavano attorno. Dài pulce, disse Giulia, vediamo se riesci a battermi a sputi. Lei era un maschiaccio, sfidava i ragazzi più grandi, quelli che già andavano a scuola in autobus. Correva a piedi nudi perché, diceva, la terra è più calda di un paio di scarpe fatte di pelle morta. Quel pomeriggio d’estate sentii il respiro della Madre Terra ma non lo dissi a nessuno, neppure a Giulia. Era la stessa sensazione che provavo quando in vasca andavo sott’acqua: una pace ovattata. Mi sentivo protetto come in un marsupio. Forse il piccolo canguro, quando guarda il mondo dalla sacca della madre, si sente proprio così: senza paura e sicuro che non gli potrà accadere nulla. Quella fu una bella estate. Cercai di tornare ogni giorno in quel campo di papaveri e, per qualche minuto, mi sdraiavo e rimanevo immobile. Tenevo gli occhi aperti perché era una bella sensazione vedere l’azzurro del cielo e i cumulonembi passarmi sopra. In quei momenti era come una mamma segreta che mi consolava per un brutto voto o perché la compagnia dei gemelli mi aveva escluso dalla banda. Nulla ti può accadere, sembrava sussurrasse, ci sono io che ti proteggo. E mi fondevo con cielo e terra fino a essere un tutt’uno. Per un attimo, solo un attimo però, pensai d’essere matto; come il vecchio Giovanni che parlava da solo e scarabocchiava su un taccuino tutto il giorno. Quell’estate Giulia mi dette il primo bacio in un pomeriggio di sole, con le cicale che frinivano e il vento che accarezzava gli alberi. 32
Ancora oggi mi chiedo perché ci tenesse così tanto a me, in fin dei conti ero timido come un caprone, e magro che si potevano contare le costole. Ogni mattina mi guardavo allo specchio per cercare qualche muscolo cresciuto di notte, ma trovavo solo i calzoni che dovevo tenere con uno spago per non perderli. Lei sembrava non accorgersene; diceva che i muscoli servono a chi non ha testa per sognare. A scuola ci andavo volentieri perché mi piaceva la maestra. Lei era buona come il pane. Aveva sempre un sorriso, anche per il mio compagno di banco che si chiamava Luca. Non era proprio tutto giusto, qualche volta gridava e buttava a terra tutto quello che c’era sul banco, ma lei non si arrabbiava mai. Un giorno disse che bisognava usare la bicicletta per inquinare meno con le auto, ma forse non si rendeva conto che noi avevamo appena undici anni e si usava il trattore per vivere. Aveva un bel sorriso la mia maestra, veniva da un paese di montagna e ci raccontava che d’inverno si andava a scuola in slittino. Io invece attraversavo tre campi di grano, superavo un fosso pieno di rane e saltavo oltre un muretto di vecchi mattoni. Vivevo con i miei in una vecchia casa con il porticato, le stalle e il pollaio accanto, spersa in un mare di grano tra Padova e Venezia. A quel tempo la vita non era per niente facile. Certo, il mangiare era assicurato, ma per il resto bisognava sempre sacrificare qualcosa per qualcos’altro. Io non mi lamentavo, tanto avevo Giulia e un sacco di terra per correre, ma mio padre che faceva il mezzadro era sempre pensieroso e la sera parlava con la mamma del futuro. Non deve rovinarsi la schiena come faccio io per pochi soldi, diceva, 33
deve lavorare senza le vesciche sulle mani. Io sentivo tutto dalla mia camera, il muro era spesso poche dita, e sarei voluto andare da loro e dire che io stavo bene lì. Poi prendevo sonno con quel sussurrare dei miei che mi cullava in altri mondi. Sognavo tanto in quel periodo, o forse quando mi svegliavo li ricordavo tutti come fossero veramente successi. C’era un sogno che facevo spesso: io correvo, con Giulia accanto, su un campo infinito di papaveri e lavanda. Per sempre, diceva lei dandomi la mano, io sorridevo e la portavo sotto la grande quercia. Le facevo ascoltare il respiro della Madre Terra e la ferita dell’albero sembrava il sorriso di una vecchia. “Per sempre” sono due parole che vanno bene nelle favole a lieto fine o nelle canzoni romantiche. Ci stanno pure in certi film, dove si vogliono strappare un paio di lacrime agli spettatori. Ma la vita fu tutt’altra cosa. Una sera di settembre, mentre stavamo cenando, mio padre disse che ci saremmo trasferiti in città. Aveva disdetto il contratto e trovato un lavoro da operaio in fabbrica. Ma non stiamo bene qua? Chiesi io che già immaginavo di non vedere più Giulia, non ci manca nulla. Devo pensare al tuo futuro, disse lui calando gli occhi, forse per la tristezza o forse per la vergogna. Qua ti spezzeresti la schiena senza risparmiare nulla, devi studiare e non ridurti come me. Mio padre era di poche parole, d’altra parte con chi parlava, solo tutto il giorno a zappare, arare e seminare. Lui non aveva sentito il respiro della Madre Terra e tutta la responsabilità era sulle sue spalle. Quella volta lo odiai con tutte le mie forze. Pensavo che i grandi non fossero capaci di sognare, concentrati sul lavoro e sul dovere. Marina ritarda, come al solito sarà ferma sotto casa con il ragazzo. Ho paura di ciò che penserà e di sentirmi in colpa 34
La rocca del ciclope Francesco Grasso
– Sei pronto, Ric? Il ragazzino considerò con diffidenza le cartucce che suo fratello gli aveva gettato ai piedi, imbrattandogli i sandali di melma rossastra. – Perché a me, Giamba? – Perché io dico che tocca a te – ribatté l’altro. – E io sono il capo. – Ieri ho catturato il serpente della palude – protestò il ragazzino. – Ed è toccato sempre a me immergermi nella Città Inondata. L’altro strinse gli occhi obliqui e cattivi. Sulle guance coperte di fango si scorgeva un accenno di barba. – Continuerà a toccare a te, finché così mi piacerà. Oppure vuoi sfidarmi? Ric strinse i pugni. Era un nastro rotto, quello di Giamba. Godeva nel provocarlo, nell’infierire su di lui in ogni modo. Era stato così da quando riusciva a ricordare. – Forse Ric ha paura – lo canzonò Giamba. – Ric è un bambino. Ric crede alla favola dei Ciclopi. Ric ha paura di finire nel pentolone. Mezzi sorrisi, più nervosi che complici, serpeggiarono nel gruppo. Il ragazzo s’infuriò. Con se stesso prima ancora che col fratello. – Non ho paura! – sbottò. – Dammi quella roba. S’inerpicò torvo sul fianco della collina. Giunto sulla cresta, s’inginocchiò, scostò il drappeggio di felci, scrutò la costruzione che si stendeva ai suoi piedi. Il muro di cin-
ta era coperto d’ortica, il candore del granito offeso da tracce di antichi incendi. Aveva appena spiovuto, le tegole color mica scintillavano alla luce del sole mattutino. Il gracidio delle rane era ossessivo. L’odore di muschio bagnato ottundeva i sensi. Il ragazzo scelse una grossa pietra, vi legò la miccia, l’accese, la scagliò. Il proiettile sparì oltre la mole dell’ampio torrione. Ric udì il tonfo. Si stese sul terreno e attese che le cartucce che Giamba aveva rubato dall’armeria del villaggio esplodessero. Era preparato a una serie di scoppi, come quelli dei petardi alla festa di mezzo inverno. Vi fu invece un’unica esplosione, assordante, che scosse la collina e fece levare in volo terrorizzate le poiane dai rami dei faggi. Lo spostamento d’aria lo colpì come uno schiaffo. Spaventato, il ragazzo fuggì verso il fondovalle. Giamba e gli altri erano già lontani, verso i cavalli, dimentichi di lui. Alla paura si unì la rabbia. Ric prese a correre senza badare a dove metteva i piedi. La sua gamba destra s’infilò in un crepaccio. Lo slancio lo fece cadere. La caviglia s’incastrò tra due rocce, cedette. Ric sentì l’osso che si rompeva. Poi il dolore lo fece urlare. Perse i sensi. Sentore d’incenso e di cera. Tocco umido sulla fronte. Colpi di tosse come echi di tamburo. La pressione d’un laccio sulla ferita. Ric aprì gli occhi. Una luce vischiosa. Lo sconosciuto indossava una lunga veste color della neve. Di mezza età, più imponente di chiunque Ric avesse mai visto, una barba slavata e incolta che gli incorniciava il volto come un cespuglio. Nelle mani enormi reggeva una tazza. Ric bevve, il dolore svanì. 66
Il colosso impugnò un frammento di gesso, vergò sulla lavagnetta che teneva appesa al collo. La porse a Ric. Il ragazzo fissò confuso i segni polverosi. – Non so leggere… – furono le prime parole che gli vennero in mente. L’altro corrugò la fronte. Spiò il gesso con aria corrucciata. Poi scomparve. Ric tentò di tirarsi su. La gamba destra, bendata e steccata, puzzava di ammoniaca. Si guardò intorno. La stanza era spoglia e scura. Un solitario raggio di sole faceva capolino dalla piccola finestra, oltre la quale Ric riconobbe la collina sulla cui cima aveva compiuto la sua bravata. In quell’istante realizzò dove si trovava. Sobbalzò. – Sono soltanto favole… – ripeté, serrando le labbra. – Soltanto favole. La porta si aprì di nuovo. Il colosso venne avanti, chinandosi per varcare la soglia. Ric lo vide tossire violentemente, poi asciugarsi le labbra sulla veste bianca. – Il priore mi ha concesso di sospendere il voto del silenzio, per oggi – disse, strascicando le sillabe. – Scusa se sono rauco, saranno dieci anni che non… Come ti chiami? Ric si addossò al muro con la schiena, ma rispose sussurrando il suo nome. – Io sono fratello Paolo – si presentò il gigante. – Hai visto da dove è venuta la bomba? Non abbiamo sentito aerei. – Voglio andare a casa – riuscì a esclamare Ric. La sua voce suonò stridula. Al di là della paura, ne provò vergogna. Il gigante scosse la testa. – Il tuo perone è fratturato. Non puoi affrontare la foresta, e la Regola ci vieta di lasciare l’eremo per accompagnarti. A proposito, da dove vieni? Serre? Soriano? Mileto? Ric ricordò vagamente di aver udito i vecchi chiamare in quel modo le rovine note tra i giovani semplicemente 67
come “case bruciate”. Ma la familiarità non diminuì la sua diffidenza. Tacque. – Vorrei poter chiamare i tuoi, ma non abbiamo mezzi di comunicazione. Dopo i vespri salirò la collina con qualche fratello, vedremo se ti stanno cercando. – S’interruppe. – Ma tu stai sudando. Ti senti bene? Senza attendere risposta, sondò la fronte e le guance del ragazzo. Ric si sentiva febbricitante, ma fino a quel momento era stato troppo confuso per preoccuparsene. – Stai bruciando – valutò l’uomo. – E le ghiandole sul tuo collo sono gonfie. – Mi avrà morso un centopiedi – sbottò Ric, sottraendosi all’esame. Poi si fissò stupefatto le braccia glabre. – La mia protezione! Perché me l’avete tolta? – Ah, è per quello che eri coperto di fango? Non mi sembra di vedere punture, comunque. Del resto, qui non ci sono insetti. Ric fu colpito nel constatare che era vero. Non c’era nulla che svolazzasse o strisciasse intorno. Un’assenza che gli suonò quasi sovrannaturale. – Mostrami la lingua… Temo di sapere cos’è… Hai tremori alle dita? La luce ti dà fastidio? Hai fitte all’addome? Ric deglutì spaventato, perché conosceva anche troppo bene quei sintomi. – Io non ho il mal di palude! – esclamò. – Sono pulito! Il gigante annuì. – Io lo conosco come XH-7, ma concordo che il tuo nome è più divulgativo. Penso di poterti aiutare. Vediamo… Ric ricacciò indietro le lacrime. Se veramente aveva contratto il morbo, per lui era finita. Nessuno l’avrebbe più voluto vicino. Giamba avrebbe colto al volo l’occasione per cacciarlo di casa, come sognava di fare da sempre. Questa volta sua madre non avrebbe potuto difenderlo. Era così sconvolto che quasi non si accorse del morso dell’ago. 68
Poche api Leandro Miglio
Aprile 1985 La temperatura è mite anche se stanotte ha quasi gelato. I fiori del ciliegio sono del tutto appassiti, tra poco daranno spazio al frutto. Anche il pesco è quasi in fiore, i germogli sporgono di qualche centimetro dal ramo. Quei due alberi sono lì dal 1963, quando il nonno li aveva piantati subito dopo aver finito i lavori della nuova casa. Si incominciano a vedere anche le api, i bombi e le vespe, attratti dall’odore forte dei pollini, non è difficile vederli succhiare il nettare sopra le rose, dentro i piccoli tulipani. Il nonno sta incominciando a spargere il letame nella terra dell’orto. È un lavoraccio. Dopo averla girata una prima volta, seppellendo tutte le erbacce spuntate in inverno e in questo scorcio di primavera, dovrà farlo un’altra volta, adagiando pazientemente il letame sopra l’aiuola. Il suo è un letame di ottima qualità, i conigli ne producono in quantità tale da ingrassare l’intero giardino. Papà ci mette le mani dentro per cercare i vermi per andare a pesca. A guardarli, sono lunghi venti centimetri, si dimenano e la puzza è veramente nauseabonda. Che fatica vangare l’aiuola! Tutto questo lavoro sarà generosamente ripagato: le cipolle rosse verranno grosse come arance e il loro profumo si sentirà fino in casa. Un profumo che potrà trasformarsi in odore, respirando l’aria in cucina dopo che i nonni le avranno mangiate in insalata!
Maggio 1985 Di ciliegie non ne è rimasta nemmeno una, sono rosse come il sangue vivo, grandi come noci, ne abbiamo mangiate così tante che qualcuno ha fatto indigestione. Ora, sul ciliegio, sono rimaste solo le foglie, verdi, scintillanti, bellissime. Sul pesco ci sono già le piccole pesche, sono grandi come le ciliegie mature e al tatto si sentono i peletti della buccia. Le api sono aumentate. Avanti e indietro, indietro e avanti, dall’alba al tramonto. Prima le rose, poi i tulipani e ancora le margherite per poi posarsi sui fiori dei lamponi. Ad osservarle, cambia sempre il fiore su cui si posano, se ne passano quattro o cinque in un secondo per poi volare via di nuovo. Le vedi passare, sembra abbiano una sacca gialla fosforescente appesa alle zampe: sono stracariche di polline. Cibo per le pupe, aroma per il miele, la forza della cera. La loro regina ha di che essere fiera. Dormiranno stanotte, dopo una giornata così. Le loro casette, se vengono dall’allevamento vicino alla Gondla, sono pulite e accoglienti. Quando le guardi al tramonto sembrano disabitate, il silenzio è rotto solo dal canto del grillo e dal gracidare delle raganelle nel vicino torrente. Al mattino c’è un traffico degno della peggior tangenziale, via vai continuo e inarrestabile, per non parlare del ronzio, così forte che ti fa fischiare le orecchie. Il nonno è impegnato a bagnare le piantine di pomodoro che ha appena trapiantato. È stato un altro lavoraccio. Sono circa un’ottantina, alte appena dieci centimetri, molto fragili e delicate. Di fianco ai pomodori, l’insalata ghiaccio è già pronta per essere consumata. È questo il primo vero “raccolto” della stagione, la nonna la lava con cura facendo attenzione: bisogna passare le foglie sotto l’acqua una per una e cercare tutte le lumache rosse che si sono nascoste. Se ne trova qualcuna la tiene da parte, tanto non 134
scappano, per poi ributtarle nel campo incolto di fianco all’orto, il più lontano possibile dall’insalata. Giugno 1985 Ci sono i primi fiori dei pomodori, si può già cogliere qualche zucchina e qualche cetriolo. Il lavoro di questo periodo è bagnare tutte le sere, saranno due mesi che non piove, la terra è secca e crepata, le zolle sono dure come sassi. Il ciliegio è sempre più verde e sempre più bello, le piccole pesche continuano a crescere, saranno grosse come palline da ping pong e qualcuna, tra le più esposte alla luce diretta del sole, comincia a prendere un po’ di colore. I frutti dell’orto continuano a crescere, ogni pianta completa piano piano il suo ciclo. Le api continuano imperterrite il loro lavoro, come se niente fosse, avanti e indietro, come il primo giorno. La nonna ha tagliato i tulipani per portarli al cimitero prima che appassiscano, lì vicino ci sono i fiorellini dei pomodori e delle melanzane, le api si consolano così. Una di loro è finita nella tela di un ragno tesa tra i bastoni che reggono le piante. Non ha scampo. Il ragno, uno di quelli beige con la croce bianca sul dorso, le si avvicina velocissimo e l’avvolge nella tela, sarà la sua ghiotta cena. Luglio 1985 C’è stato un gran temporale stanotte. I tuoni erano così forti da far tremare i vetri delle finestre, il vento soffiava in direzioni alterne facendo sbattere le cime degli alberi a destra e sinistra in un fruscio fischiante. Pochi minuti di acquazzone che non ha ammorbidito la terra e poi stop. Per fortuna non ha grandinato, ma il vento ha buttato giù tutti i bastoni delle piante di pomodoro che il nonno ora è impegnato a sistemare. 135
La tela del ragno è sparita, ma se quello che vedo è sempre lui, se n’è rifatta una più bella e più grande tra i bastoni dei piselli e dei fagioli. Siamo all’apice dell’estate, il nonno ha già colto qualche pomodoro, di zucchine e cetrioli non sa più che farsene, ancora qualche settimana e ci saranno anche le melanzane e le carote. Ma dove sono le api? Qui nell’orto non c’è più neanche un fiore…eccole là, impegnate nel loro lavoro di sempre. È il periodo delle campanelline, crescono spontanee nel campo incolto proprio di fianco all’orto, un colpo d’occhio mozzafiato vedere queste chiazze di bianco che si muovono irregolari a destra e sinistra, mosse da un leggero vento caldo. Ma alle api non importa, dovranno fare in fretta, tra pochi giorni verrà il contadino a tagliare l’erba, sarà fieno per le sue bestie. Agosto 1985 È giunto il momento di cogliere i pomodori, finalmente. Le piante ne sono stracariche, il loro profumo si sente fin sulla strada. Il nonno ne riempie un secchio dopo l’altro e lo stesso sarà tra qualche giorno, l’alta temperatura li fa maturare nel giro di una notte. Il sole, alto nel cielo azzurro, picchia di brutto ad agosto e i peperoni sono ancora verdi. Qualcuno resterà tale, altri saranno rossi e gialli, colori forti e lucidi, la potenza della natura. C‘è un altro lavoraccio da fare adesso: il nonno e la nonna sono in mezzo al cortile a macinare i pomodori per fare la salsa. La macchinetta che hanno, a manovella, attaccata al tavolo di legno con una morsa, separa la polpa dalla buccia. La buccia si ripassa due volte e quando i lembi vengono scartati la seconda volta sembrano pezzi di carta. C’è qualche ape intorno ai nonni impegnati, attratta dall’odore acido della polpa. Ma non è la polpa di pomodoro a por136