Nomi, cognomi e infami

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Giulio Cavalli, attore teatrale, per il suo impegno contro la mafia vive sotto scorta da due anni.

“La lingua dell’arte ha in Cavalli un interprete d’eccellenza. Da tempo porta in scena, dei mafiosi, “il loro essere osceni”. Da tempo conduce contro le mafie “la battaglia di parola”. Il suo è un “antiracket culturale” consapevole che le difficoltà della stagione che il nostro Paese vive, lungi dall’imporre il silenzio, richiedono appunto – qui e ora – la parola.” Gian Carlo Caselli

Euro 16,00

Nomi, cognomi e infami

giulio cavalli nasce a Milano nel 1977 e nel 2001 fonda a Lodi la compagnia Bottega dei Mestieri Teatrali. Nel 2006 Paolo Rossi lo spinge a salire sul palco, segnando l’inizio della sua vita di “narratore”. Nel 2007 debutta al Piccolo Teatro di Milano con Linate, 8 ottobre 2001: la strage, al quale seguirà nel 2008 Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi. A causa di questo spettacolo inizia a ricevere le prime minacce. Nel 2009 porta in scena A cento passi dal Duomo, scritto con il giornalista Gianni Barbacetto. Sempre nel 2009 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo invita al Quirinale per esprimergli solidarietà e sostegno. Nel gennaio 2010 gli viene consegnato il premio Pippo Fava. Attualmente calca le scene con Nomi, cognomi e infami, i cui monologhi sono raccolti in questo libro.

“Credo che la scorta migliore che si possa dare a Giulio sia proprio quella di fargli sapere che siamo in tanti ad apprezzare quello che fa e che quindi le minacce che qualcuno gli rivolge le rivolge a tutti noi.” Marco Travaglio

GIULIO CAVALLI

“Ridere di mafia è una ribellione incontrollabile.” Giulio Cavalli

GIULIO CAVALLI Nomi, cognomi e infami Prefazione di Gian Carlo Caselli

Il libro di Giulio Cavalli non è un libro come gli altri. Nomi, cognomi e infami è il diario impersonale di un anno di storie incrociate in una tournée che è scesa dal palco per diventare la sua storia: quella di un attore di teatro che vive sotto scorta da due anni. È un viaggio nel tempo e nello spazio che accompagna il lettore dall’attentato di via D’Amelio al sorriso di Bruno Caccia, dalle parole di Pippo Fava all’omicidio di don Peppe Diana passando attraverso il coraggio di Peppino Impastato, Rosario Crocetta e i ragazzi di Addiopizzo, fino a svelare la presenza della mafia al Nord che l’autore è stato tra i primi a denunciare. È anche una storia corale dedicata alle 670 persone che oggi nel nostro Paese vivono sotto tutela. È una rivoluzione morbida contro coloro che, abituati a comprarsi giudici, onorevoli, senatori, funzionari, sindaci, imprenditori, giornalisti, sanno bene che nulla possono contro la parola, quel mitra senza proiettili che instilla germi; germi di consapevolezza, germi di coscienza, germi di libertà. È una ninna nanna recitata per tenerci tutti svegli, mentre urliamo che disonorarli, comunque, è una questione d’onore.

ISBN 978-88-96238-37-0

Edizioni Ambiente

9 788896 238370

www.verdenero.it blog.verdenero.it


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verdenero


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Giulio Cavalli Nomi, cognomi e infami © 2010, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2010, Giulio Cavalli Immagine di copertina: © Francesco Lanza Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di settembre 2010 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

Nel libro si menzionano inchieste e atti giudiziari. Tutte le persone citate, coinvolte in indagini o processi, sono, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, da considerarsi innocenti fino a condanna definitiva.


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GIULIO CAVALLI

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indice

prefazione di Gian Carlo Caselli

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le minacce

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gela, rosario crocetta e la punciuta La scena della punciuta

27 51

pizzo e addiopizzo Cinquecento euro e stai messo a posto

55 65

bruno caccia Il sorriso di Bruno Caccia

73 85

un figlio in via d’amelio Lettera a mio figlio

93 111

don diana ucciso due volte “Per amore del mio popolo�

117 137

a cento passi dal duomo Milano non se ne accorse

143 151

fava e fine A Pippo Fava

169 181


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appendici

185

Do ut Des

187

Il clan Sarno, il pentito e l’onore più della mamma

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Quando nel profondo Nord si chiese il pizzo alla fortuna

229

’Ndrangheta: pronto il menù dell’Expo. Adesso tocca a noi

233

’Ndrangheta buffa: Mandalari parlava troppo e Chiriaco faceva finta

237

Tranquilli, hanno ragione: da noi a Lodi la mafia non esiste

241

ringraziamenti

243


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A Gaia, che c’è sempre stata anche quando le è costato tantissimo; perché sono sicuro non avrebbe mai pensato di ricevere un bigliettino a forma di libro. A T. e L. che, così piccoli, mi hanno già dato più risposte che domande.


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«In un dialogo in catalano antico fra un contadino e un giullare che si lamentava per le angherie e le minacce subite di continuo ad opera di sconosciuti, il villano chiedeva al fabulatore: “Ma di cosa ti minacciano?”. Il giullare rispondeva: “Addirittura di spaccarmi la testa” e il villano commentava: “Accidenti! Devi avere un gran cervello in quel cranio! È quello che fa paura ai mascalzoni e ai tiranni. Vuol dire anche che sai far ridere delle loro angherie: la risata è l’atto più insopportabile per i potenti e i prepotenti. Hai tutta la mia ammirazione. Grazie”. così terminò il villano offrendo al giullare un calice di vino e la sua colazione. A nostra volta, Franca e io, ti diciamo caro Giulio: Grazie.» Dario Fo


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Prefazione

di Gian Carlo Caselli

La resistenza alla mafia parla molte lingue. La lingua della repressione: cattura dei latitanti; inchieste sul versante “militare” e su quello “oscuro” delle collusioni; processi e condanne. La lingua dell’aggressione ai patrimoni che i mafiosi accumulano con i loro delitti, realizzando un sistematico drenaggio delle risorse, un’economia che rapina il futuro ai giovani “vampirizzando” il tessuto economico legale a colpi di estorsioni, tangenti, usure, truffe, appalti truccati, corruzione e riciclaggio. La lingua dei diritti elementari che devono essere assicurati ai cittadini se si vuole farne degli alleati dello Stato anziché dei dipendenti della mafia (come si sforza di fare “Libera” organizzando cooperative di giovani che lavorano le terre confiscate ai mafiosi: la dimostrazione che la legalità “paga” anche in termini di diritto al lavoro e di opportunità di uno sviluppo economico più ordinato). La lingua della cultura, dell’approfondimento e della presa di coscienza circa la realtà della mafia: mediante seminari, dibattiti, percorsi di educazione


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alla legalità, analisti storiche, sociologiche e giuridiche. E ancora, la lingua dell’arte, degli spettacoli musicali, teatrali e cinematografici, dei romanzi, della poesia e della grafica: cultura alta, capace di andare al di là degli stereotipi, dei luoghi comuni e delle falsità diffuse da un’interessata e complice propaganda. La lingua dell’arte ha in Giulio Cavalli un interprete d’eccellenza. Da tempo Cavalli porta in scena, dei mafiosi, “il loro essere osceni”. Da tempo fa spettacoli teatrali che si propongono di “disonorare” i mafiosi, perché “disonorarli è una questione d’onore”. Da tempo conduce contro le mafie “la battaglia di parola”, “un’arma che rende le mafie comicamente inoffensive e resistibili”. Il suo è un “antiracket culturale” consapevole che le difficoltà della stagione che il nostro Paese vive, lungi dall’imporre il silenzio, richiedono appunto – qui e ora – la parola: che non è solo un diritto personalissimo, ma anche un contributo potente (se esercitato come Cavalli sa fare) alla realizzazione di una comunità finalmente capace di rompere le ingiustizie. E ora questo libro: uno straordinario affresco nel quale riflessioni e approfondimenti, cronache e storie si intrecciano con le “favole” che ne sono la traduzione teatrale. Con tratti robusti, ruvidi contrasti e colori vividi Cavalli sa esprimere e comunicare tutta l’arroganza della mafia; ne sa tratteggiare con forte evidenza la crudeltà e la violenza; ne descrive la pervasività e l’espansione; ne racconta le sconfitte quando il contrasto dello Stato e l’impegno della società civile più responsabile riescono a imboccare la stra-


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da giusta. Così, la resistenza antimafia di Cavalli è tra le più suggestive e al tempo stesso efficaci. In Italia, per certi ambienti politico-culturali il vero peccato non è la mafia, ma raccontarla. Coloro che fanno affari con la mafia amano il silenzio e molti “osservatori” lo praticano normalmente, con un’attitudine a piegare la schiena che è piuttosto diffusa. Giulio Cavalli è decisamente in controtendenza (per questo deve vivere scortato!), soprattutto perché pone il baricentro dell’osservazione, più che sulle manifestazioni percepibili come criminali con immediatezza, sul versante “grigio” (perciò assai più scomodo da disvelare) delle attività economico-finanziarie delle organizzazioni criminali. Fino al punto di riuscire a essere... profetico, com’è clamorosamente evidente confrontando le pagine del libro che ripercorre lo spettacolo teatrale intitolato “A cento passi dal Duomo” (dedicato alla “concimazione” mafiosa del territorio lombardo che va avanti da decenni, nella “indifferenza e inosservanza” quasi generali), con quelle – conclusive – che ricordano l’operazione “Infinito” del 5 luglio 2010 contro centinaia di uomini delle “locali” ’ndranghetiste della Lombardia, un’operazione che ha “sconquassato la regione e la sua sonnacchiosa tranquillità”. Sostiene Cavalli che “ridere di mafia è una ribellione incontrollabile”, per cui centrale – nella sua riflessione – è “recuperare la lezione di Peppino Impastato”, la “lezione dello sberleffo con cui Peppino ha disonorato la mafia”. Al riguardo, vorrei chiudere con un ricordo personale. Quand’ero procuratore a Palermo, volai negli Stati Uniti due volte per


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interrogare il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti proprio sull’omicidio Impastato (l’inchiesta porterà alla sua condanna all’ergastolo). Mi trovai di fronte un uomo che ammetteva a malapena di essere nato e che avrebbe negato, potendo, il sorgere stesso e il tramontare del sole. Sembrò scuotersi, pur sforzandosi di non darlo a vedere, soltanto quando una mia domanda gli contestò che Peppino, con la sua radio, lo dileggiava chiamandolo “Tano seduto”: un’offesa intollerabile per un boss del suo calibro, intollerabile anche a distanza di molti anni, anche dopo l’assassinio ordinato perché lo scherno del giovane che aveva osato tanto fosse cancellato con il sangue. Un riscontro (volendo usare una parola in... giuridichese) della verità ben nota a Giulio Cavalli: i mafiosi non tollerano assolutamente che si ironizzi su di loro. Nello stesso tempo l’elogio migliore che si possa formulare per questo libro prezioso. Gian Carlo Caselli


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Le minacce

Questo è un capitolo volutamente breve. Dovuto. Ma breve. Per una innata avversione a raccontare la mia di storia con tutte le altre storie da non lasciare in giro, ma anche perché è un po’ un racconto in cui sfuggono i fatti. Come volere fotografare un tunnel per intero. Però questa dovrebbe essere l’introduzione del presente libro, se non fosse che una mano ruvida e lebbrosa mi ha infilato il suo contenuto in mezzo alla vita con un’ineleganza violenta che mi rimarrà tatuata addosso senza cure. Ho anche dei seri dubbi a scriverlo, questo capitolo, perché mi sarebbe richiesto un certo equilibrio – irraggiungibile – per non cadere nel mito profano, nel piagnisteo, nel trombonismo celebrativo. Anche perché, devo ammetterlo, ho sempre avuto un pessimo rapporto con questa parte della mia storia. La pudicizia è una virtù preziosa e rara ma indispensabile per un cantastorie. La reazione della parola contro le mafie è comunque il termometro della “febbre” buona e cattiva in mezzo ai nomi, ai cognomi e agli infami. La guerra in testa è sem-


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pre stata una battaglia fatta di schegge. Schegge che vanno prese per quel poco che, cadendomi addosso, sono riuscito a raccogliere. La prima scheggia è a cavallo del primo aprile 2006. Venerdì 31 marzo in un ufficio inscatolato tra i faldoni giudiziari più di quanto potessero essere inscatolati loro (i faldoni). Poca roba, nella posta elettronica mezza mail malscritta e con l’ortografia di un nano culturale. Ma questo conta poco. La prima scheggia è la comunicazione per niente amichevole di qualcuno che sapeva esattamente quali fossero i miei modi di vita, i miei spostamenti, i miei affetti, i nomi e i cognomi. Dico, è roba da giullari in una storia per giullari una minaccia d’inchiesta che arriva nel bel mezzo di un’inchiesta. Una longa manus che ti comunica di volerti battere sul tuo stesso campo: quello della curiosità. La curiosità può fare male. Per metterci il dito, dentro la ferita, nella speranza che per il dolore tu possa arrenderti. Ma la prima scheggia, come tutte le altre del resto, è soprattutto inerente a uno stato emotivo. Leggibile poco, quasi per niente, che ti si rovescia a secchiate sopra la testa. Quel giorno a cavallo del pesce d’aprile si era usciti immediatamente dal gioco. Dal credere (per utopia e per autodifesa) che si potesse veramente giocare a distruggerli senza essere visti. In quei mesi avevamo tutti il ghigno dei monelli che bighellonano credendosi appena al di qua del limite. Quella mezza mail era un avviso di errore, una spia rossa sul cruscotto di un sistema che nell’ottica della sicurezza stava andando fuori giri. Ma nessun motore fuso, in giro, nessuno. Con quella prima scheggia ho avuto l’occasione (l’unica, per la verità)


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di chiedermi se ne valesse davvero la pena. Dico di entrare con uno zaino di presunta bellezza dentro un gorgo di vomito e di rischio, sotto il livello del mare a raschiare i fondali della minaccia avvisata. Il giudice ragazzino Livatino diceva che una volta vissuti nessuno ci avrebbe chiesto se fossimo stati credenti, ma se fossimo stati “credibili”. Ecco, una frase sempre tenuta in tasca è stata la prima risposta. E, a guardarla oggi con gli occhi di chi crede che ne valga comunque la pena, la risposta da tenere in tasca ha la forma della credibilità. La seconda scheggia non ha data d’inizio né di scadenza ma comincia appena passata l’eco della prima: essere osservati. Non si riesce a raccontare il disagio di chi si è ritrovato i cassetti della vita improvvisamente aperti durante un secondo di distrazione. Sapere di essere ascoltati, letti, guardati. Mica dagli onesti, come la vendemmia buona vorrebbe, ma essere seguiti per essere raccolti. Possibilmente a pezzetti. Se c’è un giorno che questa scelta per caso mi ha cambiato è stata la prima mattina della mia quotidianità passata a guardarmi e pensare alle spalle. Non è mica bellezza: camminare guardandosi i piedi, leggersi nei riflessi, condizionarsi per come potresti essere guardato. È una malaugurata esposizione a pochi che ha comunque il sapore della nudità. Dal 2006 (e non si tratta di poco) convivo con la coscienza di non essere solo mio. Un sentimento di recinto e di difesa solo atteggiata che comunque non potrebbe mica salvarmi. Un virus con cui infetto i luoghi, gli oggetti e le persone che incontro, incrocio e che frequento. Una colata di vomito e merda che ha trovato un


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foro per gocciolare costantemente nel vaso della mia giornata. Stare “giù al nord” con la parola che ti è violentemente rimbalzata in faccia è una sberla alla socialità, un calcio alla vivibilità, un invito alla tranquillità compromettente. Se ci sono storie, in questo paese malato d’insofferente indifferenza, in cui si vuole frenare e ammutolire la parola, significa che la parola funziona. E questa è una grande e buona notizia. L’unica buona notizia che può lenire la condizione dell’essere osservati: bere il caffè immaginando (pensando o malpensando) che qualcuno ti guardi con la tazzina in mano. Lavorare o scrivere o raccontare immaginando (pensando o malpensando) che qualcuno ti controlli senza ascoltare. In una sterile città del nord essere guardati dal pelo delle mafie (sempre vissute come “sud”) è la perdita del diritto di cittadinanza nel paese della normalità. Un tarlo. Un tarlo con il quale convivi per difenderti ma che intanto cresce mangiando la tua solitudine. La seconda scheggia è anche il momento più alto del mio disagio: settimane e mesi con il dovere di giustificarsi per un’attenzione che scombussola i piani della tua città. La minaccia delle mafie non sta nelle minacce, quella è roba buona per farci la fascetta di un libro o le chiacchiere da bar; la minaccia delle mafie sta nell’isolamento, la delegittimazione del proprio lavoro, nella sovraesposizione cannibale, nel fianco che ti ritrovi costretto a prestare a chi non aspettava altro che un nuovo idolo da abbattere per primo. Nel momento in cui ti dichiarano sotto scacco tutto il resto diventa rumorosissimo. La sofferenza, il rischio e la paura finiscono per essere solo tue. Un autismo irrisolvibile. Passeggiare, dire, bere e mangiare sempre malato


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della convinzione che è una cosa che non si riesce a raccontare, che non si riesce a far capire, che vuoi ascoltartela e giocartela da solo. Anche se è peggio. Perché lo sai bene che è peggio: sofferenza, rischio e paura. Sofferenza. Tutta a forma di solitudine. La sofferenza di imparare a diffidare e sospettare. Un imbruttimento senza soluzione. La sofferenza di dovere spiegare che comunque sì, te lo sei cercato, e ti aspetteresti un pezzo di solidarietà, almeno. La sofferenza della tua famiglia che comunque si è persa un pezzo della storia e si ritrova a mulinare le braccia per stare a galla, e mentre nuota deve anche mettersi a capire. La sofferenza di un allontanamento dal resto, un’incomprensione continua, una voglia mancata di spiegare. La sofferenza di una risata che ha bisogno di uno sforzo, di essere lanciata, di non spegnersi nelle parole e sul palco per non rischiare la resa. La sofferenza di una bolla che ti soffia intorno e ti ci siedi dentro, per proteggerti sfocando il resto. Il rischio. Se non riesco a sapere e conoscere chi mi guarda sono come dentro una scatola di scarpe. Posso solo sperare di non diventare ridicolo mentre abbaio alla luna. Il rischio che non si pesa nella grammatura delle carte e delle informative delle forze dell’ordine. Il rischio di non sapere chi, cosa, da chi, quando, o addirittura se. Un dubbio come un solletico continuo di vulnerabilità. Un equilibrio instabile che basta un niente perché cada. Un rischio infettivo che ti porti in giro, che ti rimane addosso come un alone mezzo sudaticcio. Chi lo decide il mio rischio? La miscela delle mie paure, la sintesi delle facce, di quanto è pesante l’aria,


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dei toni della voce. Mi è capitato, quasi come un moto inconscio, qualche volta di accelerare: accelerare io e i miei compagni di quel momento. Senza motivo. Accelerare la parola per chiudere, accelerare il passo per rientrare, accelerare il saluto per partire. Come cani che fiutano un acquazzone, come bottegai che si guardano alle spalle prima di abbassare la saracinesca. Un pensiero intermittente con la forma di un’ombra che ti proietti addosso. La paura. Hai paura? Una domanda che ho sentito decine di volte. Avevo paura? Quando ho iniziato ad avere paura? Dice Erica Jong: «Le paure sono più sonore di qualunque altro pensiero» (Fanny, Bompiani, 2001). Me la sono suonata spesso la paura. Ma è una canzone che è stata un crescendo costante e alla fine, per questa abitudine orribile tutta umana di abituarsi a tutto, mi è rimasta cucita addosso come una tasca. Se riapro l’agenda di questa storia leggo una frequentazione continua di persone e delle loro paure: dalla voce rotta di Saro Crocetta per ogni bomba schivata per un pelo, alla sigaretta preoccupata di Pino Maniaci mentre guarda lavorare i suoi figli in redazione. Dalla rabbia urlata in piazza da Francesco Saverio Alessio, al rapporto incestuoso e bisbigliato di Antonio Ingroia con la propria blindatura, dall’odore di plastica delle auto bruciate come monumenti anneriti, alle risate urlate per cacciarla via, la paura, in una cena sul lungomare. Cacciarla via, riderla per cancellarla, non parlarne ma sentirla. Tra il taccuino di questa storia ho ritrovato una mezza pagina un po’ consunta scritta i primi di luglio di qualche anno fa, prima ancora che mi fosse assegnata una scorta:


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Io ho paura, ma non ho paura di avere paura. Ho paura di questa sensazione liquida che ti entra nelle ossa più intime, di avere amici che ci pensano prima di girare le chiavi nella macchina. Ho paura di essermici abituato alla paura, di guardare solo per vedere, di ascoltare per sentire, di dovermi tenere da conto questo disturbo cronico viscidamente instabile. Ho paura di essere stato scippato di qualche cosa che non so. Ho paura di avere intorno una preoccupazione in divisa e organizzata, ho paura dello sbuffo della porta, ho paura dei respiri se non li vedo in faccia. E ho rabbia, rabbia instabile che mi prende in giro mentre balla la polka sottobraccio alla mia paura. Rabbia per aver perso la paura quella vergine, quella che arriva come un giallo al semaforo freno-frizione prima che sia ancora verde. Ci si abitua a tutto però, chiedete a Pino, chiedete a Rosario, chiedetelo a Sergio, a Roberto, a Carmelo. Ci si abitua a tutto a Mafiopoli. E la paura e la rabbia e quella lingua fredda e continua sulla schiena diventano un neo. E al secondo specchio non lo noti più. Ma ho paura anche di queste facce sempre così sicure, ho paura degli untori certi di verità certa, di quelli che ci raccontano come dovremo fare, cosa dovremo essere, con che camicia coprire il neo. E ho rabbia, per niente sana, per chi ce la racconta la nostra paura, per chi la rivende al mercato delle elezioni, per chi no non è niente, sì in fondo è tutto, è normale, passerà, è una vergogna, grazie prego oppure tornerò o meglio ancora bum bum, alla radio Mafiopoli. C’è una porta che non riesco a scardinare. Ci ho provato con i coltelli e i cacciaviti della penna, poi l’ho presa a calci, con la testa e poi con


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tutti quei pezzi e barattoli che mi stanno legati da un po’ alla caviglia. Mi sono anche seduto di fianco, al buio, un tubo dietro alla schiena e piangevo e scongiuravo di aprirsi. E dietro c’è l’arroganza di credere che se non ci riesci tu, dico almeno a scriverla farne uno schizzo un paio di volantini imbevuti di pioggia e colla sui lampioni, ecco allora la tua paura è un re nudo. Che viene fotografata, scritta e raccontata da uno spigolo, un particolare o al massimo da mezzo riflesso. È un re nudo la mia paura. E la rabbia ci ride per giorni e giorni, questa rabbia che mi calpesta lo stomaco mentre balla la polka. Il principe e gli elfi che gli tengono il mantello mi hanno sempre detto che non bisogna raccontarla la filastrocca di questa paura nuda con la corona in testa, che con un colpo di Stato mi si è insediata nel cervello. Chissà come ridono oggi. Da spanciarsi fino a sporcare il mantello. Ma oggi chiamo arimo e me la tengo, almeno la paura di avere paura. Di non poterla dire se non hai almeno un capitolo, uno straccio di identikit. Com’è pornografica la balera nevrotica giù a Mafiopoli, com’è comica questa schizofrenia che si traveste tutte le mattine da sacerdotessa tragica e muta. Com’è alta questa parete da riderci sopra piano e sempre con la bava e la solitudine di una lumaca. Com’è meno musicale, televisiva, da palco o da fine serata di come ce l’hanno impacchettata. Ecco io oggi vorrei, a Mafiopoli, che nell’assemblea quella sotterranea degli scemi del villaggio, io vorrei che si decidesse di restituirgliela questa paura. Fargliela trovare pelosa nel caffè della mattina, o che gli cammini a otto zampe sulla faccia. A loro che l’hanno sempre vista da dietro, la paura,


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con l’odore di sparo, colla e benzina. Restituirla un secondo. Come l’acqua nelle scarpe. Perché cari tutti i Totò di Mafiopoli, perché voi non lo sapete ancora che dalla paura non ci si esce né dissociati né pentiti. Restituirla un secondo per vedere che forma ha da fuori, da lontano, e per pisciarla fuori mentre si ride, si ride alla mafiopolitana. Non so nemmeno come mi era venuto di scriverla, eppure a rileggerla è la foto che non avrei mai creduto di sapere scattare. La terza scheggia di questa proiezione impudica è la catena di segnali. Segnali barbari. Come spilli continui. E intanto il dubbio, l’invidia, la delazione che dalla città tutto intorno sale come un’onda. Un valzer scandito dai tempi di lettere anonime, bare disegnate, bossoli e mezze frasi sotto voce. “Se l’è andata a cercare”, “li ha provocati e loro hanno reagito”, “è andato a casa loro era normale aspettarsi una reazione”. Voci, voci, giudizi, palate di delazione, fango e merda. Sempre anonimi, senza faccia. Da una parte e dall’altra. Una mattina arrivando presto in teatro trovo sul lato posteriore, all’ingresso degli uffici, una bara, disegnata, e sotto il mio nome e cognome. A Lodi? A Lodi. “Se la sarà disegnata”, “sarà una ragazzata”. Una marea di letame che cresce. A Lodi, Lombardia, profondo nord. In una tranquilla cittadina di provincia farcita di amministratori pavidi, marescialli incompetenti, minimizzatori professionisti, indelicati per nulla accidentali, tranquillizzatori per indole.


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La terza scheggia è rabbia. Rabbia inconsulta, irrazionale, rabbia vendicativa per una città che mi ha messo con le spalle al muro, a dovermi giustificare di quello che mi capitava. Subire e giustificarsi, come in una colata d’isolamento dal sapore tutto corleonese ma molto più elegante, civilizzata. La terza scheggia è un conato che non mi è ancora passato. Il 27 aprile 2009, dopo due anni passati con l’occhio vigile e discreto delle forze dell’ordine a scrutarmi e vigilarmi da lontano, è stata la prima mattina della libertà lunga poco meno di un cancello. Il 27 aprile 2009 tra il cancello e il “fuori” mi concedo due mezzi passi prima di essere preso in consegna dall’auto della scorta per iniziare a lavorare. Dal 27 aprile 2009 ho una vivibilità garantita e recintata dal mio programma settimanale. Dal 27 aprile 2009 ho un malumore o una risata che viene affettata sempre (al minimo) per tre. Con ombre fuori asse che si spostano con me, che mangiano con me, che ci sono mentre rido, mi rabbuio, penso, cammino, telefono, mi gratto o urlo. Il ricordo più lancinante di quel 27 aprile 2009 riguarda sabato 25, due giorni prima. Il 25 aprile che per uno scherzo di numeri e destino è la festa della Liberazione, come se anche il calendario si fosse messo a giocare a carte con questa storia tutta all’incontrario. Il 25 aprile cadeva di sabato, e di sabato mattina è stato l’ultimo sabato mattina con i miei figli per mano. Da soli. Noi. Solo noi. Dal 25 aprile di mattina mi è rimasto sotto il palato una passeggiata che non posso rifare. E questo non si può scrivere, non si riesce a raccontare. E forse è una storia che non si dovrebbe nem-


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meno dire se non fosse che misura perfettamente quel credito con la mia vita che continuo a rivendicare. Eppure, e questo mi rende poco popolare, sulla questione di minacce e scorte mi si accende sempre una certa inappetenza, un fastidio di stomaco: per un’abitudine alla banalizzazione amorale oggi si sono accesi i riflettori su quest’effetto così antiestetico e poco interessante. Come se all’improvviso ci si fosse messi a pesare lo spessore delle parole in modo direttamente proporzionale a scorte, uomini e armi. Mi sono ritrovato, di tanto in tanto, in un Grande Fratello degli intimiditi dato in pasto a un voyeurismo della paura, a rispondere alle domande sugli effetti dimenticando le cause, gli obiettivi. Come se questo paese avesse scoperto la fascinazione di tutele e scorte solo oggi, solo per una moda arrivata chissà da dove. E mentre si favoleggia sulla tutela armata di poche persone si lasciano nell’ombra tutti gli altri. Oggi in Italia ci sono 670 persone sotto tutela. A Palermo un panettiere che ha rifiutato il pizzo tutte le mattine all’alba con due carabinieri al seguito apre il laboratorio per impastare il pane. Eppure rimangono in ombra, in un gioco di protagonismi che ti vorrebbe ammalato fino a raccontare la tua, di storia, tralasciando quella degli altri. Accendiamo i riflettori e intanto ci siamo dimenticati di chiedere a Giancarlo Caselli, ad Antonio Ingroia cosa significa per loro. Per la loro famiglia. So ancora qual è il mio mestiere. La quarta scheggia è un elastico. Un elastico di sensazioni. La gratitudine, comunque, per la mia scorta che non riesco a non odiare. E la conclusione, per iniziare, che comunque ne vale la pena.


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Giulio Cavalli, attore teatrale, per il suo impegno contro la mafia vive sotto scorta da due anni.

“La lingua dell’arte ha in Cavalli un interprete d’eccellenza. Da tempo porta in scena, dei mafiosi, “il loro essere osceni”. Da tempo conduce contro le mafie “la battaglia di parola”. Il suo è un “antiracket culturale” consapevole che le difficoltà della stagione che il nostro Paese vive, lungi dall’imporre il silenzio, richiedono appunto – qui e ora – la parola.” Gian Carlo Caselli

Euro 16,00

Nomi, cognomi e infami

giulio cavalli nasce a Milano nel 1977 e nel 2001 fonda a Lodi la compagnia Bottega dei Mestieri Teatrali. Nel 2006 Paolo Rossi lo spinge a salire sul palco, segnando l’inizio della sua vita di “narratore”. Nel 2007 debutta al Piccolo Teatro di Milano con Linate, 8 ottobre 2001: la strage, al quale seguirà nel 2008 Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi. A causa di questo spettacolo inizia a ricevere le prime minacce. Nel 2009 porta in scena A cento passi dal Duomo, scritto con il giornalista Gianni Barbacetto. Sempre nel 2009 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo invita al Quirinale per esprimergli solidarietà e sostegno. Nel gennaio 2010 gli viene consegnato il premio Pippo Fava. Attualmente calca le scene con Nomi, cognomi e infami, i cui monologhi sono raccolti in questo libro.

“Credo che la scorta migliore che si possa dare a Giulio sia proprio quella di fargli sapere che siamo in tanti ad apprezzare quello che fa e che quindi le minacce che qualcuno gli rivolge le rivolge a tutti noi.” Marco Travaglio

GIULIO CAVALLI

“Ridere di mafia è una ribellione incontrollabile.” Giulio Cavalli

GIULIO CAVALLI Nomi, cognomi e infami Prefazione di Gian Carlo Caselli

Il libro di Giulio Cavalli non è un libro come gli altri. Nomi, cognomi e infami è il diario impersonale di un anno di storie incrociate in una tournée che è scesa dal palco per diventare la sua storia: quella di un attore di teatro che vive sotto scorta da due anni. È un viaggio nel tempo e nello spazio che accompagna il lettore dall’attentato di via D’Amelio al sorriso di Bruno Caccia, dalle parole di Pippo Fava all’omicidio di don Peppe Diana passando attraverso il coraggio di Peppino Impastato, Rosario Crocetta e i ragazzi di Addiopizzo, fino a svelare la presenza della mafia al Nord che l’autore è stato tra i primi a denunciare. È anche una storia corale dedicata alle 670 persone che oggi nel nostro Paese vivono sotto tutela. È una rivoluzione morbida contro coloro che, abituati a comprarsi giudici, onorevoli, senatori, funzionari, sindaci, imprenditori, giornalisti, sanno bene che nulla possono contro la parola, quel mitra senza proiettili che instilla germi; germi di consapevolezza, germi di coscienza, germi di libertà. È una ninna nanna recitata per tenerci tutti svegli, mentre urliamo che disonorarli, comunque, è una questione d’onore.

ISBN 978-88-96238-37-0

Edizioni Ambiente

9 788896 238370

www.verdenero.it blog.verdenero.it


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