MOLTITUDINE INARRESTABILE Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto
PAUL HAWKEN
MOLTITUDINE INARRESTABILE Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto
Edizioni Ambiente
Paul Hawken MOLTITUDINE INARRESTABILE come È nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it titolo originale
Blessed Unrest: How the Largest Movement in the World Came Into Being and why no one saw it Coming Copyright © Paul Hawken, 2007 All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form This edition published in arrangement with Viking, a member of Penguin Group (USA) Inc. traduzione
Patrizia Zaratti progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Agenzia X Milano immagine di copertina: © Samuele Pellecchia/prospekt
© copyright, 2009 Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-96238-08-0
Le emissioni di CO2 conseguenti alla produzione di questo libro sono compensate da processi di riforestazione certificati Finito di stampare nel mese di maggio 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100%
sommario
La crisi economica e le nostre societĂ al bivio: la costruzione della sostenibilitĂ dello sviluppo socioeconomico
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Gianfranco Bologna 1. gli inizi
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2. benedetta irrequietezza
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3. il lungo cammino verde
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4. i diritti del mondo degli affari
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5. i saggi di emerson
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6. le popolazioni indigene
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7. interrompiamo questo impero
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8. immunitĂ
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9. il ripristino
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appendice
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ringraziamenti note bibliografia
341 345 357
A Margaret Reed, fonte di tutto ciò
la crisi economica e le nostre società al bivio: la costruzione della sostenibilità dello sviluppo socioeconomico Gianfranco Bologna
un esercito pacifico che vuole cambiare rotta Leggendo questo bel libro di Paul Hawken mi sono venute immediatamente in mente le parole scritte nel 1974 da Aurelio Peccei (1908-1984), lo straordinario fondatore e presidente del Club di Roma: “A qualunque livello, dall’individuo ai piccoli gruppi e comunità, dalla città alle arene nazionali e internazionali, vi sono migliaia di decisioni e di azioni che ciascuno di noi può avviare o influenzare quotidianamente. Sono lieto di vedere un numero sempre crescente di uomini progressisti e coraggiosi negli organi delle comunicazioni di massa, negli organismi internazionali, nelle chiese, nelle accademie e nelle università, nell’industria, in molti centri nevralgici della società, uomini che desiderano e intendono preparare il terreno all’azione capillare del cittadino medio che, a sua volta, li può stimolare a fare di più. Vedo anche un immenso esercito popolare che lentamente sorge e si muove su fronti sparsi e frammentati in tutto il mondo. È un esercito di cittadini qualunque, che ritengono che sia giunto il momento di cambiare le cose. Sono tanti, e tanti sono i loro obiettivi, disparati e in apparenza senza alcuna reciproca connessione. Sono e costituiscono i movimenti per la pace e i movimenti di liberazione, i gruppi spontanei di conservazione e di difesa ecologica, il movimento di liberazione femminile e le associazioni per il controllo della popolazione, i difensori delle minoranze, dei diritti umani e delle libertà civili, gli apostoli della tecnologia dal volto umano e dell’umanizzazione del lavoro stesso nella fabbrica o dovunque si svolga, i difensori del consumatore, i contestatori non violenti, gli obiettori di coscienza e una moltitudine di uomini e donne vecchi e giovani, ispirati da quello che essi ritengono essere un nuovo bene comune, da obblighi morali più forti di qualsiasi altro dovere. Come è nella tradizione, questo esercito del popolo ha alte motivazioni e un pessimo equipaggiamento, vince le scaramucce e perde
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le battaglie, ed è destinato a essere spietatamente sopraffatto a livello strategico e schiacciato dal tallone dei conservatori: ma ciò nonostante, poiché la storia marcia con esso, prima o poi prevarrà. Purtroppo, però, nelle circostanze attuali sarà una vittoria assai amara, perché arriverà troppo tardi per salvare l’anima e le condizioni dell’umanità. Gli eventi mondiali vanno troppo in fretta perché una marcia lenta possa raggiungerli, e la problematica che sta di fronte all’umanità è un mostro troppo formidabile per attaccarlo poco alla volta, perifericamente. Questa disponibilità e questo attivismo popolare, quindi devono affilare e coordinare i propri obiettivi, devono acquistare una possente forza d’urto; devono soprattutto diventare quella inarrestabile corrente di rinnovamento radicale della nostra società tutta, che può essere la nostra salvezza.”1 Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace nel 2004, ha detto nel suo discorso di ricevimento del premio stesso: “Benché io sia la vincitrice del Premio esso è un riconoscimento al lavoro di tantissimi individui e gruppi in ogni parte del globo. Queste persone lavorano in silenzio e spesso senza gratificazione per proteggere l’ambiente, promuovere la democrazia, difendere i diritti umani e assicurare l’uguaglianza tra donne e uomini. Facendo questo, essi piantano dei semi di pace.” I problemi che l’umanità si trova ad affrontare oggi sembrano veramente senza precedenti e richiedono una straordinaria capacità di innovazione, di previsione, di fortissima attenzione al futuro, a partire dall’immediato, dal nostro agire quotidiano. È necessario che si formi una mentalità complessiva di approccio ai problemi che certamente non li affronti con le stesse modalità che continuiamo a seguire tuttora. Si tratta, purtroppo, di consapevolezze che sono ancora drammaticamente carenti nel mondo politico ed economico che, a tutt’oggi, continua a fornire altre priorità di azione per il nostro mondo e per le nostre società e che, invece, sono sempre più presenti in quello che Hawken definisce “il più grande movimento del mondo”. La soluzione alle tante sfide che dobbiamo affrontare nel nostro immediato futuro sono oggetto delle mobilitazioni, delle riflessioni e delle analisi di tantissimi gruppi organizzati in tutto il pianeta e che costituiscono l’oggetto di questo libro di Hawken. Oggi, in particolare, ci troviamo in una situazione molto difficile a seguito della grave crisi finanziaria ed economica esplosa nel 2008. Questa crisi, come tante altre che si sono già manifestate o che stanno per manifestarsi, era stata di fatto prevista dalle analisi del cosiddetto movimento.
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Questo ampio movimento ha acquisito alcune consapevolezze fondamentali che oggi costituiscono le basi dell’economia ecologica: 1. il nostro sistema economico e produttivo è un sottosistema del più ampio sistema naturale, grazie al quale vive, e non viceversa. Considerare l’economia come il sistema principale non solo non riflette la realtà ma ci conduce a situazioni disastrose che possono diventare irreversibili. I nostri processi economici trasformano energia e materie prime disponibili in beni e servizi, liberando nei sistemi naturali rifiuti, inquinanti, entropia. Le modalità con le quali opera il nostro sistema economico e produttivo si scontrano con le leggi biofisiche dei nostri sistemi naturali e, pertanto, non possono durare all’infinito; 2. la crescita della popolazione, la crescita continua del prodotto globale lordo, la crescita continua dei consumi non possono continuare come se nulla fosse. Oggi in pochi giorni il nostro sistema economico e produttivo “produce” l’equivalente della massa totale dei beni fisici prodotti nell’intero anno 1900. I limiti dei sistemi naturali non sono affatto rispettati dal nostro sistema economico e produttivo. Anche se il progresso tecnologico può cercare di ritardare il raggiungimento di soglie pericolose e irreversibili, non è però affatto in grado di arrestare il processo che conduce ad esse, a meno che non si decida di cambiare rotta; 3. non sembra ci siano più dubbi sul fatto che la stessa economia di libero mercato è oggi minacciata dalla crescita. La crescita continua a essere considerata da tutti i leader politici e dalla stragrande maggioranza degli economisti come il motore fondamentale dell’economia e l’assenza di crescita è considerata un declino economico. Oggi invece è diventato un vero imperativo categorico riesaminare e ridefinire il concetto di crescita. Sappiamo ormai bene che la crescita economica non è più correlata a un aumento generale del benessere. Anzi, i processi di crescita provocano uno straordinario incremento dei danni sociali e ambientali che la stessa disciplina economica non ha mai considerato e che hanno raggiunto dei “costi”, anche in termini squisitamente economici, intollerabili; 4. ormai non assistiamo solo a un “restringimento” delle risorse disponibili, quindi ad una scarsità di risorse fondamentali per i nostri sistemi produttivi, come ad esempio il petrolio, ma, soprattutto, ci troviamo di fronte a una riduzione delle capacità globali dei sistemi naturali di rigenerare risorse rispetto ai nostri livelli di prelievo, di sopportare il nostro impatto e di assorbire i nostri rifiuti.
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un mondo fuori controllo Esiste una sterminata letteratura economica e sociale di grande valore, che annovera tra le sue fila anche premi Nobel per l’economia, come Paul Krugman e Joseph Stiglitz,2 relativa agli effetti di un processo di ristrutturazione dell’economia mondiale basato su di un “consenso politico” che si è avuto sulle scelte definite neoliberiste in campo macroeconomico e che ha profondamente esacerbato tutti i problemi delle nostre società. Tali scelte di ristrutturazione, che sono state proposte e applicate in particolare in seguito al crescente carico del debito estero dei paesi meno abbienti e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la fine dell’Unione Sovietica, hanno visto la progressiva crescita di un sistema economico e finanziario privo di regole accompagnata da una straordinaria abdicazione della politica nell’indicarle e nel farle rispettare. Ha scritto l’economista canadese Michel Chossudovsky: “In questa rete finanziaria globale, il denaro passa a gran velocità da un paradiso fiscale all’altro, nella forma intangibile di trasferimenti elettronici. Le attività affaristiche ‘legali’ e ‘illegali’ si intrecciano sempre di più e vengono accumulate ingenti ricchezze private non denunciate. Favorite dai programmi di aggiustamento strutturale e dalla concomitante deregolamentazione del sistema finanziario, le mafie hanno allargato il raggio di azione al campo dell’attività bancaria internazionale. In diversi paesi in via di sviluppo, i governi sono sotto l’influenza delle organizzazioni criminali. Queste si sono impadronite di numerose proprietà statali mediante programmi di privatizzazione presentati dalla Banca Mondiale.”3 E più avanti Chossudovsky scrive: “A Sud, Est e Nord una minoranza privilegiata ha accumulato cospicue ricchezze a spese della più vasta maggioranza della popolazione. Questo nuovo ordine finanziario internazionale si alimenta della povertà umana e della distruzione ambientale. Esso genera l’apartheid sociale, incoraggia razzismo e conflitti etnici, lede i diritti delle donne e spesso fa precipitare le nazioni in scontri distruttivi fra etnie. Inoltre queste riforme – se applicate contemporaneamente in oltre cento paesi – portano alla ‘globalizzazione della povertà’, un processo che riduce i mezzi di sostentamento e distrugge la società civile a Sud, Est e Nord [...] La “globalizzazione” di questa lotta è essenziale, richiede un grado di solidarietà e internazionalismo che non ha precedenti nella storia mondiale. Il sistema economico mondiale si nutre della divisione
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sociale fra i vari paesi e all’interno di essi. L’unità di intenti e la coordinazione su scala mondiale fra i diversi movimenti e gruppi sociali saranno decisive. Ci vuole un’iniziativa comune che unisca i movimenti sociali in tutte le principali regioni del mondo nella ricerca e nell’impegno comuni per eliminare la povertà e conseguire una pace duratura”. Le istituzioni create dalla conferenza di Bretton Woods,4 il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, hanno ricoperto un ruolo chiave in questo processo di ristrutturazione economica con i loro piani di aggiustamento strutturale che tanti danni hanno provocato allo stato sociale e alla salute ambientale di tantissimi paesi del mondo. Questa impostazione economica, di forte ispirazione liberista, nasce da una modalità di affrontare e risolvere le questioni mondiali che viene definita anche “Washington Consensus”.5 I piani di aggiustamento strutturale proposti e imposti dalle istituzioni finanziarie internazionali, a fronte dei prestiti richiesti da paesi in difficoltà economiche, prevedono: • la svalutazione della moneta nazionale con l’obiettivo di stabilizzare in tempi brevi l’economia dei paesi interessati; • la drastica riduzione dei deficit di bilancio attraverso i tagli alle spese, soprattutto quelle di interesse pubblico, e cioè istruzione, sanità e ambiente; forti incrementi delle imposte, al fine di liberare risorse per pagare il debito; • liberalizzazione del regime dei prezzi per favorire un maggiore sviluppo del libero mercato (determinando una conseguente e drastica limitazione del potere di acquisto dei salari reali); • liberalizzazione del mercato del lavoro (con pericolosi azzeramenti delle norme a tutela dei lavoratori e incremento dello sfruttamento del lavoro minorile); • liberalizzazione delle importazioni ed esportazioni con l’eliminazione delle barriere doganali di protezione dei prodotti nazionali (con conseguente invasione di merci straniere, esposizione alla concorrenza internazionale delle economie deboli, stravolgimento dei consumi tradizionali, perdita di competitività dei prodotti nazionali); • completa liberalizzazione dei flussi di capitali (con invasione di capitali stranieri sotto forma di investimenti di imprese multinazionali e con i profitti realizzati nel paese che vengono trasferiti in paradisi fiscali o comunque all’estero, sottraendo così ricchezza all’economia nazionale);
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• passaggio di imprese pubbliche al settore privato (con acquisizione da parte di imprese straniere di parti significative dell’apparato produttivo nazionale e l’impossibilità di realizzare interventi con finalità sociali attraverso strutture pubbliche); • piena autonomia per la Banca centrale che viene svincolata dal controllo del governo o del parlamento nazionale (con la condizione imposta dagli organismi monetari e finanziari internazionali per la banca centrale di seguire politiche di stampo “liberista”). L’impostazione culturale che sta dietro alle azioni politico-economiche di questi ultimi decenni continua a essere basata sul concetto fondamentale che una crescita economica, materiale e quantitativa, è la base per lo sviluppo sociale e deve essere perseguita senza soste. Questa narrazione del mondo viene messa profondamente in discussione dalle tante proposte culturali e scientifiche, acquisite ormai da decenni, che costituiscono le basi concettuali cui si riferisce, in forme diverse e con impostazioni differenti, il vastissimo movimento planetario oggetto di questo volume di Paul Hawken.
dalla crescita alla sostenibilità Credo che la base più sostanziale e robusta di tutto quello che sottostà alla cultura dell’ampio movimento planetario di cui parla Hawken sia la consapevolezza che non è più possibile per le nostre società abbracciare un meccanismo continuo di crescita illimitata, e che questo approccio porta con sé profonde ingiustizie sociali ed economiche e ci allontana da forme di governo realmente democratiche, provocando profonde devastazioni alla base stessa della nostra sopravvivenza: la natura. Un numero sempre più vasto di persone, anche di autorevoli economisti, si rendono conto che non è più possibile andare avanti in questo modo. Ad esempio, l’economista Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute della Columbia University e special adviser del Segretario Generale delle Nazioni Unite sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, ricorda nel suo ultimo libro6 che, se le stime sulla crescita della popolazione elaborate dalle Nazioni Unite saranno rispettate, entro il 2050 il prodotto globale lordo potrebbe essere di 420.000 miliardi di dollari. La domanda che sorge spontanea è come sia veramente possibile che si possa continuare su
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questa strada senza creare una situazione di preoccupante collasso della nostra civiltà rispetto alla capacità della nostra Terra di mantenerci. Nelle pagine del suo volume sullo stato stazionario, pubblicato originariamente nel 1977, il grande bioeconomista Herman Daly scrive: “Sebbene molti discutano se un’ulteriore crescita demografica sia desiderabile, pochissimi mettono in discussione la desiderabilità o la possibilità di un’ulteriore crescita economica. In verità, la crescita economica è l’obiettivo più universalmente accettato nel mondo. Capitalisti, comunisti, fascisti, socialisti vogliono tutti la crescita economica e si sforzano di massimizzarla. Il sistema che cresce al tasso più alto è considerato il migliore. Il fascino della crescita è che su di essa si fonda la potenza della nazione e rappresenta un’alternativa alla ridistribuzione come mezzo per combattere la povertà. [...] Se si intendesse aiutare seriamente i poveri, si dovrebbe fronteggiare il problema morale della ridistribuzione e cessare di nasconderlo dietro la crescita globale”.7 All’inizio del 2009 la popolazione mondiale ha superato i 6,7 miliardi di abitanti. Avevamo iniziato il secolo scorso con 1,6 miliardi di abitanti e lo abbiamo concluso varcando la soglia dei 6 miliardi. Immaginatevi che cosa questa crescita abbia potuto significare per i sistemi naturali grazie ai quali viviamo, e quali sono stati gli impatti causati dalla continua e crescente pressione, in quantità e qualità, derivante dall’incremento dei consumi di energia e di risorse in soli 100 anni. Il tasso di crescita della popolazione mondiale è sceso dal 2,1% del 1970 a circa l’1,2% attuale, ma l’1,2% calcolato su una popolazione che supera i 6,7 miliardi significa un incremento annuale di oltre 70 milioni di esseri umani. Gli esperti demografi delle Nazioni Unite ci dicono che la popolazione umana raggiungerà, con ogni probabilità, gli 8 miliardi nel 2025 e più di 9 miliardi nel 2050. La crescita della maggioranza di questa popolazione, il 95%, avrà luogo nei paesi cosiddetti in via di sviluppo e l’Africa presenta il tasso di crescita superiore rispetto agli altri continenti, il 2,4% annuale. Ci si aspetta che la popolazione di questo continente andrà oltre il raddoppio nel 2050, raggiungendo i 2 miliardi. Cina, India e Stati Uniti sono i paesi al mondo con la popolazione maggiore. L’attuale popolazione indiana di 1,1 miliardo dovrebbe raggiungere 1,7 miliardi nel 2050 mentre quella cinese, oggi di 1,3 dovrebbe raggiungere gli 1,4 miliardi entro il 2050. Oggi queste due nazioni da sole rappresentano il 37% della popolazione mondiale. Nel 2006 la popolazione degli Stati Uniti ha raggiunto quota 300 milioni e nel 2050 dovrebbe raggiungere 420 milioni di abitanti.8
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Nel 2007 la popolazione urbana ha sorpassato, per la prima volta nella nostra storia (e probabilmente si tratterà di un passaggio irreversibile), quella rurale. In poco più di mezzo secolo la popolazione mondiale urbana è infatti passata dai 732 milioni di abitanti, presenti nel 1950 nelle città di tutto il mondo, ai 3,15 miliardi del 2005. L’88% della crescita della popolazione urbana che avrà luogo dal 2000 al 2030 avverrà nelle città dei paesi in via di sviluppo. L’impatto che la continua crescita quantitativa e qualitativa della nostra specie esercita su tutte le complesse sfere del sistema Terra è ormai davvero preoccupante e non fa che confermare quanto il periodo che stiamo attraversando possa essere definito, nell’ambito della geocronologia del nostro pianeta, “Antropocene”, dalla felice intuizione del premio Nobel per la chimica Paul Crutzen che ha proposto tale definizione già nel 2000.9 Questa proposta è stata ormai accettata dalla comunità scientifica internazionale che, proprio recentemente, ha fatto presente che il termine può essere adottato dai geologi che, a livello internazionale, elaborano e verificano la scala geologica del nostro pianeta proprio sulla base delle prove sin qui acquisite che dimostrano la profonda trasformazione che la specie umana ha esercitato sulla Terra.10 Tutte le conoscenze scientifiche raccolte documentano infatti con chiarezza che i sistemi naturali sono sottoposti a una straordinaria e profonda modificazione e distruzione dovuta alla nostra continua pressione, basata sulla crescita, materiale e quantitativa, del nostro intervento. Le preziose informazioni che provengono dai satelliti che scrutano il nostro pianeta ci hanno consentito di elaborare vere e proprie mappe dell’“impronta umana” sul pianeta.11 Un’impronta che ha trasformato fisicamente le terre emerse dal 75 all’83% dell’intera loro superficie. Sempre ai primi del 2008 un team di noti scienziati esperti degli ecosistemi marini ha concluso un lungo e interessantissimo lavoro per tratteggiare la mappa globale dell’impatto umano sugli ecosistemi marini.12 L’analisi indica che nessuna area marina del pianeta può definirsi non influenzata in qualche modo dall’intervento umano e che diversi fattori antropogenici esercitano un forte impatto su un’ampia frazione degli ecosistemi marini (il 41%). La comunità scientifica è impegnata in sforzi straordinari e affascinanti con l’intento di comprendere al meglio i meccanismi di funzionamento del Sistema Terra e di analizzare il nostro ruolo: basti pensare all’Earth
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System Science Partnership (ESSP) che riunisce i quattro maggiori programmi internazionali di ricerca sui vari aspetti delle scienze del Sistema Terra, tutti patrocinati dall’International Council for Science (ICSU),13 oppure agli sforzi di coordinamento delle ricerche che utilizzano i satelliti da telerilevamento, come il Global Earth Observing System of Systems (GEOSS), che ha recentemente elaborato un piano scientifico per il coordinamento di tali ricerche per i prossimi dieci anni.14 Ormai la comunità scientifica internazionale ha acquisito una massa di dati imponente sul drammatico effetto che la specie umana sta provocando al funzionamento e alla variabilità naturale degli ecosistemi della Terra. Il patrimonio di queste conoscenze costituisce una base molto importante della consapevolezza dell’ampio movimento planetario di cui ci parla Hawken. E questa consapevolezza ci induce chiaramente al cambiamento. Nell’edizione 2008 dello State of the World del Worldwatch Institute, Gary Gardner e Thomas Prugh, nel capitolo introduttivo dedicato proprio alle innovazioni necessarie per un’economia sostenibile scrivono: “Il mondo è molto diverso, filosoficamente e fisicamente, da quello noto ad Adam Smith, David Ricardo e agli altri economisti del XVIII secolo; diverso al punto da rendere inutilizzabili nel XXI secolo i punti chiave dell’economia convenzionale. Il rapporto dell’umanità con la natura, la comprensione delle fonti di ricchezza e degli scopi stessi dell’economia, l’evoluzione dei mercati, degli assetti statali e dei singoli individui come attori economici, tutte queste dimensioni dell’attività economica sono cambiate talmente tanto negli ultimi 200 anni da dichiarare chiusa un’era economica e indispensabile un cambiamento. Ai tempi di Smith e Ricardo la natura era percepita come una risorsa immensa e pressoché inesauribile: la popolazione mondiale non arrivava al miliardo – un settimo di quella attuale – e le tecnologie estrattive e produttive erano di gran lunga meno potenti e dannose per l’ambiente. L’impatto ambientale di una determinata società era più leggero e circoscritto, e risorse come oceani, foreste e atmosfera sembravano praticamente infinite. Contemporaneamente, la percezione che l’umanità aveva di se stessa stava cambiando, almeno in Occidente. Le scoperte degli scienziati illuministi suggerivano che l’universo operasse secondo immutabili leggi fisiche che avrebbero potuto, una volta comprese, aiutare gli esseri umani a capire e controllare il mondo fisico. Quando il matematico svizzero Daniel
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Bernoulli, ad esempio, elaborò i concetti chiave della fisica del volo nel 1738, la strada per il dominio dei cieli era praticamente spianata. Dopo aver sofferto disperatamente, per secoli e secoli, le conseguenze di pestilenze, carestie, uragani e altre catastrofi naturali, la crescente sensazione della supremazia umana – accompagnata dall’apparentemente inesauribile ricchezza della natura – rafforzò la convinzione che la storia dell’umanità potesse essere scritta in modo quasi del tutto indipendente dalla natura. Anche l’economia sposò questa visione del mondo, radicalmente nuova, al punto che fin verso la fine del XX secolo la maggior parte dei testi di economia si preoccupava ben poco di quanto la natura potesse assorbire i rifiuti o del ruolo preziosissimo dei ‘servizi offerti dalla natura’ e costituiti da funzioni naturali come l’impollinazione delle colture o la regolazione climatica. Un economista, premio Nobel per l’economia negli anni Settanta, affermò che (fino a prova contraria) ‘il mondo può, in realtà, cavarsela benissimo anche senza risorse naturali’. E per quanto crescita demografica e potenza tecnologica, nell’ultimo secolo, abbiano fatto venire qualche dubbio sulla limitatezza delle risorse, gli economisti hanno continuato a predire tranquillamente che sarebbero stati i segnali di prezzo dei liberi mercati a suggerire modalità produttive e di consumo più appropriate, o che il lavoro umano avrebbe prodotto, o scoperto, alternative. La natura non avrebbe certo costituito un ostacolo al progresso dell’umanità.”15 Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute e dell’Earth Policy Institute, che attualmente presiede, ha scritto in un suo bellissimo e pionieristico libro: “Una lettura attenta dei segnali indica che le pressioni sui principali sistemi biologici e sulle principali risorse di energia della Terra stanno aumentando. Sollecitazioni molto forti sono chiaramente percepibili in ciascuno dei quattro principali sistemi biologici – le zone di pesca oceaniche, i pascoli, le foreste e le terre coltivate – da cui l’umanità dipende per il cibo e le materie prime industriali. Se si fa eccezione per i terreni agricoli, sono tutti essenzialmente sistemi naturali, modificati poco o nulla dall’uomo. In grandi aree del mondo, la pressione di una domanda umana crescente su questi sistemi ha raggiunto il punto in cui essa comincia a incidere negativamente sulle loro capacità produttive. Le discussioni sulle prospettive di crescita economica a lungo termine si sono concentrate in anni recenti sulle risorse non rinnovabili, specialmente su minerali o combustibili fossili. L’attenzione sulle risorse non rinnovabili è sta-
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ta rafforzata dall’assunto implicito che, poiché le risorse biologiche sono rinnovabili, non era il caso di preoccuparsene troppo. In realtà, invece, si sono andate contraendo le basi tanto delle risorse non rinnovabili quanto di quelle rinnovabili. I sistemi biologici della Terra costituiscono il fondamento del sistema economico mondiale. Oltre al cibo, i sistemi biologici forniscono praticamente tutte le materie prime all’industria, eccezion fatta per i minerali e per le sostanze sintetiche derivate dal petrolio”.16 Il deterioramento dei sistemi biologici non è un problema secondario che interessi soltanto agli ecologi. Il nostro sistema economico dipende dai sistemi biologici della Terra. Tutto ciò che minaccia la vitalità di questi sistemi biologici minaccia anche l’economia mondiale. Ogni deterioramento di questi sistemi rappresenta un deterioramento delle prospettive dell’umanità. La restaurazione di un rapporto stabile fra l’umanità e i sistemi naturali che sostengono la vita umana non potrà non preoccupare gli uomini politici nei prossimi anni e nei prossimi decenni. Gli adattamenti che dobbiamo oggi introdurre nei modelli di consumo, nella politica demografica e nel sistema economico, se vogliamo preservare i sostegni biologici dell’economia mondiale, sono profondi; essi rappresentano una sfida molto impegnativa sia per l’intelligenza dell’uomo sia per la sua capacità di modificare il proprio comportamento. Scrive ancora Brown: “Il bisogno di adattare la vita umana simultaneamente alla capacità di rigenerazione dei sistemi biologici della Terra e ai limiti delle risorse rinnovabili richiederà una nuova etica sociale. L’essenza di questa nuova etica è l’adeguamento: l’adeguamento del numero e delle aspirazioni degli esseri umani alle risorse e alle capacità della Terra. Questa nuova etica deve soprattutto arrestare il deterioramento del rapporto dell’uomo con la natura. Se la civiltà, quale la conosciamo oggi, deve sopravvivere, quest’etica dell’adeguamento deve sostituire la dominante etica della crescita”. Uno straordinario protagonista del dibattito sulla crescita e sulla necessità di avviare un’etica dell’adeguamento è stato proprio il già citato Club di Roma, una struttura informale nata alla fine degli anni Sessanta. Nell’aprile del 1968, un personaggio dalle straordinarie qualità intellettuali e umane, Aurelio Peccei, economista e dirigente industriale, riunisce a Roma, presso la prestigiosa Accademia dei Lincei, una trentina di studiosi di tutto il mondo.17 L’obiettivo è quello di dar vita a una sorta di
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think-tank informale, libero e indipendente, dedicato a stimolare il dibattito sulle complesse dinamiche e sulle interconnessioni esistenti tra i sistemi naturali e i sistemi sociali, tecnologici ed economici creati dalla nostra specie e sulle loro prospettive di evoluzione futura. Successivamente a questo meeting Peccei, con l’apporto di alcune figure internazionali di spicco, come Alexander King, allora direttore scientifico dell’OCSE, fonda il Club di Roma, al quale partecipano un centinaio di studiosi. Dall’anno della sua istituzione (1968), il Club di Roma è stato uno straordinario pioniere nel dibattito internazionale sui limiti della nostra crescita economica, materiale e quantitativa, in un mondo dagli evidenti limiti biofisici; sui limiti delle nostre capacità di comprensione della grande complessità di problemi da noi stessi creati, e che esigono soluzione; sulla necessità di una nuova economia che tenga conto delle risorse naturali; sulle rivoluzioni sociali prodotte dalle grandi innovazioni tecnologiche e informatiche. Tutti elementi che sono alla base dell’attenzione dell’ampio movimento oggetto di questo volume di Hawken. Nel 1972, alla vigilia della prima grande Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, tenutasi a Stoccolma, il Club di Roma pubblicò un apposito rapporto commissionato al System Dynamics Group del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT), con un titolo molto chiaro: The Limits to Growth (“I limiti della crescita” che, a sottolineare la confusione ancora esistente tra i termini “crescita” e “sviluppo”, è stato tradotto nell’edizione italiana con il titolo “I limiti dello sviluppo”). Il volume, destinato a fare epoca, presentava le analisi, le riflessioni e i risultati di una ricerca che – impiegando per la prima volta elaboratori elettronici per la costruzione di modelli di simulazione matematica del sistema mondiale – cercava di comprendere le tendenze e le interazioni di un certo numero di fattori dai quali dipende la sorte delle società umane nel loro insieme: l’aumento della popolazione, la disponibilità di cibo, le riserve e i consumi di materie prime, lo sviluppo industriale e l’inquinamento. La ricerca del MIT18 si proponeva di definire le costrizioni e i limiti fisici relativi alla moltiplicazione del genere umano e alla sua attività materiale sul nostro pianeta. Si trattava di fornire risposte concrete ad alcune domande fondamentali per il nostro futuro: che cosa accadrà se la crescita della popolazione mondiale continuerà in modo incontrollato? Quali saranno le conseguenze ambientali se la crescita economica proseguirà al
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passo attuale? Che cosa si può fare per assicurare un’economia umana capace di soddisfare la necessità di un benessere di base a tutti e anche di mantenersi all’interno dei limiti fisici della Terra? Le conclusioni erano le seguenti: 1. nell’ipotesi che l’attuale linea di crescita continui inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali della crescita entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso e incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale; 2. è possibile modificare questa linea di sviluppo e determinare una condizione di stabilità ecologica ed economica in grado di protrarsi nel futuro. La condizione di equilibrio globale potrebbe corrispondere alla soddisfazione dei bisogni materiali degli abitanti della Terra e all’opportunità per ciascuno di realizzare compiutamente il proprio potenziale umano; 3. se l’umanità opterà per questa seconda alternativa, invece che per la prima, le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più rapidamente essa comincerà a operare in tale direzione. Il Rapporto del MIT al Club di Roma scatenò un dibattito internazionale di enormi proporzioni. Al di là di alcune intrinseche debolezze dovute alla semplificazione dell’intero modello mondiale in una simulazione computerizzata ancora molto approssimativa, esso ha avuto e manterrà sempre il merito di aver colpito seriamente il mito culturale della crescita. Non è un caso che in quegli anni gli attacchi al Rapporto provenissero da tutti quei fronti ideologici e politici che, come ricorda Herman Daly, non mettevano minimamente in discussione il concetto di crescita e la nostra incapacità di sorpassare i limiti dei sistemi naturali. Lo stesso Club di Roma, due anni dopo, nel 1974,19 ritenne opportuno precisare e affinare il proprio messaggio attraverso un secondo interessante rapporto scientifico, curato da Mihajlo Mesarovic e Eduard Pestel, studiosi di analisi dei sistemi. Il documento ha il merito di valutare l’eterogeneità esistente fra le regioni socioeconomiche che compongono il mondo e le specificità di ciascuna, tenendo conto anche delle differenze culturali e ambientali, dei diversi livelli di sviluppo e della distribuzione non uniforme delle risorse naturali. Non solo, ma approfondisce il concetto di crescita, distinguendo tra crescita indifferenziata e crescita organica. Mesarovic e Pestel scrivono: “È un fatto ben noto che nelle regioni del mondo sviluppato e industrializzato i consumi materiali hanno raggiun-
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to le proporzioni di uno sperpero assurdo. In tali regioni oggi è necessaria una diminuzione relativa nell’uso di diverse materie prime. Invece in altre regioni del mondo meno sviluppate deve verificarsi una sostanziale crescita nell’uso di certi beni essenziali, per la produzione alimentare o per la produzione industriale. In queste regioni la stessa sopravvivenza della popolazione dipende da tali crescite. Quindi le argomentazioni generiche ‘a favore’ o ‘contro’ la crescita sono ingenue: crescere o non crescere costituisce una questione né ben definita né pertinente quando la si pone senza aver definito in precedenza il luogo, il senso, il soggetto della crescita e lo stesso processo di crescita esaminato in se stesso”. Gli autori del rapporto ricordano che, per rendersi conto della ricchezza e della complessità del concetto di crescita, occorre risalire all’analisi dei processi di crescita in natura. In particolare vengono analizzati due tipi di processi: la crescita indifferenziata e la crescita organica. La prima riguarda, ad esempio, la crescita cellulare che ha luogo mediante divisione: una cellula si suddivide in due, due in quattro, quattro in otto e così via, molto rapidamente, finché ci sono milioni e miliardi di cellule. Il risultato è un mero accrescimento esponenziale del numero delle cellule. Va precisato, anche se Mesarovic e Pestel non lo fanno presente, che questo è un meccanismo che in biologia è riconducibile prevalentemente alle fasi di sviluppo dei gameti e alle formazioni tumorali, che sfuggono alle regole di autocontrollo e di apoptosi (cioè capacità di “suicidio” cellulare)20 che lo stato vivente della materia possiede. Nella crescita organica invece avviene un processo di differenziamento. Ciò significa che i diversi gruppi di cellule cominciano a differenziarsi come struttura e come funzione. Le cellule acquistano specificità in base all’organo a cui appartengono, seguendo il processo evolutivo dell’organismo nel suo complesso. Durante e dopo il differenziamento, il numero delle cellule può ancora accrescersi e gli organi aumentare di grandezza; ma mentre alcuni organi crescono, altri possono ridursi. L’equilibrio raggiunto nella crescita organica è dinamico, non statico: infatti in un organismo vivente maturo le cellule che lo compongono subiscono un continuo processo di rinnovamento nonché di apoptosi. Gli attuali dibattiti sulla crisi dello sviluppo mondiale si concentrano sulla crescita come se essa fosse necessariamente di tipo indifferenziato. Mesarovic e Pestel ritengono che non ci sia però ragione per non ipotizzare un’analogia con la crescita organica. In un sistema mondiale interdi-
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pendente e interconnesso, quale è il nostro, una crescita indesiderabile di una parte qualsiasi mette in pericolo non solo quella parte, ma tutto l’insieme. Se il sistema mondiale riuscisse a imboccare la via della crescita organica, le interrelazioni organiche agirebbero come un freno contro una crescita indifferenziata in un punto qualsiasi del sistema. Mesarovic e Pestel chiudono il loro rapporto con un appello estremamente importante: “Noi non siamo il mondo sviluppato; siamo oggi il mondo sovrasviluppato. La crescita economica in un mondo in cui alcune regioni sono sottosviluppate è fondamentalmente contraria alla crescita sociale, morale, organizzativa e scientifica dell’umanità. In questo momento della storia ci troviamo di fronte a una decisione terribilmente difficile. Per la prima volta da quando esiste l’uomo sulla Terra, gli viene chiesto di astenersi dal fare qualcosa che sarebbe nelle sue possibilità; gli si chiede di frenare il suo progresso economico e tecnologico, o almeno di dargli un orientamento diverso da prima; gli si chiede – da parte di tutte le generazioni future della Terra – di dividere la sua buona fortuna con i meno fortunati – non in uno spirito di carità, ma in uno spirito di necessità. Gli si chiede di preoccuparsi, oggi, della crescita organica del sistema mondiale totale. Può egli, in coscienza, rispondere di no?”.21
verso un futuro diverso Ciò che stiamo sempre più comprendendo si può riassumere in alcuni punti chiave: • la documentazione scientifica sull’impatto esercitato dalla specie umana sui sistemi naturali è ormai chiara e ingente; gli effetti di questo impatto possono essere paragonati a quelli prodotti da forze geologiche e astrofisiche che hanno avuto e hanno luogo sul nostro pianeta. Questi effetti sono profondamente nocivi anche per lo stesso benessere e la stessa salute degli esseri umani; • è necessario e urgente mettere le nostre società su percorsi di sviluppo sociale ed economico che siano sostenibili nel medio e lungo periodo. La sostenibilità, nelle dimensioni dinamiche che hanno sempre caratterizzato la storia del nostro pianeta, la storia della vita su di esso e la storia delle interrelazioni tra sistemi naturali e sistemi sociali (da quando la nostra specie è apparsa ed è andata evolvendosi su questo pianeta), richiede di mantenere continuamente sane e vitali le capacità dei sistemi naturali e
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di quelli sociali di reagire ai cambiamenti. Perché ciò possa aver luogo è necessario ridurre il flusso di utilizzo di energia e materie prime che attraversano i metabolismi dei nostri sistemi sociali; è quindi urgente e indispensabile ridurre il nostro impatto sui sistemi naturali; • le soluzioni pratiche per l’applicazione di percorsi di sostenibilità non passano attraverso singole “ricette” o prescrizioni prefissate. Non esistono panacee per risolvere i complessi problemi che caratterizzano le interrelazioni esistenti nell’ambito dei sistemi socio-ecologici (Social-Ecological Systems) che costituiscono l’oggetto della scienza della sostenibilità. È quindi necessario proporre approcci basati sull’esperienza, sull’innovazione, sull’interdisciplinarietà, sul continuo adattamento di obiettivi e indicazioni date rispetto a ciò che continuamente si impara facendo, ecc.22 Come affermano Donella e Dennis Meadows e Jorgen Randers nel loro bellissimo volume I nuovi limiti dello sviluppo,23 che costituisce il terzo aggiornamento dell’originale rapporto del 1972, ponendosi il tema delle transizioni verso un sistema sostenibile: “Ma in che modo, concretamente, ognuno di noi può affrontare questi problemi? In che modo nel mondo può evolversi un sistema capace di risolverli? Vi è qui lo spazio per la creatività e la capacità di scelta. Le generazioni viventi a cavallo del XXI secolo sono chiamate non solo a riportare la loro impronta ecologica al di sotto dei limiti della Terra, ma, insieme, a ristrutturare il proprio mondo, interno ed esterno. Questo processo toccherà ogni ambito della vita e farà appello a ogni sorta di talento umano. Richiederà innovazioni tecniche e imprenditoriali, così come invenzioni a livello comunitario, sociale, politico, artistico e spirituale. [...] Il passaggio dal mondo industriale allo stadio successivo della sua evoluzione non è una sciagura, ma una meravigliosa opportunità. Come cogliere questa opportunità, come costruire un mondo che sia non solo sostenibile, efficiente e giusto, ma anche profondamente desiderabile, è qualcosa che riguarda la capacità di guida, l’etica, l’immaginazione e il coraggio: tutte qualità che non appartengono ai modelli per calcolatore, ma al cuore e allo spirito umani”.
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note 1. Peccei, Aurelio, Quale futuro?, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1974. 2. Vedasi, ad esempio, Stigliz, Joseph, Globalization and its Discontents, New York, W.W. Norton, 2002 (trad. it. di Daria Cavallini, La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi, 2002); Stigliz, Joseph, The Roaring Nineties, W.W. Norton, 2003 (trad. it. di Daria Cavallini, I ruggenti anni Novanta, Einaudi, 2004); Stigliz, Joseph, Making Globalization Work, W.W. Norton, 2006 (trad. it. di Daria Cavallini, La globalizzazione che funziona, Einaudi, 2006); Krugman, Paul, The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008, W.W. Norton, 2008 (trad. it. di Nicolo Regazzoni e Roberto Merlini, Il ritorno dell’economia della depressione e la grande crisi del 2008, Garzanti, 2009). 3. Chossudovsky, Michel, The Globalization of Poverty: Impacts of IMF and World Bank Reforms, London, Zed Books, 1997 (trad. it. di Porzia Persio, La globalizzazione della povertà, Edizioni Gruppo Abele, 1998). Vedasi anche Sachs, Wolfgang (a cura di), The Development Dictionary, London, Zed Books, 1992 (edizione italiana a cura di Alberto Tarozzi, traduzione di Marco Giovagnoli, Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, 1998). 4. La conferenza di Bretton Woods, che ebbe luogo dal 1° al 22 luglio del 1944 nell’omonima località dello stato del New Hampshire negli Usa, vide la partecipazione di 730 delegati di 44 nazioni e stabilì le regole concordate per le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi del mondo. Questi accordi costituirono il primo esempio nella storia di un ordine monetario concordato. Il piano approvato a Bretton Woods istituì il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che divennero operativi solo quando un numero sufficiente di paesi ratificarono l’accordo, e ciò ebbe luogo nel 1946. Nel 1947 fu istituito il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) che, alla conclusione del suo ultimo round i negoziati, l’Uruguay Round durato dal 1986 al 1994, sfociò nella costituzione della World Trade Organization, istituita nel 1995. 5. Il termine “Washington Consensus” è un’espressione proposta nel 1989 dall’economista John Williamson e utilizzato per descrivere un insieme di direttive di politica economica destinate ai paesi che si trovino in stato di crisi economica, e che costituiscono un pacchetto di riforme “standard” indicato da organizzazioni internazionali quali appunto il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, entrambi con sede a Washington ed entrambi fortemente influenzate dalla politica economica statunitense. L’espressione ha poi assunto anche un significato informale, identificando un insieme di politiche volte a esaltare il ruolo del libero mercato a discapito dell’intervento dei governi nell’economia di un paese, secondo i dettami dell’orientamento cosiddetto neoliberista. 6. Sachs, Jeffrey, Common Wealth. Economics for a Crowded Planet, London, Allen Lane Penguin Books, 2008. 7. Daly, Herman E., Steady-State Economics: the Economics of Biophysical Equilibrium and Moral Growth, Freeman and Company, 1977 (ed. it. Lo stato stazionario. L’economia dell’equilibrio biofisico e della crescita morale, Firenze, Sansoni editore, 1981). 8. Worldwatch Institute, Vital Signs 2007-2008, New York, W.W. Norton & Co, 2007. 9. Crutzen, Paul J. e Stoermer, Eugene F., Anthropocene, IGBP Newsletter, 41, 2000; Crutzen, Paul J., 2002, “Geology of Mankind”, Nature 415; 23, 2002; Crutzen, Paul J., 2005, Benvenuti nell’Antropocene!, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2005. 10. Zalasiewicz J. et al., “Are we now living in the Anthropocene?”, Geological Society of America Today, GSA Today, v.18, no. 2 doi:10.1130/GSATO1802A.1, 2008. 11. Sanderson E.W. et al., “The human footprint and the last of the wild”, Bioscience, 52; 891904, 2002.
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12. Halpern B.S., et al., “A Global Map of Human Impact on Marine Ecosystems”, Science; vol. 319; 948-952, 2008. 13. Si veda l’interessantissimo sito internet http://www.essp.org che riunisce una quantità ingente di notizie, informazioni, documentazioni e newsletter sulle ricerche effettuate e sui dati raccolti sul Sistema Terra. 14. Si vedano i siti internet http://www.earthobservations.org e http://www.epa/gov/ geoss. 15. Worldwatch Institute, State of the World 2008. Innovations for a Sustainable Economy, New York, W.W. Norton & Co., 2008 (trad. it. di Fiamma Lolli, Franco Lombini, Alessandra Lorenzoni, Liana Rimorini, Elena Simonelli, State of the World 2008, Milano, Edizioni Ambiente, 2008). 16. Brown, Lester R., The Twenty Ninth Day. Accomodating human needs and numbers to the earth’s resources, New York, W.W. Norton & Co., 1978, (Il 29° giorno, Firenze, Sansoni Editore, 1980). 17. Si veda, tra gli altri suoi scritti, la sua autobiografia: Peccei, Aurelio, La qualità umana, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1976. 18. Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III., The Limits to Growth, New York, Universe Books, 1972 (I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972). 19. Mesarovic, Mihajlo D. e Pestel, Eduard (a cura di), Mankind at the Turning Point, New York, E.P. Dutton, 1974 (ed. it. Strategie per sopravvivere, Arnoldo Mondadori Editore, 1974). 20. Ameisen, Jean C., Le sculpture du vivant. Le suicide cellulaire ou la mort créatrice, Paris, Editions du Seuil, 1999 (trad. it. di Alessandro Serra, Al cuore della vita. Il suicidio cellulare e la morte creatrice, Milano, Feltrinelli, 2001). 21. Pestel è tornato in periodi più recenti, prima della sua scomparsa, a riflettere sulla crescita organica rispetto a quella indifferenziata in un altro Rapporto al Club di Roma. Cfr. Pestel, Eduard, Beyonds the Limits of Growth, New York, Universe Books, 1988 (trad. it. di Giuliana Falco Lombardini e Sandra Sazzini, Oltre i limiti dello sviluppo, Torino, Edizioni ISEDI, 1989). 22. Vedasi l’interessantissimo inserto speciale apparso nei “Proceedings” della National Academy of Sciences statunitense, coordinato da tre noti scienziati della sostenibilità, Elinor Ostrom, Marco Janssen e John Anderies, e contenente otto articoli più quello introduttivo dei summenzionati autori, dal titolo Going beyond panaceas. L’inserto è stato pubblicato nel numero dei PNAS del 25 settembre 2007, vol. 104, n. 39. 23. Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, Limits to Growth, Chelsea Green Publishing Company, 2004 (trad. it. di Maurizio Riccucci, I nuovi limiti dello sviluppo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2006).
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Negli ultimi quindici anni ho tenuto circa mille conferenze sull’ambiente e, ogni volta, mi sono sentito come un funambolo alla ricerca dell’equilibrio perfetto. Le persone desiderano sapere cosa sta succedendo al loro pianeta, ma nessuno vorrebbe mai deprimere il proprio pubblico, per quanto cupo e preoccupante sia il futuro previsto dalla scienza che studia i tassi di perdita ambientale. Tuttavia, essere ottimisti riguardo al futuro richiede delle basi convincenti per un’azione costruttiva: è impossibile descrivere le possibilità future senza prima definire accuratamente le problematiche attuali. Colmare tale divario ha sempre costituito per me una sfida e le platee, ignorando soavemente il mio turbamento intellettuale, mi hanno fornito un insolito punto di vista. Dopo ogni conferenza, una piccola folla mi circondava per parlare, porre domande e scambiare biglietti da visita. Generalmente, queste persone si occupavano delle tematiche più dibattute ai nostri giorni: cambiamenti climatici, povertà, deforestazione, pace, risorse idriche, fame, conservazione, diritti umani. Provenivano dal mondo del non profit e delle organizzazioni non governative, noto anche come “società civile”: si erano presi cura di fiumi e golfi, avevano insegnato ai consumatori i principi dell’agricoltura sostenibile, installato pannelli solari sulle loro abitazioni, esercitato azioni di lobby sui legislatori nazionali per contrastare l’inquinamento, lottato contro politiche commerciali tagliate a misura d’impresa, lavorato per rendere verdi le principali metropoli e fornito un’istruzione ai bambini in materia di ambiente. Semplicemente, avevano dedicato le loro esistenze a cercare di salvaguardare la natura e a difendere diritti. Malgrado fossimo negli anni Novanta e i mezzi d’informazione ignorassero queste persone, queste occasioni mi offrivano la possibilità di ascoltare le loro preoccupazioni. Incontravo studenti, nonne, adolescenti, membri di tribù, uomini d’affari, architetti, insegnanti, professori in pensione e genitori preoccupati. Dato che mi spostavo continuamente e che le organizzazioni rap-
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presentate da queste persone erano radicate nelle loro comunità, in un anno iniziai a farmi un’idea della varietà di questi gruppi e del loro numero complessivo. I miei interlocutori avevano molto da dire. Erano informati, ricchi d’immaginazione e di vitalità; offrivano idee, spunti e intuizioni. In un certo senso, Moltitudine inarrestabile rappresenta la somma di ciò che mi hanno donato. I miei nuovi amici mi davano libri e articoli, infilavano piccoli regali nel mio zaino o avanzavano proposte per imprese verdi. Un nativo americano mi spiegò che la separazione fra ecologia e diritti umani è artificiale, che i movimenti ambientalisti e quelli per la giustizia sociale affrontano due aspetti dello stesso, grande dilemma. I danni inflitti alla Terra ricadono su tutte le persone e il modo in cui un uomo tratta un altro uomo si riflette sul nostro modo di trattare il pianeta. Mano a mano che le mie conferenze iniziavano a rispecchiare una maggiore consapevolezza, il numero e la varietà di persone che offrivano biglietti da visita crebbero. A ogni conferenza collezionavo dai cinque ai trenta biglietti da visita e, dopo una settimana o due di viaggi, tornavo a casa con qualche centinaio di biglietti ficcati in tutte le tasche. Li disponevo sul tavolo della mia cucina, leggevo i nomi, guardavo i loghi, esaminavo la missione e rimanevo meravigliato dalla diversità di azioni e scopi che questi gruppi perseguivano a favore di altri. Quindi, conservavo i biglietti in cassetti o sacchetti di carta, come ricordi di viaggio. Negli anni, avevo raccolto migliaia di questi biglietti e, ogni volta che li guardavo, mi sorgeva spontanea la stessa domanda: esiste qualcuno realmente in grado di valutare il numero enorme di gruppi e organizzazioni coinvolti in queste cause? Dapprima, si trattò di semplice curiosità, ma lentamente si trasformò nella sensazione che qualcosa di molto più grande stesse nascendo, un importante movimento sociale che stava eludendo i radar della cultura di massa. Sempre più curioso, iniziai a contarli. Consultai i documenti governativi disponibili per i diversi paesi e, utilizzando i dati dei censimenti fiscali, valutai in circa 30.000 il numero delle organizzazioni ambientaliste sparse per il mondo; quando poi presi in considerazione anche quelle per la giustizia sociale e per i diritti delle popolazioni indigene il numero superò le 100.000. Successivamente, feci delle ricerche per capire se era mai esistito un movimento uguale a questo per dimensioni o finalità, ma non riuscii a trovarne uno, passato o presente che fosse. Più indagavo, più approfondivo e più il numero continuava a salire: trovavo elenchi, indici e piccoli database specifici per settori o aree geografiche. Avevo iniziato
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un percorso che mi avrebbe portato molto più lontano di quanto avessi immaginato. Realizzai subito che la mia valutazione iniziale di 100.000 organizzazioni era sottostimata di almeno dieci volte, e attualmente credo che esistano più di un milione, forse anche due, di organizzazioni che operano per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale. In base alle definizioni convenzionali, questa immensa varietà di individui impegnati non costituisce un movimento. I movimenti hanno leader e ideologie. Le persone “aderiscono” ai movimenti, ne studiano i testi e si identificano con un gruppo. Leggono le biografie del fondatore e ascoltano i suoi discorsi, con registrazioni o dal vivo. In breve, i movimenti hanno dei seguaci. Tuttavia, questo movimento non corrisponde ai modelli tradizionali. È frammentato, non organizzato e orgogliosamente indipendente. Nessun manifesto o dottrina, nessuna autorità che eserciti un controllo. Prende forma in scuole, fattorie, giungle, villaggi, aziende, deserti, aree di pesca, slum, persino negli alberghi di lusso di New York. Uno dei tratti che lo caratterizza consiste nel suo essere un movimento umanitario globale che, timidamente, sta emergendo dal basso verso l’alto. Una moltitudine unita da una condizione che non ha precedenti: il pianeta ha una malattia, caratterizzata da pesante degrado ecologico e rapidi cambiamenti climatici, che mette a rischio la sua esistenza. A mano a mano che calcolavo il numero delle organizzazioni, nella mia testa si affacciò il dubbio di essere testimone della crescita di qualcosa di organico, se non biologico. Piuttosto che un movimento nel senso tradizionale del termine, non potrebbe trattarsi di una risposta istintiva e collettiva alla minaccia? La sua natura frammentaria non potrebbe rispondere a esigenze connaturate ai suoi scopi? Quali sono i meccanismi alla base del suo funzionamento? Qual è la sua velocità di crescita? E la natura dei suoi collegamenti? Perché continua a essere ignorato? Ha una storia? Riuscirà a fronteggiare con successo quelle problematiche che i governi non sono stati in grado di risolvere: energia, occupazione, conservazione, povertà e riscaldamento globale? Diventerà centralizzato o continuerà a essere frammentario? Si sfalderà davanti a ideologie e fondamentalismi? Ho cercato un nome per questo movimento, ma non ne esistono. Ho incontrato persone che volevano conferirgli un assetto o dargli un’organizzazione, un compito difficile, si tratta del movimento più complesso che l’umanità abbia mai costituito. Molte persone esterne lo considerano privo di forza, ma ciò non arresta la sua crescita. Quando lo descrivo a politici, accademici e uomini d’affari, mi rendo conto che molti credono
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già di conoscere il movimento, i suoi modi d’operare, la sua natura e le sue dimensioni approssimative. Basano le loro convinzioni sui rapporti dei mezzi d’informazione su Amnesty International, Sierra Club, Oxfam o altre rispettabili istituzioni. Possono essere direttamente informati in merito ad alcune organizzazioni più piccole e possono addirittura far parte del consiglio direttivo di qualche piccolo gruppo. Per loro, e per altri, il movimento è piccolo, noto e circoscritto, è un tipo nuovo di volontariato con una manciata di attivisti fuori controllo che occasionalmente gli procurano una cattiva fama. Anche le persone all’interno del movimento possono sottostimarne l’ampiezza, basando il loro giudizio solo sull’organizzazione a cui appartengono, anche se i network sono in grado di comprendere solo una parte del tutto. Dopo aver trascorso anni a studiare il fenomeno e aver creato insieme ad alcuni colleghi un database globale delle organizzazioni coinvolte, sono giunto alla seguente conclusione: si tratta del più grande movimento sociale in tutta la storia dell’umanità. Nessuno conosce il suo scopo e i meccanismi del suo funzionamento sono più misteriosi di quanto sembri. Quello che salta agli occhi è indiscutibile: aggregazioni coerenti, organiche, autorganizzate, che riuniscono decine di milioni di persone che operano per un cambiamento. Nei college, quando mi chiedono se sono ottimista o pessimista riguardo al futuro, la mia risposta è sempre la stessa: se si guarda alla scienza che descrive ciò che sta accadendo oggi sulla Terra e non si è pessimisti, vuol dire che non si è in possesso di dati corretti. Se si incontrano le persone di questo movimento senza nome e non si è ottimisti, significa che non si possiede un cuore. Ciò che vedo sono persone normali e fuori dal comune disposte ad affrontare disperazione, potere e avversità incalcolabili nel tentativo di ripristinare alcune parvenze di grazia, giustizia e bellezza in questo mondo. Nella categoria “persone fuori dal comune”, si distinguono l’ex presidente Bill Clinton e George W. Bush.* Mentre sto scrivendo, Bush appare in televisione, prigioniero di una spirale di menzogne mentre tenta di tenere sotto controllo una guerra terrificante, provocata da una sciocca e malriposta ambizione; nello stesso tempo, la Clinton Global Iniziative (un’organizzazione non governativa) in un incontro a New York ha raccolto 7,3 miliardi di dollari in tre giorni per combattere riscaldamento globale, ingiustizia, intolleranza
* Il mandato di George W. Bush è scaduto il 20 gennaio 2009, ndR.
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e povertà. Quale delle due iniziative, la guerra o la pace, affronta i problemi alla radice? Quale contiene passione? Quale non ferisce il mondo? Quale è aperta a nuove idee? Il poeta Adrien Rich ha scritto: “Il mio cuore è toccato da tutto ciò che non posso cambiare. Così tanto è stato distrutto che ho dedicato la mia sorte a coloro che, era dopo era, con perseveranza, senza poteri straordinari, ricostruiscono il mondo”.1 Non potrebbe esserci descrizione migliore per il pubblico che ho incontrato durante le mie conferenze. Questo è il racconto, privo di intenti celebrativi, di quello che funziona su questo pianeta, di storie di immaginazione e convinzione, senza resoconti disfattisti sui limiti. “Sbagliato” è un termine che si ripete e crea assuefazione; “giusto” è il punto in cui si trova il movimento. Un insegnamento rabbinico dice che se il mondo sta finendo e il Messia sta arrivando, si deve prima piantare un albero e poi controllare se la storia è vera. Anche nel mondo islamico c’è un insegnamento simile, che si rivolge ai fedeli dicendo che se il giorno del giudizio avranno un pezzo di palma in mano, lo dovranno piantare. L’ispirazione non proviene dalle litanie sui danni già fatti; piuttosto, si trova nella disponibilità umana a ricostruire, riparare, ricomporre, ripristinare, recuperare, reinventare e riconsiderare. “Considerare” (con sidere) significa “con le stelle”; riconsiderare significa riunirsi al movimento e ai cicli del cielo e della vita. Qui l’enfasi è posta sulle intenzioni degli esseri umani, dato che gli esseri umani sono fragili e imperfetti. Le persone non sempre sanno leggere e scrivere o sono istruite. Molti individui nel mondo sono poveri e soffrono di malattie croniche. Non sempre i poveri riescono a procurarsi il cibo giusto per un’alimentazione corretta e devono lottare per nutrire ed educare i loro figli. Se persone con tali carichi riescono ad andare oltre le loro difficoltà quotidiane e agire con il chiaro scopo di combattere lo sfruttamento e operare per la ricostruzione, allora si sta preparando qualcosa di veramente potente. Non si tratta solo di poveri, ma di persone di tutte le razze, di tutte le classi sociali e di tutti i luoghi del mondo. “Un giorno finalmente hai capito quel che dovevi fare e hai cominciato, anche se le voci intorno a te continuavano a gridare i loro cattivi consigli”.2 Questa è la descrizione che Mary Oliver fa del passaggio da un’atteggiamento profano a un profondo senso di connessione con il mondo vivente. Anche se generalmente i telegiornali annunciano la morte di persone a noi estranee, milioni di uomini e donne continuano ad agire proprio in nome di quegli estranei. Questo altruismo ha origini religiose, persino
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mitiche, e affonda le sue radici nell’estrema concretezza del XVIII secolo. Gli abolizionisti furono il primo gruppo a creare un movimento nazionale e globale per difendere i diritti di persone che non conoscevano. Fino a quel momento, nessun gruppo di cittadini aveva avanzato reclami che non avessero a che fare con i loro stessi interessi.3 I conservatori misero in ridicolo gli abolizionisti, allo stesso modo in cui oggi deridono liberali, progressisti, attivisti e tutti quelli che vogliono risolvere i problemi del mondo, rendendo questi termini dispregiativi. Curare le ferite del mondo e dei suoi abitanti non richiede santità o un partito politico, ma solo buon senso e perseveranza. Non si tratta di un’attività liberale o conservatrice, si tratta di un atto sacro. È un’impresa enorme che cittadini comuni, e non governi autonominati od oligarchie, stanno portando avanti in tutto il mondo. Moltitudine inarrestabile è un’esplorazione di questo mondo, dei suoi appartenenti, dei suoi scopi e dei suoi ideali. Ne ho fatto parte per decenni e, di conseguenza, non posso affermare di essere come un giornalista distaccato che esamina obiettivamente il suo soggetto. Spero che le pagine che seguono possano essere considerate l’espressione di un ascolto attento. Il sottotitolo del libro, Come è nato il più grande movimento del mondo e perché nessuno se ne è accorto, è una domanda per cui non esiste una sola risposta. Come quello di chiunque altro, il mio punto di vista si basa su convinzioni accumulate nel tempo e su giudizi arricchiti da una rete di amici e colleghi. In ogni caso, ho scritto questo libro soprattutto per scoprire quello che ancora non so. Parte di ciò che ho appreso riguarda una storia antica che sta riemergendo, ciò che il poeta Gary Snyder chiamava “la grande clandestinità”, una corrente di umanità che risale al Paleolitico, e che affonda le sue radici in guaritori, sacerdotesse, filosofi, monaci, rabbini, poeti e artisti “che parlano a nome del pianeta, delle altre specie, dell’interdipendenza; un flusso vitale che scorre sotto, attraverso e intorno agli imperi”.4 Nello stesso tempo, ho imparato molte cose nuove. I gruppi sono interconnessi, non esiste un parola che descriva esattamente la complessità di questa rete di relazioni.5 Internet e gli altri strumenti di comunicazione hanno rivoluzionato le possibilità, per i piccoli gruppi, di raggiungere dei traguardi e di conseguenza stanno cambiando i luoghi del potere. Sono sempre esistite reti di persone potenti, ma, fino a poco tempo fa, non è mai stato possibile mettere in collegamento il mondo intero. Moltitudine inarrestabile descrive cosa differenzia questo movimento dai precedenti movimenti sociali, in particolare per quanto riguarda l’ideolo-
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gia. Le organizzazioni all’interno del movimento sono nate una alla volta, generalmente senza una visione predeterminata del mondo, e si sono date i loro obiettivi prescindendo da qualunque ortodossia. Secondo alcuni storici e analisti, i movimenti esistono solo quando possiedono un nucleo di credenze ideologiche o religiose. Inoltre, non esistono nel vuoto totale: un forte leader caratterizza qualsiasi movimento e spesso ne costituisce il fulcro intellettuale, anche dopo che è morto. Il movimento che descrivo in questo libro, come ho già detto, non si riconosce in nessun leader e, di conseguenza, rappresenta un fenomeno sociale del tutto diverso. I prossimi tre capitoli si concentrano sulle radici del movimento. Non basterebbero diversi libri per rendere giustizia alla sua storia, tantomeno possono bastare pochi capitoli. In America sono nati alcuni dei più importanti ideali progressisti della storia: il suffragio alle donne, l’abolizionismo, i diritti civili, la sicurezza alimentare, ma pochi lo sanno, data la povertà dei programmi scolastici attuali. Il mio studio riflette il punto di vista di un nordamericano, perché questa è l’unica storia che posso raccontare adeguatamente. È importante tenere presente questo elemento, in quanto la storia mondiale, vista con gli occhi della cultura occidentale, risulta invariabilmente alterata, malgrado tutti i tentativi di rimanere obiettivi. Esistono altre storie, quella africana e quella dei nativi americani, quella inglese e quella giapponese, brasiliana e mediterranea; tutte egualmente valide, e tutte con i loro particolari punti di vista. Per esempio, in India l’ambientalismo è un movimento per la giustizia sociale, impegnato per il diritto delle persone alla terra e ai suoi frutti. Nel 1991, Sunita Narain, direttrice del Center for Science and the Environment di New Delhi, definì “colonialismo ambientale” il riscaldamento globale e fu una dei primi a chiedere che la gestione dell’ambiente fosse basata sui diritti umani e non su convenzioni legali. Negli Stati Uniti, il movimento ambientalista fu ostacolato dall’accusa di anteporre i diritti degli animali e delle piante a quelli delle persone. Ron Dellums, un membro afroamericano del Congresso proveniente da Oakland, California, domandò al Sierra Club: “So che vi interessate degli orsi neri, ma vi interessate dei neri?”.6* In Germania, il movimento dei verdi è diventato un partito politico organizzato e ora i suoi membri ricoprono alte cariche dello stato. Nel Sud del mondo, l’ambientalismo è un movimento di poveri, con gli
* Gioco di parole fra “black bears” e “black people”, ndT.
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moltitudine inarrestabile
agricoltori che portano avanti campagne che comprendono la riforma terriera, i diritti commerciali e l’egemonia imprenditoriale. In Inghilterra, durante la Rivoluzione industriale, il movimento ambientalista avviò una serie di campagne per il servizio sanitario nazionale. In Italia, si occupa ad esempio delle dinamiche fra città e campagna;* in Sudafrica, l’ambientalismo è legato indissolubilmente ai temi della giustizia sociale insiti nella storia del paese.7 Il mio scopo, nel raccontare alcune storie del passato, non consiste solo nel magnificare grandi personaggi come Darwin, Gandhi, Rachel Carson o Thoreau, ma nel riconoscere l’importanza di collegamenti e coincidenze. Molto tempo fa sono stati compiuti alcuni piccoli gesti, apparentemente senza conseguenze, che, alla fine, hanno cambiato il mondo: un risultato che gli autori di quelle azioni non avrebbero mai potuto immaginare. Uno di questi avvenimenti si verificò quando Emerson incontrò la famiglia Jussieu a Parigi, un piccolo evento che, 123 anni dopo, contribuì a dar forma al movimento per i diritti civili. In un’epoca in cui le persone si sentono impotenti, una storia di altruismo può dare conforto, perché rivela la forza della collaborazione e dell’umiltà, ricordando che negli esseri umani i cambiamenti costruttivi provengono dalla volontà e non dalla coercizione. I capitoli “Le popolazioni indigene” e “Interrompiamo questo impero” riguardano la globalizzazione. “Le popolazioni indigene” concerne le culture indigene. Le loro terre costituiscono i più grandi santuari della vita esistenti sulla Terra e le multinazionali, affamate di risorse, stanno commercializzando e distruggendo queste arche biologiche. Le culture che si sono coevolute con questi ambienti, insieme ad alcune organizzazioni non profit, si stanno opponendo a tale invasione, per definire responsabilità e limitare lo sviluppo incontrollato. “Interrompiamo questo impero” è incentrato sulle organizzazioni che proteggono i cittadini, i lavoratori e l’ambiente dalle mostruosità del fondamentalismo del libero mercato. Gli ultimi due capitoli guardano all’intero movimento da due diversi punti di vista. “Immunità” utilizza la metafora delle cellule di un organismo che si difende per descrivere l’attività collettiva del movimento. Il sistema immunitario costituisce il sistema più complesso del corpo umano e fornisce un modello utile per esaminare le proprietà di questi gruppi. I termini “ambiente” e “giustizia sociale” includono organizzazioni innovati-
* In italiano nel testo originale, ndT.
capitolo 1 | gli inizi
ve, ricche di idee e tecniche originali, alcune delle quali vengono analizzate in questo capitolo, insieme alle debolezze del movimento: in quale modo le sue molteplicità e diversità potrebbero indebolirlo quando il mondo precipita nella violenza e nel disordine. L’ultimo capitolo, “Il ripristino”, descrive i principi biologici di tutte le forme di vita, compresi gli esseri umani, e utilizza tali principi come modello per avvicinare il movimento a un nuovo vocabolario. Secondo la definizione fondamentale della biologa Janine Benyus, “la vita stessa crea le condizioni che portano alla vita”. È giusto chiedersi se questo principio si adatti a tutte le attività umane, dall’economia al commercio fino alle modalità di costruzione delle nostre città. Se affidarsi alle scienze biologiche per spiegare i fenomeni sociali può essere rischioso, ugualmente rischioso è presupporre che il linguaggio normalmente utilizzato per descrivere i movimenti sociali del passato sia sufficiente per descrivere il movimento di cui si parla in questo libro. Le persone citate cercano tutte di agire per il meglio, ma questo libro non parla solo dell’agire per il meglio. Parla delle persone che desiderano salvare la cellula sacra alla base dell’esistenza, l’intero pianeta e tutta la sua incredibile diversità. In breve, il libro è involontariamente ottimista, cosa strana per questi tempi tristi. Non era mia intenzione, è stato l’ottimismo a trovare me.
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