La corsa delle green economy

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Il 2008-2009 è stato il biennio della grande crisi economica, ma anche il trampolino di lancio della green economy. Nel mondo, gli impianti eolici creati nel 2009 hanno prodotto più energia delle centrali atomiche installate negli ultimi cinque anni. In Germania il 31% del Pil dipende ormai dalle ecoindustrie. L’economia verde cresce e si rafforza, moltiplica i posti di lavoro mentre i comparti produttivi tradizionali soffrono. Ma quali sono i suoi confini? E in che modo sta cambiando la nostra vita quotidiana? A queste domande risponde il libro di Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini che, attraverso l’analisi di 23 storie esemplari, racconta la corsa della green economy sostenuta da tanti soggetti diversi: aziende che evitano il fallimento spingendo sull’innovazione, colossi industriali che si convertono all’efficienza, città che sperimentano il modello low carbon. Ad accomunarli è la capacità di immaginare un futuro in cui si possa vivere e lavorare in modo più sicuro, più sano e più piacevole.

Euro 14,00 ISBN 978-88-96238-51-6

www.edizioniambiente.it

k yo t o b o o k s

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la corsa della green economy

gianni silvestrini, ricercatore del Cnr, è direttore scientifico del Kyoto Club e della rivista QualEnergia. Autore di numerosi articoli scientifici, coordina il master “Ridef – energia per Kyoto” del Politecnico di Milano. Ha vinto l’“European solar prize 2001” ed è stato eletto nel consiglio direttivo dell’European Council for an Energy Efficient Economy. Ha ricoperto la funzione di direttore generale presso il Ministero dell’ambiente e di consigliere per le fonti rinnovabili del Ministro dello sviluppo economico Pier Luigi Bersani. È presidente di Exalto, una nuova società della green economy.

ta s c a b i l i dell’ambiente

Antonio Cianciullo Gianni Silvestrini

antonio cianciullo è inviato di la Repubblica. Per conto del giornale segue da oltre 25 anni i temi ambientali e ha partecipato ai principali appuntamenti internazionali: dalle conferenze sull’ozono negli anni Ottanta all’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, dai reportage sui grandi disastri petroliferi ai vertici sul cambiamento climatico. È laureato in filosofia. Per la sua attività ha vinto numerosi premi. Tra i suoi libri Atti contro natura (Feltrinelli, 1992), Ecomafia (Editori Riuniti, 1995, con Enrico Fontana), Far soldi con l’ambiente (Sperling & Kupfer, 1996, con Giorgio Lonardi), Il grande caldo (Ponte alle Grazie, 2004), Soft economy (Rizzoli, 2005, con Ermete Realacci).

ta s c a b i l i dell’ambiente

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Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini

la corsa della green economy Come la rivoluzione verde sta cambiando il mondo Prefazione di Christopher Flavin Presidente del Worldwatch Institute

A Stoccolma basta fare 300 passi per trovare una fermata del trasporto pubblico e se il tram non arriva entro 20 minuti si ha diritto a prendere il taxi gratis. La Sassonia è diventata la Solar Valley della Germania: produce il 20% delle celle fotovoltaiche mondiali. Nelle Marche è nata la casa a zero emissioni. In California i frigoriferi hanno battuto l’atomo: renderli più efficienti ha reso disponibile più elettricità di quella prodotta da un reattore nucleare. Vista dalla prospettiva della green economy la crisi fa meno paura. Anzi, per molti settori è il momento della riscossa. Entro dieci anni le fonti rinnovabili in Germania supereranno il settore automobilistico. In Cina, leader mondiale del solare, mezzo miliardo di persone utilizza l’energia pulita prodotta da piccoli impianti. Negli Stati Uniti quasi la metà della potenza elettrica installata negli ultimi due anni viene dal vento, in Europa nel 2009 le rinnovabili hanno fatto ancora meglio. È una svolta radicale: non più profitto contro benessere ma profitto dal benessere. Un nuovo modello di democrazia energetica in cui potere e vantaggi economici sono decentrati.



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tascabili dell’ambiente kyoto books


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I Kyoto Books sono frutto della collaborazione tra Kyoto Club ed Edizioni Ambiente. Scritti dagli esperti che fanno riferimento al comitato scientifico di Kyoto Club, intendono promuovere lo sviluppo di una consapevolezza diffusa in merito alle maggiori tematiche ambientali.

Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini

la corsa della green economy come la rivoluzione verde sta cambiando il mondo

realizzazione editoriale Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it coordinamento redazionale Diego Tavazzi progetto grafico: GrafCo3 Milano immagine di copertina: claudionegri79/shutterstock impaginazione: Roberto Gurdo © 2010, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax 02 45487333 ISBN 978-88-96238-51-6

Finito di stampare nel mese di marzo 2010 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta Oikos i siti di edizioni ambiente: www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.verdenero.it www.puntosostenibile.it


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Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini

la corsa della green economy Come la rivoluzione verde sta cambiando il mondo


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sommario

prefazione

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di Christopher Flavin

introduzione

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energia: un tuffo nel futuro con un bagaglio di conoscenze antiche

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1.

la democrazia energetica

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2.

deserti e oceani

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3.

semaforo verde per battere la povertà

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4. viaggiare e abitare con leggerezza

63

5.

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il recupero delle tradizioni virtuose

nazioni: quando green è il colore della leadership mondiale

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6. usa: la battaglia per il cambiamento verde

77

7.

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cina: l’opportunità green colta al volo

aziende: la carica delle green companies e la rincorsa delle multinazionali

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8. solarworld: il re del solare

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9. novamont: la plastica che nasce dai campi

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10. leaf community: progettare il benessere

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11. general electric e siemens:

i colossi che cambiano pelle

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12. stmicroelectronics: l’ecologia

che regala profitti

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territori: la rivoluzione verde fa sistema e batte la crisi

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13. la california dell’utopia possibile

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14. toscana felix

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15. riconversioni verdi

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16. l’altra metà della raccolta differenziata

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città: la rivoluzione low carbon

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17. friburgo: la città del sole

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18. stoccolma: la capitale verde d’europa

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19. curitiba: l’avamposto ecologico del brasile

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20. masdar: zero emissioni nel regno del petrolio

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stili di vita: ambiente fa rima con salute

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21. bici batte auto 2 a 0

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22. car sharing: il successo dell’auto a ore

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23. un pomodoro piantato in città

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24. conclusioni

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prefazione

Buona parte del mondo del business considera tuttora l’abbandono del sistema energetico basato sul carbonio come una prospettiva terrorizzante per l’economia. C’è il rischio che molti governi decidano di ritardare l’attuazione di ogni serio programma d’azione sul clima finché la crisi economica non sia risolta, sebbene la paura dei riflessi occupazionali delle misure ambientali e l’inazione rispetto al cambiamento climatico possano produrre danni ben più gravi proprio in termini di perdite di posti di lavoro su larga scala. Secondo il celebre Rapporto Stern del 2006, una mancata attivazione di misure sul cambiamento climatico porterà a future perdite economiche dell’ordine del 5-20% del Pil globale, mentre i costi annuali per la riduzione delle emissioni di gas serra a livelli accettabili ammonterebbero a non più dell’1% del valore dello stesso indicatore. Fortunatamente, c’è una crescente consapevolezza dell’assoluta necessità di affrontare assieme, e non separatamente, crisi economica e crisi ambientale. Ciò significa che la soluzione dei problemi ambientali può contribuire a rendere più solide le economie, con la creazione di migliaia di nuove imprese e di milioni di nuovi posti di lavoro, ponendo le basi per la trasformazione “green” dell’economia. C’è un sostegno crescente, nel mondo, a favore di risposte all’attuale crisi economica e ambientale che nascano da un approccio integrato, secondo un concetto che viene sempre più frequentemente sintetizzato con la formula del “Green New Deal”. Il termine non è che una variazione contemporanea del New Deal americano, l’ambizioso program-


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ma lanciato dal Presidente Franklin Delano Roosevelt per far uscire gli Stati Uniti dalla Grande Depressione. Il New Deal di allora prevedeva un ruolo centrale del governo nella pianificazione e una serie di provvedimenti di stimolo all’economia lanciati tra il 1933 e il 1938, con la creazione di nuova occupazione attraverso l’impegno pubblico in progetti che includevano la costruzione di strade, dighe e scuole. Dagli Stati Uniti alla Corea del Sud, i programmi per un Green New Deal presentati nel corso del 2009 hanno come presupposto chiave una decisa azione dei governi, ma vedono anche la presenza di politiche finalizzate a rispondere alle sempre più pressanti sfide ambientali attraverso il nuovo paradigma del progresso economico sostenibile. Una forte cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico è il requisito fondamentale per dare vita a un Green New Deal realmente globale. Il Nord America e gli stati membri dell’Unione europea rappresentano un’ampia quota dell’economia e del commercio globali. Gli Stati Uniti, il Canada e le quattro maggiori economie europee (Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia) nel 2008 hanno prodotto il 45% del Pil mondiale. Ma, sempre a livello mondiale, contano anche per il 32% del consumo di energia (dati 2005) e per il 29% delle emissioni di gas serra. I miei cari amici Gianni Silvestrini e Antonio Cianciullo hanno realizzato uno splendido resoconto delle trasformazioni che la green economy ha già messo in moto negli angoli più diversi del mondo: da Curitiba a Friburgo, dalla General Electric alla STMicroelectronics. Nella vivida descrizione dei più incisivi casi studio i due autori hanno potuto far riferimento alla loro pluridecennale esperienza nel settore, per mostrare come un nuovo spirito imprenditoriale stia iniziando a indirizzare il mainstream industriale nello stesso modo in cui le piccole software house hanno trasformato l’economia dell’informazione all’inizio degli anni Settanta. La corsa della green economy fornisce una visione strategica che i leader aziendali, in tutto il mondo, farebbero bene a seguire. Christopher Flavin Presidente del Worldwatch Institute Washington D.C. Febbraio 2010


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introduzione

Luglio 1979 Il presidente Jimmy Carter inaugura un impianto solare sul tetto della Casa Bianca dichiarando: “La storia dirà se questi collettori si trasformeranno in un pezzo da museo o simboleggeranno l’inizio di una nuova era”. L’evento è accolto con un sorriso e una nota divertita sulle pagine dei giornali: l’energia da fonti rinnovabili è considerata un giocattolo che non deve distrarre dal big oil e dal big money. Malgrado il potenziamento dei finanziamenti alla ricerca per le rinnovabili, solo Barry Commoner, assieme a una pattuglia di ambientalisti americani, prende l’iniziativa sul serio. Propone, inascoltato, di lanciare un piano di investimenti pubblici sul solare come quello che il Pentagono decise a metà degli anni Cinquanta, in piena guerra per la conquista dello spazio, garantendo all’industria dei semiconduttori le commesse per i circuiti di guida missilistici che cambiarono il mercato, facendo scendere i prezzi di 25 volte in 5 anni. In attesa del verdetto della storia, all’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca le cronache registrano lo smantellamento dell’impianto voluto da Carter: i pannelli solari finiscono in un magazzino per venire poi installati, nel 2009, sul tetto del caffè dello Unity College, nel Maine.

Luglio 2009 Nel suo primo discorso radiofonico da presidente, Barak Obama lancia un messaggio molto chiaro indicando l’obiettivo di raddoppiare la produzione di energia verde in un triennio: “Dobbiamo compiere una scelta. Possiamo rimanere uno dei paesi maggiormente dipendenti dalle importazioni di


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greggio o possiamo fare investimenti che ci permetteranno di diventare il paese leader nelle esportazioni di tecnologie per le fonti rinnovabili”. Poi inizia un tour tra le fabbriche di aerogeneratori e di moduli solari e a luglio, al G8 all’Aquila, insiste sul piano di rilancio delle rinnovabili. A ottobre, inaugurando in Florida la più grande centrale fotovoltaica degli Usa, 25 megawatt che sono parte di un progetto da 110 megawatt, aggiunge: “Oggi facciamo un primo passo verso l’economia verde del XXI secolo. Si tratta di un impianto ad alta tecnologia che consente ai consumatori di controllare la loro energia”.

Luglio 2039 Roma, le 9 del mattino. L’aria è una morsa di vapore caldo e i runner sono già tutti a casa: la concentrazione di ozono sconsiglia la corsa. Meglio del corpo umano resiste la tecnologia. L’asfalto, lontano parente del suo progenitore d’inizio secolo, regge la pressione termica e aiuta a catturare gli inquinanti. Sui tetti delle case brillano i pannelli solari termici e quelli fotovoltaici che, combinati ai minicogeneratori a idrogeno, trasformano gli edifici in produttori netti di energia. I computer leggono il dettaglio dei consumi casa per casa: da una parte spengono una lavatrice, dall’altra rinviano l’accensione di una lavastoviglie evitando il picco di consumo che, magari per pochi minuti di sovraccarico, avrebbe richiesto una nuova centrale elettrica. È la rivoluzione delle smart grid, le reti intelligenti che permettono di radiografare in modo centralizzato i consumi elettrici, di creare tariffe su misura come per i cellulari, di risolvere i guasti a distanza. L’energia entra ed esce da milioni di luoghi, si compra e si vende al dettaglio oltre che all’ingrosso. Dopo il boom dei condizionatori, che aveva portato a livelli insostenibili la produzione di energia nei mesi estivi sempre più siccitosi, è stato varato un piano nazionale per la climatizzazione passiva. Per legge, le nuove abitazioni devono avere tetti verdi, esposizione orientata secondo le condizioni climatiche locali, protezione delle superfici vetrate, sistemi di raffrescamento passivo come le torri a vento, eredi delle antiche costruzioni arabe. Ci sono orti di quartiere gestiti a livello condominiale: oasi verdi che servono anche a smorzare il calore dei canyon di asfalto e a fornire una base di autoproduzione per alcuni prodotti alimentari di prima necessità.


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introduzione

I sistemi di telelavoro hanno in parte sostituito i grandi uffici e la mobilità è prevalentemente condivisa e on demand: i minicomputer tascabili registrano di minuto in minuto le offerte di percorsi sulle varie direttrici di spostamento; totem elettronici segnalano agli angoli delle vie l’orario di passaggio dei mezzi di trasporto per raggiungere la destinazione richiesta; le aziende organizzano per i lavoratori spostamenti collettivi ma flessibili. Ogni abitante della metropoli ha nel portafoglio una tessera unica automatizzata che gli permette di salire sui mezzi pubblici e di affittare una bici o un’auto in car sharing in uno dei 920 parcheggi di scambio. Si può prenotare il posto sul bus o sui tram. Le piste ciclabili hanno raggiunto una lunghezza di 850 chilometri e un quarto degli spostamenti nella città avvengono sulle due ruote. Il trasporto non è l’unica rete che collega gli abitanti delle metropoli. Anche l’informatica è stata utilizzata per proteggere i cittadini dalle ondate di calore e dai virus mutanti che si propagano a grande velocità. L’Organizzazione mondiale della sanità ha creato un sistema di allerta che è costantemente aggiornato su tutti i media, e sullo stesso canale passano anche le informazioni sulle varie forme di prevenzione.

il futuro reale Andrà veramente così? Riusciremo volontariamente ad adattarci al clima che involontariamente abbiamo creato bruciando in pochi decenni le scorte di petrolio e di carbone che si erano andate accumulando sotto terra in milioni di anni? Basteranno la benedizione di Obama e l’apertura di Pechino a dare vigore alla linea ecologista che l’Europa ha costantemente predicato e saltuariamente praticato? Per ora è solo una possibilità, ma è l’unica per ridurre l’impatto della devastazione climatica che abbiamo innescato modificando l’atmosfera a una velocità mai sperimentata durante la storia umana. Del resto, molti elementi fanno ritenere che da questa scelta non si tornerà indietro negli Usa, come negli altri paesi che hanno iniziato un percorso di rottura con il mondo dominato dai combustibili fossili. L’innovazione nel settore energetico sta infatti diventando il volano di una trasformazione molto più ampia che investe il nostro modo di produrre, di mangiare, di divertirci.

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All’epoca del secondo shock petrolifero, la preoccupazione principale era legata alla dipendenza dalle importazioni di greggio. Oggi la spinta verso la riduzione delle emissioni di anidride carbonica e verso lo sviluppo delle rinnovabili è alimentata da due potenti leve. La prima è, come 30 anni fa, legata alle preoccupazioni per la disponibilità di petrolio, ma con una differenza non trascurabile. Le due crisi degli anni Settanta sono state innescate da singoli eventi politici come la guerra arabo-israeliana e la rivoluzione khomeinista, mentre oggi siamo di fronte a un dato strutturale: si ha la certezza della fine imminente dell’era del greggio a basso costo e si teme che nell’arco dei prossimi dieci anni l’offerta non riuscirà a far fronte alla domanda. Da questo punto di vista è significativo il fatto che Fatih Birol, capo economista dell’Iea (International Energy Agency, Agenzia internazionale dell’energia), nell’agosto del 2009 abbia esplicitamente dichiarato che il picco della produzione di petrolio potrebbe avvenire prima del 2020. La forte preoccupazione della Iea deriva dal declino della produzione di greggio nei principali giacimenti: nel 2007 si era valutato un calo annuo del 3,7%, ma le più recenti stime danno un tasso di discesa del 6,7% l’anno. Anche se la domanda mondiale non aumentasse, per mantenere l’attuale equilibrio energetico occorrerebbe trovare entro il 2030 nuovi giacimenti in grado di fornire una quantità di petrolio pari a quattro volte la produzione attuale dell’Arabia Saudita.

la sfida del clima L’altro potente driver della svolta energetica è il riscaldamento globale. Negli ultimi anni si è deciso di considerare l’aumento di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali come l’incremento massimo accettabile per evitare conseguenze catastrofiche. Il tetto di temperatura da non superare si traduce nella concentrazione massima accettabile di anidride carbonica (CO2) in atmosfera espressa in parti per milione (ppm). E per valutare l’impatto degli altri gas serra si parla di concentrazione di CO2 equivalente (CO2eq). Quindi, nel caso della soglia dei 2 °C, il valore da non superare corrisponde a 450 ppm CO2eq, obiettivo che si può ottenere solo iniziando a ridurre le emissioni mondiali entro i prossimi dieci anni.


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introduzione

Oggi la concentrazione di anidride carbonica è di 387 ppm, ma considerando gli altri gas serra e l’attuale crescita di 2 ppm di CO2 l’anno, avremo già raggiunto la soglia critica dei 450 ppm CO2eq nell’arco di poco più di un decennio. In altre parole, abbiamo solo 10 anni di tempo non per premere il freno della macchina lanciata verso il burrone, ma per ottenere lo stop effettivo. Questo spiega la preoccupazione di chi sostiene che anche dimezzando le emissioni serra entro il 2050 sarebbe impossibile mantenere l’aumento della temperatura del pianeta entro i 2 gradi. E le richieste drastiche di chi ritiene necessario fare di più, mantenendo l’aumento entro la soglia di 1,5 °C, che corrisponde a un tetto di CO2eq di 350 ppm: una concentrazione di anidride carbonica in atmosfera minore di quella attuale. Questa è, per esempio, la posizione di James Hansen, il direttore del Goddard Institute for Space Studies, lo scienziato della Nasa che in una famosa audizione al Congresso Usa già nel 1988 aveva affermato di essere sicuro al 99% che si era in presenza di un riscaldamento del pianeta. Hansen oggi sostiene che, se l’umanità vuole mantenere il pianeta in condizioni simili a quelle in cui la civiltà si è sviluppata, occorrono misure drastiche come lo stop alla costruzione di centrali a carbone prive delle tecnologie di sequestro della CO2 e una riforestazione spinta per accelerare l’assorbimento del carbonio da parte della vegetazione e del suolo. Questo nuovo target sta suscitando forte interesse in molti paesi, tanto che si è creato un movimento organizzato attorno al sito www.350.org: lo sostengono personalità come il direttore esecutivo dell’Unep Adam Steiner, l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, la fisica Vandana Shiva e l’ex vicepresidente americano Al Gore.

entra in scena la green economy Visto l’esiguo spazio che ci separa dal burrone climatico, bloccare l’aumento della temperatura a 2 gradi potrebbe sembrare un traguardo impossibile. Ma è proprio quando tutto sembra perso che si mettono in moto le energie profonde. Così, dopo tre decenni di appelli allo sviluppo sostenibile che avevano il sapore dei sermoni domenicali in una chiesa

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la corsa della green economy

frequentata da peccatori incalliti, all’improvviso è effettivamente cambiato qualcosa: a sostenere con convinzione l’idea di un mercato più attento all’equilibrio degli ecosistemi non sono più solo i teorici della sostenibilità (gli ambientalisti), ma anche quelli dello sviluppo (gli economisti). La green economy è diventata la parola d’ordine dei mercati più dinamici e dei paesi leader. Un processo di cambiamento che si è avviato a una velocità addirittura sospetta: la metamorfosi appare tanto veloce e ampia da lasciare qualche dubbio. Quanto green washing c’è dietro le dichiarazioni ufficiali? Quanti realmente percepiscono la portata della rivoluzione produttiva in atto? Quali sono i confini della riconversione verde? A quale modello di società corrispondono? Che evoluzione avrà il nuovo corso economico? Quali cambiamenti degli stili di vita dobbiamo aspettarci? Sono le domande a cui questo libro prova a rispondere partendo dalla definizione di green economy e dai dati che mostrano l’urgenza di un cambiamento radicale del modo di produrre le merci e l’energia. Per green economy si intende un’economia capace di usare con efficienza l’energia e le materie prime, di intervenire sugli ecosistemi senza danneggiarli, di guardare ai rifiuti come a una fase del continuo divenire delle merci e non come a un elemento da espellere con fastidio dal ciclo produttivo. Questa definizione è utile per la carica fortemente evocativa che l’espressione “green economy” incarna, ma a rigor di logica l’aggettivo dovrebbe essere definito pleonastico. Dovrebbe essere sufficiente parlare di economia secondo la definizione che ne dà il vocabolario Garzanti: “Razionale gestione delle risorse disponibili per un determinato uso”. Cosa c’è infatti di razionale in un’economia come quella dominante, che si nutre chiedendo sempre più risorse mentre le risorse declinano pericolosamente e si libera degli scarti minando gli ecosistemi che proteggono la vita? L’economia dovrebbe essere per sua natura green; non lo è perché gli effetti dell’inquinamento sono stati rimossi dalla visuale collettiva, nascosti sotto il tappeto. Basta il buon senso per intuire che i 9 miliardi di esseri umani su cui con ogni probabilità si fermerà la spaventosa corsa alla crescita demografica non potranno sopravvivere mantenendo gli standard di consumo di uno statunitense. Già oggi l’umanità ha il bilancio ambientale in rosso e chiude i conti in un falso pareggio rubando ai nipoti acqua,


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introduzione

humus, foreste. Per far girare il motore della nostra economia usiamo il 30% in più delle risorse che il pianeta rinnova ogni anno (la differenza viene presa da risorse non rinnovabili). Nove miliardi di esseri umani con un livello di consumo statunitense avrebbero bisogno di altri 6 pianeti. Anche perché quello tuttora in uso viene trattato come un vuoto a perdere: nel corso del XX secolo la popolazione umana si è moltiplicata per quattro, il consumo di energia per 16 e quello di acqua per 9, costringendo alla sete oltre un miliardo di persone e altri 24 milioni a trasformarsi in profughi climatici; la desertificazione è arrivata a minacciare un terzo delle terre e solo in Cina ruba ogni anno quasi 4.000 chilometri quadrati di suolo fertile; la superficie delle città si è decuplicata; il “colpo di stato biologico” di cui parla lo storico John McNeill ha creato le premesse per la sesta estinzione di massa nella storia del pianeta, la prima causata da una sola specie, quella che si è autodefinita sapiens. Per uscire dalla trappola non resta che mantenere attivo il motore della produzione cambiandone il segno, cioè diminuendo l’impatto dell’umanità sugli ecosistemi. Agire cioè, come spiegano Paul e Anne Ehrlich, sulla formula impatto = popolazione x reddito x tecnologia. Sul primo fattore di questa moltiplicazione è però auspicabile un intervento soft: solo le guerre e le epidemie incidono rapidamente sulla voce demografia. Purtroppo la possibilità non si può escludere e infatti nel 2004 il Pentagono l’ha contabilizzata in uno studio affidato a due esperti di programmazione economica, Peter Schwartz e Doug Randall, che hanno disegnato gli scenari drammatici segnati dai cambiamenti climatici che nell’arco di un paio di decenni potrebbero sconvolgere un mondo sovrappopolato: milioni di morti in guerre e disastri naturali. Un futuro da incubo. Per evitarlo occorre agire sugli altri due fattori della moltiplicazione fatale: consumi e tecnologia, cioè stili di vita e capacità di produrre ricchezza usando meno risorse. Alcuni governi hanno già iniziato questo percorso e la cura ha fatto bene sia all’economia sia all’ambiente. Ma i virtuosi sono ancora pochi: il parametro dell’impronta ecologica, cioè del segno impresso sugli ecosistemi dalla produzione, mostra la grande disomogeneità delle diverse economie e il peso ancora limitato delle scelte più avanzate.

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la corsa della green economy

Per misurare le reali possibilità della green economy e uscire dal rumore di fondo che l’abuso di questa espressione sta creando, conviene dunque analizzare i vari aspetti della rivoluzione tecnologica e culturale in atto.

i confini e la consistenza della green economy Volendo caratterizzare l’ingresso nella green economy di un paese dal punto di vista delle scelte energetiche, si possono considerare due indicatori. Da un lato l’intensità energetica, che sottolinea l’efficienza con cui si utilizzano i flussi di energia primaria, dall’altro la quota di fonti rinnovabili. In questo quadro merita un chiarimento una questione che alimenta molte polemiche: il nucleare va inserito nel pacchetto delle misure mirate a combattere i cambiamenti climatici? La necessità di una decarbonizzazione veloce e radicale ha creato qualche incrinatura nell’antinuclearismo del mondo ecologista. Tuttavia, un’analisi pragmatica ed economica delle possibilità offerte dallo sfruttamento commerciale dell’energia atomica esclude il nucleare dall’ambito della sostenibilità per almeno quattro motivi. Primo: la disponibilità di uranio è limitata e le sperimentazioni sui reattori autofertilizzanti hanno mostrato rischi tali da far desistere anche convinti sostenitori di questa filiera. Secondo: a oltre mezzo secolo dalla commercializzazione dell’energia nucleare non è stata ancora individuata una convincente forma di smaltimento in sicurezza di scorie che rimangono ad alta radioattività per centinaia di migliaia di anni. Terzo: in un’epoca segnata dalla crescita della minaccia terroristica neppure la militarizzazione della società, necessaria per ridurre i rischi della filiera nucleare, potrebbe offrire sufficienti garanzie di sicurezza sul ciclo di lavorazione del combustibile perché, dal furto di materiale fissile alla proliferazione nucleare in Stati di scarsa affidabilità politica, le minacce anziché ridursi si stanno moltiplicando. Quarto: il costo elevatissimo rende ardua la realizzazione di impianti senza aiuti pubblici e rischia di distrarre risorse e intelligenze dalle strategie di riduzione delle emissioni meno costose e attivabili in tempi rapidissimi. A queste considerazioni va poi aggiunto un quinto punto: la variabile tempo. Considerando il periodo necessario alla costruzione delle cen-


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introduzione

trali, una non trascurabile riduzione delle emissioni serra richiederebbe diversi decenni: secondo la Iea il nuovo nucleare diminuirebbe del 6% le emissioni di CO2 a metà secolo. Un contributo limitato e in tempi troppo lunghi. All’inizio del 2010, proprio i dubbi del mondo finanziario hanno indotto Obama a prevedere un sostegno economico per favorire il ritorno sulla scena statunitense, dopo 30 anni, di qualche nuova centrale nucleare per rimpiazzare una parte dei 15 reattori che stanno per andare in pensione non potendo usufruire dell’estensione da 40 a 60 anni della licenza d’esercizio. Dal punto di vista politico l’accelerazione di queste misure, già previste da Bush, è una concessione ai senatori repubblicani mirata a far passare la legge sul clima. Dal punto di vista pratico l’effetto sarà minimo: delle 26 richieste di nuove centrali presentate negli Usa dopo il 2007 ben 19 sono state già cancellate o rimandate. Se tutto andasse bene nel 2017, più probabilmente nel 2020, ci sarebbero due nuovi reattori in grado di generare annualmente una quantità di elettricità inferiore di un terzo rispetto a quella prodotta dai 10 gigawatt eolici installati nel solo 2009 negli Stati Uniti. Le poche altre centrali nucleari che potrebbero aggiungersi produrrebbero solo una piccola frazione dell’elettricità messa in rete nei prossimi vent’anni dalle rinnovabili. Da questo tentativo di Obama si ricavano due considerazioni. La prima è che il nucleare senza incentivi non può decollare e quindi in Italia, semmai si dovessero costruire delle centrali, dovremmo aspettarci degli “incentivi atomici” che farebbero aumentare le bollette elettriche. La seconda è che, malgrado gli aiuti governativi, la marcia dell’atomo sarà molto lenta a causa dei costi e della grande mole di problemi ancora aperti, mentre le rinnovabili crescono a ritmi rapidissimi. Messa da parte la querelle nucleare, restano da definire le misure di rilancio necessarie a imprimere una connotazione sempre più ambientale all’economia e i settori in cui si potrà manifestare con maggiore evidenza questo cambiamento. Un primo filone di interventi si riferisce al miglioramento delle caratteristiche di alcune tipologie di prodotti. Innovazioni radicali coinvolgeranno merci di largo consumo, dagli elettrodomestici alle automobili

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ai computer, come è successo negli Stati Uniti dove, grazie all’introduzione di limiti sempre più stringenti, l’efficienza dei frigoriferi è oggi quattro volte superiore a quella dei modelli del 1975. Ancora più incisive saranno le conseguenze per il settore delle costruzioni con l’irruzione sulla scena degli edifici carbon neutral, cioè a impatto nullo in termini di emissioni di anidride carbonica. C’è poi il segmento di mercato legato all’introduzione di prodotti radicalmente diversi rispetto a quelli esistenti. È il caso del settore dell’illuminazione che ha visto nel tempo diversi cambiamenti drastici di tecnologia. Oggi nel mondo sono in uso circa 12 miliardi di lampadine elettriche: illuminare un ambiente costa mille volte meno rispetto all’inizio del secolo scorso e diecimila volte meno rispetto al 1850, quando si usavano lampade a olio di balena. Con il pensionamento della lampadina inventata nel 1879, che trasforma in calore invece che in luce il 90% dell’energia utilizzata, è previsto un altro grande balzo di efficienza grazie alle lampadine fluorescenti compatte. E poi un altro salto tecnologico avverrà quando le fluorescenti compatte verranno a loro volta sostituite dai Led che abbattono ulteriormente i consumi, evitano l’uso di metalli pesanti e permettono di direzionare meglio la luce riducendo così l’inquinamento visivo e lo spreco. Naturalmente ricadono nell’area dei prodotti innovativi “killer” anche le fonti rinnovabili che vanno a sostituire i combustibili fossili. In questo campo molte start up si sono cimentate nella produzione di celle e moduli: da QCells a Solarworld, da Suntech a First Solar. Si tratta di realtà nate a partire dalla fine degli anni Novanta che ora esibiscono fatturati annui di parecchie centinaia di milioni o di miliardi di euro. Poi ci sono le compagnie energetiche. In questo gruppo figurano anche le aziende petrolifere, piccole e grandi, che hanno aperto una finestra sulle rinnovabili. È il caso della Shell e della Bp, anche se il loro interesse è decisamente calato negli ultimi anni, mentre in Italia è crescente il coinvolgimento nelle energie pulite di gruppi legati al petrolio come Erg e Api. Il 40% della potenza eolica nel mondo è oggi di proprietà di compagnie elettriche che guardano con particolare attenzione alle possibilità offerte soprattutto nell’offshore: secondo l’autorevole società di consulenza BTM, la quota raddoppierà nei prossimi 5 anni perché


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introduzione

la crisi finanziaria favorirà le utilities, che hanno meno problemi di accesso al credito. Per accelerare la corsa, le compagnie elettriche cominciano a intervenire nella fase di produzione delle tecnologie: va in questa direzione lo stabilimento per la realizzazione di celle solari a film sottile con una capacità annua di 160 megawatt che verrà completato a Catania entro il 2011 da Enel, Sharp e STMicroelectronics. Infine, vi sono le aziende che provengono da altri campi e sono state folgorate dalle opportunità delle rinnovabili. È il caso di Sharp, Sanyo, Sony, Mitsubishi, General Electric, Siemens. Lo spostamento degli interessi di queste multinazionali verso le rinnovabili accelererà le attività di ricerca e quindi la riduzione dei costi delle energie pulite.

i vantaggi economici del cambiamento Il lungo elenco delle società citate mostra il peso crescente del green new deal nell’economia globale. Un’espansione determinata da un insieme articolato di motivazioni che possiamo riassumere in tre grandi spinte convergenti. Un primo fattore di forza della green economy è la possibilità di creare nuova occupazione e in particolare di moltiplicare, a parità di investimento, i posti di lavoro rispetto all’economia tradizionale. Nel rapporto The Economic Benefits of Investing in Clean Energy, si è calcolato che negli Usa un milione di dollari investiti nel comparto delle energie pulite genera 16 posti di lavoro, il triplo rispetto a un analogo investimento nel campo dei combustibili fossili. Nel rapporto Lavori low carbon per l’Europa, preparato dal Wwf in vista di Copenaghen, si stima che la green economy possa portare 2,5 milioni di posti di lavoro all’Europa entro il 2020. Per restare in Italia, le detrazioni fiscali del 55% si possono considerare come una tipica misura da green new deal. La riqualificazione energetica degli edifici rappresenta infatti uno strumento che, con costi limitati per lo Stato grazie all’incremento del gettito fiscale legato all’emergere del sommerso, dà impulso all’economia, genera posti di lavoro e consente di ridurre le importazioni energetiche.

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Veniamo ora al secondo punto di forza della green economy: la possibilità di rendere meno traumatico il passaggio verso un’economia a basso contenuto di carbonio. Le prospettive sul medio e lungo periodo, come ci ricorda la Iea, saranno condizionate dagli alti prezzi dell’energia e dalla necessità di ridurre drasticamente l’emissione di gas serra. In questo scenario, caratterizzato dalla forte richiesta di nuove tecnologie e dall’apertura di mercati interessanti, l’amministrazione statunitense con il suo pacchetto green ha giocato d’anticipo accelerando la conversione di alcuni comparti e favorendo la creazione di settori innovativi. Un esempio tipico è quello dell’auto. Era evidente che i modelli che venivano sfornati dall’industria statunitense erano poco competitivi, tanto che i rivali giapponesi avevano progressivamente guadagnato importanti quote di mercato. La crisi economica ha estremizzato le difficoltà e al tempo stesso ha consentito di individuare una via d’uscita perché l’amministrazione Obama ha condizionato l’erogazione di aiuti federali all’inversione delle scelte strategiche delle major automobilistiche. L’operazione Chrysler-Fiat in questo senso è rappresentativa di un cambio di marcia impensabile fino a poco tempo fa, e indica la possibilità della trasformazione di un modello sociale, organizzativo e mentale, prima ancora che tecnologico. Veicoli più piccoli e più efficienti erano infatti già in circolazione, ma non venivano considerati vincenti dalle grandi case automobilistiche che preferivano puntare su altre caratteristiche del prodotto auto, come la velocità e la spaziosità. La bancarotta all’orizzonte e il sostegno governativo condizionato alla riconversione ecologica hanno determinato le condizioni per la svolta strategica mirata all’aumento di efficienza. Il terzo fattore che gioca a vantaggio della green economy è la crisi economica, finanziaria e produttiva che ha risvegliato i fantasmi del 1929. Le misure di rilancio dell’economia hanno avuto in molti casi una forte connotazione verde perché i finanziamenti pubblici in questo campo sono considerati misure anticicliche che agiscono come ricostituente nelle fasi critiche dell’economia. Ai tempi del New Deal si diceva che pur di far lavorare i disoccupati si potevano scavare buche di giorno per poi riempirle di sera. Oggi possiamo, più efficacemente, creare


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introduzione

figura 1

la componente verde nei pacchetti di stimolo dell’economia Totale: 751,4 Green: 86,6 11,5%

Totale: 375,6 Green: 9,6 2,6%

Giappone Usa Totale: 453,1 Green: 171,1 37,8%

Totale: 81 Green: 10,7 13,2% Germania

Totale: 80 Green: 1 1,3% Cina

Italia

Totale: 29,5 Green: 23,7 Corea 80,5% del Sud

Totale: 26,1 Green: 5,5 Francia 21,2%

Totale: 23,5 Green: 1,6 Uk 6,9%

Totale: 11 Spagna Green: 0,6 5,8%

Fonte: Wuppertal 2009. I valori sono espressi in miliardi di euro.

occupazione tappando altri “buchi”: quelli delle dispersioni termiche dei nostri edifici. Si tratta di un’occasione irripetibile per dare fiato alla green economy. Il processo è già in corso, ma i paesi hanno reagito in modo molto diverso. L’Europa ha investito una somma pari allo 0,9% del Pil, gli Usa l’1,8%, la Cina il 7,1%: si tratta di finanziamenti importanti che includono una componente verde significativa anche se, per il momento, non sufficiente. Secondo le Nazioni Unite, un global green new deal avrebbe bisogno di risorse pari all’1% della ricchezza mondiale, cioè 750 miliardi di dollari: si è arrivati a 470 miliardi di dollari. Negli Usa l’11,5% degli investimenti è qualificato dal punto di vista ambientale. In Cina più di un terzo dei 453 miliardi di euro del piano di rilancio è stato destinato alle misure verdi. La Corea del Sud ha dedicato addirittura l’80% del pacchetto di stimolo economico al comparto energetico ambientale. In Europa il panorama è disomogeneo, con in testa la Germania, i paesi scandinavi, la Spagna e in coda l’Italia e la Polonia che non hanno dato spazio alle misure di rilancio economico ed ecologico. Sono state elaborate stime sulla capacità di generare occu-

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pazione da parte dei vari pacchetti di stimolo: si va dai 100.000 nuovi addetti della Francia, ai 250.000 della Germania, ai 350.000 della Gran Bretagna, ai 960.000 della Corea del Sud, per finire ai 3-3,5 milioni degli Usa. Riepilogando, le tre frecce all’arco della green economy sono: rilancio dell’occupazione, difesa del clima, fuoriuscita dalla crisi. È la somma di questi tre fattori a risultare determinante, non il singolo intervento spot perché il new green deal non è una formula magica, una pozione da somministrare per eliminare un singolo problema: per essere vincente deve riuscire a cambiare il registro complessivo della produzione contribuendo al riorientamento strategico di molti settori industriali. Questa sfida esige un colpo d’ala, una risposta che nei prossimi dieci, venti anni cambi il volto della vecchia economia, per poi proseguire e allargarsi operando una profonda trasformazione nel modo di produrre l’energia, negli stili di vita, nelle abitudini di consumo, nella gerarchia dei valori. Una rivoluzione culturale che deve partire da scelte importanti in grado di avviare la transizione verso un’economia più leggera dal punto di vista dell’impatto ambientale, più solida dal punto di vista dei bilanci, più attenta dal punto di vista dello spreco di energia e di materie prime. Solo così, nella seconda metà del secolo, sarà possibile predisporre le misure necessarie per adattarsi ai cambiamenti climatici proteggendo le coste minacciate dall’innalzamento dei mari, governando il flusso dei profughi ambientali, trovando alternative alla mancanza di acqua dovuta ai processi di salinizzazione, al ritiro dei ghiacciai, al cambiamento dei cicli idrici. Il nuovo contesto energetico basato sulle fonti rinnovabili e sull’idrogeno ottenuto per elettrolisi dall’acqua consentirà di concentrare gli sforzi verso strategie difensive molto costose, verso le nuove mura che, come avveniva in un passato lontano, torneranno a difenderci da minacce esterne: questa volta dalla crescita dei mari, un nemico che abbiamo creato rompendo il giocattolo degli ecosistemi prima di imparare a conoscerlo. Un’economia strangolata dai costi altissimi di combustibili fossili e fissili sempre più rari e dalle scorie radioattive di centinaia di centrali nucleari avrebbe invece difficoltà a trovare le risorse necessarie a difenderci dalla violenza del clima mutante.



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Il 2008-2009 è stato il biennio della grande crisi economica, ma anche il trampolino di lancio della green economy. Nel mondo, gli impianti eolici creati nel 2009 hanno prodotto più energia delle centrali atomiche installate negli ultimi cinque anni. In Germania il 31% del Pil dipende ormai dalle ecoindustrie. L’economia verde cresce e si rafforza, moltiplica i posti di lavoro mentre i comparti produttivi tradizionali soffrono. Ma quali sono i suoi confini? E in che modo sta cambiando la nostra vita quotidiana? A queste domande risponde il libro di Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini che, attraverso l’analisi di 23 storie esemplari, racconta la corsa della green economy sostenuta da tanti soggetti diversi: aziende che evitano il fallimento spingendo sull’innovazione, colossi industriali che si convertono all’efficienza, città che sperimentano il modello low carbon. Ad accomunarli è la capacità di immaginare un futuro in cui si possa vivere e lavorare in modo più sicuro, più sano e più piacevole.

Euro 14,00 ISBN 978-88-96238-51-6

www.edizioniambiente.it

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la corsa della green economy

gianni silvestrini, ricercatore del Cnr, è direttore scientifico del Kyoto Club e della rivista QualEnergia. Autore di numerosi articoli scientifici, coordina il master “Ridef – energia per Kyoto” del Politecnico di Milano. Ha vinto l’“European solar prize 2001” ed è stato eletto nel consiglio direttivo dell’European Council for an Energy Efficient Economy. Ha ricoperto la funzione di direttore generale presso il Ministero dell’ambiente e di consigliere per le fonti rinnovabili del Ministro dello sviluppo economico Pier Luigi Bersani. È presidente di Exalto, una nuova società della green economy.

ta s c a b i l i dell’ambiente

Antonio Cianciullo Gianni Silvestrini

antonio cianciullo è inviato di la Repubblica. Per conto del giornale segue da oltre 25 anni i temi ambientali e ha partecipato ai principali appuntamenti internazionali: dalle conferenze sull’ozono negli anni Ottanta all’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, dai reportage sui grandi disastri petroliferi ai vertici sul cambiamento climatico. È laureato in filosofia. Per la sua attività ha vinto numerosi premi. Tra i suoi libri Atti contro natura (Feltrinelli, 1992), Ecomafia (Editori Riuniti, 1995, con Enrico Fontana), Far soldi con l’ambiente (Sperling & Kupfer, 1996, con Giorgio Lonardi), Il grande caldo (Ponte alle Grazie, 2004), Soft economy (Rizzoli, 2005, con Ermete Realacci).

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Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini

la corsa della green economy Come la rivoluzione verde sta cambiando il mondo Prefazione di Christopher Flavin Presidente del Worldwatch Institute

A Stoccolma basta fare 300 passi per trovare una fermata del trasporto pubblico e se il tram non arriva entro 20 minuti si ha diritto a prendere il taxi gratis. La Sassonia è diventata la Solar Valley della Germania: produce il 20% delle celle fotovoltaiche mondiali. Nelle Marche è nata la casa a zero emissioni. In California i frigoriferi hanno battuto l’atomo: renderli più efficienti ha reso disponibile più elettricità di quella prodotta da un reattore nucleare. Vista dalla prospettiva della green economy la crisi fa meno paura. Anzi, per molti settori è il momento della riscossa. Entro dieci anni le fonti rinnovabili in Germania supereranno il settore automobilistico. In Cina, leader mondiale del solare, mezzo miliardo di persone utilizza l’energia pulita prodotta da piccoli impianti. Negli Stati Uniti quasi la metà della potenza elettrica installata negli ultimi due anni viene dal vento, in Europa nel 2009 le rinnovabili hanno fatto ancora meglio. È una svolta radicale: non più profitto contro benessere ma profitto dal benessere. Un nuovo modello di democrazia energetica in cui potere e vantaggi economici sono decentrati.


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