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La seconda occasione
per dare nuova vita ai nostri rifiuti Quintino Protopapa, Giovanni Corbetta
illustrazioni Felix Petruška
progetto grafico Grafco3
coordinamento editoriale e redazione a cura di Edizioni Ambiente
© 2012, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax 02 45487333 ISBN 978-88-6627-051-5
Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) Stampato in Italia – Printed in Italy
i siti di edizioni ambiente: www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.puntosostenibile.it www.freebookambiente.it seguici anche su: Facebook/EdizioniAmbiente Twitter.com/EdAmbiente
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sommario
introduzione
di Edo Ronchi
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1. l’isola indesiderata
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2. dalla tavola al cassonetto
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3. la pattumiera hi-tech
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4. inerti, ma utili
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5. l’insostenibile compiacimento del consumo
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6. recuperanti e creativi
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7. il giacimento delle merci usate
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8. in principio era il fumo...
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9. oltre i rifiuti
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introduzione di Edo Ronchi
L’uso massiccio delle risorse materiali, sia rinnovabili (come le biomasse, i prodotti dell’agricoltura, delle foreste, della pesca) sia non rinnovabili (come i combustibili fossili, i minerali metallici e non metallici, il suolo), è alla base del nostro sviluppo economico: si stima che, nel secolo scorso, l’uso di risorse materiali sia cresciuto nel mondo di circa otto volte. Il consumo massiccio di tali risorse ha impatti ambientali rilevanti e crescenti: il prelievo di risorse rinnovabili sta riducendo gli stock ittici, alimentando la deforestazione e l’impoverimento di suoli; l’uso massiccio dei combustibili fossili sta alimentando la crisi climatica, l’estrazione dei metalli ha una serie di conseguenze ambientali in diversi territori e il consumo di suolo produce danni agli ecosistemi, alla biodiversità e agli assetti idrogeologici. Sia durante i processi produttivi e, soprattutto, alla fine dei cicli di consumo, una parte consistente di tali risorse materiali alimenta un enorme flusso di rifiuti la cui gestione è diventata uno dei problemi ambientali più rilevanti per le moderne società industriali. Oltre che per gli impatti ambientali, l’uso massiccio di risorse materiali preoccupa per la sicurezza degli approvvigionamenti necessari ad alimentare lo sviluppo economico, in particolare per quelle che vengono in prevalenza importate: disponibilità limitate e prezzi cre-
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scenti, per economie fortemente dipendenti da massicci impieghi di tali risorse, costituiscono fortissimi ostacoli per le possibilità di sviluppo futuro. Per ragioni ambientali ed economiche, da qualche anno si è cominciato a prestare maggiore attenzione a questo tema. Si è intanto cominciato a misurare, con appositi indicatori, il consumo di risorse materiali. Un recente rapporto dell’Agenzia europea dell’ambiente (EEA, Environmental indicator report, 2012) fornisce numeri piuttosto dettagliati sui consumi domestici di materiali in Europa, che si aggirano fra le 15 e le 17 tonnellate all’anno per ogni europeo. Se però includiamo, calcolando l’impronta del consumo globale di materiali, anche tutte le importazioni, arriviamo a cifre tre volte superiori, comprese fra le 45 e le 50 tonnellate pro capite per anno. Il che significa che per circa due terzi dei nostri consumi di risorse materiali dipendiamo dall’estero e pesiamo sul resto del mondo. Nel 2008 in Europa abbiamo prodotto 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti, per la gran parte generati da processi industriali e da attività di costruzione e demolizione. Circa la metà di questi rifiuti sono riciclati, il 45% smaltiti in discarica e il 5% inceneriti. Dei circa 250 milioni di tonnellate di rifiuti urbani prodotti ogni anno in Europa, se ne ricicla (dati Eurostat, riferiti al 2010) circa il 40% (dei quali il 15% è costituito da compostaggio), il 22 % viene incenerito e il 38% viene smaltito in discarica. I dati Eurostat del 2010 ci dicono però un’altra cosa molto interessante: vi sono già ben sei paesi europei (Germania, Austria, Danimarca, Belgio, Paesi Bassi e Svezia) che stanno azzerando lo smaltimento di rifiuti urbani in discarica, con percentuali che vanno dallo 0 all’1%. È vero che questi paesi inceneriscono quote significative (la Germania incenerisce il 38% dei suoi rifiuti), ma fanno anche un forte recupero di materia (il 62% in Germania, con un 45% di riciclo e un 17% di compostaggio). L’Italia, che smaltisce in discarica circa il 49% dei
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suoi rifiuti urbani (ma in alcune regioni oltre il 70%), ne incenerisce il 18%, ne ricicla il 20% e fa compostaggio col 13%, allineandosi con i migliori in Europa, potrebbe già risolvere diverse situazioni critiche e ridurre notevolmente lo spreco di risorse materiali, azzerando lo smaltimento in discarica. Il riciclo dei rifiuti per ridurre il consumo dei materiali è importantissimo, ma non è sufficiente. Con la Direttiva 98 del 2008 sulla gestione dei rifiuti, l’Europa fissa una gerarchia e mette al primo posto la prevenzione della produzione di rifiuti, dopo aver varato (EC, 2002) una strategia per disaccoppiare la crescita economica dal consumo di risorse. Anche se, per ora, con risultati piuttosto modesti. Registriamo, infatti, una riduzione nell’ultimo decennio del consumo interno di risorse materiali in Europa per due fattori: l’aumento delle importazioni – e quindi una riduzione di risorse materiali consumate all’interno sostituite da importazioni dall’estero – e la recessione economica del 2009, per alcuni paesi europei ancora in corso. Perché è così difficile realizzare tale disaccoppiamento e avere sviluppo economico e sociale consumando meno risorse materiali? Intanto perché è un nodo veramente complesso da sciogliere. Le due crescite, delle produzioni e dei consumi, infatti, si alimentano a vicenda, producendo benefici (profitti) per gli imprenditori, benefici per i lavoratori (occupazione e retribuzioni) e benefici per i consumatori (disponibilità di quantità crescenti di beni e servizi). Più la produzione è di massa (fordismo) maggiore è la disponibilità di beni a prezzi minori; più il consumo è veloce e di massa (consumismo) più possono crescere la produzione, l’occupazione e i profitti. Ogni tanto questo meccanismo, per varie ragioni, si inceppa e si entra in una recessione che fa calare la produzione e i consumi. Per rilanciare lo sviluppo, in quei casi cosa si cerca di fare? Di far ripartire, cioè di aumentare, i consumi e la produzione. Questo meccanismo non tiene conto adeguatamente né dei reali benefici (si può convenire
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sul fatto che il beneficio aggiunto di molti consumi superflui sia molto basso) né di tutti i costi reali (sottovaluta o ignora, in particolare, l’incremento di quelli ambientali), ma è, tuttavia, un meccanismo potente. Al punto che ha assorbito e ridotto il reale potenziale di quelle che potevano costituire i cardini di una alternativa: l’innovazione tecnologica e l’ecoefficienza. L’innovazione tecnologia ha grandissimi potenziali di alimentare una vera e propria dematerializzazione dell’economia, di alleggerire prodotti, di automatizzare e razionalizzare processi produttivi, di sostituire movimenti materiali con scambi di informazioni e consumi di beni con forniture di servizi, di ridurre quindi consumi di materiali e impatti ambientali. Perché ciò sta accadendo così poco e così lentamente, mentre si moltiplica il consumo di mezzi tecnologici – dai telefonini ai tablet, ai computer, ai televisori – e di altre apparecchiature elettriche ed elettroniche, mentre cresce la dotazione tecnologica dei SUV? Perché la rapida innovazione tecnologica è indirizzata dal meccanismo economico descritto verso una rapida sostituzione di prodotti, con una rapida e consistente crescita della produzione di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. Ci si aspettava di più anche dall’ecoefficienza: dallo sviluppo dell’uso più efficiente dell’energia e delle risorse materiali. Ma anche qui il meccanismo economico sta alimentando quello che è chiamato “rebound effect”: l’uso più efficiente riduce i costi, e la riduzione dei costi, in assenza di altre misure, stimola un aumento, di rimbalzo, dei consumi, che annulla a sua volta le riduzioni prodotte dall’aumento dell’efficienza. L’aumento, per esempio, dell’efficienza dei motori delle auto non ha prodotto una riduzione dei consumi di carburanti perché è stato praticamente annullato da due “rebound effect”: l’aumento delle cilindrate medie e l’aumento dei chilometri percorsi. Tenendo conto di queste e di altre considerazioni, taluni sono arri-
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vati alla conclusione che solo una “decrescita” economica potrebbe assicurare una riduzione del consumo di risorse materiali e una sostenibilità ecologica. Tale conclusione a me pare teoricamente debole e praticamente rinunciataria. Non penso che si possa oggi escludere, date le tendenze in atto, che la crisi climatica ed ecologica possano produrre anche una decrescita economica globale. Penso però che tale prospettiva debba essere contrastata perché avrebbe un alto costo sociale (visto che ancora non si è vista una decrescita economica – comunemente detta recessione – senza aumento della disoccupazione, della povertà, del taglio dei servizi e dell’aumento delle sofferenze sociali) e perché disponiamo di un’alternativa, non facile, ma ancora praticabile. Questa alternativa, ormai rilevante negli indirizzi europei e dell’Ocse, al centro del recente Summit di Rio sull’ambiente e lo sviluppo, è chiamata green economy: un indirizzo dell’economia che punta ad alimentare nuovo sviluppo riducendo i consumi di risorse materiali e gli impatti ambientali entro la sostenibilità ecologica. Oltre agli specifici approfondimenti settoriali, ritengo che grande merito della green economy sia proprio quello di promuovere un’organica riflessione sulla riforma del meccanismo economico, proponendo un approccio integrato fra sostenibilità e sviluppo. La proposta di strategia per la crescita verde, elaborata dall’Ocse per Rio+20, indica i cinque obiettivi fondamentali da perseguire congiuntamente: “Modificare gli attuali modelli di crescita, le abitudini dei consumatori, le produzioni, le tecnologie e le infrastrutture”. L’Ocse indica anche gli strumenti necessari per realizzare tale strategia: politiche fiscali che permettano un uso più efficiente delle risorse naturali e rendano più costoso l’inquinamento (un maggiore uso delle tasse ambientali può anche aiutare a ridurre le imposte sul reddito personale e societario). Non bastano però strumenti di mercato – ribadisce l’Ocse – serve anche una normativa ben progettata, poli-
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tiche attive di supporto tecnologico e approcci volontari. La capacità di risposta può essere rafforzata, inoltre, da misure informative che evidenzino le conseguenze dei danni ambientali, nonché la disponibilità di alternative. Un altro contributo di particolare interesse è venuto anche dall’Europa (in particolare con la Comunicazione della Commissione del 20 giugno 2011, Rio+20: towards the green economy and better governance) che ha proposto di investire in risorse chiave e capitale naturale (risorse idriche, risparmio energetico e energie rinnovabili, risorse marine, biodiversità e servizi ecosistemici, agricoltura sostenibile, foreste, riduzione dei rifiuti e riciclaggio) e di combinare strumenti normativi e di mercato (introdurre ecotasse, eliminare sovvenzioni negative per l’ambiente, incentivare investimenti e impiego di risorse finanziarie, pubbliche e private nei cambiamenti e nelle innovazioni di produzioni e consumi, investire in formazione e ecoinnovazione). In questo contesto, ritengo utile la pubblicazione di La seconda occasione – che inquadra efficacemente nel suo contesto economico e sociale la questione del riciclo dei rifiuti – e mi congratulo con Ecopneus che, a solo un anno dall’avvio del sistema di recupero dei pneumatici, promuove strumenti che contribuiscono, come questo volume, a diffondere la cultura della sostenibilità e la prospettiva della green economy.
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“L’invenzione più pericolosa del XX secolo non è stata, come molti credono, la bomba atomica, ma l’immondizia.” Luciano De Crescenzo, Ordine e Disordine un mostro nel pacifico
In una comunicazione tenuta a un convegno, ripresa poi nella raccolta di scritti Costruire il nemico e altri scritti occasionali (Bompiani, Milano 2011), Umberto Eco decantava il fascino dell’isola intesa come terra dell’Utopia, punteggiando di notazioni dotte l’antica ricerca dell’uomo di nuove terre in mezzo al mare, là dove “fioriscono le civiltà ignote e perfette”. Tra isole che non ci sono, isole duplicate, isole non trovate e isole perdute, l’intento di Eco era quello di esplorare le ragioni di un Mito che ha dato un impulso vitale allo sviluppo della cartografia e alla conoscenza del nostro pianeta e che nei secoli passati ha prodotto un genere letterario assai popolare. Basta uscire dal Mito, però, per accorgersi che ancora oggi qualche isola non segnata sulle carte nautiche esiste davvero. Solo che, al contrario di quelle evocate da Eco, nessuno può desiderare di approdarvi. L’operazione, del resto, sarebbe impossibile. Nessuno, anzi, che sia sano di mente, potrebbe rallegrarsi della sua stessa presenza. Il Pacific Trash Vortex non è il luogo in cui è stata ambientata qualche brutta pellicola fantasy. È una distesa reale situata nell’Oceano
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Pacifico tra il 135° e il 155° meridiano Ovest e tra il 35° e il 42° parallelo Nord. Qui, a circa 800 chilometri dalle coste della California, negli ultimi 50-60 anni il gioco delle correnti oceaniche ha prodotto il più grande accumulo di rifiuti dispersi in mare, tenuti insieme da un vortice sottomarino che si muove a spirale in senso orario e che aggrega i rifiuti fino a qualche decina di metri sotto il pelo dell’acqua. L’oceanografo americano Charles Moore, che da anni studia questa isola galleggiante di immondizia, ne valuta il contenuto in circa 100 milioni di tonnellate, la cui gran parte (si stima intorno all’80%) è rappresentata da detriti di plastica. La sua estensione non è chiara perché dipende delle diverse misurazioni del grado di aggregazione dei rifiuti. Le stime più prudenti indicano per quest’isola indesiderata una superficie non inferiore ai 700.000 chilometri quadrati. Si tratta, dunque, di un’area immensa, con un’estensione superiore a quella della penisola iberica e popolata unicamente da quegli scarti di cui l’uomo ha ingenuamente creduto di potersi liberare, ignorando che in pochi anni le forze della natura li avrebbero riaggregati in un unico corpo mostruoso. Il Pacific Trash Vortex è, in fondo, proprio questo. Un autentico mostro marino di proporzioni abnormi che agita i sogni della nostra coscienza, facendo emergere con chiarezza come negli ultimi decenni si sia rovinosamente alterato il rapporto tra l’uomo e i suoi manufatti, tra la ricerca del benessere e la disponibilità delle risorse naturali, tra l’insopprimibile desiderio di progresso e le condizioni minime e irrinunciabili della stessa presenza umana sul pianeta. E non è l’unico mostro di questa specie. Isole galleggianti di rifiuti stanno infatti guadagnando estensione nello stesso Oceano Pacifico, al largo delle coste del Cile, e nell’Oceano Atlantico, in un’area situata in prossimità del Mar dei Sargassi. Ma come è potuto accadere tutto questo? Perché un problema che non
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ha mai avuto rilevanza nelle epoche passate si è trasformato in un incubo per le ultime generazioni e per quelle a venire? E quando e dove si è prodotta questa frattura? il consumo veloce
Per secoli l’uomo ha usato, recuperato, riutilizzato o adattato a nuove funzioni e a nuovi obiettivi i pochi beni e utensili di cui disponeva. Quasi nulla veniva accantonato o scartato. Nelle economie chiuse o relativamente dinamiche del passato tutto aveva valore e veniva conservato con cura, oltrepassando le generazioni. Per secoli, insomma, l’uomo non ha praticamente generato rifiuti, se non in misura insignificante. E le poche eccezioni di un qualche rilievo annotate nelle pagine dei libri di storia non costituivano un vero problema. I cocci delle anfore che nella Roma Imperiale venivano accumulate sulla sponda sinistra del Tevere fino a formare quella “collina” di scarti (Mons Testauces) che darà poi il nome al popolare quartiere di Testaccio, avevano in fondo solo l’effetto di rendere poco attraente quel tratto del paesaggio lungo il corso del fiume. Negli ultimi 60 anni queste sagge abitudini si sono letteralmente capovolte nei paesi industrializzati, e
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il rapporto millenario che ogni essere umano aveva con i beni di cui entrava in possesso si è completamente trasformato. Il valore intrinseco dei beni è stato incorporato in una nuova dimensione temporale che ha modificato la percezione della loro durata utile: i beni, cioè, smettono di essere interessanti in tempi sempre più brevi. Ciò vale tanto per gli oggetti ordinari che si acquistano sul mercato a prezzi irrisori, quanto per quelli molto più costosi e persino per quelli che, con una dizione divenuta ormai palesemente contraddittoria, vengono ancora oggi definiti “durevoli”. La velocità con cui un bene diventa un rifiuto è il parametro che permette di comprendere il senso di questa mutazione antropologica. A differenza delle epoche passate in cui l’uomo non immaginava, né programmava, la dismissione di un bene, e al contrario ne prolungava la vita attraverso nuovi impieghi, il possesso dei beni è oggi normalmente finalizzato a un utilizzo contingente e temporaneo, terminato il quale questi beni diventano rifiuti. E in questa cornice diventano prodotti “usa e getta” anche quei beni che sono stati oggetto di un desiderio intenso e che abbiamo ricoperto per un breve periodo di cure e di attenzioni. Un telefono cellulare, un computer o un’automobile, che durante il periodo di “innamoramento” erano stati compagnie inseparabili da mostrare con orgoglio ad amici e conoscenti, al massimo in qualche anno diventano obsoleti, quasi indegni di essere conservati e destinati, dunque, a essere sostituiti. L’innovazione tecnologica, che pure è la molla del progresso e allarga i confini e le condizioni del nostro benessere, facilita anche un consumo sempre più veloce. L’Ipad 1, per fare un esempio tra i tanti, è stato soppiantato nell’arco di pochi mesi dal suo successore più evoluto, finito in naftalina a sua volta in un arco di tempo ancora più breve dopo l’immissione sul mercato dell’Ipad 3. Pertanto, chi volesse per motivi di portafoglio o per ragioni particolari acquistare le
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vecchie versioni si dovrebbe accontentare di un prodotto già usato o di qualche avanzo di magazzino reperibile online, perché nei circuiti della grande distribuzione i vecchi modelli sono ormai completamente scomparsi. Lo stesso effetto di obsolescenza rapida si verifica per una lunga serie di prodotti che non hanno alcun contenuto tecnologico specifico, come capi di vestiario, oggetti ornamentali e via dicendo, che cessano di essere interessanti per motivi che sfuggono a ogni razionalità. Semplicemente, quello che ieri era oggetto di desiderio, oggi non piace più. una crescita altrettanto veloce
Quali che siano le ragioni del consumo veloce e dell’indifferenza per la destinazione finale di ciò che viene dismesso, abbandonato o scartato, il risultato è sotto gli occhi di tutti. I rifiuti continuano ad accumularsi a ritmi ormai insostenibili. Dalla produzione prossima allo zero che caratterizzava le epoche passate si è passati negli ultimi decenni nei paesi industrializzati a milioni di tonnellate di rifiuti da trattare o smaltire in qualche modo. Nel tempo i problemi di gestione sono diventati assai complessi, hanno richiesto un impegno di risorse sempre più oneroso e spesso hanno dato luogo a conflitti particolarmente acuti con le popolazioni locali. La stessa crescita esponenziale della produzione ha poi favorito il diffondersi di pratiche abusive di smaltimento dei rifiuti. Il nostro paese, con la sua elevata densità di popolazione, rappresenta un esempio eclatante. In Italia migliaia di discariche selvagge degradano gli ambienti naturali e deturpano un paesaggio che rappresenta un patrimonio prezioso. E questo, peraltro, è il male minore, perché la vera emergenza ambientale e sanitaria riguarda la dispersione o lo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi di origine industriale.
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I traffici clandestini di questo tipo di rifiuti sono diventati un business colossale con cui si arricchiscono le organizzazioni criminali. E, come è documentato ogni anno dai rapporti Ecomafia di Legambiente, sono proprio le operazioni illegali connesse alla gestione dei rifiuti a rappresentare la principale fattispecie dei reati di natura ambientale. Il problema si presenta in questi termini pressoché ovunque nei paesi industrializzati e le sue implicazioni vanno ben oltre i confini nazionali. In effetti, il traffico illecito di rifiuti è diventato negli ultimi anni un’autentica emergenza planetaria che coinvolge ormai numerosi paesi con flussi che dall’Europa e dagli Stati Uniti si dirigono soprattutto verso l’Africa e il Sud-Est asiatico, andando a contaminare intere regioni e mettendo a rischio, in alcuni casi, la sopravvivenza di persone e ambienti naturali pregiati. Ciò che poteva essere rivolto a vantaggio dell’ambiente, attraverso il recupero delle tante risorse utili contenute in questi rifiuti, che sono spesso anche rare e preziose, si trasforma con queste dispersioni dissennate nel suo esatto contrario. la pattumiera di casa è ogni anno più pesante...
Un problema, dunque, che non esisteva, si è manifestato ovunque e assai velocemente in tutta la sua gravità, condizionando le politiche ambientali nazionali e generando periodicamente focolai di emergenza che vengono domati a fatica, con costi sociali, ambientali e sanitari assai elevati. In Italia, per esempio, sono ancora vive nella memoria collettiva alcune cronache recenti che hanno interessato città come Napoli o Palermo dove l’immagine di popolazioni assediate dai rifiuti non era una metafora, ma una realtà minacciosa e incombente. La crescente produzione di rifiuti, condizionata solo in minima parte dall’andamento degli indici economici, è un fenomeno che ci coinvol-
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ge direttamente e senza distinzioni apprezzabili sotto il profilo socioeconomico. Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Istituto per la ricerca e la protezione dell’ambiente (Ispra), la sola categoria dei rifiuti urbani (che comprende, oltre a quelli prodotti in ambito domestico, vari altri tipi di rifiuti a essi assimilabili per caratteristiche qualitative) è stabilmente al di sopra delle 32 milioni di tonnellate annue a partire dal 2006. Circa 6 milioni di tonnellate in più rispetto alla produzione media degli anni che vanno dal 1995 al 1998. I valori pro capite mostrano con chiarezza come sia cresciuta notevolmente la nostra capacità di generare rifiuti. Se nel 1995, infatti, ogni cittadino italiano generava in media 450 chilogrammi di rifiuti all’anno, nel 2010 questo valore è salito a 536 chilogrammi. In pratica, ogni cittadino italiano ha aumentato in 15 anni la propria produzione di 86 chilogrammi ed è oggi responsabile di un “rilascio” giornaliero prossimo a un chilogrammo e mezzo di rifiuti. Va notato, peraltro, che l’Italia non è nemmeno in cima alle classifiche. In Europa, infatti, i suoi valori sono in linea con quelli dei paesi a essa comparabili in termini di popolazione, dimensioni territoriali e indici economici, ma sono superati largamente da un nutrito gruppo di nazioni, per lo più di piccole dimensioni, tra le quali spicca la Danimarca, dove ogni singolo abitante nel 2009 ha prodotto rifiuti per ben 832 chilogrammi. Tutti i dati fin qui riportati si riferiscono inoltre alla sola produzione dei rifiuti classificati come “urbani”, che sono la componente minoritaria e la meno preoccupante in termini di impatto ambientale e sanitario. I rifiuti “speciali”, risultanti in gran parte dalle attività produttive, su-
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perano ovunque, e di diverse grandezze, la produzione dei rifiuti urbani. Nel nostro paese, per esempio, secondo gli ultimi dati presentati in un rapporto che l’Ispra ha dedicato specificatamente a questa tipologia, la produzione di rifiuti speciali nel 2009 è stata pari a 128,5 milioni di tonnellate, un quantitativo, dunque, maggiore di quattro volte rispetto a quello dei rifiuti urbani. Su questo enorme quantitativo pesa per circa la metà la produzione dei cosiddetti rifiuti inerti che derivano dalle attività del settore delle costruzioni, ma incidono in misura non trascurabile anche i rifiuti classificati come “pericolosi”, che nel 2009 sono stati pari a 9,5 milioni di tonnellate (oltre il 7% del totale). Di tutto ciò, però, vi è scarsa percezione nell’opinione pubblica. Si tratta infatti di rifiuti che, a differenza di quelli domestici, non sono sotto gli occhi delle persone e non riempiono i cassonetti nelle strade. Sono rifiuti in gran parte “invisibili” che solo situazioni di emergenza possono portare alla luce in modo improvviso e dirompente. ... e nascono le attività di recupero e riciclo
I pochi dati fin qui ricordati sono già sufficienti a delineare le dimensioni assunte dal fenomeno della produzione dei rifiuti e fanno comprendere le difficoltà legislative, logistiche e industriali con cui ogni paese industrializzato si è dovuto confrontare per mitigare l’impatto di questa produzione e assicurare una gestione corretta dei rifiuti. In questa cornice, accanto alla necessità di neutralizzare o mettere in condizioni di sicurezza i rifiuti più pericolosi, si è fatta strada ovun-
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que l’esigenza di abbandonare pratiche di smaltimento indifferenziato attraverso operazioni di recupero e di riciclo utili a valorizzare le risorse contenute nei rifiuti. Sebbene dettate in prima battuta da ragioni di salvaguardia ambientale e di tutela della salute della popolazione, queste attività si sono rivelate confacenti allo sviluppo di un nuovo mercato che è andato a occupare rapidamente una posizione di rilievo nelle economie nazionali. L’industria del recupero e del riciclo, che in passato gestiva solo determinate materiali nell’ambito di un mercato marginale, si è sviluppata infatti ovunque rapidamente e rappresenta oggi un segmento dinamico e di grande rilevanza in termini di fatturato all’interno della cosiddetta “industria verde”. In pratica, quello che per millenni l’uomo ha fatto spinto dalla necessità di evitare ogni spreco – prolungare la vita dei beni posseduti e moltiplicarne le possibilità di impiego – lo si fa oggi con un approccio industriale e collettivo tramite le attività specifiche di un settore produttivo tecnologicamente avanzato. Il contributo individuale resta, tuttavia, ancora oggi determinante e si esplica soprattutto attraverso la separazione dei rifiuti domestici e il loro successivo conferimento differenziato. Le pratiche di raccolta differenziata dei rifiuti sono significativamente cresciute negli ultimi anni, anche se con risultati non sempre allineati alle aspettative. In Italia, per esempio, il tasso di raccolta differenziato sulla produzione totale dei rifiuti urbani è stato pari al 35,3% nel 2010, un valore ancora lontano dal target del 50% che secondo le disposizioni legislative si sarebbe dovuto raggiungere già nel 2009. Su questo risultato insoddisfacente pesa soprattutto il contributo limitato delle regioni del Mezzogiorno, il cui tasso medio di raccolta differenziata è di poco superiore al 21%. Tuttavia, anche le stesse regioni del Nord, che storicamente hanno sempre fatto registrare i mi-
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gliori risultati su questo piano, hanno soltanto sfiorato, con un tasso di raccolta del 49%, l’obiettivo stabilito per il 2009. Con tutto ciò, anche in Italia l’industria del recupero e del riciclo appare in buona salute e ha già raggiunto traguardi significativi. Il rilievo vale, in particolare, per i rifiuti di imballaggio che, in conformità con gli indirizzi comunitari, vedono all’opera, come principali responsabili della loro gestione, gli stessi produttori dei materiali destinati all’imballaggio. I vari consorzi di filiera che fanno capo al Conai per la gestione dei rifiuti di imballaggio di acciaio, alluminio, plastica, carta, legno e vetro, hanno fatto registrare nell’ultimo bilancio risultati che ci pongono tra i primi della classe in Europa. Nel 2011, secondo i dati dell’ultimo rapporto del Conai, sono state recuperate 8,5 milioni di tonnellate di rifiuti di imballaggio, pari al 74,8% dell’immesso al consumo, mentre il tasso di riciclo (perché non tutto ciò che viene recuperato può essere riciclato!) è stato pari al 64,7%. I consorzi obbligatori per le batterie al piombo esauste (Cobat) e per gli oli minerali usati (Coou) fanno registrare da anni risultati ancora più positivi, con valori di recupero ormai prossimi ai quantitativi totali dell’immesso al consumo, mentre altre importanti iniziative consortili stanno prendendo piede nel nostro paese in nuovi settori di raccolta, come quello dei rifiuti generati dalle apparecchiature elettriche ed elettroniche o degli pneumatici giunti a fine vita. riciclare è bene, prevenire è meglio
In Italia come altrove, insomma, le attività di recupero e di riciclo sono in pieno sviluppo e rappresentano una risposta strategica al problema generato dalla produzione incessante di rifiuti. Questa risposta, tuttavia, non può essere intesa come l’unica soluzione al problema.
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Per quanto possano essere spinte le attività di raccolta differenziata e per quanto possano crescere ed espandersi le operazioni di recupero e di riciclo delle risorse contenute nei rifiuti, in assenza di mutamenti di rotta capaci di incidere profondamente sulla stessa produzione dei rifiuti, l’industria del recupero e del riciclo (che è obbligata peraltro a misurarsi con i vincoli posti dalle convenienze economiche e dall’impatto ambientale da essa generato) potrà solo continuare a offrire il suo importante ma limitato contributo a far sì che si chiuda al più presto una parentesi sciagurata di irrazionalità e di spreco.
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La chiave per portare a soluzione definitiva il problema sta, infatti, altrove ed è racchiusa in gran parte in quelle attività di prevenzione che nell’Unione europea sono state collocate da tempo, gerarchicamente, in posizione prioritaria rispetto a ogni altra attività di gestione dei rifiuti. Andando a incidere sui quantitativi prodotti e sulla stessa qualità dei rifiuti generati, solo le politiche di prevenzione possono dare, infatti, la massima efficienza alle attività di recupero e di riciclo e rompere l’assedio dei rifiuti, riportando il problema nei limiti di una gestione ordinaria. Tuttavia, le attività di prevenzione della produzione dei rifiuti, fortemente orientate a criteri di responsabilità e sostenibilità ambientale, rappresentano un percorso che oggi è appena iniziato. E, per quanto riguarda i singoli, la motivazione più forte per intraprendere questo cammino non si basa tanto sull’acquisizione di nuove abitudini comportamentali raccomandate o imposte dalle normative o indotte dalle iniziative dei poteri pubblici, quanto piuttosto su un sostanziale recupero di quell’approccio culturale che nelle epoche passate ogni essere umano aveva verso i beni di cui disponeva. Un approccio che era, appunto, di per sé già responsabile perché non essendo superficiale né modellato sui canoni di un consumo veloce, privilegiava spontaneamente l’idea di risparmiare e conservare risorse. Nelle epoche passate, naturalmente, non si aveva alcuna consapevolezza del fatto che, così agendo, ne avrebbe guadagnato anche la salute dell’ambiente e delle popolazioni. Era la pura convenienza individuale a determinare comportamenti e abitudini coerenti all’interesse ecologico. Recuperare oggi questo tipo di approccio, adattandolo alle esigenze di un mondo divenuto enormemente più complesso e incapace di offrire soluzioni facili e lineari, non sarà né semplice né indolore. In particolare, occorrerà sconfiggere con le armi della ragione l’idea che un
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1. l’isola indesiderata
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consumo sostenibile comprometta la nostra libertà di scelta e inauguri una stagione di rinunce. Ma si tratta di un passaggio obbligato se non vogliamo che quel mostro marino comparso nel Pacifico allarghi a dismisura i suoi tentacoli facendo sprofondare l’intera umanità entro i confini di un’isola indesiderata.
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