MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 06-07 | ottobre-dicembre 2015 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente
Bill McDonough: il “circolo virtuoso” della materia •• Friedrich Hinterberger: sarà la generazione Facebook a guidare la dematerializzazione? •• Guido Viale: l’invenzione del rifiuto •• Panzeri: comunicare la sostenibilità
I sistemi collettivi: driver di sviluppo economico •• I confini del rifiuto •• Economia circolare: lavori in corso •• Bioeconomia: 1 euro investito oggi ne genera 10 in 10 anni •• L’alluminio? Sta in città
In 700 per la bioeconomia
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•• Come misurare la circolarità di un prodotto •• Sostenibile e produttivo •• Sono in arrivo 60 miliardi di “mattoncini” biobased
Expo: un racconto (in parte) mancato •• In Islanda del merluzzo non si butta via niente
REALIZZARE SOCIETÀ
SOSTENIBILI NEI PAESI DEL
MEDITERRANEO
LE REGIONE DEL MEDITERRANEO UTILIZZA APPROSSIMATIVAMENTE DUE VOLTE E MEZZA LE RISORSE CHE IL PROPRIO ECOSISTEMA È IN GRADO DI FORNIRLE. L’unicità della propria geografia e la ricca storia della regione del Mediterraneo la distinguono dal resto del mondo. Tendenze di consumo e sviluppo insostenibili minacciano tuttavia queste uniche risorse ecologiche che rappresentano i più preziosi punti di forza della regione. Il Programma Mediterraneo del Global Footprint Network fornisce strumenti per guidare la gestione delle risorse naturali, lo svilippo economico e modelli di consumo sostenibili. Il nostro sistema di contabilità dell’impronta Ecologica, assieme allo strumento denominato Net Present Value Plus (NPV+), può aiutare città, stati e nazioni a misurare con maggiore precisione la propria riserva ecologica o deficit, ad individuare sfide ed opportunità , ed inoltre a pronisticare e monitorare l’impatto delle diverse politiche ambientali.
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Nuova materia. Da riciclo.
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MATERIA RINNOVABILE Networking Partner
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Editoriale
L’errore di Atene
In alto: Testa palagi (testa di Atena Lemnia da Fidia), marmo pentelico, 15 ac.-15 dc. ca. Foto: Sailko, Museo civico archeologico (Bologna)
di Antonio Cianciullo
La IV edizione degli Stati generali della Green Economy si terranno il 3 e 4 novembre 2015 a Ecomondo Rimini Fiera, www.statigenerali.org e www.ecomondo.com
Duemilacinquecento anni fa una piccola città greca, la prima democrazia del pianeta, ha compiuto il miracolo di organizzare la resistenza alle armate persiane, il più potente impero dell’epoca: per più di 10 anni poche migliaia di opliti hanno tenuto in scacco e poi battuto eserciti che provenivano dall’Africa e dall’Asia. E, quasi contemporaneamente, questa stessa città, Atene, ha anche segnato un picco straordinario nella storia della conoscenza e della bellezza, con lo splendore dell’arte classica per eccellenza. Eppure, al culmine della sua potenza, la città di Fidia non è riuscita a drenare dal territorio le risorse necessarie al suo sviluppo. La crescita è stata insostenibile, come diremmo oggi: le difficoltà di governo degli ecosistemi – unite a una visione troppo ristretta della cittadinanza – hanno contribuito a rallentarne l’espansione e ad avviarne il declino. Atene è stata la prima città a perdere l’autosufficienza alimentare. E il disboscamento massiccio dell’Attica, con l’erosione del suolo descritta già da Platone, ha anticipato un problema che oggi ritroviamo su scala planetaria. Eccellente nell’esplorazione della filosofia e dell’arte, Atene non ha trovato un analogo equilibrio nel rapporto con la natura. Dopo 25 secoli possiamo considerare appresa quella lezione? Possiamo affrontare la crisi attuale sapendo di dover fare i conti con la materia, visto che anche il mondo virtuale per funzionare ha bisogno di uno schermo e di energia? E che la finanziarizzazione dell’economia – la fuga dal reale – sta provocando disastri? Questo numero di Materia Rinnovabile è centrato su una questione che appare un po’ tecnica. Già il nome usato dagli addetti ai lavori (compliance scheme, che si può tradurre con “sistemi collettivi”, i sistemi per coinvolgere i produttori nella raccolta delle loro ex merci trasformate in rifiuti) tiene lontane le masse. Eppure parliamo di qualcosa che ci vediamo passare davanti agli occhi tutti i giorni. Qualcosa che pesa sul nostro portafoglio. Qualcosa da cui dipende la qualità dell’aria che respiriamo e dell’acqua che beviamo. Il problema è che questo “qualcosa” è difficile da definire perché è un’entità dalla doppia faccia. A tratti ci appare come merce: una ricchezza, una materia prima che alimenta il sistema produttivo. A tratti come rifiuto: un peso di cui liberarsi. Ma i problemi nascono se vediamo questa sequenza in un ordine temporale definito
e irreversibile: la merce che all’improvviso si trasforma in rifiuto creando un problema di approvvigionamento e un problema di smaltimento. Non necessariamente però c’è un unico prima e un unico dopo. Possiamo pensare la materia come un circolo in cui passa da una forma all’altra, da una funzione all’altra, da un oggetto all’altro. La merce diventa scarto, lo scarto alimenta un nuovo circolo produttivo per creare altri scarti che si trasformano in merci. Non all’infinito, ma a lungo. L’economia circolare comincia a essere molto dibattuta, è però ancora poco utilizzata. Del resto come potrebbe essere praticata in un paese in cui tutti parlano di raccolta differenziata ma pochi si interessano al destino dei materiali così faticosamente e costosamente selezionati? In cui quello che conta è il beneficio politico che si ricava sventolando un incremento della raccolta di organico o di carta o di plastica mentre nessuno si occupa di garantire le condizioni di base per la costruzione degli impianti di trattamento di questi materiali? In questo modo si rischia di abbandonare il paese, specialmente nelle regioni meridionali, alla pressione delle cosche che guadagnano svendendo la salute pubblica con le discariche pirata e boicottando un sistema avanzato di gestione degli scarti. Nonostante queste difficoltà, in pochi anni la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, la capacità di ricerca dei nostri laboratori e l’azione coraggiosa di una parte del mondo imprenditoriale sono riusciti a fare dell’Italia un paese leader nel campo della bioeconomia con esperienze pilota di successo. Ora si tratta di sostenere questo primato e di alimentarlo fornendo la materia necessaria. Una materia che non va sottratta ad altri usi preziosi, come quello alimentare, ma ricavata abbattendo il peso degli sprechi, trovando le proposte giuste territorio per territorio, creando un lavoro che non può essere delocalizzato, continuando a investire in ricerca. È una sfida che richiede tecnologia avanzata e innovazione di sistema. Il dibattito sui sistemi collettivi che ospitiamo in questo numero, stampato in concomitanza con l’appuntamento degli Stati generali della green economy e di Ecomondo, vuole dare un contributo in questa direzione. Esploriamo il tema affrontandolo su due versanti: quello tecnico e quello divulgativo, per mettere in contatto i due mondi. L’Italia ha in mano buone carte, bisogna giocarle bene.
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M R
06-07|ottobre-dicembre 2015 Sommario
MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE
Direttore responsabile Antonio Cianciullo Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Catia Bastioli, Luigi Bechini, Duccio Bianchi, Josko Bobanovic, Gianfranco Bologna, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Danilo Bonato, Anna Bruno Ventre, Alessandro Canovai, Marco Capellini, Dirk Carrez, Stefano Ciafani, Marco Codognola, Roberto Coizet, Giovanni Corbetta, Joanna Dupont Inglis, Eugenio Eger, Aldo Femìa, Sergio Ferraris, Paola Ficco, Pasquale Fimiani, Friedrich Hinterberger, Jørgen Vig Knudstorp, William McDonough, Nathalie Moll, Achille Monegato, Ilaria Nardello, Yahya Sergio Pallavicini, Mauro Panzeri, Federico Pedrocchi, Carlo Pesso, Emanuele Rappa, Roberto Rizzo, Edo Ronchi, Loren Shuster, Giancarlo Spada, Guido Viale, Paolo Tomasi, Marie Wheat
Think Tank
Free magazine bimestrale www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014
Ringraziamenti Ingrid Cadoret, laria Catastini, Kira Gould, Giulia Rognoni, Stefania Maggi, Michele Posocco, Giancarlo Spada, Stefano Stellini Caporedattore Maria Pia Terrosi
Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi Design & Art Direction Mauro Panzeri (GrafCo3), Milano Impaginazione Michela Lazzaroni Traduzioni Isobel Butters, Erminio Cella, Paola Cianfrone, Laura Coppo, Valentina Gianoli, Franco Lombini, Richard Nybakken, Mario Tadiello
Policy
Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini
Antonio Cianciullo
7
L’errore di Atene
a cura di Emanuele Bompan
10
Al di là del riciclo Intervista a William McDonough
a cura di Carlo Pesso
15
Sarà la generazione Facebook a guidare la dematerializzazione Intervista a Friedrich Hinterberger
Guido Viale
20
La nascita del rifiuto
a cura di Antonio Cianciullo
25
La terza via dell’Islam Intervista a Yahya Sergio Pallavicini
Mauro Panzeri
30
Concorrenza leale
Marco Moro
36
From Nowhere to COP21
Roberto Coizet
44
I sistemi collettivi: driver di sviluppo economico
Aldo Femia
48
Quanto sono efficaci i sistemi Epr? La parola ai dati
Pasquale Fimiani
56
Capitale naturale ed economia circolare: due facce della stessa medaglia
Giovanni Corbetta
61
Perché i rifiuti non si trattano tutti allo stesso modo
Edo Ronchi
65
Il sistema di gestione degli imballaggi: valutare l’albero dai suoi frutti
Paola Ficco
68
I confini del rifiuto
a cura di Antonio Cianciullo
72
Raee: un problema, più soluzioni Intervista a Danilo Bonato
Duccio Bianchi
75
Il tesoro nascosto in miniera
a cura di Joanna Dupont-Inglis
80
Nuovi prodotti per nuovi mercati Intervista a Marie Wheat
9
Danilo Bonato
84
Economia circolare: lavori in corso
Mario Bonaccorso
90
Bioeconomia: 1 euro investito oggi ne genera 10 nel 2025
Rubriche
Case Histories
Paolo Tomasi
100
La metamorfosi di un consorzio mentre cambia l’economia dei rifiuti
Coordinamento generale Anna Re Responsabili relazioni esterne Federico Manca, Anna Re, Matteo Reale Responsabili relazioni internazionali Federico Manca, Carlo Pesso Ufficio stampa Silverback www.silverback.it info@silverback.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333
Roberto Rizzo
104
Ecco come si passa da un bicchiere di plastica allo scooter
Mario Bonaccorso
108
Il futuro dei mattoncini Lego è biobased
Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti per la versione su carta (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento
Marco Capellini
111
Circolare sì, ma quanto?
a cura di Mario Bonaccorso
114
Superare i limiti tecnologici, riconoscere i limiti delle risorse naturali Intervista a Catia Bastioli
Sergio Ferraris
118
Questione di fibra
Sergio Ferraris
126
Carta: la sostenibilità entra nel ciclo di produzione
Emanuele Bompan
130
Noi ricicliamo il petrolio
a cura di Mario Bonaccorso
134
In 700 per la bioeconomia Intervista a Nathalie Moll
Ilaria Nardello
138
Gianfranco Bologna
139
Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright © Edizioni Ambiente 2015 Tutti i diritti riservati
Profondo blu In Islanda del merluzzo non si butta via niente Capitale naturale Rebus Terra: + 83 milioni – 15 miliardi
Stefano Ciafani
140
Green & circular Materia da rinnovare, non da incenerire
Federico Pedrocchi
141
Pillole di innovazione Expo: un racconto (in parte) mancato
In copertina Mauro Panzeri, Flower Power, collage digitale, 2015
10
materiarinnovabile 06-07. 2015
AL DI LÀ
del riciclo
Intervista a William McDonough William McDonough parla del suo ultimo libro e riflette su come siamo diventati una civiltà insostenibile. E di come una solida economia circolare, basata su una buona pianificazione, possa salvare tutti noi. a cura di Emanuele Bompan
Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008.
Ellittico, filosofico e sempre illuminato da concetti solidi e semplici. Parlare per più di un’ora con uno dei guru della pianificazione del 21° secolo è un viaggio rivelatore su quello che non funzionava in tema di pianificazione ed economia nel secolo scorso. E se un trauma globale, come le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, avesse cancellato non solo due grandi città giapponesi ma anche il nostro legame con l’equilibrio della natura? E come possiamo ripensare il tutto – il modo in cui sfruttiamo le risorse naturali, il sistema di produzione – in maniera organica e circolare? William Andrews McDonough, pianificatore, filosofo e autore, è conosciuto per il suo influente Cradle to Cradle: Remaking The Way We Make Things, scritto a quattro mani con il chimico Michael Braungart (ed. it., Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni 2003).
Think Tank
Charles Levy, bombardamento atomico della città di Nagasaki, 9 agosto 1945
William McDonough
William McDonough è una della personalità più celebri nell’ambito della sostenibilità nelle discipline del progetto e del pensiero della sostenibilità in generale. Nella sua attività di progettista ha firmato numerose tra le più significative realizzazioni di architettura sostenibile. Al lavoro come architetto e pianificatore ha affiancato un’intensa attività di insegnamento e consulenza ed è uno degli speaker più richiesti in meeting ed eventi di importanza internazionale. Tra le sue molte pubblicazioni vi sono testi fondamentali come Cradle to Cradle, scritto con Michael Braungart (ed. it. Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni, 2003). Nel 2013, sempre con Braungart, ha pubblicato The Upcycle. Beyond Sustainability – Designing for Abundance (North Point Press).
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Nel suo ultimo libro, The Upcycle. Beyond Sustainability – Designing for Abundance, il confine della sostenibilità nell’uso delle risorse viene spinto oltre il semplice riutilizzo dei materiali, alla rigenerazione, proponendo un mondo in cui tutto quello che facciamo migliora l’ambiente. (Prende una lunga pausa prima di rispondere alla prima domanda). “The Upcycle è letteralmente un’estensione di Cradle to Cradle. Se vogliamo usare una metafora dobbiamo guardare a Cradle to Cradle come a un fulcro e a The Upcycle come alla leva. Cradle è il sasso su cui fare leva per elevare il nostro modo di pianificare. Nel fulcro abbiamo delineato alcune precondizioni molto chiare.”
è una risorsa preziosa: oggi quando le industrie tessili finiscono di lavare i tessuti, raccolgono l’acqua utilizzata e la purificano fino a renderla potabile. Questo perché abbiamo cambiato la composizione chimica delle tinture, abbiamo pensato con la mentalità ‘cosa viene dopo’. Invece di produrre rifiuti pericolosi abbiamo progettato prodotti sicuri ottenendo acqua che potrebbe essere venduta al circolo di giardinaggio locale. Questo ci fa pensare: perché il business dovrebbe voler perdere una tale opportunità? Perché una società dovrebbe voler avvelenare l’acqua? Avviamo attività per poter inquinare i fiumi? La chiave è fare le domande giuste. Infine, ultima precondizione: l’equità sociale.”
Quali sono? “I materiali vanno visti come nutrienti biologici o tecnici per un ricircolo sicuro e continuo. La natura non ha rifiuti, niente rimane inutilizzato. Per questo abbiamo bisogno di riutilizzare i materiali: mantenere flussi continui di nutrienti biologici e tecnici, le cose devono essere utili all’uomo e tornare alla natura in sicurezza. Va pensato come base per un nuovo modello di business. L’energia rinnovabile. È fondamentale alimentare tutte le attività con il 100% di energia rinnovabile. Gestione idrica. L’acqua
Questo è qualcosa che sfugge a molti business. “Dobbiamo rispettare tutte le persone e i sistemi naturali. Le persone andrebbero trattate con dignità in ogni fase delle nostre attività. È assolutamente importante (si prende un’altra lunga pausa). Questo è Cradle to Cradle. Il libro The Upcycle punta a migliorare le cose poiché si è capito il concetto espresso in Cradle to Cradle. Raccogliamo una moltitudine di esempi per rendere il mondo migliore. Uno tra tutti: si comincia a raccontare di una grande società
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materiarinnovabile 06-07. 2015 che sta comprendendo cosa significhi ‘arriveremo a essere alimentati al 100% con energia pulita’.” La pianificazione gioca un ruolo centrale. “La pianificazione è il primo segnale dell’intenzione degli uomini. Senza l’intenzione l’azione non comincia necessariamente. Quindi il primo atto è rappresentare i propri valori. I valori umani. Come: ‘non distruggeremo il pianeta per le generazioni future, perché crediamo in un mondo sano e sicuro’. E applicare questi valori al business: questo è il riutilizzo. Decidere di diventare al 100% buoni. E farlo. Guardate al diagramma di costante miglioramento (figura 1). Avete deciso ‘sì, voglio essere meno cattivo’, ma essere meno cattivi non significa essere buoni. È essere cattivi, solo un po’ meno. Il riutilizzo – l’upcycling – non significa essere solo meno cattivi, ma anche più buoni. L’upcycling non è solo una quantificazione – ‘Faccio meno cose cattive’ – ma una qualificazione. Vuol dire riportare il materiale all’interno del sistema, reinserirlo nel mondo per essere riutilizzato, dando vita a qualcosa di migliore rispetto a quanto sia stato prima. Diverso è il downcycling dove c’è sì il riutilizzo dei materiali, ma con deterioramento della qualità.”
Figura 1 | Il diagramma del riutilizzo: continuo miglioramento 100% BUONO
100% CATTIVO INVENTARIO
VALUTAZIONE
obiettivo
Fonte: MBDC, LLC 2015. OTTIMIZZAZIONE
Le società tradizionali hanno sempre pianificato il loro ecosistema in modo equilibrato e sostenibile. Perché le società moderne, in particolare quelle capitaliste, sono diventate così insostenibili? “I piccoli agricoltori italiani praticano il riutilizzo da migliaia di anni. Geniale, perché quello che hanno fatto è essenzialmente riutilizzare il suolo, seguendo il modus operandi della natura. Ma voglio ampliare la scala della risposta. Avete provato a risolvere l’equazione di Einstein E=mc2? Ero seduto davanti al mio camino nel New England pensando profondamente all’energia. L’universo è entropia: tutto tende al caos, senza ritorno. Qual è l’opposto? Andai in libreria per cercare qualcosa sull’entropia negativa. Tutto ha un contrario. Dov’è l’ordine? E poi un flash: E=mc2. Abbiamo la ‘E’ che rappresenta la fisica e la ‘m’ che rappresenta la chimica. Qual è la domanda? La domanda è: dov’è la biologia? L’entropia negativa non è fisica, è biologia. Il tronco che brucia è entropia, il tronco che cresce è entropia negativa, è ordine. In questo modo vi rendete conto che la terra è una cosa vivente che necessita di crescere e di un sistema aperto di sostanze chimiche per garantire la riproduzione degli organismi. Quindi la vita biologica nega l’entropia. Quando ciò è chiaro si comprende quello che i contadini fanno da migliaia di anni. La vita genera ordine dal caos, loro alimentano il suolo con azoto e carbonio dell’atmosfera, e stuzzicano la vitalità del pianeta. Pensate ancora a E=mc2. Da bambino, a cinque anni, ho saputo di Hiroshima. Ricordo la copertina di una rivista sul tavolo con immagini dell’esplosione atomica. E pensavo: perché
Think Tank
Ferdinand Schmutzer, Albert Einstein, 1921
“I pianificatori sono terribilmente ottimisti riguardo alle cose. Il mondo delle arti sta guardando intensamente ai dettagli, vede le cose in profondità. È il prodigio, la delizia, la bellezza. Dio è nei dettagli. Gli artisti sono coloro che guidano. Sull’altro versante abbiamo specialisti che imparano sempre di più su sempre meno cose, per loro nei dettagli c’è il diavolo, dettagli che possono demolire una teoria. Non è fantasticare, è una comprensione focalizzata. Qualcosa che può cambiare la pianificazione e il business è porsi la domanda giusta: come qualcosa di bello può distruggere la salute dei bambini? O il pianeta? Se produco la seta più raffinata ma per farla inquino il fiume, non si può dire che sto fornendo all’industria della moda la seta più bella.”
Cosa ha cambiato il modo in cui guardiamo il mondo? Proprio la bomba atomica. […] Abbiamo cominciato a vivere come se non ci fosse domani.
gli esseri umani si fanno questo a vicenda. Al college chiesi a un professore com’è possibile che si faccia scomparire una città in pochi secondi. Mi portò a guardare a E=mc2 (nota: la teoria della relatività permise la nascita della bomba atomica). Cosa ha cambiato il modo in cui guardiamo il mondo? Proprio la bomba atomica. A metà del secolo scorso l’umanità ha creato una situazione in cui la comprensione del mondo da parte delle persone consisteva nella consapevolezza che il mondo avrebbe potuto finire il giorno dopo. Abbiamo cominciato a vivere come se non ci fosse domani. Abbiamo iniziato a buttare via cose, a fabbricare cose e usarle. Perché il mondo potrebbe finire domani.” Lo stesso per i cambiamenti climatici. “Esattamente. Godetevi la vita finché potete, non preoccupatevi. Se il mondo finirà non farà differenza. Abbiamo perso il senso di connessione intergenerazionale e creato una sorta di tirannia globale della disperazione.” Una cultura nata e pervasa dal capitalismo consumistico. Come possiamo trasformare questo approccio e dire: riutilizzate?
Abbiamo bisogno di più regole e controllo per proteggerci dai danni? “Regolamentare la pianificazione ha un costo. Dobbiamo eliminare la regolamentazione. Che è quello che fa la pianificazione cradle-tocradle. Realizzando una buona pianificazione si elimina la necessità di regole, di scartoffie, si riducono i costi, la paura e la preoccupazione dei clienti. Questa è l’opportunità per alzarsi e basare il proprio business sul riutilizzo. Questo cambia la questione fondamentale del business stesso. Quanto possiamo dare per quello che prendiamo.” Oggi le tecnologie verdi e pulite sono in pieno boom. Ma le nuove tecnologie, marchiate e amiche dell’ambiente o commercializzate come tali, non sempre si basano su una buona pianificazione. “Oggi molte fonti stanno emettendo carbonio nell’atmosfera. La domanda è: state emettendo tossine? Il carbonio non è una tossina. Il nostro cibo è carbonio, i nostri alberi sono carbonio, e i bambini sono carbonio. Vediamo il carbonio come qualcosa che ci circonda. Il problema è avere il carbonio nel posto sbagliato, dove diventa una tossina. Le tossine sono materiali nel posto sbagliato. Il piombo nel computer si comporta da trasmettitore; il piombo nel cervello di un bambino è una neurotossina. Il carbonio è tossico solo nell’atmosfera, a questo punto della storia. È come mettere piombo nel cervello di un bambino. Quindi quando vediamo una tecnologia pulita che mette qualcosa nel posto sbagliato – come il carbonio nell’atmosfera – questo non va bene. Così, per esempio, quando parliamo di biocarburanti stiamo sempre parlando di carbonio che finisce in atmosfera. Dobbiamo chiederci se è intelligente. Penso che dovreste guardare l’equazione piuttosto attentamente. Quando usate olio di palma voi liberate tutto il carbonio sequestrato dalla foresta. Dobbiamo stare attenti alle cose che non sono green come vengono etichettate. L’efficienza è solitamente un buon punto di partenza. Ma la ricerca di nuove tecnologie che rispettino i punti elencati è la cosa più esaltante.”
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L’economia circolare è un sistema economico ricco di risorse e un motore per l’innovazione, che porta benefici costanti alla società, oggi e in futuro […]. Essenzialmente l’economia circolare restituisce le risorse.
Nel libro cita spesso un tipico problema wittgensteiniano. Il modo in cui utilizziamo un concetto può essere un limite. Quanto è importante trovare nuovi significati all’innovazione dei materiali? “Noi sostituiamo i concetti in un modo strano. Per esempio usiamo lo spazio per definire le nostre relazioni. ‘Dov’è’, invece di ‘cos’è?’ Pensate: buttiamo ‘via’ le cose. Le gettiamo nell’acqua che le porta ‘via’, lontano. Ma per le persone più a valle non è ‘lontano’. L’idea di ‘lontano’ è bizzarra; abbiamo dimenticato che noi siamo il ‘lontano’ per qualcun altro. Abbiamo iniziato come raccoglitori, in un mondo dove non c’era ‘lontano’. Quando siamo diventati coltivatori abbiamo creato il ‘qui’ e il ‘lontano’. In Cina gli escrementi erano considerati sacri. Quando si andava a cena da qualcuno si lasciava il proprio ‘deposito’, le feci, perché era il modo in cui si restituiva il nutrimento. Adesso le buttiamo ‘via’. Se ci spostiamo verso il concetto di utilità, allora possiamo parlare di utilizzo. Non si può dire di bere l’urina o i liquami, si dice di buttarli via, ma se si enfatizza l’uso e si pensa ‘come posso pianificare il riutilizzo di liquami che contengono H2O’, si utilizza il cervello per pensare all’uso. La terra è qui per essere usata. E invece ne stiamo abusando. Le parole diventano importanti.” Nel libro descrive come possiamo riutilizzare il suolo. “La Cina ha dichiarato che il 19,4% del terreno coltivato è inquinato da metalli tossici, e tossici per il cibo. Le attuali tecniche di coltivazione consumano le risorse naturali della terra senza ‘restituire’. Negli ultimi 200 anni, il 75% del suolo negli Usa si è impoverito a causa delle moderne tecniche agricole come la monocoltura, eccessivo sfruttamento e salinizzazione del suolo dovuta
alla sovrairrigazione. La perdita di suolo fertile nei soli Stati Uniti continua al ritmo stimato di 150 miliardi di dollari all’anno. Centocinquant’anni fa, la prateria dell’Iowa possedeva uno strato superficiale del terreno compreso tra i 30 e i 40 centimetri, come pure il carbonio immagazzinato nelle radici profonde dei vegetali della prateria, che arrivavano a una profondità di 4,5 metri. Ora lo strato superficiale si è ridotto tra i 15 e i 20 centimetri. La produzione di suolo richiede un tempo notevole: possono servire da 100 a 500 anni per creare 2,5 centimetri di strato superficiale. Con questi numeri, gli esseri umani hanno poche speranze di rimettersi al passo. Dovremmo muoverci e rimediare. Riutilizzare il suolo.” Lei viaggia in tutto il mondo: vede un cambiamento di mentalità, persone che applicano i concetti del cradle-to-cradle? “Stiamo assistendo a vari cambiamenti. Attualmente presiedo il World Economic Forum per il comitato dell’economia circolare. È interessante che abbiano messo un pianificatore a presiedere il gruppo. L’economia circolare si sta diffondendo.” Come definisce l’economia circolare? “L’economia circolare è un sistema economico ricco di risorse e un motore per l’innovazione, che porta benefici costanti alla società, oggi e in futuro. È pianificata, cradle-to-cradle, per un ricircolo infinito di materiali tecnici e biologici puliti, energia, acqua e ingenuità umana. Essenzialmente l’economia circolare restituisce le risorse. Il nostro obiettivo è un mondo deliziosamente diverso, sicuro, sano e giusto – con aria, suolo, acqua ed energia puliti – goduto economicamente, equamente, ecologicamente ed elegantemente. Diversamente, il futuro porterà un deserto nucleare globale.”
Think Tank
Sarà la generazione Facebook a guidare la dematerializzazione Intervista a Friedrich Hinterberger Il linguaggio della dematerializzazione è di uso comune nella comunità imprenditoriale. Ma non è lo stesso nel policy making. L’influenza della sharing economy e delle tendenze di consumo dei più giovani sulla transizione a un’economia dematerializzata. a cura di Carlo Pesso
Sustainable Europe Research Institute (Seri), seri.at/en/
In un’intervista pubblicata nel quinto numero di Materia Rinnovabile, l’economista Mariana Mazzucato analizzava gli attuali motori dell’innovazione. Descriveva come, negli ultimi decenni, i modelli di governance pubblica e privata siano progressivamente mutati al punto di non poter più generare innovazione. E concludeva suggerendo come rimettere l’innovazione sul binario giusto. In questo numero di Materia Rinnovabile abbiamo
chiesto all’economista austriaco Friedrich Hinterberger, presidente del Sustainable Europe Research Institute (Seri), di darci la sua opinione sulla questione. Pur concordando con l’essenza dell’analisi della Mazzucato, nel prendere in considerazione le priorità e le tendenze che emergono nella cosiddetta generazione Facebook, egli offre un punto di vista originale su ciò che, oggi, guida il cambiamento.
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Friedrich Hinterberger, economista austriaco, presidente e fondatore del Sustainable Europe Research Institute (Seri). Dal 1993 al 2000 è stato a capo del gruppo di lavoro sull’Economia Ecologica e sulle Politiche di Economia Ecologica all’Istituto Wuppertal per il clima, l’ambiente e l’energia. È membro del comitato della sezione austriaca del Club di Roma.
Friedrich Hinterberger
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I dati assoluti dicono che, a livello globale, il consumo di materiali sta ancora aumentando sia che si osservi il fenomeno a livello complessivo, sia su base settoriale.
Carlo Pesso, Centro Studi di Edizioni Ambiente, ex responsabile delle Sustainable Product Policies per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), Direzione Ambiente, e della Gestione Ambientale, Direzione per lo Sviluppo e le Prospettive Territoriali.
Circa 20 anni dopo la pubblicazione di Economia, ecologia, politica. Rendere sostenibile il mercato attraverso la riduzione delle materie (di Hinterberger Friedrich, Luks Fred, Stewen Marcus, Edizioni Ambiente, 1999) quanti progressi sono stati fatti in direzione della dematerializzazione da voi sostenuta? “Sono stati compiuti molti progressi da quando Friedrich Schmidt-Bleek ha dato vita a questo concetto. In particolare, negli ultimi dieci anni grazie alla spinta della Ue e delle azioni del Commissario Janez Potočnik. Ciò che è più rimarchevole, è che il linguaggio della dematerializzazione è diventato di uso comune nella comunità imprenditoriale. Ossia si è diffuso proprio fra coloro in grado di utilizzarne al meglio i concetti portanti. Sfortunatamente, e in qualche misura paradossalmente, non si può dire che sia avvenuta la stessa cosa nella sfera del policy making, ambito nel quale questo linguaggio è rimasto confinato agli esperti. Va detto che il dibattito sui cambiamenti climatici ha fagocitato gran parte dell’attenzione. A tal punto che, ultimamente, la Commissione sembra molto esitante, tanto da tergiversare sull’adozione del pacchetto di misure per l’economia circolare. In altre parole, l’attenzione per la dematerializzazione è scemata, o meglio, non è più in crescita. D’altra parte, con la decisione di dare priorità alla decarbonizzazione mettendo un freno all’utilizzo di carbone e petrolio, il G7 ha dimostrato che la dematerializzazione è ancora in programma e che le cose si stanno muovendo.” Quindi la sua impressione è che mentre la sfera della policy è poco attenta, la comunità del business sta facendo progressi. “Oggi le imprese stanno gestendo la dematerializzazione, anche se questo aspetto
è ampiamente oscurato dal dibattito sui cambiamenti climatici. Per esempio se si considerano gli indicatori e i criteri del Gri (Global Reporting Initiative) esiste un unico indicatore per i materiali mentre ve ne sono diversi per i gas a effetto serra. Un altro modo di vedere la cosa in termini pratici è notare come il dibattito sulla dematerializzazione sia rimasto indietro di almeno 20 anni rispetto alla discussione sui cambiamenti climatici; perciò c’è ancora molto da fare. Inoltre, osservando i dati si nota che le economie che per prime hanno intrapreso il processo di industrializzazione – come l’Europa, il Nord America e il Giappone – hanno dematerializzato diminuendo l’input diretto di risorse. Nonostante ciò i dati assoluti dicono che, a livello globale, il consumo di materiali sta ancora aumentando sia che si osservi il fenomeno a livello complessivo, sia su base settoriale.” Quali strumenti di policy si sono rivelati più efficaci, e quali pensa debbano essere sviluppati? “Consideriamo la prospettiva europea. Nell’Unione europea il riciclo è ancora trascurabile, tranne in alcuni paesi. Negli ultimi 20 anni gran parte del dibattito ha riguardato soprattutto gli imballaggi, che naturalmente rappresentano una parte considerevole dei materiali di scarto delle economie dell’Unione europea. Eppure, alla fine, pochi prodotti sono riciclati e un numero ancora minore sono davvero prodotti da materiali riciclati. Per esempio, anche nel caso del Pet, che gode di un considerevole tasso di riciclaggio, la maggior parte delle bottiglie sono prodotte da materia vergine. Nell’utilizzo di materiali riciclati siamo rimasti indietro, specialmente con i prodotti di uso comune, perché il processo viene studiato a partire dallo scarto, ossia viene considerato
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Dobbiamo ancora compiere una completa inversione a U nella concezione dei prodotti per migliorarne i fattori chiave quali la durata, l’intensità di servizio (service intensity) e la loro potenzialità a essere condivisi.
l’aspetto dell’output dei prodotti piuttosto che l’input. Dobbiamo ancora compiere una completa inversione a U nella concezione dei prodotti per migliorarne i fattori chiave quali la durata, l’intensità di servizio (service intensity) e la loro potenzialità a essere condivisi. Oltre a essere preferibile per l’ambiente, un simile orientamento avrebbe l’ulteriore effetto positivo di aumentare l’intensità d’uso (usage intensity) dei prodotti: infatti, un utilizzo più ampio e completo del prodotto favorisce la creazione di una maggiore ricchezza complessiva. Nonostante ciò, anche se molti sostengono la necessità di fare progressi in questa direzione, in termini pratici si è fatto ben poco. Oggi il trend è marginale in termini di quantità, ma molto promettente in termini di possibili sviluppi. Lo si può paragonare alla diffusione delle prime auto, o dei primi telefoni cellulari che, prima di diventare di uso comune, sembravano rivolti a un mercato di nicchia. Un’altra posizione che veniva sostenuta vent’anni fa – e che a oggi non è mutata – è quella che ritiene che i prezzi non siano ‘giusti’, cioè non riflettano il vero costo perché creati come strumenti di policy ambientale. Intendo dire che, per esempio, le tasse colpiscono le emissioni di anidride carbonica anziché mettere apertamente un freno all’utilizzo di materie prime. Alla fine colpiscono solo chi utilizza l’auto ossia i consumatori, con effetti solo indiretti sull’industria, e questo non è sufficiente.”
Quali sono gli effetti di altre tendenze – per esempio l’incremento dell’economia della condivisione – sulla dematerializzazione dell’economia? “Ciò che davvero non avevamo previsto 20 anni fa sono i cambiamenti di vasta portata nelle abitudini di consumo delle generazioni più giovani. Questi cambiamenti sono in parte dovuti a fattori economici. Stiamo infatti attraversando una crisi economica di grande portata, che non si limita in alcun modo ai mercati finanziari. Tutti i motori classici dell’economia sono falliti, mettendo in luce la natura sistemica della crisi attuale. Ciò significa che le persone hanno sempre meno soldi, e pertanto una parte crescente della popolazione sta adottando soluzioni simili a quelle offerte da AirB&B per chi cerca una sistemazione e non può permettersi l’albergo o le altre forme classiche di accoglienza. Ciò naturalmente non impedisce lo sviluppo di nuove soluzioni semi-commerciali che emergono da questi nuovi canali. Il che comporta tutta una serie di nuovi problemi quali la percezione di una concorrenza sleale da parte delle realtà esistenti in precedenza e la conseguente perdita di posti di lavoro. Oltre tutto, quando è possibile, i giovani sono più attenti alla qualità del cibo, tanto che molti diventano vegetariani. Nell’insieme stanno adottando un atteggiamento più consapevole dal punto di vista ambientale, senza per questo trasformarsi necessariamente in ambientalisti militanti.”
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Aziende, in particolare, piccole e medie imprese nelle quali vi è un cambio generazionale, cittadini e iniziative locali si muoveranno in modo più efficace e – credo – molto più rapidamente delle istituzioni di governo.
Tra le policy che si occupano dell’utilizzo dei materiali e le tendenze di consumo delle generazioni più giovani, quali, secondo lei, hanno la maggiore probabilità di mettere in moto la transizione verso un’economia dematerializzata? “Già 20 anni fa si pensava che le misure necessarie per progredire in questo campo si rinforzassero a vicenda. Idealmente, per poter ottenere il maggiore impatto possibile, tutte dovrebbero essere messe in opera, anche se a livello pratico ciò non implica che debbano essere adottate contemporaneamente. In realtà queste misure vengono adottate in maniera progressiva. Come ho detto prima, i cambiamenti nelle abitudini di consumo dei giovani influiscono sul mercato consentendo a nuove attività economiche di emergere. A sua volta, ciò potrebbe influenzare i contenuti dei programmi ideati per le elezioni locali e nazionali. Addirittura, potrebbe anche darsi che le aziende comincino a chiedere di tassare le risorse invece del lavoro, dato che la maggior parte delle attività legate al manutenzione e al rinnovamento dei prodotti sono ad alta intensità di lavoro. È chiaro che l’insieme di queste misure può avere effetti di vasta portata, che vanno ben al di là del loro obiettivo ambientale. Ma ciò che è ancor più importante è che hanno effetti economici e sociali molto positivi, poiché generano nuove opportunità di lavoro.” Quali sono, secondo lei, le misure più urgenti che devono essere adottate dalla prossima Conferenza sul Clima di Parigi (COP21)? “Anche qui è molto difficile poter indicare una strada in particolare, perché la dematerializzazione deriva da una combinazione di misure e di tendenze. Un miglior regime di tassazione è altamente auspicabile, ma risulta inutile se poi le aziende non sono in grado di offrire soluzioni appropriate. Oltretutto, è possibile che le tasse vengano riscosse senza che questo abbia alcun effetto rilevante sui prodotti. Questo a meno che non vengano concepite anche delle azioni complementari, come nel caso delle Fiandre che affida a consulenti il compito di aiutare le aziende a ideare nuove soluzioni. Un altro aspetto molto importante riguarda i media e il modo in cui possono rapportarsi a ciò che sta succedendo fra i giovani. Oggi, nel mio paese, l’Austria, la maggior parte dei giovani non prende nemmeno in considerazione l’idea di prendere la patente; non sono più interessati a guidare l’auto, mentre la mia generazione ha un atteggiamento molto diverso. In Francia l’età media di chi acquista un’auto è di 50 anni.” In questo contesto, quali sono gli obiettivi e le azioni del Sustainable Europe Research Institute (Seri), da lei creato a Vienna nel 1999? “Il nostro obiettivo principale è quello di far
passare un messaggio semplice: ‘ciò che è inutile non ha valore’. In pratica lavoriamo con le aziende per aiutarle ad applicare e a comunicare questo concetto. Di conseguenza le aiutiamo a identificare i punti critici e i loro effetti principali, e poi mettiamo in pratica le azioni correttive o creiamo nuove soluzioni. Una volta che il lavoro è finito ci assicuriamo che i consumatori siano adeguatamente informati dello sforzo compiuto, così che i progressi fatti possano poi essere premiati da una scelta di consumo. Inoltre offriamo alle aziende degli strumenti di contabilità dei flussi materiali che consentono loro di massimizzare gli impatti negativi evitati, ossia di ridurre la CO2 ecc. Questi stessi strumenti sono utili anche nel momento in cui le aziende redigono i rapporti sulla propria sostenibilità. Infine il Seri aiuta i policy maker a creare nuovi strumenti di policy.” Da economista di formazione lei si riferisce spesso al lavoro di Walter Eucken, uno dei padri della ripresa tedesca successiva alla Seconda guerra mondiale. Può dirci perché il suo lavoro è per lei una fonte di ispirazione? “Walter Eucken e il gruppo di economisti a lui legati sono tra i fautori del miracolo economico tedesco. Eucken ha dato vita al concetto di economia sociale di mercato, che comprende aspetti molto liberali che – appunto – sostengono l’approccio del libero mercato e aspetti altamente sociali che, per esempio, tengono conto della questione della corretta distribuzione della ricchezza. Tuttavia, la caratteristica maggiore del suo lavoro è l’esigere limiti chiari e regole di mercato stabilite con molto rigore. In altre parole, sostiene la creazione di una struttura di regole condivise all’interno della quale il mercato può evolvere liberamente. Complessivamente questo concetto dà vita a un particolare modello di capitalismo ‘continentale’ che è chiaramente distinto e forse anche opposto al modello di capitalismo anglosassone del laissez-faire. Questo approccio caratterizzava, in una certa misura, anche l’economia italiana e dell’Europa occidentale del Dopoguerra. Alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 in Austria questo concetto è stato ampliato e si è trasformato nell’eco-economia sociale di mercato. Anche se inizialmente si occupava di questioni ambientali generiche, piuttosto che di risorse specifiche e di cambiamenti climatici, in qualche modo rappresentava un ampliamento del pensiero conservatore, che permise di far rientrare problematiche sociali e ambientali all’interno del pensiero economico dominante. Di conseguenza il mantra della crescita economica oggi comprende la definizione dei limiti e delle condizioni più appropriate per raggiungerlo. Negli ultimi 20 anni però questi concetti sono stati spazzati via dall’approccio neoliberista, per essere ripresi solamente nel 2008 a causa dell’attuale crisi economica.
Think Tank e strettamente legato alle attività militanti di chi vive veramente secondo i principi che ne derivano, così consentendo un utile scambio tra teoria e pratica.” Quali saranno le evoluzioni per i prossimi anni? “Non credo che le cose evolveranno molto, almeno a livello di policy. Tuttavia le grandi istituzioni, le burocrazie (come la Ue), continueranno a fare il loro lavoro e ci saranno alcuni progressi. Nonostante ciò, è più probabile che il cambiamento e le innovazioni partiranno dal basso. Aziende, in particolare, piccole e medie imprese nelle quali vi è un cambio generazionale, cittadini e iniziative locali si muoveranno in modo più efficace e – credo – molto più rapidamente delle istituzioni di governo. Insisto sulle nuove generazioni perché, anche se è probabile che saranno meno radicali, hanno familiarità con le questioni ambientali. In questo senso, posso dire di essere ottimista. Anche il probabile perdurare della crisi finirà con l’avere un effetto positivo: infatti – sul più lungo termine – il valore dei materiali continuerà a crescere e ciò incentiverà la dematerializzazione.”
Gli studenti più giovani chiedono “una pluralità di punti di vista in economia” […] l’opportunità di accedere a teorie e analisi economiche davvero diverse, e di poterle mettere a confronto attraverso un approccio pragmatico e non ideologico.
Secession, Vienna. Foto di Tony Hisgett
Perciò, oggi, l’analisi dei limiti e delle regole al contorno del mercato ha riconquistato nuova legittimità. È interessante notare che questa nuova legittimazione non proviene dalle università, né dai più importanti think tank economici, ampliamente colonizzati dal pensiero neoliberista, ma dagli studenti più giovani che chiedono ‘una pluralità di punti di vista in economia’. Oggi gli studenti chiedono l’opportunità di accedere a teorie e analisi economiche davvero diverse, e di poterle mettere a confronto attraverso un approccio pragmatico e non ideologico. Recentemente il movimento per la decrescita, nato in Francia e Italia e diffusosi in tutta Europa, ha alimentato il dibattito con nuove idee e priorità. Ciò ha portato il parlamento tedesco a dare vita a un processo di inchiesta su ‘Crescita e benessere’, che ha alimentato un confronto tra parlamentari ed esperti durato due anni. D’altra parte, perseguendo il concetto di economia della transizione, gli olandesi hanno inaugurato un altro filone di analisi complementare di grande valore. Quest’approccio è particolarmente interessante perché profondamente pragmatico
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Adriana Varella e Nilton Malz, Digital DNA, Palo Alto (California), 2005. Foto di Wonderlane, elaborazione grafica
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La NASCITA del RIFIUTO
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di Guido Viale
Nelle culture preurbane il rifiuto era ontologicamente in continuità con l’uomo e il suo ambiente e quindi in grado di reinserirsi nei cicli biologici naturali. Ma l’avvento della società industriale ha cambiato radicalmente i termini del problema: oggi siamo alla ricerca di “spazi vuoti” dove scaricare tutto ciò che non possiamo più utilizzare. E, al tempo stesso, consideriamo la natura solo come “serbatoio” di risorse disponibili per la produzione. Guido Viale sociologo e saggista. Ha lavorato in diverse società di ricerca, consulenza e progettazione in ambito economico, sociale e ambientale e svolge un’intensa attività pubblicistica. Si è occupato di rifiuti per conto dell’associazione Amici della Terra, dell’Enea, del Ministero dell’Ambiente. In qualità di esperto, scrive sulle principali testate nazionali di ambiente, economia e modello di sviluppo.
La natura non produce rifiuti: l’evoluzione ha promosso una circolarità e una reciproca interdipendenza tra le diverse forme di vita che la caratterizzano tale per cui ciò che è residuo di un processo – o di ogni segmento di un processo – diventa alimento per altri processi successivi o paralleli. L’allontanamento dell’uomo da questa circolarità trofica non è stato un fatto improvviso né lineare. Per molto tempo, e sicuramente in tutte le culture preurbane, i rifiuti – o meglio gli escrementi e gli scarti generati dalla manipolazione degli oggetti di uso quotidiano – non hanno costituito un grosso problema. Questo perché sia la loro entità e, soprattutto, il fatto di essere composti da materiali organici o inerti, sancivano una sorta di continuità ontologica tra l’uomo e il suo ambiente: una integrazione stretta tra i cicli che presiedono alla riproduzione del corpo sociale e quelli che dominano il mondo della natura. La prima cesura posta in questa continuità è probabilmente costituita dalle barriere che l’uomo ha posto intorno alla dimora dei propri estinti quando si trattava di restituirne il corpo all’ambiente. Il problema dell’allontanamento dei rifiuti dal proprio ambiente quotidiano è nato in un contesto urbano; e solo nella misura in cui vicoli, rogge e orti della città non erano più in grado di assorbire naturalmente i residui delle attività umane. Una cosa di cui gli abitanti della città
preindustriale si sono forse accorti con molto ritardo. Ma l’avvento della società industriale segna una metamorfosi generale del problema: a. innanzitutto aumenta drasticamente la popolazione che produce rifiuti. La crescita demografica che caratterizza il mondo contemporaneo è un fatto recente, che ha avuto origine nell’occidente europeo grazie all’aumentata disponibilità di alimenti a partire dalla metà del ’700; b. in secondo luogo, aumenta anche la produzione pro capite di rifiuti. Tutto ciò che viene prelevato dall’ambiente prima o dopo gli viene restituito sotto forma di rifiuto: la mutazione epocale determinata dalla rivoluzione industriale non riguarda soltanto il prelievo di risorse, ma in misura più o meno eguale, e con uno scarto temporale destinato a ridursi nel tempo, anche l’occupazione dell’ambiente con i materiali e i prodotti scartati; c. in terzo luogo, cambia la composizione dei rifiuti. Per migliaia di anni i materiali utilizzati – e quindi anche quelli scartati – dall’uomo sono stati materiali organici, che la natura era perfettamente in grado di reinserire nei propri cicli biologici; oppure materiali inerti, che non ne alteravano gli equilibri né prima né dopo l’uso da parte dell’uomo. Ma gli sviluppi su scala industriale della metallurgia prima, della carbochimica e della petrolchimica poi, e – infine – l’avvento dei nuovi materiali sintetici e compositi – le prestazioni di questi ultimi sono in gran parte riconducibili all’irreversibilità dei processi attraverso cui essi sono stati fabbricati – si sono incaricati di ridurre, nella massa complessiva dei rifiuti, la quota dei materiali di origine biologica a favore di quelli non biodegradabili; d. infine, i beni prodotti non si utilizzano più fino in fondo; per i beni capitale, cioè per i mezzi di produzione, c’è un periodo di obsolescenza che non coincide affatto con il periodo del loro logoramento fisico. Ma soprattutto i beni di consumo finale hanno subito una mutazione che li ha sospinti in misura crescente nella sfera dell’usa-e-getta. Per sistemare tutti questi rifiuti abbiamo bisogno di spazio: ma di uno spazio “vuoto” – sia esso in terra, in acqua o in cielo – in cui poter scaricare
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Lewis Hine, Un operaio addetto a una macchina a vapore, 1920
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I rifiuti, che in qualche modo sono gli escrementi del corpo sociale, hanno attratto nella loro orbita gravitazionale gli escrementi del corpo biologico.
tutto ciò che non vogliamo più incontrare. Ciò che accomuna tutte le forme di smaltimento dei rifiuti, sia quelle consapevoli (effettuate attraverso tecnologie specifiche) sia quelle inconsapevoli (cioè effettuate semplicemente “abbandonando” i rifiuti e affidando ai processi naturali – precipitazioni, venti, correnti, processi biologici spontanei – il compito di disfarcene) è il fatto che l’ambiente ci si presenti, e che noi lo possiamo trattare, come uno spazio vuoto, a disposizione del corpo sociale per allontanare tutto ciò che non riteniamo più possibile o conveniente trattenere o utilizzare. Questo modo di trattare l’ambiente è almeno tanto diffuso, radicato e contestuale allo spirito moderno quanto lo è la concezione del mondo
come insieme di risorse a disposizione dello sviluppo delle forze produttive. Per questo i rifiuti, prima di intasare e appestare il mondo esterno, si sono insediati nella nostra testa come una categoria dello spirito. E vi si sono insediati perché corrispondono a un approccio al mondo connaturato alle forme in cui si è andato sviluppando il dominio della tecnica nel mondo moderno: esattamente come è avvenuto per la progressiva trasformazione del mondo in puro serbatoio di risorse. Premessa essenziale di questa mutazione culturale è la costruzione del cosmo e, in particolare, dell’ambiente in cui viviamo, come puro spazio geometrico, definito dalle tre dimensioni e dal calcolo che su di esse possiamo effettuare. Questa visione si è affermata attraverso i trionfi della fisica moderna e del suo paradigma meccanicistico; cioè attraverso una “transizione dall’organismo alla macchina come metafora dominante che lega assieme il cosmo, la società e l’io in una singola realtà culturale” (Merchant, 1988). Lo spazio geometrico vuoto che presiede all’allontanamento dei rifiuti – in qualsiasi veste o stato fisico essi si presentano – è lo stesso che consente di vedere in ciò che lo riempie null’altro che una scorta di materiali a disposizione per sempre nuovi impieghi. Risorse e rifiuti sono quindi realtà strettamente complementari: i rifiuti e la loro illimitata possibilità di crescita sono alimentati dall’altrettanto illimitata disponibilità del mondo sotto forma di risorse. E viceversa: la trasformazione della natura in risorse, cioè la disponibilità di tutta la realtà a impieghi sempre nuovi, non avrebbe mai raggiunto l’universalità che ha assunto nel mondo moderno se a esse non fosse stata garantita non solo una via di ingresso privilegiata sotto forma di merci nella sfera delle attività umane, ma anche una via di uscita da questa sfera, una volta persa la loro utilità. Per averne una riprova basta considerare il modo in cui il mondo dei rifiuti si è andato progressivamente estendendo, fino a inglobare tutto ciò che non è considerato risorsa. Tanto per cominciare, i rifiuti, che in qualche modo sono gli escrementi del corpo sociale, hanno attratto nella loro orbita gravitazionale gli escrementi del corpo biologico e non viceversa. Ciò ha riguardato dapprima le deiezioni umane, che una volta venivano utilizzate come concime, o raccolte in fosse biologiche, dove si compiva la loro riconversione in humus e la loro restituzione alla terra, e che, con l’introduzione delle reti fognarie e, soprattutto, dello sciacquone, sono state affidate ai fiumi e poi ai mari, contando sulla loro capacità di contenerle tutte.
Foto pubblicitaria per il film Il monello di Charlie Chaplin, 1921 circa
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Si produce per sostituire: ma il presupposto tacito di questo modo di agire è che tutto ciò che viene sostituito possa e debba venir gettato via.
Ma il processo di trasformazione degli escrementi in rifiuti è andato oltre e ha investito da tempo anche buona parte delle deiezioni animali che vengono scaricate nei fiumi e sono oggi tra i fattori responsabili dell’eutrofizzazione delle acque di diversi laghi e mari. In questo passaggio una concezione dell’ambiente come mero spazio vuoto a disposizione per allontanare ciò che non è conveniente trattenere o utilizzare si è imposta sulla concezione degli escrementi come anello essenziale dell’interscambio tra organismo e ambiente. In secondo luogo, è ormai entrato a far parte dell’“ordine naturale delle cose” che tutto ciò che si produce non venga prodotto per durare.
Si produce per sostituire: ma il presupposto tacito di questo modo di agire è che tutto ciò che viene sostituito possa e debba venir gettato via. La civiltà dell’usa-e-getta – che è il punto di approdo del consumismo, cioè di una organizzazione sociale che si perpetua attraverso la moltiplicazione delle merci, perché senza questa moltiplicazione verrebbero meno i presupposti stessi dei legami che la tengono unita (gli scambi commerciali) e delle forme attraverso cui essa garantisce la sussistenza ai suoi membri (l’occupazione come via privilegiata di accesso al reddito) – ha i suoi presupposti tanto in un prelievo illimitato di risorse naturali quanto in un accumulo illimitato di rifiuti. Infine, come la sfera delle risorse si è progressivamente estesa dai prodotti della terra fino a inglobare l’intero creato, compreso l’uomo che pretendeva di dominare questo processo in nome del suo diritto di disporre della natura (per questo si parla di “risorse umane”), così la sfera dei rifiuti si è progressivamente estesa, inglobando non solo ciò che in precedenza rifiuto non era, perché rientrava nelle forme “naturali” dello scambio tra uomo e ambiente, ma l’uomo stesso, a cui si deve l’invenzione dei rifiuti. Sotto la dicitura “rifiuti umani”, o “rifiuti sociali”, si è proceduto in varie fasi storiche a isolare – al fine di “allontanare” dal corpo sociale e dai suoi processi – tutti quei soggetti su cui la cultura dominante non riteneva più – o non era più in grado – di far conto come proprie risorse: criminali, handicappati, invalidi, caratteri asociali, disoccupati cronici. La storia di questo processo è l’altra faccia di una generale concezione dei rapporti sociali che seleziona e valorizza gli individui sulla base della loro capacità di produrre e del loro contributo alla produzione. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un processo unico: per accrescere la produttività, si attinge a fondo, e in modo indiscriminato, alle facoltà umane, selezionandole e utilizzandole in funzione di obiettivi precostituiti – ciò che costituisce l’essenza stessa dello sfruttamento – perché c’è sempre la possibilità, quando esse non saranno più utilizzabili, di sbarazzarsene, insieme agli individui che non ne sono che gli infelici supporti. Ma che ne è dei rifiuti da quando si sono sviluppate le tecnologie per trattarli, innocuizzarli, riciclarli, per non abbandonarli più a se stessi come è successo per tanti anni e ancora succede in tante parti del mondo? Quelle tecnologie, e la legislazione che ne ha imposto sviluppo e adozione, ha fatto dei rifiuti
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Il rifiuto è il volto disconosciuto della merce. Il legislatore sottopone dovunque a una serie di vincoli sempre più stretti i rifiuti nel tentativo di mantenere il più possibile inalterata la libertà di cui, statutariamente, godono le merci.
i destinatari privilegiati di una “presa in custodia” generalizzata. Invano si andrebbe a cercare una dose di prescrizioni altrettanto dettagliate per quelli che sono i precursori del mondo dei rifiuti, cioè per le merci e per la produzione delle merci. Ciò è tanto più vero, poi, se si risale agli albori della riflessione sul mondo delle merci. È la merce, e non il rifiuto, ciò nella cui natura – e nel cui destino – è intrinseco l’essere “abbandonata a se stessa”, cioè al libero gioco della domanda e dell’offerta e al processo di circolazione – sociale e fisico – che attraverso di esso si innesca. Laissez-faire, laissez-passer sono le parole d’ordine stampate su tutte le bandiere degli idolatri del mercato attraverso cui la produzione di merci si è conquistata la propria autonomia entro la sfera della società civile e della normazione giuridica, proprio nell’epoca in cui il mercato si stava imponendo come sede privilegiata dello sviluppo sociale. Nessuno invece si sognerebbe, o si è mai sognato, di rivendicare le stesse parole d’ordine per la produzione dei rifiuti, anche se, di fatto, questa è stata poi, ed è tuttora, una prassi diffusa. La libertà di fatto e di diritto di cui godono il mercato e la circolazione delle merci nei confronti del corpo sociale, l’autonomia dei rapporti di compravendita, come medium di una coesione sociale non più basata su legami di sangue o di tipo comunitario,
trovano un preciso riscontro nei vincoli e nelle prescrizioni a cui sono stati invece sottoposti i rifiuti; che non possono più essere “abbandonati” senza intasare e rendere inagibile lo spazio, sia fisico sia sociale, in cui si realizza la libertà della merce. Il rifiuto è il volto disconosciuto della merce. Il legislatore sottopone dovunque a una serie di vincoli sempre più stretti i rifiuti nel tentativo di mantenere il più possibile inalterata la libertà di cui, statutariamente, godono le merci. O, viceversa, le merci producono una massa sterminata di rifiuti, sui quali, poi, il legislatore è costretto a intervenire, perché la legge e, soprattutto, l’ideologia del mercato le lasciano libere di generarli. Il legislatore interviene sui rifiuti – e dietro di lui si mette in movimento l’orda degli esperti, dei convegnisti, dei costruttori di impianti, degli smaltitori autorizzati e abusivi, dei mille profittatori di tutto ciò che la società non riesce a riconoscere e ad accettare come parte di sé – perché gli è interdetto – o ritiene che gli sia interdetto – intervenire sulle merci, sulla loro composizione, sui loro processi di fabbricazione, sulle modalità del loro impiego. Ma i rifiuti non sono niente altro che la manifestazione sensibile – alla vista, al tatto, all’odorato, e via sentendo – della libertà di cui godono le merci.
Moschea di Abu Dhabi
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La terza via DELL’ISLAM
Intervista a Yahya Sergio Pallavicini Tra modernizzazione forzata e violenza arcaica la proposta di un incontro con la modernità che abbia al centro l’attenzione all’ambiente e all’economia del recupero. Intervista a Yahya Sergio Pallavicini, vicepresidente della Coreis: “Il Califfato non ha alcuna legittimità giuridica né spirituale”.
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a cura di Antonio Cianciullo
Stato Islamico: nascita di un format, documentario di Riccardo Mazzon, Antonio Albanese, Graziella Giangiulio (Todos Contentos Y Yo Tambien e Magnolia)
La modernizzazione subita e squilibrante da un lato, la rivendicazione di una violenza arcaica e sistematica dall’altro. Per il mondo islamico tra questi due estremi si profila una terza via, un percorso che tiene assieme la cura ambientale insegnata dal Corano e la possibilità di una rinascita culturale ed economica trainata dall’attenzione al recupero delle risorse, alla battaglia contro lo spreco, all’efficienza, alla stabilità sociale. La propone Yahya Sergio Pallavicini, vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica italiana) e presidente del Consiglio Isesco per l’educazione e la cultura in Occidente. Lei parla di due estremi, ma l’espansione brutale dell’Is mostra una sintesi nascosta, una doppia verità ben raccontata in Nascita di un format, il documentario di Riccardo Mazzon, Antonio Albanese, Graziella Giangiulio realizzato esaminando due anni di filmati messi in rete delle milizie dalla bandiera nera. C’è un Califfato che vuole riportare l’orologio della storia a 1.400 anni fa cancellando il salto di sensibilità e di cultura compiuto
dall’umanità in questi 14 secoli e ostentando il disprezzo per il mondo contemporaneo. E c’è un Califfato che utilizza tecniche di propaganda copiate dagli Stati Uniti e impiega più di un centinaio di esperti occidentali di comunicazione: l’essenza della modernità che lo Stato islamico dice di voler sopprimere. “In ogni caso dal punto di vista teologico il Califfato non ha alcuna legittimità giuridica né spirituale”, risponde Pallavicini. “La parola ha la stessa radice di khilafa che vuol dire vicario, o custode. L’uomo è stato mandato sulla Terra per amministrare una proprietà che non è sua ma di Dio: è il vicario di Dio e il custode o l’amministratore della Terra. Questo è importante perché esclude la possibilità che l’uomo possa compiere azioni che danneggino un bene che non gli appartiene: se lo facesse verrebbe meno al suo compito”. È un concetto molto simile a quello della Chiesa cattolica che pensa all’uomo come a un custode del creato. “È vero. E direi di più: sulla questione ambientale si può registrare una convergenza di varie fedi e del mondo laico. Lo abbiamo fatto anche l’estate scorsa con la marcia organizzata a Roma per sollecitare la firma di un buon accordo alla conferenza Onu di Parigi di dicembre che discuterà del futuro climatico del nostro pianeta.” Lei diceva che il Califfato non ha legittimità, ma i suoi vertici si richiamano alla tradizione.
Moschea di Sheikh Zayed, decoro
Yahya Sergio Pallavicini, vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica italiana) e presidente del Consiglio Isesco per l’educazione e la cultura in Occidente.
Yahya Sergio Pallavicini
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Due pagine tratte dal Corano
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Sulla questione ambientale si può registrare una convergenza di varie fedi e del mondo laico.
“Questa tradizione va dai tempi del Profeta fino all’inizio del 20° secolo, fino alla Prima guerra mondiale. Con la dissoluzione dell’impero turco la coesistenza del potere spirituale e del potere temporale, per usare un termine che anche il mondo cattolico adopera, è venuta meno. E i saggi mussulmani hanno dichiarato definitivamente concluso il periodo del Califfato.”
C’è poi l’altro corno del problema: una parte importante del mondo islamico si sente oppressa da una modernizzazione che è piovuta dall’esterno e che in molti casi, invece di accelerare la formazione di una classe media, ha esasperato le differenze sociali. Inoltre questa modernizzazione forzata, in tutta l’area mediorientale, ha un protagonista indiscusso: il petrolio. Il suo uso, o meglio il suo abuso in termini di quantità, è conciliabile con la dottrina del Corano? “Il mondo islamico tradizionale si è trovato impreparato di fronte alle conseguenze della modernizzazione accelerata a cui lei accennava. Il processo ha aperto contraddizioni che non si possono ignorare: ci sono generazioni nate con il rancore. Il potere del denaro ha prevalso sulla fede e ha creato un ambiente naturale assai poco vicino alle condizioni originarie della natura. Questo tipo di rivoluzione industriale ha avuto un’arroganza che occorre frenare sia per gli effetti sull’ambiente sia per quelli sulla società. Dobbiamo tornare all’insegnamento dell’uomo custode della Terra frenando il consumo delle risorse e tornando a vivere in maniera meno artificiale.” Secondo lei i paesi arabi sono pronti a ridurre i consumi di petrolio? Qualche segnale in questa direzione c’è. Per esempio gli investimenti sul solare, risorsa abbondante a quelle latitudini, ed esperimenti
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È arrivato il momento di una grande alleanza delle fedi – le tre religioni monoteiste, l’induismo, il taoismo, il buddismo – a difesa del pianeta: un modello ecumenico a cui tutti possono aderire.
pilota come la città di Masdar, un gioiello tecnologico green in costruzione a 17 chilometri da Abu Dhabi. Ma le trivelle non rallentano la presa. “È vero, stiamo subendo i danni prodotti da un inaridimento delle coscienze e dall’aver dimenticato la nostra missione nel mondo. Tuttavia nella parte non araba del mondo musulmano, in cui vive la larga maggioranza dei fedeli, si può registrare una maggiore sensibilità e vicinanza alla natura. E d’altra parte anche in molti paesi cristiani l’ambiente ha subito colpi pesanti. Per questo è arrivato il momento di una grande alleanza delle fedi – le tre religioni monoteiste, l’induismo, il taoismo, il buddismo – a difesa del pianeta: un modello ecumenico a cui tutti possono aderire.” Che ruolo può giocare l’Islam in questo dialogo? “Un ruolo spero importante, con una spinta significativa che potrebbe venire dai mussulmani europei per delineare uno scenario in cui la modernità svolga un ruolo positivo. E in questo scenario la questione ambientale ha una funzione centrale.” La questione ambientale è un’espressione che oggi ha bisogno di essere declinata.
Alle dichiarazioni di principio devono accompagnarsi scelte concrete: sul tappeto ci sono scelte che non possono essere ulteriormente rimandate perché l’accelerazione del cambiamento climatico è incalzante. Si parla spesso di fonti rinnovabili e risparmio energetico, ed è un asse centrale della rivoluzione tecnologica e culturale che si sta avviando, ma occorre insistere anche sul recupero della materia, sulla necessità di porre un argine alle miniere che devastano metà pianeta riempendo l’altra metà di rifiuti ingombranti e spesso tossici. Nel Corano ci sono punti di riferimento per questa scommessa? “Quando si parla di mondo islamico tutti hanno in mente le immagini verdeggianti del paradiso coranico, con l’abbondanza delle fonti che soddisfano la sete dei beati. L’acqua come elemento sacrale. Giusto. Ma pochi hanno presente che l’abluzione rituale che il buon mussulmano compie cinque volte al giorno, subito prima della preghiera, viene prescritta con una grande attenzione a evitare lo spreco anche di una sola goccia: una cura che risale direttamente all’insegnamento del Profeta. Le stesse regole valgono per il cibo: si deve mangiare non secondo la capacità,
Think Tank
ma secondo il bisogno, riempendo lo spazio disponibile nello stomaco per un terzo di alimenti e per un terzo di acqua. Il terzo restante va lasciato vuoto. Sono insegnamenti mirati a evitare gli eccessi, a dare il senso della misura.” Nell’epoca di formazione della fede islamica c’era il concetto di spreco, non quello di riciclo come problema: era una pratica ovvia. Oggi non è più così. “Per i beduini non esisteva neanche lo spreco. Ogni cosa veniva riciclata. I minerali venivano usati e riusati per costruire armi, utensili, attrezzi per la pastorizia. Ogni fibra vegetale trovava una destinazione che mutava nel tempo fino all’usura completa degli oggetti. E il ciclo di vita delle piante, per esempio il sistema ulivoolive-olio, aveva, e ha, un alto valore simbolico.” La cultura che limita lo spreco è un cultura che conosce il senso del limite. “‘Io posso’ non necessariamente deve diventare ‘io devo’: non è saggio tradurre in pratica tutte le opzioni possibili.”
Concludiamo questa conversazione con uno scambio. Io le ricordo un racconto popolare arabo che descrive la nascita della desertificazione, lei me ne offre uno che dia speranza. Ecco il mio. “All’inizio tutto il mondo era un giardino fiorito. Allah creando l’uomo gli disse: ‘Ogni volta che compirai una cattiva azione io farò cadere sulla terra un granellino di sabbia’. Ma gli uomini che erano malvagi non ci fecero caso. Che cosa avrebbero significato uno, cento, mille granellini di sabbia in un immenso giardino fiorito? Passarono gli anni e i peccati degli uomini aumentarono: torrenti di sabbia inondarono il mondo. Nacquero così i deserti, che di giorno in giorno diventarono sempre più grandi. Ancora oggi Allah ammonisce gli uomini dicendo loro ‘Non riducete il mio mondo fiorito in un immenso deserto’”. “Bene. Ecco il mio: ‘Figli di Adamo! Indossate vesti splendenti in ogni luogo e occasione di preghiera: mangiate e bevete. Ma senza eccessi, perché Allah non ama chi spreca’. Buona giornata!”
‘Figli di Adamo! Indossate vesti splendenti in ogni luogo e occasione di preghiera: mangiate e bevete. Ma senza eccessi, perché Allah non ama chi spreca.’
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Concorrenza
LEALE
Studenti universitari di Comunicazione all’opera per progettare riviste dedicate alla “sostenibilità”. Un tema dall’immaginario ancora debole che qui riserva otto sorprese che volentieri portiamo all’attenzione del lettore. di Mauro Panzeri
Mauro Panzeri è art director e grafico editoriale (anche di questa rivista). Insegna all’Istituto Europeo di Design. Nel 2013 ha pubblicato La grafica è un’opinione, Ledizioni.
L’utilizzo delle immagini delle pagine qui pubblicate è stato consentito, ove non prodotto autonomamente, per esclusivo scopo didattico.
I risultati dei lavori grafici che qui presentiamo sono artefatti editoriali, prodotti in copia unica e stampati in forma cartacea, veri e propri magazine al numero 0, realizzati in un Laboratorio svolto tra marzo e luglio 2015 al Politecnico di Milano, nel corso di laurea magistrale in Design della Comunicazione. Il Laboratorio ha un nome un po’ vago (vedi box) come spesso accade con le denominazioni ministeriali. In realtà – e più semplicemente – più di trenta studenti (alcuni di loro stranieri, altri quasi alle prime armi in campo editoriale) divisi in gruppi hanno lavorato con la complicità e la supervisione dei docenti, con grande passione e altrettanta motivazione, alla realizzazione di questi progetti. I prodotti editoriali cartacei sono ovviamente da annoverare tra gli artefatti e i sistemi complessi, come chiunque ci lavori sa bene, ma oggi si percepiscono come “vecchi” proprio perché cartacei, soprattutto quando progettati in ambienti formativi orientati al digital first. Alcuni docenti perseguono comunque questi obiettivi, convinti che costruire un progetto editoriale attivi molte e disparate competenze, spesso non pienamente allenate: ricerca e argomentazione, organizzazione dei contenuti testuali e visivi, scritture e immagini, talora prodotte ad hoc; infine, sequenze narrative e individuazione del proprio lettore. Un insieme di strumenti e obiettivi variegato, utilizzabile di fatto non solo per l’editoria ma per molto altro: video, prodotti multimediali e applicazioni, solo per fare qualche esempio. Il progetto grafico come regia di scene e sequenze, dal montaggio al dialogo fino al titolo. Di questo Laboratorio pubblichiamo gli esiti finali e non l’intero percorso ovviamente: si tratta delle copertine, ultime eseguite dopo una lunga messa a punto delle pagine interne, quindi riassunti efficaci dei rispettivi contenuti. Come tutti gli anni viene fornito agli studenti un tema sul quale riflettere e quest’anno è toccato alla “sostenibilità”. Argomento di cui si tratta anche a sproposito, a quanto pare, e solo di nicchia nei percorsi formativi. Gli studenti hanno affrontato
il tema da subito, cercando una diversificazione d’identità dei loro progetti in temi sottostanti. Ogni gruppo (e quindi ogni rivista) ha trovato il proprio ambito di lavoro: sostenibilità e cultura-natura, un approccio antropologico e fotografico; sostenibilità ed ecodesign, con particolare attenzione a materiali e innovazione; sostenibilità e riuso, per processi e realizzazioni; turismo, nelle sue componenti di compatibilità territoriali; il tema della sopravvivenza letto senza catastrofismi; la cultura pop dentro e dietro la sostenibilità; lifestyle, cioè sostenibilità e comportamento nel quotidiano; sostenibilità e fashion design, viste con parametri inconsueti. Otto progetti completamente diversi tra loro però con una testata in comune: SOS, culture per l’ambiente. Progetti diventati pubblicazioni cartacee, a dimostrazione di quanto il progetto grafico sia parte essenziale nell’espressione dei contenuti e nella narrazione, quando valorizzata da gusto e stile. In questo vi è molto più di un esercizio.
Think Tank
In alto, a sinistra e pagina a sinistra: SOS ECODESIGN Anna Cont Rossella De Vico Manuel Impellizzeri
Il Corso Politecnico di Milano Corso di laurea magistrale in Design della Comunicazione 1° anno, secondo semestre Anno accademico 2014/2015 Laboratorio di Progettazione di artefatti e sistemi complessi Docenti: Mauro Panzeri, Pier Antonio Zanini Cultore della materia: Marco Moro, direttore editoriale di Materia Rinnovabile Ospiti: Roberto Coizet, Presidente di Edizioni Ambiente; Prof. Stefano Caserini, D.I.C.A., Politecnico di Milano
SOS CULTURA-NATURA Alessandra Accardo Alessandra Borgonovo Margarida Ferreira Rebecca Squires
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materiarinnovabile 06-07. 2015 SOS FASHION Camila Borrero Garcia Vanessa Cervini Rios Eyleen Carolina Camargo Higuera Natalia Duarte Maldonado
Think Tank A sinistra e in basso: SOS RIUSO Rachel Bullock Giada Casella Sara Pizzardo Sara Poljak
SOS SOPRAVVIVENZA Elena Corbari Verzeletti Martina Granello Elena Pockay
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A sinistra, in basso e pagina a destra: SOS LIFESTYLE Nicolò Bindi Mattia Losa Giulia Ponzetta Emanuele Sciolto
SOS TURISMO Pietro Cedone Francesco Colombo Juan Sebastian Forero Hernandez Giovanni Rabuffetti In alto: Timome del progetto SOS TURISMO
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A sinistra e in basso: SOS CULTURA POP Chiara Bonsignore Ana Raquel Da Costa Silva Alessandra Fargnoli Adelina Mihaylova
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From NOWHERE
to COP21
A Parigi l’arte si mobilita sul cambiamento climatico.
Think Tank di Marco Moro
Marco Moro, Direttore editoriale di Edizioni Ambiente.
ArtCOP21 A global festival of cultural activity on climate change, www.artcop21.com
ArtCOP21, sotto questo acronimo si sviluppa un’agenda culturale che a Parigi sta preparando il terreno al 21esimo round dei negoziati sul clima, e che animerà la capitale francese fino a tutta la durata del summit. La “mobilitazione artistica” è stata promossa da COAL e Cape Farewell, con l’intento non solo di sensibilizzare il pubblico e diffondere la conoscenza dei fenomeni che stanno mutando l’equilibrio ambientale del pianeta, ma di affermare come l’arte svolga un ruolo importante nella stessa costruzione di tale conoscenza. L’iniziativa parigina, del resto, non fa che intercettare e valorizzare la crescente presenza dell’arte sui temi di carattere ambientale e sul loro significato culturale e sociale, un trend che si manifesta a livello internazionale e che Materia Rinnovabile intende continuare a documentare sulle proprie pagine. Giunto alla sua sesta edizione, il premio promosso della Coalizione per l’arte e lo sviluppo sostenibile, ha registrato la partecipazione di 389 proposte, provenienti da 51 paesi: una risposta che già sul
solo piano numerico conferma quanto affermato sopra. Quest’anno, inoltre, al concorso principale, dedicato ad arte e ambiente, si è affiancato un premio speciale per opere ispirate alla situazione degli oceani e in particolare di un ambiente unico e in grave pericolo come quello delle barriere coralline. La selezione dei lavori si è chiusa prima dell’estate e ha visto la nomina di 10 progetti per il Premio COAL per l’Arte e l’Ambiente: Alex Hartley (UK), Nowhere Island; Collective Disaster (Belgio), Temple of Holy Shit; FICTILIS (Timothy Furstnau e Andrea Steves, Usa), True Market Cost; Julie Navarro (Francia) Droséra; Livin Studio (Katharina Unger e Julia Kaisinger, Austria), Fungi Mutarium; Mare Liberum (Usa), Mergitur sed Regurgitat; MELD (con Shaun Gladwell, Usa, Australia e Grecia), Climate Change Hip-Hop Opera; Monte Laster (UsaFrancia), CO-OP; Stéfane Perraud con lo scrittore Aram Kebabdjian (Francia), Soleil Noir; Yesenia Thibault-Picazo (Francia), Craft in the Anthropocene. Sei i lavori selezionati per il Premio Speciale Oceani: Hortense Le Calvez e Mathieu Goussin (Francia), Corals 2.0; Nicolas Floc’h (Francia),
Alex Hartley, NOWHERE ISLAND Raccolta di tracce e oggetti, beni comuni provenienti da “terre di nessuno” che rimangono al di fuori della giurisdizione delle 196 nazioni del mondo. Nowhere Island è un’esposizione temporanea che vuole denunciare come le frontiere oggi non facciano che esacerbare emergenze planetarie come il cambiamento climatico, la povertà, la fame. L’extraterritorialità è l’unica possibilità di pensare un’umanità unita e in pace, anche con l’ambiente.
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COAL L’associazione COAL, Coalition pour l’art et le développement durable, è nata nel 2008 in Francia, per opera di un gruppo di professionisti esperti negli ambiti dell’arte contemporanea, dello sviluppo sostenibile e della ricerca, con l’obiettivo di favorire l’emergere di una cultura ecologica. Con un approccio multidisciplinare e innovativo COAL intende mobilitare gli artisti e gli operatori culturali sulle grandi sfide ambientali e sociali, collaborando con ong, istituzioni scientifiche e imprese, per sostenere il ruolo imprescindibile della creatività e della cultura nello stimolare la presa
di coscienza collettiva e nell’ispirare la messa in opera di soluzioni concrete. COAL progetta e organizza esposizioni d’arte contemporanea ed eventi sui temi dello sviluppo sostenibile, oltre ad assegnare ogni anno il Premio COAL per l’Arte e l’Ambiente, la cui rilevanza è oggi riconosciuta a livello internazionale. Tra il 2010 e il 2013 COAL ha preso parte alla realizzazione di una strategia nazionale su queste tematiche, nel quadro di un rapporto di collaborazione con il Ministero dell’Ecologia, dello Sviluppo Sostenibile e dell’Energia. Partecipa inoltre a numerose altre iniziative nazionali ed europee.
COAL Coalition pour l’art et le développement durable, www.projetcoal.org/coal/
Collective Disaster, TEMPLE OF HOLY SHIT Disaster costruisce il tempio che celebra la nostra capacità di contribuire alla fertilità del terreno. Siamo noi umani la vera alternativa ai fertilizzanti chimici.
Think Tank
Hortense Le Calvez e Mathieu Goussin, POSIDONIA La Posidonia Oceanica è una specie endemica nel Mediterraneo, che ha la caratteristica di moltiplicarsi per clonazione, riproducendosi sempre identica a se stessa e conservando un immutato patrimonio genetico per migliaia di anni. Alcune teorie sostengono che “incidenti” o “errori” possano tuttavia verificarsi durante il processo di clonazione. Il progetto riflette su come l’inquinamento dei mari potrebbe influenzare queste mutazioni impreviste. Le sculture vengono collocate sul fondo del mare per il tempo necessario a immergersi e fotografarle. La loro forma evolve con le correnti.
Structures productives; Jérémy Gobé (Francia), MOSE/Latistellata; Elsa Guillaume (Francia), Cosmographie corallienne; Henrik Håkansson (Svezia) The Coral Sea; Mrugen Rathod (India), Untitled. La giuria del premio, presieduta dal Ministro dell’Ambiente francese Ségolène Royal, era composta da Agnès B. (stilista); Claude d’Anthenaise, conservatore capo del Musée de la Chasse et de la Nature; Élodie Bernollin, direttrice della comunicazione di Tara Expéditions; Philippe Cury, oceanografo, direttore della ricerca presso l’IRD; Anne Ged, direttrice dell’Apc (Agence Parisienne du Climat) e Emma Lavigne, direttrice del Centre Pompidou di Metz. Il 17 settembre, durante la cerimonia svoltasi presso il Musée de la Chasse et de la Nature, il Prix COAL 2015 Art et Environnement è stato assegnato ad Alex Hartley con Nowhere Island e a Elsa Guillaume (per il premio COAL Spécial Océans) con Cosmographie corallienne, immaginaria carta del mondo sommerso delle barriere coralline, ispirata alle cosmografie medievali.
Cape Farewell Cape Farewell è il progetto creato dall’artista David Buckland nel 2010 per stimolare una risposta culturale al cambiamento climatico. Oggi tale progetto è diventato una iniziativa no profit internazionale, con base a Londra (University of Arts) e a Toronto (MaRS Centre). Anche Cape Farewell opera mettendo in contatto creativi, scienziati e professionisti dell’informazione, promuovendo l’uso della creatività per innovare, coinvolgendo gli artisti per la loro capacità di comunicare “a scala umana” l’urgenza della sfida climatica.
Cape Farewell Art & Climate Change, www.capefarewell.com/ art/past-projects/art-andclimate-change.html
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Elsa Guillaume, COSMOGRAPHIE CORALLIENNE Il progetto è un work in progress che avrà come esito la realizzazione di una mappa del mondo subacqueo – unico e gravemente minacciato – delle barriere coralline. Il volto di veri arcipelaghi e continenti sommersi sarà arricchito dalla raffigurazione di una fauna osservata e immaginata, come avveniva nelle mappe del 15° secolo, cui il lavoro si ispira. L’opera di Elsa Guillaume, artista ed esploratrice, si svilupperà durante la sua partecipazione a una spedizione oceanografica dedicata a questi ambienti (oceans.taraexpeditions.org).
A destra: FICTILIS (Timothy Furstnau e Andrea Steves, Usa), TRUE MARKET COST Nel mercato di FICTILIS le merci vengono vendute al loro prezzo reale, integrando i costi sociali e ambientali della loro produzione, trasformazione, distribuzione e consumo. Quello che oggi ci ostiniamo a chiamare “esternalità”.
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Julie Navarro, DROSÉRA Viaggio nell’estetica della relazione tra uomo e paesaggio, nelle torbiere del Limosino, un vero e proprio “sink” di carbonio, che agisce come regolatore naturale del clima.
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Jérémy Gobé, CORAL RESTAURATION Progetto di strutture in grado di “ricucire” e restaurare le geometrie delle formazioni coralline.
Livin Studio (Katharina Unger e Julia Kaisinger), FUNGI MUTARIUM Un prototipo di coltura di micelio in grado di biodegradare rifiuti tossici trasformandoli in biomassa commestibile, riflessione su come il cambiamento climatico possa ribaltare le leggi del consumo e del vivente.
Think Tank
A sinistra: Yesenia Thibault-Picazo, CRAFT IN THE ANTHROPOCENE Geologia del futuro in un “sedimento di plastica”, immagine del suolo e delle risorse antropizzate di domani.
In basso: Stéfane Perraud con lo scrittore Aram Kebabdjian, SOLEIL NOIR Il “Sole Nero” rappresenta un pezzo di fiction fantascientifica, un dispositivo di raffreddamento per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. Proiezione di un futuro possibile che vuole riflettere sull’ambivalente utopia scientifica e sul nostro incerto rapporto con l’energia.
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Focus Rifiuti
I sistemi collettivi:
driver di sviluppo economico
Da problema pubblico a opportunità economica. La nuova economia dei rifiuti è alle porte trainata dalla diffusa responsabilità ambientale, dall’innovazione tecnologica e dalla necessità di rallentare il prelievo di risorse primarie. di Roberto Coizet
Erano emergenza, problema pubblico, costo per la collettività. Stanno diventando risorsa, vantaggio comune, opportunità economica e occupazionale. I rifiuti stanno cambiando. Cambiano natura, significato e valore, e questa trasformazione è forse una delle svolte economiche più significative del terzo millennio, che ridisegna il rapporto tra produzione e materie prime, cambia i processi industriali e determina conseguenze ambientali e sociali di grande respiro.
Policy
Roberto Coizet è Presidente di Edizioni Ambiente e Coordinatore del gruppo di lavoro “Sviluppo dei servizi degli ecosistemi” degli Stati Generali della Green Economy.
In questo Focus Rifiuti Paola Ficco evidenzia alcune delle contraddizioni normative che derivano dalla nozione di “disfarsi”, con particolare riferimento al problema del riutilizzo.
Da dove prende il via la svolta? Qual è il meccanismo per cui i rifiuti – uno dei problemi più gravi e costosi nelle economie occidentali nella seconda metà del secolo scorso – oggi si candidano come driver di sviluppo economico? Il dato di partenza è semplice: negli ultimi dieci anni avviene – in modo sempre più evidente – che alcune tipologie di rifiuti presentino un valore di mercato superiore al loro costo di raccolta e gestione. In molti casi, dopo aver pagato le spese di deposito, raccolta, trasporto, trattamento, recupero, quelle relative alla conformità normativa, ai controlli e alle eventuali certificazioni, si verifica che il materiale finale può ancora essere venduto con interessanti margini di profitto. In quei casi i rifiuti hanno un rovesciamento di ruolo. La loro gestione non è solo una necessità della collettività. Diventa invece una attività “che sta in piedi da sola”, in grado di sostenere la propria filiera industriale e di alimentare le esigenze di materie prime delle industrie più innovative. È chiaro che, come tutte le trasformazioni strutturali, la svolta economica non è né semplice né lineare. Ancora oggi vi sono pesanti problemi che rendono imprevedibile e sfuggente questo mercato. Per esempio, la discontinuità dei flussi e la volatilità del loro valore commerciale. I flussi dei rifiuti non sono continuativi perché – salvo i casi dei sistemi collettivi di cui si parlerà più oltre – le raccolte avvengono in modo frammentario e scoordinato. Moltissimi raccoglitori/gestori competono sugli stessi clienti (imprese ed enti locali) e ciascuno di loro agisce autonomamente rispetto alla destinazione dei rifiuti, scegliendo caso per caso la soluzione più conveniente, con occasionali concessioni all’illegalità. Il risultato è che i recuperatori e i riciclatori – i destinatari naturali dei flussi – devono improvvisare le loro modalità di approvvigionamento senza alcuna certezza, il che impedisce loro di pianificare gli investimenti e razionalizzare la produzione. Inoltre il valore commerciale di molte frazioni può subire variazioni potenti. A volte i materiali salgono di valore scatenando euforie di ottimismo (e crescita esponenziale delle industrie dedicate al trattamento e al riciclo) per poi riprecipitare. Negli ultimi dieci anni i rifiuti come le plastiche, i cartoni da imballaggio, il piombo ricavato dalle batterie, gli oli minerali lubrificanti, hanno subito variazioni di prezzo fino al 100% e oltre. Sono spesso oscillazioni legate all’andamento dei prezzi delle materie prime: quando questi salgono il mercato delle “materie seconde” accelera, e viceversa quando scendono. Ma anche alla semplice disponibilità dei materiali (le industrie del riciclo hanno bisogno di materie seconde per non fermare gli impianti e possono entrare in gara sui prezzi).
A questi problemi si aggiunge trasversalmente quello della “tracciabilità”, cioè la possibilità di sapere con esattezza quali quantità e tipologie di rifiuti vengono prodotte, trattate, trasferite a quali destinatari e per quale finalità. I dati al riguardo sono di un’indeterminatezza esasperante. Non solo nell’Italia delle ecomafie, ma in tutta Europa. I rifiuti, nella loro identità bifronte di pericolo/costo e opportunità/guadagno, spariscono nelle direzioni più diverse, travestiti a volte da merci, a volte da scrupolosi adempimenti normativi. Perché le norme, quelle europee e quelle nazionali, hanno svolto un ruolo determinante nel disegnare la nuova economia dei rifiuti. Sia come acceleratori sia come fattori limitanti. Sono state un acceleratore, a partire dalla fine degli anni ’80, perché hanno imposto regole severe e obiettivi chiari per l’eliminazione dei rifiuti. Da questi obblighi sono nate nuove attività e professionalità e il mercato si è ben adattato al cambiamento creando industrie specializzate. Ma ora quelle stesse regole mostrano parecchie rigidità. Un segno rivelatore è la nozione di rifiuto – nata nel 1991 con la Direttiva 91/156/CEE – che è inteso come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”. Il termine “disfarsi” allude a qualcosa di inutilizzabile, e vagamente sgradevole, che può ragionevolmente essere conferito a un servizio di igiene pubblica e non consegnato utilmente a un operatore economico che se ne serve con profitto. È come se il rifiuto fosse ancora avvolto, dal punto di vista semantico e operativo, in un alone di inutilità, dal quale può uscire solo con trattamenti specifici e faticosi, che eventualmente ne fanno una materia “riciclata”. E a questa visione si associano le conseguenti contraddizioni normative e complessità procedurali. Ma malgrado le instabilità e i rallentamenti, la nuova economia dei rifiuti è alle porte, sulla spinta crescente della responsabilità ambientale diffusa, dell’innovazione tecnologica e della necessità di rallentare il prelievo di risorse primarie. Le nuove miniere – urbane o provenienti dai bacini industriali – sono già presenti, in attesa di soggetti adeguati al loro sfruttamento. Dalla responsabilità ai vantaggi economici Ma quali sono i soggetti più idonei a svolgere il compito? Come va organizzato il sistema produttivo per affrontare una transizione così rapida, cercando di governare i fattori più instabili? Per prima cosa occorre “armonizzare” le filiere, rendendo i flussi di materia abbastanza consistenti e continuativi da poter razionalizzare i processi industriali. In altri termini, per affrontare il problema le imprese si devono mettere insieme, comparto per comparto e in qualche caso materiale per materiale.
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Quella dei sistemi collettivi è una soluzione che contribuisce alla “democrazia ambientale”, come segnala Pasquale Fimiani in questo Focus Rifiuti, in quanto il diritto di partecipazione ai processi decisionali – che è misura della democrazia – si realizza in questo caso in una sorta di “coamministrazione” pubblico/privato.
Paolo Tomasi in questo numero di Materia Rinnovabile racconta le ragioni di un graduale cambiamento del modello di funzionamento da parte del Coou, il Consorzio italiano per gli oli minerali.
In questo Focus Rifiuti Danilo Bonato, intervistato da Antonio Cianciullo, offre un interessante approfondimento sulla raccolta e il recupero dei Raee in Europa.
E qui viene in aiuto proprio quella stessa politica europea che prima segnalavamo un po’ lenta di riflessi dal punto di vista normativo. Infatti, l’Europa adotta un modello, la Extended Producer Responsibility (Epr) e propone un particolare dispositivo per attuarne le regole, il cosiddetto sistema collettivo (o compliance scheme). L’Epr impone ai produttori di merci di farsi carico della gestione dei rifiuti che derivano dalla loro produzione; il sistema collettivo associa le imprese di un determinato comparto con l’impegno di valorizzare una certa quota dei rifiuti immessi nel mercato dalle imprese associate. La formula risulta immediatamente efficace, perché ripartisce in modo innovativo esigenze pubbliche e interessi privati. La parte pubblica, infatti, stabilisce le regole di funzionamento e gli obiettivi, nel rispetto delle priorità ambientali e dell’ottimizzazione delle risorse; le imprese decidono le regole economiche con cui raggiungere gli obiettivi fissati. Insomma, i sistemi collettivi si rivelano un’invenzione funzionale che riesce a imporre il bene della collettività come una delle variabili dell’attività d’impresa. Tra gli anni ’80 e ’90 il modello si diffonde in Europa, nelle filiere dove può essere più facilmente applicato: alcune particolari categorie di rifiuti (oli minerali, batterie al piombo, pneumatici ecc.) e due grandi comparti legati ai beni di consumo (imballaggi e Raee). Rispetto alla formula gestionale – come si è detto affidata alle imprese – viene realizzata una moltitudine di variazioni sul tema. Due i modelli prevalenti: quello “centralizzato” dove un unico sistema collettivo associa e coordina tutte le imprese nazionali, e quello che potremmo definire “multiplo”, dove più sistemi collettivi si dividono il mercato nazionale svolgendo più o meno le stesse funzioni. Tranne rari casi, i sistemi sono ad adesione volontaria. Le imprese decidono di affidare i propri obblighi rispetto ai rifiuti a un sistema collettivo in quanto questa soluzione è economica, funzionale e le libera da responsabilità dirette. La delega di responsabilità avviene attraverso l’iscrizione dell’impresa e il versamento di un fee che corrisponde alla quantità e tipologia di rifiuti generati. Se i sistemi sono multipli, l’impresa può decidere sulla base del miglior offerente. A oggi lo scenario presenta una tale quantità di varianti da disorientare la stessa Commissione europea. Per gli oli minerali si sono creati sistemi collettivi in Spagna, Portogallo, Italia, Finlandia e Grecia. Negli altri paesi europei la gestione avviene secondo formule di libero mercato più o meno organizzate: in Germania la raccolta è effettuata dalle imprese che rigenerano gli oli, mentre in Francia l’Agenzia ambientale governativa monitora i dati di tutti gli operatori.
Per i Raee ci sono Sistemi collettivi in Francia, Italia, Gran Bretagna, Irlanda, Belgio e Olanda. In Belgio il sistema è “centralizzato”, mentre i sistemi “multipli” di Italia e Gran Bretagna presentano rispettivamente 17 e 41 sistemi autorizzati. La maggiore concentrazione e varietà si trova nei sistemi per la gestione dei rifiuti di imballaggio, il cui sviluppo nei paesi membri è stato favorito dalle indicazioni contenute nella Direttiva (94/62/ CE). Attualmente nei 28 paesi i sistemi attivi, in riferimento ai soli rifiuti urbani, risultano essere 161 (e lo scenario è in continuo movimento). Si va da situazioni tendenzialmente “centralizzate”, come Francia, Italia, Spagna o Repubblica Ceca, fino a paesi dove la molteplicità dei sistemi è arrivata a numeri sconcertanti: Germania 17, Regno Unito 22, Lituania 40. La trasformazione continua è anche dovuta a ripensamenti o contenziosi internazionali rispetto al modello adottato. I paesi a sistema “centralizzato” rivendicano la validità della loro scelta, in grado di armonizzare il comportamento di tutti gli operatori nazionali, ma vengono talvolta accusati di scarsa flessibilità o addirittura di abuso di posizione dominante. I paesi a sistema “multiplo” si presentano come espressione del libero mercato, ma scontano a volte una frammentarietà delle azioni che rende volatili prezzi e fee, nonché qualche difficoltà nella tracciabilità e continuità dei flussi di materiale. Il dibattito sul contrasto tra i due modelli è molto acceso, anche se appare evidente che la svolta in atto, combinata con i nuovi orientamenti e obiettivi dell’economia circolare, richiede una riformulazione che giunga a un risultato contemporaneamente flessibile e sotto controllo. I sistemi collettivi non possono rinunciare alla loro mission di salvaguardia delle risorse ambientali, e pertanto necessitano di un coordinamento che vigili sullo svolgimento di tutte le operazioni necessarie, anche quando queste fossero, per così dire, “antieconomiche”. D’altro canto essi non possono irrigidirsi in un sistema di potere, a vocazione autoconservativa, incapace di seguire le rapidissime evoluzioni della tecnologia e dei nuovi mercati. I sistemi “multipli”, benché di libero mercato, dovrebbero essere esenti da logiche di profitto (il vantaggio dovrebbe andare alle imprese associate e mai al sistema) e questo richiede l’adozione volontaria di regole e principi che vanno al di là della compliance normativa. Quale che sia l’evoluzione dei sistemi collettivi, resta il fatto che le filiere che ne sono dotate mostrano oggi rendimenti di recupero e riciclo, nonché performance economiche e occupazionali, senza confronto rispetto a quelle che ne sono prive. La formula funziona, e questo particolare dispositivo pubblico/privato apre anche una prospettiva politica importante: le aree
Policy
della tutela ambientale che raggiungono l’autonomia economica e non comportano costi per la collettività, potrebbero essere trasferite alla gestione privata, istituendo una “nuova delega” alle imprese, intese come dirette protagoniste dell’economia ma anche dei patti sociali e delle formule di civiltà che dall’economia derivano.
Giovanni Corbetta, in questo Focus Rifiuti, propone una riflessione sui criteri etici che potrebbero essere adottati dai sistemi collettivi per assolvere in modo equilibrato alla loro doppia funzione pubblica e privata.
Altre prospettive
Aldo Femia, in questo Focus Rifiuti, documenta alcuni dati di valorizzazione dei flussi di materia da parte dei compliance scheme europei.
Empire State Building. Foto di Aniruddhags
E cosa succede per le frazioni che finora non hanno trovato un sistema collettivo di riferimento? In questi anni sono numerose le filiere che stanno attraversando la soglia che separa i rifiuti dalla materia rinnovabile. In particolare, due grandi flussi sono in procinto di varcare il fossato: i rifiuti di materia organica e i rifiuti da costruzione e demolizione. È evidente che in questi casi non possono essere ricalcati gli stessi modelli utilizzati per gli imballaggi o per gli pneumatici fuori uso. La filiera dell’organico presenta una frammentarietà di soggetti che impedisce l’applicazione meccanica di un contributo a “tutti” coloro che immettono al consumo i propri prodotti, intendendo tra questi anche il piccolo coltivatore di ortaggi. Occorre intercettare i flussi dove diventano consistenti, probabilmente presso la produzione industriale e la grande distribuzione. L’importante è valorizzare questa materia, potenzialmente ricchissima, restituendola al suolo o rendendola disponibile per la produzione industriale dei nuovi biomateriali. Situazione simile per i rifiuti da costruzione/ demolizione. Anche qui non è pensabile applicare alla lettera il principio di responsabilità estesa del produttore. Un esempio: quando verrà trasformato in rifiuto l’Empire State Building, costruito tra il 1930 e il 1931, non si potrà rintracciare nessuno dei “produttori iniziali”. Quindi sarà più ragionevole fare riferimento, anziché al produttore del bene, al “produttore iniziale del rifiuto” (anche se non è sempre facile individuare in modo univoco tale figura). In pratica vanno create nuove figure e nuove relazioni di responsabilità. Ma questo non è un grande problema: in un confronto con gli operatori di ciascun settore è possibile trovare il bandolo della matassa. Rallentamenti e contenziosi avvengono quando si discute di denaro da spendere e soprattutto di chi lo deve spendere. Ma la svolta economica di cui si parlava all’inizio può dare una sterzata anche a queste inerzie. Oggi non si crea un sistema collettivo perché qualcuno si faccia carico di un costo a nome della collettività: lo si fa perché il sistema può ridistribuire già – o comunque tende a ridistribuire – vantaggi economici a tutti i partecipanti alla filiera. Si attinge alle nuove miniere del pianeta operando in uno scenario che all’orizzonte contempla anche un giusto profitto.
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materiarinnovabile 06-07. 2015
Focus Rifiuti
Quanto sono efficaci i sistemi Epr?
La parola ai dati di Aldo Femia
In Europa si producono 2.500 milioni di tonnellate di rifiuti ogni anno, ma se ne riciclano o riutilizzano solo 600 milioni. Come e quanto contribuiscono nei diversi paesi Ue i sistemi Epr per chiudere il ciclo rifiuti/risorse.
Aldo Femia è primo ricercatore presso l’Istituto nazionale di statistica (Istat). Esperto di contabilità satellite, e in particolare di conti ambientali in termini fisici, in passato ha lavorato presso il Wuppertal Insitut Für Klima Umwelt Energie e presso l’Ocse.
Pagine web dell’Ue dedicate ai rifiuti: ec.europa.eu/ environment/waste/
Secondo le pagine web dell’Ue dedicate ai rifiuti, ogni anno un cittadino europeo consuma 16 tonnellate di materiali. E sei di queste diventano rifiuti. Nel 2012, i rifiuti totali sono stati pari a 2.500 milioni di tonnellate, ripartite grosso modo a metà tra smaltimento e recupero, salvo una piccola frazione destinata all’incenerimento. Dei materiali recuperati, solo circa 600 milioni di tonnellate sono state riciclate o riutilizzate. In pratica, nonostante i miglioramenti in atto, l’economia europea continua a perdere una quantità significativa di potenziali “materie prime secondarie” presenti nei flussi di rifiuti: metalli, legno, vetro, carta, plastica, materia organica e materiali inerti.
1. www.zerowasteeurope. eu/2015/03/and-theeuropean-wastechampion-is-belgium/.
Ma nonostante sia evidente che la situazione non è soddisfacente, le politiche non sembrano tenere il giusto ritmo. Le cifre, infatti, confermano una tendenza che ZeroWasteEurope definisce “preoccupante”1 e il riciclo continua a ristagnare.
I dati ufficiali di Eurostat (figura 1) mostrano che dal 2008 è aumentato il conferimento in discarica e lo smaltimento nei corpi idrici, arrivando a superare anche il recupero, mentre l’incenerimento si mantiene stabile. Dati che confermano che non stiamo affrontando nel modo più saggio il fine vita dei prodotti. Sistemi Epr: flussi sotto controllo Uno degli approcci cui si ricorre sempre più in tutto il mondo e che si dimostra particolarmente idoneo a chiudere il ciclo rifiuti/ risorse è quello dell’Epr (Extended Producer Responsibility; figura 2). Alla base dell’Epr c’è il principio che “chi inquina paga”, un pilastro della politica ambientale della Ue. Nelle linee guida Ocse del 2001 l’Epr è stata definita come “un approccio di politica ambientale in cui la responsabilità del produttore si estende alla fase post-consumo del ciclo di vita del prodotto”. Ci sono diversi
Policy Figura 1 | Discarica, incenerimento e recupero 2009-2013, Ue28, 2004-2012
60% 50% Discarica
40% 30% 20%
Recupero diverso da energetico
10% 0% 2004
2006
2008
2010
2012
Fonte: Eurostat.
Incenerimento
Figura 2 | Adozione di Epr, cumulata, 1970-2013
350
Numero di Epr adottate
300 250 200 150 100 50 0 1970
1980
1990
2000
2010
Fonte: Ocse, “The State of Play on Extended Producer Responsibility (Epr): Opportunities and Challenges Promoting Sustainable Materials Management through Extended Producer Responsibility”, 17-19 giugno 2014, Tokyo, Giappone.
tipi di Epr: i più diffusi sono la ripresa, i sistemi di deposito e le tasse di smaltimento anticipate. Spesso, gli obblighi di legge, o gli obiettivi fissati volontariamente dai produttori stessi, sono perseguiti – secondo i diversi flussi di rifiuti – attraverso specifiche organizzazioni per la responsabilità estesa del produttore (Pro, Producer Responsibility Organisation). Quando non esclusive, queste organizzazioni operano in concorrenza; a queste vanno aggiunte anche le formule di self-compliance del produttore. La Ue ha adottato l’Epr per il fine vita dei veicoli fuori uso (direttiva del 2000), delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (2012) e delle batterie (2006). L’Epr è largamente utilizzata nelle politiche sui rifiuti di imballaggio (direttiva 1994). La direttiva quadro sui rifiuti del 2008 stabilisce anche alcuni principi per l’attuazione della responsabilità estesa del produttore. Inoltre, in molti stati membri sono attuate politiche Epr o accordi volontari anche per i prodotti non contemplati dalla legislazione Ue (tabella 1). Per valutare il successo di queste politiche occorre considerare alcuni aspetti chiave riguardanti precise prestazioni tecniche: quantitativi immessi sul mercato, rifiuti generati, raccolta e trattamento, livello di innovazione verso una maggiore riciclabilità. In pratica tali prestazioni vengono rappresentate: dal rapporto tra quantitativi raccolti e quantitativi immessi sul mercato (percentuale di raccolta); dal rapporto tra materiali riciclati e rifiuti raccolti (percentuale di riciclo); dalla performance economica (i costi, la loro copertura ecc.). Ci concentreremo qui sull’aspetto tecnico, analizzando i dati e le analisi statistiche che riguardano i materiali considerati dall’Europa o dalle politiche nazionali.
Figura 3 | Epr per tipologia di prodotto, 2013
20% Altro
17% Imballaggi
17% Pneumatici 35% Apparecchiature elettroniche
11% Batterie auto
Nota: le apparecchiature elettroniche comprendono telefoni cellulari, batterie ricaricabili, termostati e interruttori; gli imballaggi comprendono i contenitori per bevande; “altro” comprende oli, vernici, pesticidi, sostanze chimiche e altri prodotti meno comuni. Fonte: Ocse, “The State of Play on Extended Producer Responsibility (Epr): Opportunities and Challenges Promoting Sustainable Materials Management through Extended Producer Responsibility”, 17-19 giugno 2014, Tokyo, Giappone.
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50
materiarinnovabile 06-07. 2015 Tabella 1 | Rassegna di tutti sistemi Epr esistenti nell’Unione europea nel 2013 Stati membri
Batterie
Elettrodomestici
Imballaggi
Veicoli
Pneumatici
Carta grafica
Oli
20
11
10
Austria Belgio Bulgaria Cipro Rep. Ceca Danimarca Estonia Finlandia Francia Germania Grecia Ungheria Irlanda Italia Lettonia Lituania Lussemburgo Malta
N/A
Paesi Bassi Polonia Portogallo Romania Svezia Rep. Slovacca Slovenia Spagna Regno Unito Croazia Totale
2. “Development of Guidance on Extended Producer Responsibility (Epr) – Final Report” Commissione europea – DG Ambiente, 2014. Studio realizzato da BIODeloitte.
3. Dettagli in sites.google.com/a/eusmr.eu/guidance-on-epr/ documents.
28
28
27
27
Performance diverse tra i vari paesi Un recente studio2 finanziato dalla Commissione europea sui sistemi di gestione dei rifiuti in sedici stati membri ha rilevato che i dati ufficiali di Eurostat su flussi, raccolta e riciclo non sono del tutto attendibili evidenziando “una grave mancanza di dati comparabili sulle prestazioni economiche e tecniche”. Per superare le incongruenze, sono stati studiati in maniera approfondita 36 casi che contemplano flussi di rifiuti specifici, tra cui i quattro sulle tipologie regolate dalla Ue (veicoli a fine vita, apparecchiature elettriche ed elettroniche, batterie, imballaggi), più altri due per i quali esistono sistemi Epr in diversi stati europei (carta grafica e oli).3 Dallo studio è emersa la necessità di rafforzare le politiche Epr, in quanto portatrici di “miglioramenti innegabili nel riciclo e nelle performance di recupero in tutti gli stati
membri”. Anche se – come dimostrano i dati raccolti – le prestazioni tecniche risultano molto differenziate tra i paesi. •• Batterie – (circa 1,7 milioni di tonnellate di rifiuto prodotto): il dato sulla raccolta di pile e accumulatori portatili varia dal 36% (Francia) al 72% (Svizzera). Queste cifre sono superiori all’obiettivo fissato dalla Ue al 2012 (25%) e in molti casi vanno oltre l’obiettivo al 2016 (45%). Per quanto riguarda le batterie industriali e per autoveicoli, che hanno valore di mercato positivo, in tutti i casi la raccolta è prossima al 100%. Ad eccezione di Malta che – secondo i dati Eurostat – si attesta al 5%. •• Veicoli – (9 milioni di tonnellate): hanno alti tassi di reimpiego e riciclo in tutti i paesi studiati, tra l’83% (Finlandia, Paesi Bassi) e il 92% (Germania). Tutti sono prossimi od oltre gli obiettivi della direttiva al 2015 (85%). I dati Eurostat riportano una media di riciclo dei materiali
Policy
Farmaci scaduti/ rifiuti sanitari
Film agricolo
Altro Sistemi Epr posate in plastica, sostanze chimiche per la fotografia Obblighi di ripresa senza Pro Tasse
fluorinati refrigeranti, farmaceutici, lubrificanti, tessili, rifiuti sanitari, mobili, rifiuti pericolosi, imballaggi di fitosanitari, di fertilizzanti e di semi e piante, case mobili, apparecchiature da ufficio, inchiostri
vetri e finestre imballaggi di farmaci e farmaci scaduti, imballaggi di fitosanitari
rifiuti di pesticidi pericolosi, candele cimiteriali
rifiuti contenenti asbesto
10
Fonte: “Development of Guidance on Extended Producer Responsibility (Epr) – Final Report” BIO-Deloitte/ Commissione Europea – DG Ambiente, 2014.
8
da veicoli leggeri che variano dal 64% di Malta al 96% della Germania. •• Carta – (47 milioni di tonnellate di rifiuto prodotto): il settore offre un quadro molto variegato, dove i tassi di riciclo variano dal 43% (Francia) all’87% (Finlandia), fino al 94% (Svezia). Il divario può essere spiegato con il maggior valore di mercato dei rifiuti di carta nei paesi scandinavi. Non ci sono dati Eurostat sul riciclo di questo flusso. •• Oli – (circa 5,2 milioni di tonnellate di rifiuto prodotto): la maggior parte dei sistemi Epr coprono esclusivamente i lubrificanti a base minerale (non commestibili, industriali). Le quantità raccolte variano in modo significativo: da 2,7 kg/ anno pro capite (Portogallo) a 5,6 kg della Germania. I tassi di rigenerazione sono compresi tra il 69% (Spagna) e il 91% (Belgio). Il sistema italiano ottiene alti tassi di rigenerazione (circa l’89%), ma pare essere molto più costoso. Anche per questo flusso di rifiuti non sono disponibili dati Eurostat.
•• Imballaggi – (80 milioni di tonnellate di rifiuto): i sistemi Epr studiati per i rifiuti di imballaggio mostrano diverse caratteristiche. In alcuni stati membri riguardano solo i rifiuti di imballaggio domestici, mentre in altri paesi si estendono anche ai rifiuti commerciali e industriali. Tutti i casi studiati raggiungono gli specifici obiettivi di riciclaggio fissati dalla direttiva, con la punta più bassa nel Regno Unito (totale degli imballaggi 61%) e la più alta in Belgio (imballaggi domestici 85%). I dati Eurostat indicano raccolte che vanno dal 47,5% di Malta al 97% in Belgio. •• Raee – (circa 7,5 milioni di tonnellate nel 2012): i tassi di riciclo sono abbastanza omogenei nei paesi studiati. Tutti i sistemi raggiungono gli obiettivi fissati dalla direttiva. Discrepanze significative emergono sui quantitativi raccolti: si va da 2,0 kg/anno pro capite (Lettonia) a 17,5 kg/anno pro capite (Svezia). Secondo Eurostat, le raccolte variano
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Tabella 2 | Rifiuti minerali da costruzione/demolizione e consumi nazionali di minerali non metallici in Europa (milioni di tonnellate) Rifiuti minerali da costruzione / demolizione
Generazione di rifiuti (a)
Trattamento rifiuti totale (b)
Recupero altro da recupero energetico – Riempimenti (c)
Ue28
321,2
295,5
18,2
234,6
Belgio
6,2
14,8
0,0
14,5
70
Bulgaria
0,7
0,5
0,0
0,1
46
Recupero altro Consumi nazionali da recupero di minerali energetico eccetto non metallici (e) riempimenti (d) 3.196
Rep. Ceca
3,0
3,5
1,1
2,1
69
Danimarca
2,6
2,6
0,0
2,3
64
Germania
78,3
75,6
6,0
63,9
554
Estonia
0,5
0,5
0,1
0,4
16
Irlanda
0,1
0,3
0,1
0,2
50
Grecia
0,6
0,6
0,0
0,0
39
Spagna
27,4
27,4
4,3
18,7
185
Francia
62,2
61,8
4,7
36,3
389
Croazia
0,3
0,3
0,0
0,1
23
Italia
33,9
30,9
0,2
29,8
272
Cipro
0,1
0,1
0,0
0,1
10
Lettonia
0,4
0,2
0,0
0,1
17
Lituania
0,6
0,5
0,1
0,3
16
Lussemburgo
0,6
0,5
0,0
0,5
5
Ungheria
3,3
1,9
0,2
1,3
37
Malta
0,5
0,5
0,0
0,1
2
Paesi Bassi
23,1
21,6
0,0
21,6
44
Austria
6,3
6,3
0,0
5,8
105
Polonia
3,5
3,0
0,7
2,0
317
Portogallo
0,9
0,4
0,0
0,3
109
Romania
1,3
0,8
0,0
0,5
325
Slovenia
0,2
0,3
0,0
0,3
13
Rep. Slovacca
0,5
0,4
0,0
0,2
29
Finlandia
15,8
4,4
0,0
0,5
106
Svezia
1,0
0,6
0,0
0,5
88
Regno Unito
47,2
35,1
0,8
32,1
195
Paesi con Epr
159,3
144,6
11,2
120,7
1.089,2
Paesi senza Epr
161,8
150,8
7,0
113,9
2.106,6
Nella popolazione si verifica un’interessante trasformazione del comportamento con l’introduzione di incentivi al riciclo.
da 1,2 kg (Gran Bretagna) a 17,2 kg (Belgio), con una media di 6,6 kg. In conclusione, lo studio evidenzia che i sistemi più performanti non sono, nella maggior parte dei casi, i più costosi; i fee pagati dai produttori variano notevolmente; nessun singolo modello Epr emerge come migliore in assoluto rispetto alle prestazioni. Ogni flusso di materiale infatti ha proprie caratteristiche e le condizioni locali influenzano notevolmente l’efficienza dei sistemi. In media, però, dove esistono Epr, la gerarchia europea di gestione dei rifiuti è rispettata meglio
in confronto alle situazioni dove il mercato è lasciato all’auto-organizzazione, in assenza di un quadro istituzionale specifico. Questo ultimo caso spesso porta agli stessi risultati, ma richiede più tempo nel mettere a punto le soluzioni giuste e lascia spazi troppo ampi al free-riding e all’illegalità. Altri studi hanno indagato il funzionamento dei sistemi Epr in paesi Ocse non europei, traendo interessanti conclusioni. In Giappone, per esempio, la ricerca sulla legge di riciclo dei Raee (Tasaki et al., 2007) mette in luce che la raccolta ha goduto di alterne fortune
Policy
Tasso di raccolta (b/e)
Tasso di riciclo (d/b)
Tasso di soddisfazione della domanda d/(d+e)*
9%
79%
7%
21%
98%
17%
2
1%
12%
0%
27
5%
60%
3%
13
4%
87%
3%
11
14%
85%
10%
4
3%
75%
2%
14
1%
74%
0%
24
Classifica
2%
0%
0%
28
15%
68%
9%
7
16%
59%
9%
8
1%
51%
1%
21
11%
96%
10%
6
1%
45%
1%
19
1%
96%
1%
17
3%
74%
2%
16
11%
99%
10%
5
5%
65%
3%
12
24%
19%
4%
10
49%
100%
33%
1
6%
92%
5%
9
1%
68%
1%
18
0%
74%
0%
25
0%
67%
0%
26
2%
91%
2%
15
1%
39%
1%
20
4%
12%
0%
23
1%
79%
1%
22
18%
91%
14%
3
13%
83%
10%
7%
76%
5%
(a causa di smaltimenti ed esportazioni illegali), ma il riciclo ha funzionato bene. Risultato: il Giappone è molto avanzato nelle tecnologie ambientali, e che a loro volta queste hanno contribuito ad aumentare i tassi di riciclo. Uno studio statistico sull’atteggiamento delle famiglie americane nei confronti del sistema di deposito sulle bottiglie di plastica (Viscusi et al., 2011) evidenzia che “nella popolazione si verifica un’interessante trasformazione del comportamento con l’introduzione di incentivi al riciclo” e si assiste “a un vero e proprio balzo del tasso di riciclo quando le persone passano dallo
*Questo indicatore rappresenta il grado di soddisfazione della domanda interna di materiali da costruzione da materiali riciclati (d/(d+e)).
Fonte: elaborazione dell’autore su dati Eurostat, 2012.
stadio di non-riciclatori a quello di riciclatori diligenti”. Kaffine e O’Reilly (2015) hanno svolto, per conto dell’Ocse, una vasta gamma di studi empirici analoghi, concludendo che: •• le politiche di deposito/rimborso risultano più efficienti di quelle di tassazione anticipata sullo smaltimento; •• le organizzazioni collettive di Epr sono in grado di sfruttare meglio le economie di scala e di ridurre il monitoraggio delle singole imprese, ma occorre prestare attenzione a non soffocare il potere del mercato;
53
54
materiarinnovabile 06-07. 2015
4. Vedi Materia Rinnovabile n. 3 e 4.
•• le politiche Epr forniscono solo un incentivo implicito ma indiretto a favore del “design per l’ambiente”, mentre le politiche che colpiscono direttamente le caratteristiche del prodotto (requisiti di qualità, peso, riciclabilità ecc.) risultano ambientalmente più efficaci, •• le politiche Epr possono raggiungere i loro obiettivi ambientali, ma la questione aperta è quali strumenti siano economicamente più efficienti. Anche le specifiche condizioni del paese e i fattori locali – compresi quelli culturali e comportamentali – hanno grande influenza sulle prestazioni, come dimostra il fatto che paesi con sistemi analoghi mostrano grandi discrepanze nei tassi di raccolta e riciclo.
riguarda la qualità dei materiali raccolti, anche se l’evidenza è meno netta e sicuramente non conclusiva. Per esempio Acuff (2013) rileva che, mentre i metodi di raccolta per singola filiera di materiale hanno aspetti positivi, quali l’aumento dei tassi di riciclo (più materiale viene inviato ai centri di riciclaggio dal flusso dei rifiuti domestici), al tempo stesso determinano alcuni problemi. Per esempio l’aumento del tasso di contaminazione e della quantità di materiale residuo portato in discarica. Un documento della International Solid Waste Association (Iswa, 2014) fornisce ulteriori riferimenti a studi sul tema e mette in evidenza numerosi aspetti cui occorre prestare attenzione nella progettazione dei compliance scheme per l’Epr.
Dagli studi sui sistemi Epr si può trarre un’importante conclusione di fondo: la presenza dei compliance scheme aumenta la capacità di raggiungere gli obiettivi di raccolta e riciclo. Kaffine e O’Reilly definiscono questa caratteristica come “efficacia ambientale dell’Epr” e affermano che “la letteratura economica – sia accademica che non accademica – concorda sul fatto che strumenti quali l’obbligo di ripresa o l’imposizione di standard sulle percentuali di materiale riciclato fanno aumentare sia le quantità sia il tasso di riciclo”. Un’importante caratteristica emersa dagli studi
Fuori dall’Epr: flussi scarsamente indagati I flussi di rifiuti non (ancora?) ampiamente governati da politiche Epr sono, purtroppo, poco studiati, anche se le ricerche spesso mirano a sottolineare come e perché sarebbe utile istituire nuovi compliance scheme. Tale è il caso riguardante le biomasse.4 Nell’Europa a 28 ogni anno vengono raccolti 1,7 miliardi di tonnellate di biomassa e circa altri 0,7 miliardi di tonnellate di biomassa derivano da tale produzione come sottoprodotto di scarto. Vengono inoltre importati 0,17 miliardi di tonnellate di prodotti costituiti esclusivamente o principalmente da biomassa e ne vengono esportati poco meno (0,15). Complessivamente la quantità di biomasse, inclusi i sottoprodotti di coltivazione, raccolta e taglio, che ogni anno si trasformano in rifiuti, reflui o emissioni nella Ue ammonta a circa 2,4 miliardi di tonnellate. Un altro caso emblematico è quello relativo ai materiali derivanti da costruzione e demolizione. La direttiva quadro sui rifiuti stabilisce un obiettivo di riutilizzo/riciclo/recupero del 70% entro il 2020, ma non indica strumenti specifici. Anche nelle politiche Epr nazionali, i rifiuti da costruzione e demolizione non sono quasi mai previsti, giacché gli stati membri non hanno ancora completato la fase di integrazione del target europeo nelle legislazioni nazionali. Secondo un rapporto della DG Ambiente (Ieep, Bio et al., 2012), nel 2012 esistevano sistemi Epr (spesso formulati su iniziativa volontaria dei produttori) in Austria, Irlanda, Germania, Malta, Spagna e Regno Unito; da allora ne potrebbero essere stati creati altri, i cui effetti comunque non modificherebbero l’analisi degli ultimi dati disponibili. Ma la cattiva notizia invece è che ci sono vari altri motivi per cui occorre interpretare con cura i dati disponibili, nella consapevolezza che qualsiasi conclusione dovrebbe essere considerata non definitiva. Per prima cosa va considerato che i rifiuti da costruzione e demolizione (C&D Waste) sono costituiti da numerosi materiali diversi: pertanto il concetto di “immesso al mercato” diventa
Policy
Dagli studi sui sistemi Epr si può trarre un’importante conclusione di fondo: la presenza dei compliance scheme aumenta la capacità di raggiungere gli obiettivi di raccolta e riciclo.
Bibliografia •• Acuff Kathryn Lee (2013), Cashing in on trash: Internalizing the external benefits from recycling, Tesi di dottorato, Colorado School of Mines; phdtree.org// pdf/23462766-cashingin-on-trash-internalizingthe-external-benefitsfrom-recycling/ •• BIO-Deloitte (2014), “Development of Guidance on Extended Producer Responsibility (Epr)” Final Report, Studio Commissione europea – DG Ambiente; ec.europa. eu/environment/waste/ pdf/target_review/ Guidance%20on%20 EPR%20-%20Final%20 Report.pdf •• BIO-Deloitte (2014), “Review of the Producer Responsibility Initiative model in Ireland – Working paper on European PRIs”, studio per il governo dell’Irlanda; www.environ.
di difficile applicazione. In linea di principio, l’immesso dovrebbe essere calcolato per grandi categorie di prodotto; vale a dire per i gruppi di prodotti da costruzione a seconda del materiale di cui sono costituiti, il che diventa difficile da valutare partendo da rifiuti miscelati. Seconda considerazione: il ciclo di vita dei materiali da costruzione e demolizione è molto più lungo di un anno, dunque il concetto di tasso di raccolta perde parte della sua utilità. Infatti la quantità di rifiuti prodotta in un dato anno (che è il limite massimo per calcolare i rifiuti raccolti) deriva solo per una minima percentuale dai materiali utilizzati nel settore delle costruzioni nell’anno medesimo. Limitiamo il campo a quella frazione di rifiuti da costruzione e demolizione che corrisponde ai rifiuti di origine minerale, esclusi i minerali metallici. Questa grandezza può essere significativamente paragonata al consumo apparente di minerali (e relativi prodotti) impiegati nella costruzione. Sui rifiuti da costruzione e demolizione le cifre pubblicate da Eurostat (tabella 2) forniscono un interessante punto di partenza. Va però precisato che in alcuni casi l’accostamento dei dati risulta piuttosto arbitraria: a livello di riga, perché i dati soffrono di imperfezioni che incidono sulla comparabilità, come accennato poco fa. E anche a livello di colonna perché il consumo nazionale di minerali rileva le materie prime minerali estratte nel mercato interno, invece della produzione interna di prodotti da esse derivati. Ma poiché a esse aggiunge
anche le importazioni di prodotti e sottrae le esportazioni, il dato proposto può essere considerato una approssimazione accettabile dei quantitativi immessi sul mercato. Nella tabella proposta, accanto agli indicatori analoghi al tasso di raccolta (b/e) e di riciclo (b/d) abbiamo calcolato un indicatore particolarmente significativo rappresentato dal “grado di soddisfazione della domanda interna di materiali da costruzione da materiali riciclati” (d/d+e)). Come si può vedere, solo uno dei 19 paesi che non raggiungono il 5% in questo indicatore è tra i sei che affermano di avere sistemi Epr in atto. Si tratta di Malta, del cui sistema Epr non siamo riusciti a verificare l’esistenza attraverso le tracce operative; né risulta occuparsi dei rifiuti da costruzione e demolizione uno dei sei sistemi collettivi autorizzati, elencati nella pagina web della Malta Environment and Planning Authority (l’agenzia maltese per l’ambiente e la pianificazione territoriale). Nella parte inferiore della tabella sono stati calcolati gli indicatori medi dei paesi che hanno compliance scheme, mettendoli a confronto con gli indicatori di quelli che non li hanno. La migliore prestazione dei primi è dovuta soprattutto al rapporto più alto tra rifiuti trattati e quantità di minerali immessi sul mercato (colonna b/e), che non a tassi elevati di riciclo (colonna d/b). Nei limiti concessi alla significatività del dato circa gli effetti dei compliance scheme, la prova è a favore. Non è molto più di una indicazione, lo ammettiamo, ma è comunque qualcosa.
ie/en/Publications/ Environment/Waste/ WasteManagement/ FileDownLoad,38367, en.pdf •• BIO-Deloitte (2015), “Screening template for Construction and Demolition Waste management in Italy”, Studio attualmente in corso per la Commissione europea; ec.europa. eu/environment/waste/ studies/deliverables/ CDW_Italy_Factsheet_ Final.pdf •• Commissione europea (2015), pagina web sui rifiuti: ec.europa.eu/ environment/waste e database di Eurostat: ec.europa.eu/eurostat/ data/database •• Agenzia europea dell’ambiente (Eea) – European Topic Centre on Resource and Waste Management (2009), “EU as a Recycling Society – Present recycling levels of Municipal
instruments and waste management performance, DG Environment”, Studio Commissione europea – DG Ambiente; ec.europa. eu/environment/ waste/pdf/final_ report_10042012.pdf •• Iswa-International Solid Waste Association (2014), “Issue Paper on Extended Producer Responsibility”; www.iswa.org/ index.php?eID=tx_ iswaknowledgebase_ download&document Uid=4202 •• Malta Environment and Planning Authority: www.mepa.org.mt/ wastemanagement facilities •• Perchards-SagisEPR (2013), “The collection of waste portable batteries in Europe in view of the achievability of the collection targets set by Batteries Directive 2006/66/EC – Study on behalf of the European Portable Battery
Waste and Construction & Demolition Waste in the EU”; scp.eionet. europa.eu/publications/ wp2009_2/wp/WP2009_2 •• Governo di Malta – Ministero per lo Sviluppo sostenibile, l’Ambiente e il Cambiamento climatico, “Waste Management Plan for the Maltese Islands – A Resource Management Approach 2013-2020”; gov.mt/en/Government/ Press Releases/ Documents/PR2346a_ Waste Management Plan 2013 – 2020 Consultation Document October 2013.pdf •• Kaffine Daniel, O’Reilly Patrick (2015), “What have we learned about extended producer responsibility in the past decade? A survey of the recent EPR economic literature”, documento Ocse ENV/EPOC/ WPRPW(2013)7/FINAL •• Ieep, Bio et al. (2012), Use of economic
Association (EPBA)”; www.epbaeurope.net/ documents/Perchards_ Sagis-EPBA_collection_ target_report_-_Final.pdf •• Tasaki T., A. Terazono, Y. Moriguchi (2007), “An Evaluation of the First Five Years After Enactment of the Japanese Wee Recycling Act and the Current State”, Proceeding Sardinia 2007, 11. International Waste Management and Landfill Symposium; drive.google.com/file/ d/0B0LFEkPytiOcaEtRa HZabERyWmM/view?pli=1 •• Viscusi, W. Kip, Joel Huber e Jason Bell (2012), “Alternative Policies to Increase Recycling of Plastic Water Bottles in the United States”, Review of Environmental Economics and Policy, v. 6, n. 2, estate 2012, pp. 190-211; reep. oxfordjournals.org/
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Focus Rifiuti
CAPITALE NATURALE ed ECONOMIA CIRCOLARE: due facce della stessa medaglia L’economia circolare va considerata una forma di tutela indiretta del capitale naturale, in aggiunta alla protezione integrale e a quella bilanciata.
di Pasquale Fimiani
Il tradizionale accostamento della materia ambientale al tema del bene comune induce alcune considerazioni sul possibile inquadramento sistematico dei due argomenti nel contesto dei principi generali dell’ordinamento giuridico. Si tratta di un’operazione non agevole per due ragioni. Da un lato, è sempre più evidente la tendenza a qualificare come bene comune i contesti più vari e ampi dell’agire umano quali – oltre all’ambiente – la cultura, la scuola, le risorse artistiche, gli spazi urbani, la rete, la giustizia ecc. Fenomeno, questo, coerente con la pluralità dei modi e delle manifestazioni dell’interagire tra le persone, ma che rischia di confinare
il concetto di bene comune in uno spazio suggestivo e meramente evocativo, privo di specificità e, sostanzialmente, vago e indistinto. La teoria giuridica del bene comune Dall’altro, il dibattito in tema di ambiente ha registrato l’evoluzione dei due elementi fondanti la materia – il valore da conservare (l’ecosistema) e il parametro per assicurare tale conservazione (il cosiddetto sviluppo sostenibile) – nei due concetti di “capitale naturale” e di “economia circolare”, ampiamente discussi in ambito scientifico-economico, ma ancora marginali nella discussione giuridica. Il primo identifica i beni naturali della terra
Policy
(il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e la fauna) e i relativi servizi ecosistemici, quale valore essenziale per la vita umana, da preservare e garantire sotto il profilo qualitativo e quantitativo. A sua volta, il concetto di “economia circolare” indica un modello economico sostitutivo di quello ereditato dalla rivoluzione industriale, improntato sul “prendi, produci, usa e getta”. Si osserva che il postulato di fondo di tale sistema – e cioè che le risorse naturali siano sempre disponibili, accessibili ed eliminabili a basso costo – è prossimo a entrare in crisi e si propone il passaggio a un sistema in cui i prodotti mantengono il loro valore aggiunto il più a lungo possibile, mentre i rifiuti vengono ridotti al minimo e, comunque, riutilizzati e recuperati. I due concetti rappresentano due facce della stessa medaglia.
Pasquale Fimiani, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, si è sempre occupato dei reati in tema di inquinamento e ambiente. È stato docente di diritto ambientale presso diverse università. Autore di numerose pubblicazioni riguardanti i diversi profili della materia ambientale.
È sempre più evidente la tendenza a qualificare come bene comune i contesti più vari e ampi dell’agire umano.
La centralità attribuita al capitale naturale pone non soltanto il tema dell’inquinamento ambientale, ma soprattutto la questione dell’utilizzo indiscriminato delle risorse naturali e si propone di attribuire un valore reale ai servizi che esse offrono, da tenere presente nelle regole gestionali e di tutela, sia per il settore privato, sia per quello pubblico. Il passaggio a un’economia circolare mira a concorrere alla realizzazione di tale risultato, attraverso “cambiamenti nell’insieme delle catene di valore, dalla progettazione dei prodotti ai modelli di mercato e di impresa, dai metodi di trasformazione dei rifiuti in risorse alle modalità di consumo” (Comunicazione della Commissione “COM/2014/0398”, al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti”). Individuati i due concetti su cui si è rimodulato il dibattito ambientale, ai fini del loro inquadramento nell’ambito della teoria giuridica del bene comune, occorre partire da una considerazione generale. La qualifica come “comune”, nelle varie declinazioni, è sempre e comunque attribuita a un bene, un contesto o un servizio per evidenziarne la peculiare valenza rispetto a un aspetto fondamentale della personalità (per esempio, la salute, l’informazione, la partecipazione). Viene, quindi, enunciato un concetto di relazione, in quanto tale qualifica si nutre del rapporto con l’individuo o, più precisamente, con uno dei vari aspetti della sua personalità riconosciuto quale diritto fondamentale. Quest’ultimo, in quanto, appunto, fondamentale e non particolare, appartiene a ciascun consociato. È, in altri termini, una caratteristica essenziale della persona, così come costruita dalle Costituzioni delle democrazie avanzate
e dalla Carte internazionali fondamentali. E proprio perché patrimonio “comune” a tutti i consociati, altrettanto “comuni” sono i beni che ne permettono la piena realizzazione. Tale relazione bilaterale bene/individuo, di natura essenzialmente valoriale ed etica, va però riempita di contenuto, in quanto solo con una specifica disciplina che la alimenta e la rende effettiva può assumere rilevanza per l’ordinamento. Il concetto di “bene comune”, assume, quindi, piena valenza giuridica secondo uno schema articolato su due passaggi. Il primo ha una funzione ricognitiva della relazione qualificata tra il bene o il servizio e il diritto fondamentale e giustificativa dell’esercizio del diritto stesso nell’ambito del contesto riconosciuto come bene comune, nonché dell’eventuale attribuzione di speciali facoltà a esso inerenti. Tale primo passaggio ha come oggetto la sola relazione bene comune/diritto fondamentale e, come scopo, l’individuazione della base giuridica che la sostiene. Sono, quindi, a esso estranee la disciplina di dettaglio e la definizione dei rapporti ulteriori, aspetti che, invece, appartengono a un secondo, e altrettanto essenziale, livello sistematico. E infatti, perché possa definirsi un determinato contesto quale bene comune giuridicamente rilevante, non basta connettere i diritti fondamentali a beni o servizi che ne consentono la piena esplicazione e giustificarne, in base a tale connessione, l’esercizio da parte del titolare. Occorre anche che quella relazione sia disciplinata e/o tutelata da norme specifiche e sia regolata l’attività degli altri attori interessati, oltre al titolare del diritto fondamentale, quali i soggetti che concorrono alla realizzazione o tutela dei beni stessi, o quelli che possono metterli in pericolo, o comunque comprometterne la fruizione collettiva. Perché il capitale naturale è un bene comune Sulla base di tali considerazioni, può affermarsi che il “capitale naturale” costituisce un bene comune giuridicamente rilevante. E infatti, possono individuarsi: 1. una relazione qualificata tra il diritto fondamentale appartenente a ciascun consociato (quello alla salubrità ambientale e alla conservazione del paesaggio) e le risorse naturali che, nell’insieme, costituiscono il capitale naturale; 2. la conseguente giustificazione dell’esercizio del diritto (si pensi all’azione per il risarcimento del danno conseguente a un fatto di inquinamento ambientale, ovvero per ottenere l’inibitoria di attività pericolose per la salute); 3. l’attribuzione di speciali facoltà inerenti al diritto stesso (in tale prospettiva, vengono in evidenza le attribuzioni – sinteticamente espresse dalla espressione “democrazia ambientale” – in tema di accesso alle informazioni, di partecipazione del pubblico ai processi decisionali e di accesso
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Viene, in tal modo, a essere riconosciuto e legittimato un ambito di tutela del capitale naturale incentrato sulla individuazione di un’area di rischio consentito per l’impresa, rappresentato dall’ambito legittimamente autorizzato, all’interno del quale l’ordinamento “tollera”, entro limiti predeterminati, forme di aggressione all’ambiente.
alla giustizia in materia ambientale, riconosciute dalla nota Convenzione di Aarhus e dalle relative norme nazionali di recepimento, quali, in Italia, la legge n. 108/2001); 4. una articolata disciplina di settore finalizzata dare effettività e tutela a quella relazione e regolare l’attività dei vari soggetti interessati (pubblici e privati). La conferma che il capitale naturale può essere considerato un bene comune giuridicamente rilevante viene anche da un’altra considerazione. La teoria giuridica del bene comune individua l’elemento di novità di tale concetto, rispetto al tradizionale sistema normativo di catalogazione dei beni, impostato sul concetto di proprietà e sulla conseguente dicotomia pubblico-privato, nel fatto che trattasi di nozione che prescinde dalla appartenenza, in quanto ha, quale caratteristica essenziale, la funzione collettiva e “metaindividuale” cui il bene assolve, a prescindere dal regime proprietario.
Tale impostazione, proprio in tema di capitale naturale, è stata già anticipata, sia dal legislatore, in settori particolari quale quello degli usi civici (che affonda le sue radici nella storia del feudo e della proprietà collettiva) sia dalla giurisprudenza quando si è trattato di dirimere il dubbio circa la proprietà di beni di uso pubblico quali le valli da pesca della laguna di Venezia (in tal senso, la fondamentale Cassazione Civile a Sezioni Unite n. 3665/2011, secondo cui “dalla applicazione diretta degli artt. 2, 9 e 42 Cost. si ricava il principio della tutela della personalità umana e del suo corretto svolgimento, nell’ambito dello Stato sociale, anche in relazione al paesaggio, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della proprietà dello Stato, ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che – per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale – devono ritenersi comuni, prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l’aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto a interessi della collettività”).
John van Nost il Giovane, La Giustizia, Dublino. Foto di J. H. Janßen
Protezione bilanciata e protezione integrale dell’ambiente Una compiuta teoria giuridica del capitale naturale quale bene comune richiede, però, un passaggio ulteriore. Occorre, infatti, verificare se sia necessario o utile operare, all’interno di tale nozione unitaria, ulteriori classificazioni, stante la pluralità di risorse riconducibili al concetto di capitale naturale e dei relativi servizi ecosistemici. E, in caso di risposta affermativa, interrogarsi su quali siano i criteri di classificazione. La soluzione sembra essere necessariamente modulare, nel senso che, a seconda della prospettiva da cui si esamina la questione, si può pervenire a classificazioni diversificate (come, per esempio, nel caso di utilizzo dei parametri del servizio erogato, o del contesto territoriale di riferimento, o ancora della risorsa interessata). Per quanto riguarda l’approccio normativo al tema, la distinzione non può che essere operata in relazione alle tecniche regolatrici della materia. Vengono, allora, in evidenza le due forme di disciplina delle attività con impatto sul capitale naturale e i relativi servizi ecosistemici, riconducibili alle nozioni di protezione “bilanciata” e “integrale” dell’ambiente.
Policy La prima attiene al versante dell’attività industriale e riguarda l’insieme di strumenti (quali standard, autorizzazioni, quote di emissione, accordi) finalizzati a trovare un punto di equilibrio tra le esigenze della produzione e quelle dell’ambiente. A tale tecnica di protezione ha fatto riferimento la Corte costituzionale nella nota sentenza n. 85/2013 relativa alla speciale autorizzazione integrata ambientale rilasciata all’Ilva in forza del Dl n. 207/2012, convertito dalla legge n. 231/2012, qualificata come “lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione”, con la precisazione che “una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la verifica dell’efficacia delle prescrizioni”.
Per esplicazioni sulla teoria della protezione integrale dell’ambiente quale elemento distintivo della disciplina delle aree protette vedi G. Di Plinio, P. Fimiani (a cura di), Aree naturali protette. Diritto ed economia, Giuffrè, Milano 2008, cap. 1, 5 e 8.
Viene, in tal modo, a essere riconosciuto e legittimato un ambito di tutela del capitale naturale incentrato sulla individuazione di un’area di rischio consentito per l’impresa, rappresentato dall’ambito legittimamente autorizzato, all’interno del quale l’ordinamento “tollera”, entro limiti predeterminati, forme di aggressione all’ambiente. Tolleranza, questa, che si fonda sul riconoscimento, come ragionevole, del “bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali e il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”, atteso che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate e in potenziale conflitto tra loro. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (così la sentenza Ilva cit.). La nozione di protezione “integrale”, invece, è stata enunciata nella materia delle aree protette, la cui delimitazione risponde all’esigenza di protezione integrale del territorio e dell’ecosistema con la conseguenza che “ogni attività umana di trasformazione dell’ambiente all’interno di un’area protetta, va valutata in relazione alla primaria esigenza di tutelare l’interesse naturalistico, da intendersi preminente su qualsiasi indirizzo di politica economica o ambientale di diverso tipo, sicché in relazione all’utilizzazione economica delle aree protette non dovrebbe parlarsi di sviluppo sostenibile ossia di sfruttamento economico dell’ecosistema compatibile con esigenza di protezione,
ma, con prospettiva rovesciata, di protezione sostenibile, intendendosi con tale terminologia evocare i vantaggi economici che la protezione in sé assicura senza compromissione di equilibri economici essenziali per la collettività, e ammettere il coordinamento fra interesse alla protezione integrale e altri interessi solo negli stretti limiti in cui l’utilizzazione del parco non alteri in modo significativo il complesso dei beni compresi nell’area protetta” (Cons. Stato, sez. VI, n. 1269/2007). Risulta, quindi, chiara l’inversione di prospettiva rispetto alla protezione “bilanciata”: non si parte dall’impresa per regolarne l’attività entro limiti di rischio consentito, ma si ha come riferimento fondamentale il patrimonio dell’area protetta, rispetto al quale ogni iniziativa economica deve recedere, essendo consentito lo svolgimento soltanto di quelle compatibili. In tal caso può anche parlarsi di protezione “prevalente”, proprio perché nessuna mediazione viene attuata: tutto il sistema è incentrato sulla assolutezza e primarietà del patrimonio dell’area naturale e sulla ricerca e attuazione di strumenti per la sua conservazione. Caratteristiche di tale diversa forma di tutela ambientale, che può estendersi anche alla tutela del paesaggio, quale sintesi di valori culturali ed estetici che esprimono la bellezza naturale dei luoghi protetti, sono quindi: •• la limitazione territoriale, sia perché soltanto in zone ben determinate sono presenti particolari valori naturalistici, sia perché il sistema economico non potrebbe tollerare una limitazione generalizzata e totale; •• una organizzazione autonoma per la gestione dell’area protetta, svincolata da legami e condizionamenti da parte dei soggetti (tecnici e politici) che gestiscono altre zone del territorio; •• la presenza di strumenti forti di pianificazione e gestione. A ben vedere, però, queste due forme di protezione del capitale naturale e dei relativi servizi ecosistemici integrano una forma di tutela diretta delle risorse naturali, mediante l’individuazione: •• nella protezione “bilanciata”, di limiti all’attività di impresa al fine di contenerne l’impatto sull’ambiente (sia in termini qualitativi, nella materia dell’inquinamento di origine industriale, sia in termini quantitativi, per quanto riguarda il consumo diretto di risorse naturali); •• nella protezione “integrale”, di forme di tutela speciale dei servizi ecosistemici forniti all’interno di contesti specifici e limitati, in ragione della loro peculiarità (il parco e il paesaggio). Il terzo pilastro della tutela Al contrario, l’economia circolare, proponendo un modello di sviluppo incentrato sulla valorizzazione della qualità dei prodotti in funzione della durata della loro vita, sul loro riutilizzo, sulla prevenzione della formazione dei rifiuti
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Un diverso sistema economico, i cui attori non svolgono attività “aggressive” per l’ambiente, ma producono beni con caratteristiche di durata e suscettibili di adeguato riutilizzo, ovvero si occupano del recupero di rifiuti derivanti da tali beni. L’interesse aziendale, allora, sostanzialmente coincide con quello ambientale.
e, comunque, sul loro recupero, configura una forma di tutela indiretta del capitale naturale, in quanto attuata mediante un sistema economico, sostitutivo di quello tradizionale, che crei le condizioni per limitare al minimo l’utilizzo delle risorse non rinnovabili. L’economia circolare, quindi, non costituisce un bene comune, poiché tale qualifica spetta al capitale naturale, ma identifica il terzo pilastro su cui si fonda la tutela dello stesso e delle sue risorse, in aggiunta a quelli della protezione integrale e bilanciata. Viene, infatti, configurato un diverso sistema economico, i cui attori non svolgono attività “aggressive” per l’ambiente, ma producono beni con caratteristiche di durata e suscettibili di adeguato riutilizzo, ovvero si occupano del recupero di rifiuti derivanti da tali beni. L’interesse aziendale, allora, sostanzialmente coincide con quello ambientale. Si giustificano, quindi, la prevalenza di strumenti volontari, il maggior valore attribuito ad accordi, incentivazioni (procedurali o fiscali), la attenuazione del livello sanzionatorio, a fronte della preferenza per forme di responsabilità finanziaria. Emblematica, in questa prospettiva, è l’evoluzione dei sistemi collettivi che operano su diversi flussi di rifiuti, istituiti in riferimento alla responsabilità estesa del produttore (in Italia corrispondono sostanzialmente al sistema dei consorzi nazionali per il riciclo). Si è, in tal caso, in presenza di imprese private e, quindi, naturalmente orientate al profitto, che però si organizzano per assolvere una funzione
di interesse pubblico, sulla base di uno schema in cui la legge indica i metodi e gli obiettivi, per rispettare i quali le imprese si attrezzano volontariamente, con organizzazioni di diritto privato. Si tratta di una tecnica regolatrice coerente con l’inquadramento sistematico dell’economia circolare quale terzo pilastro della protezione dell’ambiente e con la natura indiretta di tale protezione. Da un lato, infatti, la qualifica come strumento di tutela giustifica l’imposizione normativa dell’obbligo di risultato e di adozione del metodo; l’istituzione dei sistemi collettivi, infatti, proprio in ragione di tale funzione strumentale, non costituisce il frutto di una decisione autonoma e volontaria, ma dipende dalla scelta del legislatore. Dall’altro lato, però, la natura indiretta della tutela ambientale, propria degli strumenti dell’economia circolare e l’assenza, nell’economia circolare, di una netta contrapposizione di interessi tra ambiente e impresa, giustificano la peculiarità di tale obbligazione, vincolata solo nell’an, ma non nel quomodo e disegnata, quindi, come una tipica obbligazione di scopo, rispetto alla quale, cioè, conta il risultato richiesto, mentre è indifferente la modalità con cui viene raggiunto. È, questo, il dato distintivo con la tecnica di protezione bilanciata che, invece, si incentra di regola sulla imposizione di stringenti obblighi gestionali, vincolati e precostituiti in ogni profilo. La previsione di una sfera di autonomia decisionale, sia pure vincolata nel risultato, con l’attribuzione ai sistemi collettivi di un ruolo attivo nella determinazione delle regole e delle procedure, ha, infine, ricadute sulla nozione di democrazia ambientale. E infatti, per effetto di tale previsione, il diritto di partecipazione ai processi decisionali in materia di ambiente, parte fondante della democrazia ambientale, non si esplica più soltanto nella mera consultazione non vincolante delle comunità interessate ai fini della adozione di determinai piani e progetti, ma implica una vera e propria partecipazione attiva al processo definitorio del “modo” di funzionamento di importanti settori dell’economia circolare. Si assiste, quindi, all’emersione di una sorta di “coamministrazione” pubblico/privato, impostazione che rappresenta un ragionevole punto di equilibrio tra la pluralità di proposte, in materia di beni comuni, sulla funzione della parte pubblica, in quanto si colloca a metà tra una soluzione che ipotizza un ruolo di mera autorità regolatrice, in un contesto di laissez-faire alle regole del mercato e un’altra che, sul versante opposto, le affida poteri forti ed esclusivi, sulla falsariga di esperienze di “socialismo reale” già negativamente sperimentate in passato (ed è in tale contesto che è stato recentemente teorizzato il cosiddetto “benicomunismo”).
Policy
Focus Rifiuti
Perché i rifiuti non si trattano tutti allo stesso modo Modelli gestionali diversi per diversi flussi di rifiuti. Con una proposta di codice etico per i compliance scheme.
di Giovanni Corbetta
Giovanni Corbetta è direttore generale di Ecopneus e membro del Comitato di Presidenza della Fondazione Sviluppo Sostenibile.
1. La gestione di un flusso di rifiuti implica il concetto di filiera, intesa come network dedicato, composta da operatori che con specifiche competenze e responsabilità intervengono in sequenza per effettuare tutte le attività necessarie, dalla presa in carico del rifiuto all’avvio a riutilizzo/riciclo dei materiali ricavati o dell’energia prodotta.
Il corretto trattamento dei rifiuti – dalla raccolta ove essi si formano fino alla fine dei processi di lavorazione – necessita, per garantire con stabilità i migliori risultati ambientali e il minimo costo per il cittadino, non solo di un insieme di efficienti ed efficaci attività operative (fisiche) ma, quando non si autosostiene economicamente, anche di una attenta gestione basata su una costante visione di filiera,1 pianificazione e monitoraggio delle attività, sorveglianza degli operatori e tracciamento dei flussi. Per riflettere una concezione moderna e liberista dell’economia, le attività operative andrebbero affidate ad aziende qualificate, esperte e specializzate, spesso multicodice, di cui è ricco il mercato italiano. Le quali, operando in regime di libera concorrenza, sono in grado di assicurare i migliori risultati in termini di costo e livello di servizio.
Più delicato, invece, è stabilire l’inquadramento nazionale del sistema di gestione dei vari flussi, anche in relazione alle varie tipologie di rifiuti, e cioè: •• provenienti dal suolo pubblico e dallo spazzamento delle strade; •• urbani, generati nelle abitazioni; •• speciali, generati nei siti industriali, artigianali, commerciali. La natura merceologica del rifiuto, la sua origine, nonché “l’ambiente” a cui i rifiuti appartengono, determinano flussi molto differenti, che a loro volta richiedono non solo diversi trattamenti operativi ma anche diversi modelli gestionali. I quattro modelli di base L’inquadramento di fondo non può che partire dal Ministero dell’Ambiente, quale massimo livello di responsabilità nel paese
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governata dalle regole del libero mercato
AREA DELLE AZIENDE OPERATIVE, del controllo e del tracciamento di filiera: necessità di filtro etico
AREA DELLA PIANIFICAZIONE, AREA DELLA STRATEGIA E CONTROLLO CENTRALE
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Lo schema delle responsabilità MINISTERO DELL’AMBIENTE
AGENZIE COMPETENTI
CONSORZI
CARTA/ CARTONE PNEUMATICI OLI MINERALI PLASTICA PILE/ BATTERIE ELETTRODOMESTICI
Policy
Per la maggior parte dei flussi, di rifiuti non domestici e provenienti da utenze industriali, si ritiene premiante (e ce lo ricorda anche il legislatore comunitario) il modello della responsabilità estesa del produttore.
che, direttamente o tramite una Agenzia, può alternativamente: 1. rapportarsi direttamente con tutti gli operatori della gestione. Il modello può funzionare solo in presenza di una elevata coscienza civica dei cittadini e delle aziende, ma soprattutto di una elevata capacità di governo e controllo da parte dell’Autorità centrale, responsabile del funzionamento del sistema. Definiamo questo come un modello a responsabilità individuale degli operatori o di mercato libero, con costi e livelli di servizio governati dalla competizione; 2. attribuire la responsabilità della gestione alla autorità locale, che può operare in parte direttamente e in parte indirettamente. Questo approccio richiede una pubblica amministrazione preparata, efficiente, di grande capacità organizzativa, manageriale ed esecutiva. Si tratta di un modello a responsabilità della PA, con costi appoggiati al sistema della tassazione e livelli di servizio imposti; 3. affidare la responsabilità della pianificazione e controllo a una rappresentanza dei soggetti operanti nella filiera. È il modello a responsabilità di filiera, ove i costi, il livello di servizio e l’intero funzionamento risentono del compromesso continuo tra differenti interessi e priorità; 4. affidare la responsabilità ai produttori del bene, secondo il modello della responsabilità estesa del produttore, il soggetto che più di tutti gli altri ha un diretto interesse nel contenimento del costo al cittadino e nel massimo livello di servizi. Responsabilità estesa, il modello più premiante
2. Nel caso di modello impostato sulla responsabilità estesa del produttore, il contributo necessario al trattamento del rifiuto è parte integrante del prezzo, sia che appaia visibile, sia che venga inglobato nel prezzo finale. Infatti il prezzo di vendita, in un regime di responsabilità del produttore, deve corrispondere all’insieme di quanto il produttore garantisce al suo cliente: progettazione secondo le norme vigenti, produzione a regola d’arte, corretta modalità di vendita, garanzia su difetti di fabbricazione e trattamento del prodotto a fine vita utile.
Per la maggior parte dei flussi, di rifiuti non domestici e provenienti da utenze industriali, si ritiene premiante (e ce lo ricorda anche il legislatore comunitario) il modello della responsabilità estesa del produttore. Esso contiene infatti intrinsechi elementi di successo, in quanto il produttore del bene: •• gestisce con impegno per dimostrare che i suoi prodotti non arrecano danni all’ambiente o alla salute delle persone; •• è incentivato ad alleggerire al massimo il prezzo di vendita (che include il contributo ambientale)2 e perciò a studiare beni e prodotti sempre più facilmente riciclabili, eliminando materiali e soluzioni costruttive che rendono le operazioni di recupero più onerose; •• è motivato a garantire un buon livello di servizio a valle della produzione, presso le strutture distributive e i consumatori; •• resta estraneo alle varie fasi della gestione del rifiuti, con miglior possibilità – da una parte – di garantire l’autonomia e l’integrazione della filiera, e dall’altra di facilitare la separazione
dei ruoli, con notevole riduzione dei conflitti di interesse; •• è interessato alla re-immissione dei materiali derivati (punto base della circular economy). Inoltre, il modello della responsabilità estesa del produttore agevola la diffusione, nei servizi di pubblico interesse, della cultura dell’efficienza tipica delle imprese. D’altra parte, la pubblica amministrazione conserva senza inquinamenti le sue prerogative di rappresentazione della cittadinanza, fissando obiettivi e supervisionandone il raggiungimento. I principi fondamentali dell’organizzazione Epr Perché una organizzazione impostata sul modello della responsabilità estesa del produttore funzioni davvero, è necessario che vengano rispettati alcuni principi fondamentali, che potrebbero essere così riassunti: •• l’organismo di gestione deve essere autonomo, con idonea personalità giuridica, dedicato totalmente allo scopo e separato dalla conduzione di altre attività; •• lo Statuto deve essere specificamente approvato dal Ministero dell’Ambiente; •• non deve sussistere fine di lucro né diretto né indiretto (tramite partecipazioni); •• l’organo responsabile della gestione deve essere costituito esclusivamente dalla categoria dei produttori/importatori, cioè da chi immette il bene nel mercato; •• il collegio sindacale deve prevedere la presenza di un componente di nomina ministeriale; •• devono essere specificate nello Statuto le modalità di rendicontazione dell’attività al Ministero dell’Ambiente, sia seguendo le indicazioni ministeriali sia ai fini di progredire verso una completa tracciabilità dei flussi gestiti; •• i responsabili apicali devono sottoscrivere un “Codice Etico” volontario, possibilmente promosso anche in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente; •• deve essere assicurata la copertura a tutto il territorio nazionale e per tutte le tipologie di rifiuti comprese nel perimetro della gestione affidata; •• le attività operative non possono essere effettuate da aziende possedute, partecipate o controllate né direttamente né indirettamente; esse devono essere assegnate tramite gare aperte a tutte le aziende in possesso dei requisiti minimi; •• deve essere garantita grande trasparenza verso tutti, con pubblicazione in internet delle informazioni e dei dati rilevanti (modello organizzativo, soci, partner, bilanci), indicati dal Ministero dell’Ambiente; •• i valori del contributo devono essere
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determinati in correlazione ai costi complessivi di gestione e devono restare esenti da influenzamenti di natura commerciale o finanziaria; il calcolo del contributo deve essere documentato al Ministero dell’Ambiente. Punti fragili dei modelli non Epr
Per ottenere e mantenere l’autorizzazione del Ministero dell’Ambiente a gestire una filiera di rifiuti, ogni organizzazione interessata debba, contestualmente alla presentazione dello Statuto, consegnare obbligatoriamente il proprio Codice Etico.
Vi sono comunque flussi di rifiuti per i quali possono risultare più idonei schemi di gestione diversi dall’Epr. Essi pongono però alcuni delicati problemi: •• il modello a “responsabilità della pubblica amministrazione”, presenta due rilevanti controindicazioni: il conflitto di interessi tra controllore (la PA stessa nel suo ruolo amministrativo) e il controllato (la PA nel suo ruolo di rappresentante dei beneficiari del servizio) e la distonia tra gli strumenti a disposizione (impostati per amministrare la res pubblica) e quelli necessari per garantire elevata efficienza ed efficacia; •• il modello del “mercato libero” è poco compatibile – allo stato attuale – con il livello di cultura civica dei cittadini, delle aziende e dei soggetti coinvolti e con le possibilità della PA di effettuare attenti e frequenti monitoraggi e controlli; •• il modello della “responsabilità di filiera” vede un sistema di ripartizione tra rappresentanti della fornitura dei materiali di produzione, dei produttori del bene, della raccolta, trasporto e lavorazione dei rifiuti e dell’utilizzo dei materiali derivati. Il rischio è che si costituisca un centro autoreferenziale che deve continuamente trovare delicati equilibri interni. Infatti, i soggetti della filiera hanno obiettivi contrastanti sia di natura operativa sia economica e spesso tendono a privilegiare i propri rappresentati anziché il cittadino/consumatore. Nei sistemi appartenenti a queste tre categorie si lamentano spesso sprechi di risorse, inefficienze, tariffe in aumento, insoddisfazione sul servizio, opacità nei comportamenti. Pertanto, se si decidesse di implementarli occorrerebbero probabilmente nuovi correttivi. La proposta di un codice etico per i compliance scheme: una bozza per la discussione La proposta è che, per ottenere e mantenere l’autorizzazione del Ministero dell’Ambiente a gestire una filiera di rifiuti, ogni organizzazione interessata debba, contestualmente alla presentazione dello Statuto, consegnare obbligatoriamente il proprio Codice Etico, sottoscritto dai vertici apicali (presidente, amministratore delegato, amministratore, direttore generale), che preveda almeno i seguenti impegni:
1. Costituire/mantenere l’organizzazione con gestione autonoma, che sia: •• dedicata totalmente ed esclusivamente alla filiera di rifiuti, come individuata nello Statuto e all’unico scopo ivi esplicitamente declinato (per esempio: pianificazione, controllo e tracciamento dei flussi; gestione delle attività correnti, dello sviluppo e della comunicazione; amministrazione del contributo); •• limitata nelle attività a quelle strettamente necessarie al perseguimento dello scopo, senza conduzione di altre attività, in particolare operative, a evitare conflitti di interesse con il proprio ruolo di gestione super partes della filiera; •• improntata costantemente ai principi di oggettività, trasparenza e non discriminazione. 2. Mantenersi estranei ad attività commerciali correlate, allo scopo dell’organizzazione ed evitare ogni forma di comportamento potenzialmente distorsivo della concorrenza, relativamente alla gestione sia dei rifiuti sia dei prodotti che li originano. Garantire la massima riservatezza a tutti i soci, sia tra di loro sia verso l’esterno della organizzazione. 3. Accettare in qualità di soci solo aziende che immettono nel mercato gli specifici beni/ materiali che diventano poi oggetto della propria gestione, una volta giunti a fine vita. Assicurare a tutti i soci parità di trattamento. 4. Facilitare l’inserimento e l’attività di un componente di nomina ministeriale nel collegio sindacale. 5. Evitare di trasferire ai soci qualsiasi beneficio economico, sia diretto sia indiretto. 6. Affidare le singole attività operative, che non possono essere effettuate da aziende possedute, partecipate o controllate né direttamente né indirettamente, ad aziende identificate tramite gare aperte a tutte le aziende in possesso dei requisiti minimi dichiarati. 7. Assicurare copertura su tutto il territorio nazionale e per tutte le tipologie di rifiuti comprese nel perimetro dettato dalla norma, senza alcuna discriminazione di raccolta e di trattamento. 8. Segnalare costantemente ai propri soci le opportunità di immettere nel mercato beni/ materiali sempre più facilmente riciclabili, riprogettando i propri prodotti ed eliminando materiali e soluzioni costruttive che rendono le operazioni di recupero più onerose. 9. Garantire ai cittadini reale trasparenza su tutte le attività svolte, pubblicando in internet le informazioni e i dati rilevanti (modello organizzativo, soci, partner, conto economico, progetti di sviluppo). 10. Segnalare immediatamente al Ministero dell’Ambiente ogni variazione a Statuto e Codice Etico introdotta successivamente alla loro approvazione.
Policy
Focus Rifiuti
Il sistema di gestione degli imballaggi: valutare l’albero dai suoi frutti Avviato più di 15 anni fa il sistema Conai ha consentito di raddoppiare la quantità raccolta di rifiuti da imballaggio destinati al recupero e riciclo. Pari oggi a circa 8 milioni di tonnellate, equivalente al 68% dell’immesso al consumo. E rileggendo il cammino fatto in questi anni si possono mettere meglio a fuoco i prossimi passi da fare nella definizione dei modelli di gestione delle varie tipologie di rifiuti. di Edo Ronchi
Nel 1997 l’80% dei rifiuti urbani veniva smaltito in discarica: una quantità pari a circa 22,3 milioni di tonnellate. Nello stesso anno la raccolta differenziata era al 9% come media nazionale: il 17% al Nord,
il 6,3% al Centro e l’1,4% al Sud. Anche le frazioni più note degli imballaggi venivano raccolte in quantità modeste: 782.000 tonnellate di carta e cartone, 643.000 tonnellate di vetro e solo 96.000 tonnellate
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Edo Ronchi, dal 2008 è Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile. È stato Ministro dell’Ambiente durante la XIII legislatura (1996-2000).
di plastiche. La quantità totale dei rifiuti raccolti in modo differenziato nel 1997 era pari a soli 2,5 milioni di tonnellate. Nel primo anno di funzionamento, il 1998, il sistema Conai-consorzi di filiera partiva con un avvio al recupero di 3,57 milioni di tonnellate di rifiuti di imballaggio, pari al 34% degli imballaggi immessi al consumo. Nel 2013 lo smaltimento dei rifiuti urbani in discarica è sceso al 36,8% e si è dimezzato anche come quantità rispetto al 1997 con 10,9 milioni di tonnellate, nonostante la produzione di rifiuti urbani sia cresciuta a circa 29,6 milioni di tonnellate. La raccolta differenziata è salita nel 2013 al 42,3% come media nazionale: il 54,4% al Nord, il 36,6% al Centro e il 28,8% al Sud. Le frazioni raccolte in modo differenziato sono notevolmente aumentate: a 3,05 milioni di tonnellate quella della carta, a 1,6 milioni di tonnellate quella del vetro, a 945.000 tonnellate quella delle plastiche. Il totale dei rifiuti urbani raccolti in maniera differenziata è salito a 12,5 milioni di tonnellate. Nel 2013 sono stati ben 7,6 i milioni di tonnellate di imballaggi (diventati circa 8 milioni nel 2014) avviati al riciclo e recupero dal sistema Conai-Consorzi di filiera, pari al 68% dell’immesso al consumo. In pratica, da quando è partito, il sistema Conai ha più che raddoppiato sia la percentuale, sia la quantità dei rifiuti di imballaggio recuperati. Anche se non tutti i problemi sono stati risolti, in particolare in alcune aree del Mezzogiorno, questi sono numeri chiari che indicano un importante cambiamento avvenuto in Italia con la riforma della gestione dei rifiuti introdotta nel 1997: cambiamento positivo, come pochi altri in campo ambientale, al quale ha certamente contribuito in modo rilevante l’istituzione e l’attività del sistema Conai-Consorzi di filiera. Vi ha contribuito direttamente con circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti di imballaggio avviati al riciclo e al recupero – il flusso di rifiuti di gran lunga più consistente delle raccolte differenziate – e, indirettamente, perché il contributo ambientale raccolto dal Conai ha sostenuto, per tutti questi anni, lo sviluppo delle raccolte differenziate a livello comunale. Nel dibattito sui modelli di sistemi per l’attuazione della responsabilità estesa dei produttori va – a mio avviso – tenuto ben presente un criterio base: un sistema va valutato
Trend della raccolta differenziata in Italia, 1997 e 2013
1997
Raccolta differenziata 17%
6,3% 1,4%
Smantimento rifiuti urbani in discarica Raccolta differenziata: media nazionale 9%
per i risultati che ha prodotto, che produce e che è in grado di produrre. E se si parte dai numeri, e non dai preconcetti, è difficile non vedere che il sistema Conai-Consorzi di filiera ha funzionato egregiamente. Questo sistema è stato progettato “per il raggiungimento degli obiettivi globali di recupero e riciclaggio e per garantire il necessario raccordo con l’attività di raccolta differenziata effettuata dalle Pubbliche Amministrazioni”, come si legge nel Dlgs 22/97 che lo ha istituito. Ovviamente c’era la direttiva imballaggi da attuare, ma quando si progettò quel sistema – ricordo bene – si pensò, più in generale, alla necessità di aumentare notevolmente il riciclo dei rifiuti urbani e di abbattere lo smaltimento in discarica, quindi a come implementare, estendere a tutti i Comuni e far crescere le raccolte differenziate, allora inesistenti o simboliche. Il sistema Conai fu quindi progettato per: •• assicurare comunque il ritiro della gran parte dei rifiuti selezionati provenienti dalle raccolte differenziate che non si sarebbero mai sviluppate se i Comuni, in tutto il territorio nazionale, non fossero stati sicuri di poter collocare le frazioni raccolte e di ricevere un corrispettivo;
80%
Consorzio nazionale imballaggi, www.conai.org
Policy
2013
Raccolta differenziata
Ovviamente ogni sistema è migliorabile e anche questo non è stato probabilmente esente da limiti, ma chiunque lo valuti in base ai risultati non può non riconoscere che ha funzionato e che questo suo funzionamento deriva proprio da queste sue finalità e caratteristiche, scritte senza incertezze nel Dlgs 22/97.
54,4%
36,6% 28,8%
Raccolta differenziata: media nazionale
Smantimento rifiuti urbani in discarica
42,3%
Decreto Legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 “Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio”, www.reteambiente.it/ normativa/290/
36,8%
•• permettere il raggiungimento degli obiettivi quantitativi europei obbligatori di riciclo e di recupero degli imballaggi, complessivi e per ogni singola filiera di materiale; •• assicurare, con un sistema controllato e controllabile, che i rifiuti d’imballaggio raccolti in maniera differenziata fossero effettivamente avviati al recupero o al riciclo presso recuperatori o riciclatori in regola e qualificati (e non finissero invece in discarica o ad alimentare gestioni illegali, nel paese dove le illegalità nel settore erano note e diffuse); •• spingere verso una buona qualità delle raccolte differenziate per aumentare il rendimento del riciclo e per limitare gli scarti da smaltire; •• assicurare la copertura dei costi delle raccolte differenziate, organizzate con criteri di efficacia e di efficienza (non incoraggiando gestioni inefficienti) prevedendo – se i ricavi non fossero sufficienti a coprire i costi del recupero e del riciclo – che anche il delta di questi costi fosse coperto ripartendone gli oneri tra i produttori e gli utilizzatori di imballaggi; •• organizzare, quindi finanziare, anche campagne di informazione a sostegno della partecipazione dei cittadini al nuovo sistema.
Alcuni sostengono che questo sistema sia poco concorrenziale e poco aperto al mercato. I produttori e gli utilizzatori di imballaggi in Italia sono molte decine di migliaia: assicurare un loro effettivo coinvolgimento e ridurre al minimo il rischio dell’elusione del versamento del contributo ambientale erano obiettivi di primaria importanza. Si pensò quindi di rendere obbligatoria la loro adesione al Conai valorizzandone l’autonomia, quale organizzazione con personalità giuridica di diritto privato che elabora il proprio Statuto, soggetto all’approvazione da parte dei Ministeri dell’Ambiente e, allora, dell’Industria. Definiti gli obblighi generali, in modo da assicurare che il sistema funzionasse, si cercò, senza stravolgerlo, di renderlo più flessibile stabilendo che i produttori di imballaggi potessero adempiere ai loro obblighi, oltre che aderendo a uno dei consorzi di filiera del Conai per ciascuna tipologia di materiale di imballaggi (per la carta, il vetro, la plastica, l’alluminio, il legno e l’acciaio), anche organizzando in alternativa autonomamente la gestione dei propri rifiuti d’imballaggio, oppure mettendo in atto un sistema cauzionale. Altra obiezione: perché non moltiplicare anche i consorzi di filiera? Più consorzi per la carta, per la plastica, per il vetro? Si dà il caso che, mentre i produttori di pneumatici sono alcune decine e quelli delle apparecchiature elettriche ed elettroniche alcune centinaia, i produttori e gli importatori di imballaggi sono, come si è detto, molto più numerosi: l’apertura libera ed effettiva a una pluralità di soggetti nelle singole filiere di imballaggi potrebbe produrre diverse decine di consorzi (o di organizzazioni equivalenti). Un sistema formato da decine di consorzi di filiera, in concorrenza fra loro, sarebbe molto difficile da controllare e governare, aumenterebbe la possibilità di elusione del contributo ambientale attraverso la costituzione di consorzi di comodo, renderebbe il quadro dei rapporti con i Comuni instabile e precario e il raggiungimento degli obiettivi europei di recupero e di riciclo molto problematico.
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Focus Rifiuti
I confini del rifiuto Ormai è spostato sempre più avanti il momento in cui un rifiuto diventa tale. Ma le normative comunitaria e nazionale devono adeguarsi e sostenere questa nuova tendenza. di Paola Ficco
Paola Ficco, giurista ambientale, avvocato.
La gerarchia delle priorità nella gestione dei rifiuti è definita – a livello sia comunitario sia nazionale – da ormai diversi anni. In questa gerarchia la prevenzione occupa il primo posto, ma la sua realizzazione appare piuttosto complessa, poiché necessita di una serie coordinata di azioni congiunte tra tutti gli attori sociali. Azioni che oggi, invece, avanzano in modo scomposto e si posizionano più sulla forma che sulla sostanza. Infatti, si tende a modificare, spostandolo in avanti, il momento in cui un rifiuto diventa tale (fine del suo ciclo di vita e non più fine del suo ciclo di utilità per qualcuno – “disfarsi”). Così, in modo semplicissimo, i rifiuti cessano di esistere senza che a questo corrisponda un disegno unitario anche in termini di parità di trattamento con gli impianti industriali di riciclo. È solo una sfumatura lessicale, ma è potentissima. La differenza non è nel materiale; è solo nel nome. Così quello che in precedenza era sempre e sistematicamente un rifiuto, dove dominava il concetto di “disfarsi”, oggi si sta
trasformando (sotto il profilo della gestione) in qualcosa che rifiuto non è perché si allunga il suo ciclo di vita. Per non essere rifiuti, basta che si parli di riutilizzo e che gli “ex rifiuti” non vadano in un impianto di recupero autorizzato per i rifiuti, ma in un altro luogo che, pur essendo nella sostanza un impianto di recupero (la cernita, per esempio, è una operazione preliminare al recupero – R12– che va autorizzata),1 nella forma si comporta come non lo fosse. Quindi, nessun adempimento di quelli tipici afferenti la gestione dei rifiuti (autorizzazioni, formulari, registri, fideiussioni ecc., confronto sistematico con la Pa, sicurezza nei luoghi di lavoro ecc.) a tutto svantaggio della concorrenza leale tra imprese, che si polverizza sotto il maglio di esigenze sovraordinate quali le iniziative di solidarietà sociale e la riscoperta della voglia di aggiustare tutto e di non buttare nulla (Do it yourself, Fixer, Repair café ecc.). Si tratta allora di capire se e come la legislazione di riferimento comunitaria e nazionale, sostenga
Policy
questa nuova tendenza; mentre a livello locale si moltiplicano piani di prevenzione che del riutilizzo dei non rifiuti fanno il loro credo principale. Quindi, il riutilizzo dei non rifiuti e il riciclaggio dei rifiuti sembrano ormai essere in una non sanabile rotta di collisione, dove per eliminare gli sprechi (e quindi i rifiuti) moltissime cose si accingono a uscire dal ciclo del controllo del sistema pubblico che, con i piani di prevenzione, tale sistema conferma e avalla, modificando di fatto la nozione di rifiuto.
1. Cfr. Allegato C, parte IV, Dlgs 152/2006, nota n. 7 all’operazione R12: “in mancanza di un altro codice R appropriato, può comprendere le operazioni preliminari precedenti al recupero, incluso il pretrattamento come, tra l’altro, la cernita, la frammentazione, la compattazione, la pellettizzazione, l’essiccazione, la triturazione, il condizionamento, il ricondizionamento, la separazione, il raggruppamento prima di una delle operazioni indicate da R1 a R11”.
2. Sentenza CGCE 15 giugno 2000 (C418/97 e C-419/97, ARCO), punti da 36 a 40; Sentenza CGCE 18 aprile 2002 (C-9/00, Palin Granit Oy), punto 23: “la politica della Comunità in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo”. In questa prospettiva Cass. Pen. Sez. III 19 gennaio 2007, n. 1340 ha stabilito che nella definizione di rifiuto non assume rilievo la circostanza che il disfarsi avvenga attraverso lo smaltimento o il recupero; ciò sulla base dell’interpretazione anche delle decisioni della Corte di Giustizia Ue, che sono immediatamente e direttamente applicabili in ambito nazionale, secondo cui la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, atteso che la protezione della salute umana e dell’ambiente verrebbe ad essere compromessa qualora l’applicazione delle direttive comunitarie in materia fosse fatta dipendere dalla sola intenzione (realizzabile o meno a seconda di determinate eventualità) di escludere o meno una riutilizzazione economica da parte di altri delle sostanze o degli oggetti di cui si disfa o si sia deciso e si abbia l’obbligo di disfarsi.
Da rifiuto a risorsa
I rifiuti e lo spreco sono una preoccupazione ambientale, ma anche un cruciale problema economico. Del resto, a parte le definizioni legislative, il rifiuto è una risorsa messa in un posto sbagliato. Prevenire la formazione dei rifiuti significa dissociare la crescita economica dagli impatti ambientali a essa connessi. Occorre dunque un nuovo approccio che consideri l’intero ciclo di vita dei prodotti per sostituire l’usa e getta con il modello di economia circolare, facendo sì che i prodotti vadano “dalla culla alla culla” e non “dalla culla alla tomba”. Ma l’economia circolare non si realizza cambiando nome a quelli che, allo stato attuale della legislazione, sono rifiuti. Per rimettere in circolo le risorse e riavviare il processo produttivo occorre una vera e propria rivoluzione culturale che passi anche attraverso la modifica della nozione legislativa di “rifiuto” (ovviamente, a livello europeo). Oppure, si dovrà procedere “caso per caso”. Come sembra ipotizzare il Commissario Ue all’Ambiente in un’intervista al Sole 24 Ore dello scorso 26 maggio: “vogliamo che le nostre proposte riguardo ai rifiuti siano più specifiche per paese, 3. Cass. Pen. sez. III, 9 maggio 2013, n. 19955 tali da migliorare l’adozione ha ricordato che è sbagliato attribuire al Dm delle politiche a livello locale. 5 febbraio 1998 una portata generale che Dovremo quindi verificare obiettivamente non ha, essendo “riferita con attenzione problemi alle sole operazioni di recupero soggette a procedura semplificata” tra le quali non di violazione delle regole, rientrano quelle autorizzate in via ordinaria. essenziale per assicurare una effettiva applicazione”.
L’Europa, dunque, sembra avviarsi al caso per caso. E l’Italia mai come ora si trova a un bivio dove la complessità e l’onerosità del sistema di gestione dei rifiuti si scontra con la necessità di recuperare risorse senza troppi vincoli e condizionamenti. La fondamentale ambiguità della definizione di “rifiuto” è antica, ma è stata risolta dalla Corte Ue.2 In questo momento il problema della mancanza di regole chiare e uguali per tutti si è amplificato con la globalizzazione economica accompagnata dalla sempre più dirompente finanziarizzazione del capitalismo e dell’economia mondiale. Il più che concreto rischio oggi è che, a parità di materiale, il dovuto obbligo di solidarietà diventi lo strumento per aggirare la disciplina a detrimento di chi, invece, se ne fa carico. La disciplina di riferimento e il non rinunciabile paradigma delle definizioni Le norme in materia di riciclo e recupero sono contenute ovviamente nel “Codice ambientale” (articoli 208, 214 e 216) nonché nel Dm 5 febbraio 1998 (per il recupero agevolato dei rifiuti non pericolosi),3 nel Dm 12 giugno 2002, n. 161 (per il recupero agevolato dei rifiuti pericolosi dove non è compreso il recupero energetico) e nel Dm 17 novembre 2005, n. 269 (per il recupero agevolato dei rifiuti pericolosi provenienti dalle navi). Si ritiene sia estremamente evidente come la legislazione di riferimento (Dlgs 152/2006) si occupi di riutilizzo di rifiuti che esitano da un processo di preparazione per il riutilizzo e non di prodotti che, pur riparati/puliti ecc. non entrano nel processo di preparazione per il riutilizzo. Questo perché il Dlgs 152/2006 disciplina solo le attività di gestione dei rifiuti e non l’utilizzo o l’impiego di beni e prodotti che non rientrano nella definizione di rifiuto. Il che deve condurre a capire cosa sia un rifiuto. L’annoso dilemma si ricollega al significato del termine “disfarsi” ma, nonostante i richiamati interventi della Corte di Giustizia Ue, le azioni locali sul territorio nazionale, sono spesso molto distanti dall’acquis comunitario,4 soprattutto in presenza di progetti di solidarietà sociale. Nella prospettiva comunitaria, •• Cass. Pen. sez. III 2 dicembre 2014, n. 50309 ha valorizzato, ai fini della non ricorrenza del concetto di “disfarsi”, la irrilevanza dell’ottica altrui nello sfruttamento del bene. Infatti, ha affermato che per valutare se un residuo costituisca rifiuto o meno, occorre porsi nell’ottica esclusiva del soggetto che lo produce (o lo detiene) e non in quella di chi ha interesse al suo utilizzo. Con questa motivazione la Corte ha confermato la condanna per gestione non autorizzata di rifiuti nei confronti del titolare di un’impresa che acquistava da imprese terze pallets difettati, non riutilizzabili tal quali, per poi ripararli e rivenderli. La Suprema Corte ha sottolineato che il termine “disfarsi”, previsto dalla definizione ufficiale di rifiuti, comprende
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materiarinnovabile 06-07. 2015 gli oggetti ormai inservibili e destinati a essere dismessi da colui che li possiede, anche mediante un negozio giuridico. Non rileva pertanto l’interesse che altri possa avere allo sfruttamento del bene non più utile al suo detentore, “poiché tale interesse non trasforma il rifiuto in qualcosa di diverso”. Non essendo “certa sin dall’inizio” la destinazione al riutilizzo di un manufatto (nella fattispecie pallets) è escluso anche che lo stesso possa essere considerato sottoprodotto. La sua riparazione, di conseguenza, rappresenta un’attività di recupero di rifiuti e deve essere autorizzata a norma di legge; •• Cass. Pen. Sez. III 19 dicembre 2014, n. 52773 si è pronunciata in termini di assoluta definitività quando ha stabilito che non c’è alcun dubbio che il materiale florovivaistico di scarto, depositato in maniera incontrollata in area demaniale, costituisca oggettivamente un rifiuto. A prescindere dall’esame delle diverse e note posizioni di dottrina e giurisprudenza sulla corretta individuazione del termine “disfarsi” presente all’interno della definizione di “rifiuto” (articolo 183, Dlgs 152/2006), 5. In questa occasione, sulla scorta di infatti, la Suprema Corte è pregressa giurisprudenza, la Suprema Corte ha precisato che il reato di abbandono di “assolutamente certa che, rifiuti (articolo 256, comma 2, Dlgs 152/2006) secondo i principi generali è configurabile nei confronti di qualsiasi ormai consolidati, debba soggetto che abbandoni rifiuti nell’ambito ritenersi inaccettabile ogni di una attività economica esercitata valutazione soggettiva della anche di fatto, indipendentemente da una natura dei materiali da qualificazione formale sua o dell’attività medesima. classificare o meno quali rifiuti”.5 4. Il termine acquis comunitario è usato all’interno della Ue con riferimento all’insieme di norme comunitarie che si sono avvicendate fino a oggi. Il termine è usato anche in riferimento alle leggi adottate sotto il Trattato di Schengen, prima della sua integrazione tra le fonti legislative da parte del Trattato di Amsterdam, ove ci si riferisce all’acquis di Shengen. Durante il processo di allargamento dell’Unione europea, l’acquis è stato suddiviso in 31 capitoli ai fini della negoziazione tra Ue e stati candidati al quinto allargamento (i dieci che hanno aderito nel 2004 più Romania e Bulgaria). L’Ambiente è uno di questi capitoli.
In ordine alle (altre) definizioni si osserva che l’articolo 183, comma 1, Dlgs 152/2006 fornisce le seguenti: s) trattamento operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento; t) recupero qualsiasi operazione il cui principale 6. Gu n. 245 del 18 ottobre 2013. risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale…” (quindi il rifiuto da tempo non è più una passività); u) riciclaggio qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i rifiuti sono trattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini. Include il trattamento di materiale organico ma non il recupero di energia né il ritrattamento per ottenere materiali da utilizzare quali combustibili
o in operazioni di riempimento (quindi, il riciclaggio è una operazione di recupero). Si è già detto che la disciplina sui rifiuti non si occupa dei prodotti. Per questo motivo è stata coniata la “preparazione per il riutilizzo” da cui esitano prodotti che possono essere oggetto di “riutilizzo”. Anche queste operazioni sono definite dall’articolo 183, comma 1, Dlgs 152/2006: q) preparazione per il riutilizzo le operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento; r) riutilizzo qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti. Anche il profilo sistematico (il riutilizzo – lett. rsegue la preparazione per il riutilizzo – lett. q) conferma il fatto che è riutilizzabile come “non rifiuto” solo quello che proviene dalla preparazione per il riutilizzo essendo essa propedeutica al riutilizzo. Il piano nazionale di prevenzione dei rifiuti di cui al Dd 7 ottobre 20136 sul riutilizzo è piuttosto confuso e rimette tutto ai futuri Dm di cui all’articolo 180-bis, comma 2, Dlgs 152/2006 che dovranno definire le modalità operative per la costituzione e il sostegno di centri e reti accreditati di riparazione/riutilizzo, ivi compresa la definizione di procedure autorizzative semplificate e di un catalogo esemplificativo di prodotti e rifiuti di prodotti che possono essere sottoposti, rispettivamente, a riutilizzo o a preparazione per il riutilizzo. La natura delle norme in materia di rifiuti Le norme in materia di rifiuti sono norme di diritto pubblico poiché riguardano l’organizzazione dello stato e degli altri enti pubblici e i rapporti nei quali lo stato o gli altri enti pubblici possono esercitare un potere di comando nei confronti dei cittadini; quindi, non possono essere derogate con atti di diritto privato. Pertanto, si ritiene che l’istituto della donazione non faccia perdere a quanto immesso nei cassonetti recanti la scritta “donazione” la natura di rifiuti. Anche i rifiuti hanno valore commerciale ma l’ordinamento ha voluto massimizzarne il controllo e la tracciabilità e, per esempio nel caso degli abiti usati, anche l’igiene prima di poter essere reimmessi nel circuito commerciale o di utilizzo, come previsto dal Dm 5 febbraio 1998. Inoltre, le norme in materia di rifiuti sono norme di stretta interpretazione; quindi in caso di dubbio l’interprete non può attribuire alle disposizioni un significato restrittivo o lesivo dei diritti fondamentali da esse previste. Per questo motivo le norme che prevedono situazioni di favore (es. sottoprodotti) integrano gli estremi “di disposizioni aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, con la conseguenza che, come
Policy più volte affermato da questa Corte, l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere assolto da colui che ne invoca l’applicazione” (Cass. Pen. sez. III 27 giugno 2012, n. 25358).7 Pertanto, la rigidità della definizione di “rifiuto” impone sempre la 7. Conf. ex multis. Sez. 3, n. 9794, 8 marzo 2007; Sez. 3, 37280, 1 ottobre 2008; Sez. 3, n. dimostrazione del contrario a 35138, 10 settembre 2009; Sez. III, n. 17126, carico del soggetto che vuole 17 aprile 2015. agire il regime di favore. Anche in caso di riutilizzo. Le deroghe La direttiva 2008/98/Ce promuove una “società del riciclaggio” e non del riutilizzo. Qui si trova una ulteriore conferma del fatto che il riutilizzo è posto a valle della preparazione per il riutilizzo che è una operazione di recupero di rifiuti e che, come tale, va sempre autorizzata. È strano, ma quando si parla di economica circolare tutti cercano di sbarazzarsi del concetto di rifiuto. E invece i rifiuti sono la sorgente dell’economia circolare e con questi occorre confrontarsi, anche sotto il profilo amministrativo, ricordando sempre alla Pa che, in materia di ambiente, è titolata del potere esecutivo e non di quello legislativo esclusivo.
È strano, ma quando si parla di economica circolare tutti cercano di sbarazzarsi del concetto di rifiuto. E invece i rifiuti sono la sorgente dell’economia circolare e con questi occorre confrontarsi.
Si è già detto che la legge non è flessibile. Quando ha voluto esserlo lo ha fatto in modo esplicito e diretto, senza confusione e ambiguità. Vediamo come e quando: 1) ha escluso esplicitamente dal campo di applicazione della disciplina sui rifiuti alcune cose •• art. 185, Dlgs 152/2006 esclusione dal campo di applicazione (es. materiale agricolo usato per produrre energia); •• legge 426/1998 art. 4, punto 21 (Gli scarti derivanti dalla lavorazione di metalli preziosi avviati in conto lavorazione per l’affinazione presso banchi di metalli preziosi non rientrano nella definizione di rifiuto di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e pertanto, limitatamente a tale disposizione, non sono soggetti alle disposizioni del decreto stesso. Nel termine “affinazione” di cui al presente comma si intendono ricomprese tutte le operazioni effettuate sugli scarti dei metalli preziosi, che permettono di liberare i metalli preziosi dalle sostanze che ne alterano la purezza o ne precludono l’uso; 2) ha impedito esplicitamente che qualcosa transitasse nel mondo dei rifiuti, ma non “mascherandolo” da prodotto bensì stabilendo per legge il non concretarsi del concetto di “disfarsi” con la legge 155/2003 (cd. “del Buon Samaritano”) in ordine ai prodotti alimentari. Scorciatoie diverse, basate sulla lettura personalistica del concetto di rifiuto inducono una inevitabile disparità di trattamento che produce eventi privi di direzione, sdoganati dal passaporto della “solidarietà”, dove il rifiuto (con la sua mole di adempimenti,
oneri, garanzie finanziarie, autorizzazioni, controlli, patemi e incertezze) semplicemente non esiste. Occorre chiarezza e questa non può essere fatta semplicemente allargando le maglie della “legge del Buon Samaritano”; diversamente un pericoloso smarrimento potrebbe attraversare il nostro fragile sistema di gestione dei rifiuti intesi come risorse. Un passaggio epocale L’economia circolare segna un passaggio epocale, ha il difetto di essere ardito, ma il pregio di essere inevitabile. Occorre allora risalire un sentiero perché i segni predisposti sul terreno sono stati mossi e confusi e le tracce esatte dei confini sono perdute. E allora il rifiuto deve essere liberato dal disagio del “disfarsi”, tornando al concetto di abbandono e di res nullius; deve essere affrancato dalla morsa della giurisprudenza Ue che obbliga a una interpretazione restrittiva della relativa nozione. Questo è il passaggio più difficile, dove aspettano prove inattese, saperi e spessori ancora non sufficienti per cambiare le regole del gioco. Eppure va fatto perché il geometrico fluire della realtà dei fatti è semplice: i rifiuti devono essere solo quelli che arrivano in discarica. Il resto è risorsa. Se questa soluzione appare troppo “ardita” o “sconveniente” occorrerà in subordine chiarire che il riutilizzo riguarda solo quanto esita dalla preparazione per il riutilizzo. Sarà questa una possibile ed estremamente praticabile via per ridare fiato alla potente (e mai fino in fondo compresa) industria nazionale del riciclo. Se il mercato è davvero libero, le regole devono essere più che mai chiare e uguali per tutti. Diversamente, l’economia circolare si scontrerà con più di un imbarazzo interpretativo dovuto alle definizioni di cui a oggi si dispone. Il che è ancora più foriero di rischi alla luce della nuova legge sui delitti ambientali (68/2015). Ma fino a quando si avrà il pudore delle parole e il delirio di norme fintamente prudenti, assisteremo alla concorrenza sleale che legalissimi sistemi di raccolta e riciclo di “non rifiuti” (dove gli investimenti sono minimi e per lo più in forza lavoro a basso costo) fanno ad altrettanto legalissimi sistemi che (con un perenne “confronto” con la Pa, investimenti in opere e mezzi, con personale specializzato, soggetto a formazione continua e assistito da piattaforme sindacali), operano sui “rifiuti”. Si è già detto che la differenza non è nel materiale, è solo nel nome. Un virtuosismo. Del resto, pecunia non olet. Sarà questo uno dei molti, difficilissimi, banchi di prova del decisore politico.
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Focus Rifiuti
RAEE:
un problema, più soluzioni
Intervista a Danilo Bonato
a cura di Antonio Cianciullo
Ogni anno nel mondo si producono 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettrici ed elettronici. E continuano a crescere al ritmo del 7-10% l’anno. In Europa le soluzioni per gestire questa montagna di rifiuti sono diverse, ma tutte devono mettere assieme tutela ambientale, qualità del servizio e mercato.
Danilo Bonato è membro del Comitato di Alto Livello Materie Prime – Commissione europea e direttore generale di ReMedia, il consorzio di riferimento nella gestione ecosostenibile dei rifiuti tecnologici.
È la tecnologia di punta. Quella che abbiamo sempre in mano, divisi tra l’innamoramento per l’innovazione dell’ultima ora e l’ansia per la fragilità temporale di questa effimera straordinarietà, condannata a invecchiare e scomparire nello spazio di poche stagioni. Palmari sempre più multitasking, tablet pronti a trasformarsi in pc, pc che si mimetizzano da tablet, orologi che miniaturizzano il web, medici portatili che misurano i battiti del cuore mentre corri. O anche oggetti con cui il dialogo è meno spinto ma l’attesa di prestazioni ugualmente alta: elettrodomestici di cui studiamo con attenzione le performance energetiche, pronti a sentirci in difetto se non sono abbastanza elevate e ci addossano una quota aggiuntiva della colpa climatica; lampade di cui misuriamo con occhio
critico la qualità della luce in continuo raffronto con la bolletta; caldaie che devono mantenere risultati da primato. Ebbene – come sappiamo – tutte queste meraviglie restano tali per un tempo sempre più breve. La loro sorte attuale è triste: dopo una breve stagione di gloria si trasformano in vigilati speciali, rifiuti potenzialmente pericolosi, oggetti concupiti dalla criminalità organizzata. Ma non è un destino senza appello. Possono rinascere: subito, attraverso un avanzato intervento di remanufacturing; o in seguito, recuperando i materiali e assemblandoli in nuovo modo. Il futuro di questa categoria di oggetti chiamati Raee (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) è dunque emblematico.
Policy
Danilo Bonato
Per il loro ritmo di crescita (7-10% l’anno a livello mondiale) e per la strategicità del settore rappresentano un assieme importante che richiede il massimo sforzo organizzativo per il recupero. Ma qual è l’assetto migliore da schierare in campo? Qual è la soluzione organizzativa migliore? “Le soluzioni possibili sono varie e non è detto che ce ne sia solo una vincente”, risponde Danilo Bonato, direttore generale di Remedia, uno dei principali consorzi di recupero dei Raee. “Si tratta di tenere assieme varie esigenze: stare nel mercato, cioè abbassare il più possibile i costi senza sacrificare la qualità del servizio, ed evitare il rischio di inquinamento, cioè effettuare il recupero anche nei posti in cui non è economicamente conveniente perché i numeri sono troppo ridotti e il trasporto troppo
costoso. Per categorie merceologiche come tv, frigoriferi e lampade il costo di uno smaltimento ben fatto è ancora circa tre volte superiore rispetto a quello che si ricava vendendo i materiali ottenuti dal processo di recupero, mentre per l’elettronica di consumo e i grandi elettrodomestici senza il ciclo del freddo c’è un utile”. Dunque una pluralità di opzioni. Vediamole, nella ricostruzione di Bonato. L’Unione europea si divide in due principali blocchi: da una parte Francia e Irlanda con il modello del conferimento obbligato ai sistemi collettivi dei produttori, dall’altra la maggioranza dei paesi sulla linea detta all actors, cioè con una pluralità di soggetti che in base alle regole della concorrenza si dividono il mercato. Apparentemente esiste una divisione quasi ideologica tra una visione centralizzata e statalista e una di mercato, ma in realtà ognuno di questi due punti di vista coglie un aspetto del problema: dunque l’obiettivo è tenere assieme le due esigenze nel miglior modo possibile. La concorrenza funziona quando i prezzi sono remunerativi, cioè quando le quantità in gioco permettono di pagare i costi della
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L’obiettivo della direttiva europea è raggiungere entro il 2019 un livello del 65% di raccolta in peso dei Raee rispetto all’immesso sul mercato, al fine di riutilizzarli o riciclarli.
raccolta, dello smantellamento e della messa in sicurezza dei materiali con un potenziale impatto ambientale consistente. Quando si tratta di andare a recuperare piccole quantità di sostanze pericolose che, se abbandonate, produrrebbero un inquinamento occorre trovare un meccanismo che consenta di effettuare queste operazioni in perdita, trovando altrove la compensazione economica. “Insomma servono dei paletti per guidare l’azione dei sistemi di raccolta e da questo punto di vista i paesi del Nord Europa sono più avanti, mentre Spagna e Grecia sono un passo dietro a noi”, continua Bonato. “Il problema è che in Italia per poter trattare i Raee basta l’autorizzazione della Provincia e i controlli non sono sufficienti: per questo il Centro di coordinamento Raee propone di aggiungere alle ispezioni dell’Arpa una verifica tecnica condotta da auditors formati dal Centro di coordinamento sulla base degli standard europei”. Un’Europa che, come abbiamo visto, non segue comunque un indirizzo unico. I tedeschi puntano sul ruolo diretto delle aziende produttrici che hanno la responsabilità ultima del bene (sta a loro organizzare il servizio di recupero): la qualità della raccolta tende al basso. Gli inglesi non hanno vincoli per il numero dei sistemi né
coordinamento: ce ne sono 41, decisamente troppi (in Italia sono 17 e si discute sulla maniera migliore per introdurre requisiti di qualità) tanto che sono in corso correttivi per arginare l’aumento dei costi. In Belgio c’è un consorzio unico nato 20 anni fa e rimasto tale. In Olanda, invece, questo consorzio unico dopo 15 anni è stato obbligato ad aprire alla concorrenza. “Da queste esperienze io credo che si possa trarre una lezione”, aggiunge Bonato. “La concorrenza aiuta a essere più efficienti e innovativi, ma un numero eccessivo di attori fa implodere il sistema. Si tratta di trovare un giusto equilibrio con regole chiare e facilmente applicabili: i consorzi devono assicurare una quota minima di raccolta, ci vogliono controlli seri, requisiti patrimoniali, finalità no profit. Bisogna eliminare chi si improvvisa, chi lavora in modo speculativo arraffando i materiali quando i prezzi sono alti e scomparendo quando scendono, chi non rispetta il doppio impegno economico ed ecologico”. Con tutti questi limiti l’Unione europea resta la migliore (tanto che Russia e Turchia la stanno studiando per mettere in campo un loro modello). Ma il percorso è appena iniziato: ora si tratta di accelerare la svolta verso un’economia circolare. Una delle direzioni di marcia – ricorda Bonato – è la possibilità di far pagare alle aziende produttrici contributi differenziati a seconda della qualità dell’ecodesign, come stanno cercando di fare in Francia: chi vende merci con materiali facilmente disaccoppiabili, con plastica riciclata, senza l’uso di ritardanti di fiamma, paga meno. Un’altra strada percorribile è moltiplicare i punti di raccolta in cui, previo procedimenti tecnici certificati, si offrono prodotti a fine vita che possono essere riutilizzati. Un’altra ancora è il remanufacturing. L’obiettivo della direttiva europea è raggiungere entro il 2019 un livello del 65% di raccolta in peso dei Raee rispetto all’immesso sul mercato, al fine di riutilizzarli o riciclarli. Per l’Italia (230.000 tonnellate annue raccolta dal Centro di coordinamento più un’area grigia al di fuori dei consorzi valutabile attorno alle 300.000 tonnellate) vuol dire aumentare la raccolta del 30-40% in quattro anni. Un target impegnativo ma non impraticabile. A patto di aver chiara la posta in gioco. In Europa – secondo i dati più recenti – si producono circa 11 milioni di tonnellate di Raee l’anno, nel mondo intorno ai 40 milioni. “Dieci anni fa di questo sistema si vedevano solo i costi, oggi è chiaro che il recupero dei materiali può produrre utili: si tratta di superare i limiti attuali, sviluppando un sistema moderno ed efficace, ispirato ai principi dell’economia circolare”, conclude Bonato.
Policy
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Focus Rifiuti
Il tesoro nascosto in miniera di Duccio Bianchi
L’articolo seguente è una breve sintesi dello studio “Le miniere urbane dell’alluminio” compiuto per CiAl – Consorzio imballaggi alluminio (in corso di pubblicazione).
Illustrazione per Biancaneve e i sette nani, 1913
Buona notizia: in Italia ormai la produzione di alluminio è al 100% con materiale riciclato. Cattiva notizia: va perso il 40% dell’alluminio proveniente da usi urbani e industriali.
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Le grandi miniere dell’alluminio secondario – scarti di lavorazione da un lato, rifiuti e prodotti usati dall’altro – hanno un elevato valore intrinseco sia economico sia ambientale.
relativamente ai rottami post-consumo di origine nazionale); •• raffinazione e rifusione per la produzione di alluminio secondario (in billette, placche, pani, liquido); •• produzione di semilavorati plastici (estrusione, laminazione, forgiatura) – contabilizzate in maniera integrata con l’industria di raffinazione e rifusione – e attività di fusione con produzione di getti (successivamente trasformati in prodotti finiti). Complessivamente, il valore aggregato della produzione in queste tre fasi supera i 7 miliardi di euro, mentre gli occupati sono circa 24.000.
Duccio Bianchi è presidente di ASM Pavia, società in house del settore ambiente, è stato direttore e amministratore delegato di Ambiente Italia, una delle principali società nazionali di consulenza e pianificazione ambientale, ha svolto attività di consulenza e ricerca in materia di politiche ambientali, reporting e analisi del ciclo di vita, pianificazione e gestione dei rifiuti.
Dopo la Germania l’Italia è il secondo produttore europeo di alluminio. Il nostro paese è inoltre al primo posto nella produzione di alluminio secondario, cioè da riciclo. Eppure le “miniere urbane” da rifiuti di alluminio sono ancora tutte da sfruttare. Storicamente la produzione italiana di alluminio è basata sui rottami e dal 2013 è unicamente produzione di alluminio secondario. Dei 1,15 milioni di tonnellate di lingotti prodotti quell’anno il 42% era alluminio secondario da remelters e il 58% alluminio secondario da refiners (con una alta componente di post-consumo). La produzione di semilavorati è costituita per il 44% da getti di fonderia, per il 30% da laminati e per il 26% da estrusi e trafilati. L’alluminio viene utilizzato nella motoristica e nei trasporti (principalmente quello da getti di fonderia), nell’edilizia (soprattutto estrusi), nella produzione di fogli e imballaggi (da laminati), nei prodotti domestici e per ufficio, nella meccanica. La gran parte, anche se non la totalità, dei semilavorati e dei prodotti finiti in alluminio deriva da leghe di alluminio secondario, l’unica produzione nazionale di alluminio. La filiera industriale del riciclo dell’alluminio in Italia è perciò costituita da attività di: •• recupero dei rottami (raccolta differenziata, commercializzazione, preparazione al riciclo
Tre le tipologie di rottami che alimentano la produzione di alluminio secondario: 1) Scarti post-consumo costituiti da rottami vecchi, anche frammisti ad altre sostanze, derivanti da demolizioni, dismissioni, raccolte differenziate dei rifiuti urbani. Stimati in circa 400.000 tonnellate di cui meno di 70.000 da rifiuti urbani (dati 2013). 2) Scarti pre-consumo (commercializzati) costituiti da leghe pulite e nuove, sia dei processi di produzione dei semilavorati sia dei processi di produzione manifatturiera (torniture, tagli, fuori specifiche). Al 2013 sono stati stimati in circa 475.000 tonnellate di rottami pre-consumo. 3) Scarti interni (non commercializzati) dei processi di produzione, costituiti da recupero di scorie e soluzioni saline, scarti di produzione di lingotti, scarti di laminazione ed estrusione nei processi integrati; questi flussi non sono rilevati statisticamente e sono stimati circa 485.000 tonnellate nel 2013. Solo una parte di queste materie seconde viene raccolta in Italia: il nostro paese, infatti, è anche un forte importatore di rottami di alluminio. Tanto che, in questo settore, nel 2013 la nostra bilancia commerciale registrava un deficit per oltre 340.000 tonnellate e per 427 milioni di euro. Ma tuttora le grandi miniere dell’alluminio secondario – scarti di lavorazione da un lato, rifiuti e prodotti usati dall’altro – hanno un elevato valore intrinseco sia economico sia ambientale. Se gli scarti di lavorazione (“pre-consumo”) sono recuperati pressoché integralmente, appare più complessa – allo stato attuale – la ricostruzione dei flussi per i rifiuti
Policy L’albero dell’alluminio: quanto materiale va perduto ogni anno?
MATERIA PERDUTA 40%
MATERIA PERDUTA 58%
MATERIA PERDUTA oltre 33%
riciclati 3-6% riciclati 79,5%
99.000 ton
riciclati 68%
PE
63.000-81.000 ton totali
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7.000 ton 65.000 ton
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70-90 kg DI ALLUMINIO IN OGNI AUTO
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171.000 ton totali
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400.000 ton
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Sulla base dei dati disponibili, emerge una perdita di alluminio pari a circa 99.000 tonnellate/anno, equivalente al 58% del rifiuto prodotto.
post-consumo. Va poi tenuto conto di una ampia area “grigia” di recupero e commercio, che sfugge alle rilevazioni anche per motivi fiscali. Un primo dato riguarda la dimensione quantitativa dei rifiuti generati, valutata oggi tra le 400 e 500.000 tonnellate annue. I rifiuti e i rottami post-consumo che provengono dalle varie applicazioni sono costituiti da flussi omogenei di prodotti in alluminio (per esempio gli imballaggi o i cavi), o provenienti da componenti di altri prodotti (come nel caso dei componenti di veicoli o di apparecchiature elettroniche).
Rifiuti ingombranti e Raee: quanto materiale va perduto ogni anno?
MATERIA PERDUTA 22,2%
70.000 ton
20.000 ton
O
US
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90.000 ton
Non tutti questi rifiuti – almeno apparentemente – sono davvero recuperati. Anzi, le “miniere urbane” di alluminio secondario sembrano essere ancora molto ricche. La perdita apparente complessiva, da usi urbani e industriali, di alluminio è di circa il 40%. Ma in alcuni ambiti è molto più alta: il 58% per l’insieme dei flussi urbani, il 40% di imballaggi e similari, oltre un terzo per gli autoveicoli a fine vita. Sprechi rilevanti e perdite di materia si riscontrano soprattutto nel circuito dei rifiuti urbani: si recuperano solo in parte fogli da imballo in alluminio e altri imballi flessibili e semirigidi, oggetti di uso domestico e di arredo così come componenti dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettronici e l’alluminio nelle scorie di incenerimento. Nei rifiuti urbani sono contenute circa 171.000 tonnellate di alluminio, delle quali meno della metà costituite da imballaggi. La quota di “uso domestico e igiene” include anche frazioni tipicamente di arredo e ingombranti. Attraverso le raccolte differenziate e, marginalmente, attraverso separazioni e recuperi da rifiuti residui, sono avviate a riciclo circa 65.000 tonnellate annue, cioè solo il 38%. Sono possibili – ma non valutabili e accertabili – ulteriori recuperi, esterni al circuito dei rifiuti urbani, di parte dei flussi di alluminio, per esempio nei prodotti di arredo. Vanno poi aggiunte le circa 7.000 tonnellate di alluminio che prendono la via dell’incenerimento, tal quale o da Css (combustibili solidi secondari), producendo 11 GWh. Pertanto, sulla base dei dati disponibili, emerge una perdita di alluminio pari a circa 99.000 tonnellate/anno, equivalente al 58% del rifiuto prodotto. Dai dati CiAl la raccolta differenziata degli imballaggi in alluminio – al netto dei conferimenti da selezione del rifiuto residuo – è pari a circa 42.700 tonnellate, da attribuirsi pressoché integralmente a flussi di raccolta differenziata urbana. Il recupero di materia da imballaggi in alluminio (stimato sulla base del conferito a CiAl che rappresenta il 25% della raccolta) è composto per il 97% da imballaggi derivanti da raccolte differenziate e per il resto da separazione sul rifiuto residuo (in Tmb – trattamenti termici e meccanico-biologici – e su scorie). Se il tasso di recupero rispetto ai consumi è molto elevato per le lattine e gli imballi rigidi (79,5%) e anche per i semi rigidi (circa 68%) è invece modesto per gli imballaggi flessibili
Policy
(3-6%) che non sono valorizzati o perché non raccolti separatamente o perché non adeguatamente separati dagli impianti Ecs (a correnti indotte, Eddy Current System) sulle linee di selezione delle raccolte multimateriali e dei trattamenti meccanico-biologici. Facendo i conti – e considerando anche il recupero da scorie e la conversione energetica di parte dell’alluminio – viene fuori che il 40% della materia contenuta in imballaggi e similari è ancora da recuperare. Ma, soprattutto, è molto modesto il recupero degli altri flussi presenti nei rifiuti urbani.
Anche nella rottamazione degli autoveicoli – una delle principali fonti di rottame di alluminio – si registra una forte dispersione di materiale.
Dai rifiuti ingombranti e dalla raccolta dei Raee proviene un recupero inferiore alle 20.000 tonnellate annue, a fronte di consumi pari a circa 70.000 tonnellate annue di prodotti di uso domestico (diversi dagli imballaggi e dai fogli) e di circa 20.000 tonnellate/anno contenute nei Raee. Qui le perdite sono ancora maggiori: apparentemente si disperdono circa il 76% dei rifiuti da prodotti di uso domestico e circa il 68% dell’alluminio contenuto nei Raee. Un’ulteriore perdita si registra nelle scorie: la capacità effettiva attuale di recupero è infatti pari a poco più del 10% del potenziale teorico di recupero. Anche nella rottamazione degli autoveicoli – una delle principali fonti di rottame di alluminio – si registra una forte dispersione
di materiale. Il contenuto di alluminio negli autoveicoli è progressivamente cresciuto nel corso degli anni. Stime relative agli anni ’90 – da cui derivano in media gli autoveicoli rottamati – indicano in circa 70-90 kg/veicolo il contenuto di alluminio nelle auto. Pertanto, il contenuto teorico di alluminio nelle autovetture rottamate al 2012 può essere stimato nel range 63.000-81.000 tonnellate. A fronte di questo quantitativo teorico, il totale dei rottami non ferrosi (che include anche rame e piombo) di cui è registrato l’avvio a riciclo è pari a sole 10.591 tonnellate. Anche considerando la quota parte del rottame avviato a riciclo non meglio definito (69.000 tonnellate, delle quali, per analogia con altri paesi quali Germania, Francia, Spagna possiamo stimare in circa il 60% la parte costituita da metalli non ferrosi), il totale dei rottami non ferrosi complessivi è stimabile attorno a 53.000 tonnellate, delle quali circa l’80% costituito da alluminio, pari perciò a circa 42.000 tonnellate/anno, tra la metà e i due terzi della presenza stimata. Pur basandoci su stime, lo scarto però appare eccezionalmente rilevante e segnala un possibile importante flusso di alluminio non valorizzato, orientativamente nell’ordine di circa il 40%. Dunque, il recupero dei rifiuti in alluminio presenta grandi potenzialità di sviluppo anche negli altri settori oltre a quello degli imballaggi (nel quale oggi si recupera oltre il 70%).
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Nuovi prodotti per nuovi mercati Intervista a Marie Wheat Nel 2013 l’industria biobased ha contribuito al Pil statunitense con 359 miliardi di dollari. E ha creato circa 4 milioni di posti di lavoro. I risultati e le sfide dell’Usda BioPreferred® Program raccontati da Marie Wheat del Dipartimento Usa dell’Agricoltura.
a cura di Joanna Dupont-Inglis
Marie Wheat, membro del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti e relatrice all’Efib2015, parla con Joanna Dupont delle difficoltà e dei successi nella realizzazione dell’Usda BioPreferred® Program.
Marie Wheat, Economista dell’Industria/ Manager operativo, Usda BioPreferred® Program.
Qual era l’obiettivo originario del BioPreferred® Program? “L’idea era di creare nuovi mercati per prodotti biobased e per valorizzare i prodotti agricoli domestici, offrendo così un sostegno all’economia dell’America rurale. Il programma ha anche contribuito a incrementare la sicurezza energetica, perché porta a utilizzare materie prime rinnovabili prodotte negli Stati Uniti, invece di combustibili fossili importati, da impiegare nella realizzazione di prodotti industriali.” Come ha avuto inizio l’Usda BioPreferred® Program? “Il programma è stato inizialmente autorizzato dal Congresso degli Stati Uniti nel Farm Bill del 2002 e di nuovo nei Farm Bill del 2008 e del 2014. Il programma BioPreferred® è costituito da due parti. La prima è costituita dal Federal Preferred
Marie Wheat
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Policy Procurement, che definisce i prodotti su cui orientare la scelta degli acquisti da parte delle agenzie federali. A ora abbiamo 97 categorie di prodotti che sono state selezionate per gli acquisti e che comprendono circa 14.000 singoli prodotti. La seconda parte consiste nel marchio che le aziende possono scegliere di applicare se hanno fatto testare i propri prodotti in laboratori certificati e indipendenti, che controllano il contenuto biobased del prodotto. Infatti, solo dopo la certificazione e l’approvazione le aziende possono utilizzare il marchio ‘Prodotto Usda certificato biobased’, che mostra anche la percentuale di contenuto biobased o di nuovi materiali a base di carbonio presenti nel prodotto.” Negli Stati Uniti avete ottenuto grandi risultati in termini di posti di lavoro e di crescita economica generati dalle industrie biobased e sostenuti dal BioPreferred® Program. Può parlarci di questo aspetto? “Nel giugno del 2015 è stata pubblicata un’analisi dell’impatto economico prodotto dall’industria americana dei prodotti biobased che mostra come nel 2013 abbia contribuito con un totale di 359 miliardi di dollari al Pil americano, e con 4 milioni di posti di lavoro. Inoltre lo studio prevede che nei prossimi 5 anni l’industria
dei prodotti biobased creerà altri 500.000 posti di lavoro. La ricerca evidenzia anche che l’effetto diretto sull’occupazione nelle industrie biobased è di 1,52 milioni di posti di lavoro, quello indiretto di 1,11 milioni di posti e quello indotto di 1,39 milioni, per arrivare a un totale che supera i 4 milioni. Sono state fatte proiezioni simili anche relative al Pil e al valore aggiunto, e ciò contribuisce a dimostrare il potenziale cumulativo dell’industria dei prodotti biobased (vedi figura 1).” Le industrie dell’Unione europea basate sul rinnovabile sperano di poter seguire l’esempio americano creando un meccanismo di acquisizione da parte dell’amministrazione pubblica dei prodotti biobased. Che lezione si può trarre dalla vostra esperienza? “Si tratta di un processo con molte facce, che costituisce di per sé una sfida, e quindi non esiste una soluzione valida per tutti. Comunque direi che esercitare una leadership cambia veramente le cose in termini di creazione di nuovi mercati, posti di lavoro e di crescita per i prodotti biobased. Laddove sono i governanti a parlare di acquisto di prodotti biobased e a incoraggiare il loro sviluppo e commercializzazione è possibile fare autentici progressi. Per esempio negli Stati Uniti nel marzo del 2015 è stato pubblicato
Joanna Dupont-Inglis si è specializzata in Scienze ambientali all’Università del Sussex e a quella di Nantes. Nel febbraio del 2009 è entrata a far parte di EuropaBio, l’associazione europea delle bioindustrie, e dall’aprile 2011 dirige il settore delle biotecnologie industriali.
Figura 1 | Industrie biobased: posti di lavoro complessivi e valore aggiunto all’economia americana nel 2013
4,50
400
369,30
4,00
350
3,50
300
3,00 2,50 2,00 1,50
1,52
1,39
Miliardi di dollari
Milioni di posti di lavoro a tempo pieno e part-time
4,02
250 200 150
1,11
125,75
126,01
117,54
100
1,00
50
0,50
0
0,00 Impiego
Effetto diretto
Effetto indotto
Effetto indiretto
Effetto totale
Valore aggiunto
Fonti: Golden, J.S., Handfield, R.B., Daystar, J. e, T.E. McConnell (2015), “An Economic Impact Analysis of the U.S. Biobased Products Industry: A Report to the Congress of the United States of America”, Dipartimento Usa dell’Agricoltura (www.biopreferred.gov/BPResources/files/ EconomicReport_6_12_2015.pdf).
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Come diffondere i principi del BioPreferred®: il caso della Nasa Nell’aprile di quest’anno il Kennedy Space Center della Nasa ha invitato lo United Soybean Board (Usb) e l’Usda BioPreferred program a tenere un corso di formazione, per il proprio staff e per i contractor. per altre stazioni della Nasa. Il Kennedy Space Center ha anche ospitato sei produttori biobased nel corso delle proprie iniziative per l’Earth Day 2015. L’obiettivo era di far conoscere al proprio staff, ai principali appaltatori e ai portatori di interesse locali i prodotti biobased già disponibili ad essere utilizzati in diverse operazioni. Il risultato è che il Kennedy Space Center sta programmando di ampliare il proprio utilizzo di prodotti biobased: nel settembre di quest’anno ha installato 274 metri di moquette biobased della Signature Accord nel Centro Visite. Quel tipo di moquette è stato scelto nel BioPreferred program quale prodotto ‘qualificato’ per gli acquisti preferenziali del Governo Federale. La Nasa e il Kennedy Space Center stanno dimostrando l’impegno delle Agenzie federali nel soddisfare i requisiti del programma di acquisti obbligatori, e evidenziando i benefici dei bioprodotti che i visitatori e i cittadini possono vedere e toccare.
STS-124, 2008. Courtesy Nasa
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Policy
Le storie di successo aiutano molto ad aumentare la credibilità e a catturare l’immaginazione di molte persone.
Usda BioPreferred® Program, www.biopreferred.gov/ BioPreferred/
un nuovo ordine esecutivo dal titolo ‘Programmare la sostenibilità federale nel prossimo decennio’, che promuove gli acquisti biobased da parte delle agenzie federali. In pratica a partire dal 2016 fino a quando un’agenzia non raggiunge almeno la percentuale del 95% di acquisti biobased, deve stabilire un obiettivo annuale di contratti che devono essere aggiudicati con criteri biobased, e un valore in dollari di prodotti biobased che deve essere speso e documentato attraverso questi contratti nel seguente anno fiscale. Questo è un elemento di grande importanza nell’incrementare la fiducia degli investitori nel biobased. Anche la diffusione e la comunicazione sono fattori fondamentali e ce ne occupiamo costantemente. Mentre si tratta quasi di una seconda natura per coloro che lavorano nel settore, il biobased è ancora relativamente sconosciuto a moltissime persone. Riuscire a far conoscere a un pubblico sempre più ampio i vantaggi dei prodotti biobased è una delle cose che il programma BioPreferred® ha fatto molto efficacemente, operando su numerosi e diversi canali. Per esempio di recente abbiamo tenuto un corso in streaming, trasmesso anche via satellite, specifico per chi si occupa di uffici acquisti in un’amplissima gamma di settori in tutto il mondo. I partecipanti potevano scaricare un link per partecipare al corso, con la possibilità di fare domande e accedere alle linee guida. Gli acquisti nel settore pubblico sono un ambito in cui la formazione può davvero fare la differenza. E noi possiamo offrire una guida reale e concreta su come fare acquisti biobased nel settore pubblico. Siamo attivi su tutti i livelli di comunicazione e in grado sia di spiegare a un consumatore che cos’è un prodotto biobased, sia di offrire dettagli tecnici sull’approvvigionamento a un funzionario federale. Per accrescere la conoscenza del programma e del suo valore, organizziamo con continuità incontri con stakeholder dei settori industriali emergenti e in più rapida espansione. Comunichiamo con chi opera nei settori della chimica biobased, delle bioplastiche, i prodotti biobased per la pulizia, i lubrificanti biobased, ecc. Comunichiamo con chi crea questi prodotti per aiutarli a capire come ricevere il marchio, così che possano diventare parte del nostro processo di educazione e diffusione, e anche su come usare il marchio stesso per contribuire a educare i consumatori. Puntiamo molto sull’uso estremamente efficace del nostro sito web, per formare tutti i possibili utenti. Inoltre, promuoviamo molte attività che riguardano la leadership, la formazione e la diffusione, cercando di fare il possibile per semplificare il processo.” Che altri strumenti trova particolarmente efficaci per aumentare la consapevolezza della disponibilità dei prodotti biobased? “Le storie di successo aiutano molto ad aumentare la credibilità e a catturare l’immaginazione di molte
persone, e sul nostro sito ne riportiamo diverse. Inoltre cerchiamo continuamente modi diversi per raggiungere nuovo pubblico e informarlo delle opportunità offerte dal biobased. Recenti iniziative comprendono il lavoro con la Nasa, il Kennedy Space Centre, il Dipartimento dei Trasporti e il Dipartimento degli Interni. Poter vedere e toccare i prodotti fa la differenza per molte persone, perché aiuta a far diventare ‘reali’ i prodotti biobased.” Nell’Unione europea sappiamo che i coltivatori spesso non sono consapevoli del potenziale dei prodotti biobased nell’aggiungere valore alla loro produzione. Come avete affrontato questo aspetto all’Usda? “In 51 stati americani Usda ha funzionari del Programma per lo Sviluppo Rurale addetti a informare i coltivatori di questo potenziale e a spiegare loro il BioPreferred® Program. Inoltre, e questo si rifà al discorso dell’importanza della ‘leadership’: ogni qual volta è possibile i nostri leader parlano del Programma durante incontri ad alto livello in cui sono presenti produttori primari.” Secondo il suo punto di vista, qual è la prossima grande opportunità per il BioPreferred® Program? E qual è la più grande sfida da affrontare? “La più grande opportunità consiste nel creare più mercati su scala globale. In termini di insidie o sfide per l’Ue di cui essere consapevoli, è molto importante che il sistema di certificazione e il sistema di acquisti da parte del settore pubblico procedano contemporaneamente. Avere un marchio che indica che il prodotto che lo possiede dovrebbe essere acquistato a livello federale, aiuta veramente a semplificare le cose per tutte le persone coinvolte. Mentre il nostro sistema di certificazione veniva pubblicato online, dopo aver creato il sistema di acquisti pubblici, avevamo già una lista di merci destinate all’acquisto, ma che non erano ancora certificate: questo all’inizio ha impedito un avvio più rapido del programma.” Il suo entusiasmo per il programma e per il suo potenziale è evidente. Che cosa le piace di più del suo lavoro? “Mi piace l’idea che tutti i giorni lavoro per creare migliori opportunità economiche per le persone in tutto il mondo, utilizzando i prodotti biobased. Al momento abbiamo aziende di 42 paesi che partecipano al nostro programma e che hanno richiesto la nostra certificazione. Per me è una dimostrazione di come stiamo creando valore in tutto il mondo, e sono felice di essere parte di questo processo.”
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Economia circolare: LAVORI IN CORSO Oggi il 90% del fatturato dell’industria europea è basato su modelli industriali lineari. L’alternativa è una sola: ripensare il concetto di rifiuto, attraverso modelli ottimizzati per il riutilizzo dei prodotti, il disassemblaggio e il riciclo.
Policy
di Danilo Bonato
Il 2014 per l’Europa doveva essere l’anno dell’avvento dell’economia circolare: un nuovo paradigma per progettare i modelli di sviluppo della nostra società e industria da qui al 2050. La doccia fredda sulle aspettative di chi aveva creduto in questa prospettiva è arrivata alla fine dello scorso anno, direttamente dalla nuova Commissione europea appena insediata sotto la presidenza di Jean-Claude Juncker, che ha deciso di tagliare una lunga lista di programmi ritenuti poco efficaci o troppo onerosi. Tra questi, appunto, quello relativo all’economia circolare. Nel corso del 2015, però, le reazioni sconcertate degli stakeholder e le perplessità di molti stati membri hanno costretto la Commissione a rivedere la propria posizione, fino a dichiarare che il ritiro del primo pacchetto sull’economia circolare era in realtà finalizzato a proporne uno più incisivo e di maggior respiro strategico. Sarà davvero così? Certo è che la prima proposta della Commissione risultava piuttosto lacunosa e focalizzata soprattutto sulla gestione dei rifiuti senza indirizzare, se non marginalmente, tutti gli altri aspetti fondamentali del nuovo paradigma economico, come il remanufacturing, la sharing economy e la bioeconomia. Con queste premesse, lo scorso giugno si è tenuta una conferenza in cui i commissari europei Timmermans e Katainen hanno solennemente promesso un impegno convinto a sostegno dell’economia circolare, definendola una “strategia fondamentale” per lo sviluppo del nostro continente. Dunque a Bruxelles hanno ripreso a lavorare intensamente al pacchetto “Circular Economy” che dovrebbe esser pronto per la fine dell’anno.
Staremo a vedere. Ma le aspettative questa volta sono elevate perché gli investimenti nell’economia circolare dovranno sostenere lo sviluppo dell’industria europea e, allo stesso tempo, contribuire al raggiungimento degli obiettivi che emergeranno dalla COP21 di Parigi sulla sfida fondamentale rappresentata dai cambiamenti climatici. Economia circolare: unica alternativa possibile Ma cosa possiamo aspettarci esattamente? Gli esperti che stanno lavorando ai programmi di sostegno all’economia circolare partono dalla consapevolezza che allo stato attuale circa il 90% del fatturato dell’industria europea (per non parlare di quella mondiale) è basato su modelli lineari di approvvigionamento, produzione, consumo e smaltimento della materia. È però riconosciuto, almeno a parole, che l’unica alternativa possibile per assicurare una prospettiva alle future generazioni è una rapida transizione a un sistema industriale basato sull’economia circolare, orientando le imprese a ripensare i cicli produttivi in modo tale da eliminare il concetto di rifiuto, attraverso modelli ottimizzati per il riutilizzo dei prodotti, il disassemblaggio e il riciclo degli stessi. Tali modelli verso i quali si vorrebbe convergere dovranno specializzarsi per distinguere le problematiche dei prodotti di consumo da quelle dei beni durevoli. Nel primo caso la Ue spingerà sull’impiego di ingredienti naturali, non tossici e reintegrabili in modo sicuro nella biosfera. Per i beni durevoli e semidurevoli, invece, si punta a garantire tassi di riutilizzo e riciclo molto elevati, per evitare che le sostanze di cui sono fatti danneggino l’ambiente e in modo da ottimizzare l’efficienza nell’uso della materia. I vantaggi che gli esperti di Bruxelles vogliono conseguire attraverso il riposizionamento dell’assetto industriale dell’economia
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In Europa generiamo 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno ma solo il 40%, limitatamente a pochi flussi, viene raccolto e avviato al riutilizzo, al riciclo al recupero energetico o al compostaggio. Ci sono ampi margini di miglioramento […].
europea sono dunque strettamente correlati all’obiettivo di disaccoppiamento (decoupling) dell’estrazione e utilizzo di risorse naturali – passata in Europa dai 12 miliardi di tonnellate nel 1980 agli attuali 22 miliardi di tonnellate – dalla crescita economica necessaria per assicurare sviluppo e benessere al continente. Si tratta di una prospettiva interessante, che consentirebbe, tra l’altro, di ridurre la volatilità dei prezzi delle materie prime critiche, dando stabilità alla nostra industria e riducendo i rischi di approvvigionamento. In termini economici la Commissione stima che, grazie all’economia circolare, il risparmio di materie prime per l’industria nel 2025 potrebbe essere almeno del 14% a parità di output, una percentuale equivalente a circa 400 miliardi di euro. Per l’industria italiana questo potrebbe rappresentare un risparmio di almeno 12 miliardi di euro. Inoltre il modello circolare potrebbe favorire la creazione di nuove filiere business, ridando stimolo ai consumi e favorendo la crescita occupazionale.
Disownership Il concetto di disownership (letteralmente “rinuncia alla proprietà”) che sta alla base dell’emergente sharing economy rappresenta uno degli aspetti più innovativi e interessanti dell’economia circolare. La sharing economy consente di ridurre l’impronta ambientale delle attività produttive, di creare occupazione e di valorizzare il capitale umano trasformando la vendita di beni in fruizione e accesso a servizi a valore aggiunto. In questo particolare contesto i nuovi modelli di business a cui ci si ispira creano interessanti opportunità occupazionali legate allo sviluppo di moderne reti di servizio, di assistenza tecnica, di consulenza, di servizi finanziari e di logistica. In Europa e nel mondo è in atto lo spostamento delle preferenze dei consumatori verso l’accesso ai servizi con modalità pay per use, come alternativa alla proprietà giuridica dei beni. Questa transizione offre notevoli vantaggi alle imprese da un punto di vista della produttività degli assets, in quanto consente di generare economie di scala, di ottimizzare l’utilizzo delle infrastrutture produttive e di servizio e di assumere personale altamente specializzato. Diversi paesi europei hanno già avviato questa transizione. La Svezia per esempio sta mettendo a punto un piano da 12 miliardi di euro di investimenti per l’economia circolare, che ha come punto di forza proprio il tema della società dei servizi sostenibili.
L’industria europea è già partita In qualche modo l’industria europea sta anticipando le mosse di Bruxelles. Alcuni gruppi industriali leader hanno già avviato una fase di transizione dei propri sistemi produttivi e di servizio verso il nuovo assetto “circolare”. Ciò sta avvenendo perché le aziende più innovative hanno compreso che l’adozione di modelli produttivi basati sull’ economia circolare favorisce lo sviluppo del loro business e crea valore per gli azionisti. Le strategie più utilizzate vanno dal remanufacturing dei prodotti esausti, alla trasformazione dei prodotti in servizi, in sintonia con il paradigma della sharing economy, alle politiche zero-waste, fino alla riprogettazione dei i propri modelli produttivi per operare in simbiosi con i partner di filiera. La Commissione europea ha manifestato l’intenzione di incentivare e accelerare gli investimenti delle imprese che adottano modelli di economia circolare, premiando le realtà più virtuose. Staremo a vedere se queste intenzioni si tradurranno in misure concrete, capaci di trasformare l’attuale fase sperimentale in uno scenario cosiddetto mainstream, dove i modelli di riferimento dell’industria saranno effettivamente fondati sul concetto di economia circolare. Il “pacchetto” europeo per l’Italia Un buon pacchetto di misure per sostenere l’adozione dell’economia circolare sarebbe estremamente importante anche per il nostro paese, dove gli ingredienti per fare bene ci sono ma dove scontiamo un ritardo sia di investimenti in innovazione sia culturale.
Jean-Claude Juncker ©David Plas
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Policy Remanufacturing Il remaufacturing è un modello produttivo che si basa su processi organizzati e ottimizzati per trasformare vecchi prodotti – siano essi beni usati o rifiuti – in prodotti nuovi, portandoli a livelli prestazionali equivalenti o in alcuni casi addirittura superiori, e dotandoli di garanzie adeguate a tutela del consumatore. Diversi paesi europei hanno investito in modo massiccio nel settore del remanufacturing. Il Regno Unito, per esempio, ha un piano per accrescere il fatturato di questo comparto dagli attuali 3,4 miliardi di euro a 7,8 miliardi di euro entro il 2030, sviluppo che dovrebbe portare alla creazione di almeno 20.000 nuovi posti di lavoro.
Un buon pacchetto di misure per sostenere l’adozione dell’economia circolare sarebbe estremamente importante anche per il nostro paese, dove gli ingredienti per fare bene ci sono ma dove scontiamo un ritardo sia di investimenti in innovazione sia culturale.
Ciò non preoccupa solo per la situazione contingente da gestire, ma rappresenta un rischio in termini di capacità del nostro sistema produttivo di attrarre investimenti dall’estero. Infatti, le imprese globali che puntano sull’economia circolare potrebbero avere un motivo in più per esprimere scetticismo rispetto al nostro paese. È dunque necessario iniziare a costruire anche in Italia un contesto favorevole allo sviluppo dei nuovi modelli industriali ispirati all’economia circolare, eliminando i fattori di rallentamento che ci penalizzano. A partire dal deficit di competenze nel mondo delle imprese e delle istituzioni e dalla scarsa sensibilità
al tema da parte dei consumatori, per arrivare all’assenza di una visione integrata necessaria a sviluppare un moderno settore del riciclo. Per questo il pacchetto di economia circolare della Commissione europea di prossima pubblicazione potrebbe fornire gli strumenti necessari ad affrontare e risolvere gli attuali limiti. Occorrono misure atte a premiare e a favorire le aziende che investono nel design di prodotti, nei servizi e nei processi industriali fondati su una visione di innovazione sistemica, con una particolare attenzione alle Pmi. A tal fine sarà importante riconoscerle, studiarne le strategie e rendere disponibili meccanismi premianti efficaci ed equilibrati. Per esempio incentivi rivolti alle aziende che si impegnano a trasformare i prodotti in servizi, mantenendo la proprietà dei beni commercializzati al fine di gestirne in modo più efficace il fine vita, anche attraverso l’introduzione di servizi finanziari in grado di rispondere alle specifiche esigenze dei consumatori. Inoltre, le misure di stimolo all’economia circolare potrebbero inserirsi in un quadro più ampio di revisione delle politiche fiscali a sostegno della green economy e della ecoinnovazione. Economia circolare e rifiuti Il pacchetto per l’economia circolare dovrebbe anche affrontare in modo organico e innovativo il tema dei sistemi di gestione dei prodotti a fine vita. Sappiamo che in Europa generiamo 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno ma solo il 40%, limitatamente a pochi flussi, viene raccolto e avviato al riutilizzo, al riciclo al recupero energetico o al compostaggio.
Percentuale e flussi di riciclo in Europa ogni anno
40%
materia recuperata
Riutilizzo
Riciclo
2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti
Recupero energetico
Compostaggio
60%
materia persa
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Il nuovo pacchetto europeo per l’economia circolare indirizzerà il tema dello sviluppo di imprenditorialità e cultura dell’innovazione, attraverso il sostegno di interventi più incisivi di formazione teorica e sul campo.
Ci sono ampi margini di miglioramento, soprattutto se pensiamo che la situazione italiana è peggiore rispetto alla media europea. Molti rifiuti sfuggono al controllo e finiscono all’estero per essere valorizzati e spesso, anche quando si attuano operazioni di riciclo e recupero, le materie prime subiscono un downgrading rispetto a quanto oggi si potrebbe ottenere con le migliori tecnologie disponibili. I nostri sistemi di raccolta sono in genere costosi e inefficienti e non aiutano le imprese ad abbandonare i tradizionali sistemi produttivi lineari di trasformazione della materia e di smaltimento dei prodotti finiti da essa ricavati alla conclusione della fase di consumo degli stessi. La Commissione sta quindi valutando la possibilità di introdurre ulteriori semplificazioni per favorire aumenti di efficienza dei sistemi di raccolta, integrandoli con le industrie a monte che fanno uso di componenti di recupero e di materie prime provenienti da prodotti a fine vita. Un altro tema su cui Bruxelles intende porre l’accento è quello dello sviluppo di reti professionali specializzate nel ricondizionamento di apparati a fine vita che potrebbero rientrare nei cicli di produzione e consumo, evitando così la generazione dei rifiuti e favorendo lo sviluppo di nuove professionalità tecniche, cosa che potrebbe essere vantaggiosa anche in termini occupazionali. Aspettiamoci dunque che il pacchetto “Circular Economy” contenga strategie più efficaci rispetto al passato per sviluppare la domanda di materia proveniente da operazioni di riutilizzo e riciclo di prodotti a fine vita. Agli esperti della Commissione è ormai chiaro il fatto che la generazione di domanda da parte di filiere industriali a valle di processi produttivi che generano scarti che potrebbero trasformarsi in risorse da utilizzare, è forse il modo migliore
per alimentare un circolo virtuoso ispirato al concetto di economia circolare. Non è un caso se negli ultimi 24 mesi sono nate in Europa diverse imprese che hanno realizzato modelli di brokeraggio capaci di mettere in collegamento domanda e offerta per materie prime seconde o per prodotti a fine vita, generando benefici per il mercato e profitti significativi per gli investitori. In questa prospettiva il nuovo pacchetto di misure punterà a favorire la nascita di nuove filiere industriali basate su una maggiore integrazione tra imprese su scala europea, in grado di utilizzare in modo più efficace le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione per ridurre le asimmetrie informative che frenano gli scambi e lo sviluppo di processi cooperativi. Fondi europei per l’innovazione e sviluppo delle competenze La strategia europea per l’economia circolare dovrà, gioco forza, sfruttare al meglio il patrimonio di fondi europei per l’ecoinnovazione (Horizon 2020 e altri fondi strutturali), in modo da sostenere gli investimenti necessari a creare massa critica su alcune filiere industriali a elevato impatto. Vale la pena sottolineare come l’Italia presenti alcuni punti di forza da valorizzare, che potrebbero consentirci di conseguire posizioni di leadership a livello internazionale ma che hanno bisogno di essere sostenuti da investimenti mirati in innovazione. Dunque converrà focalizzarsi sulle competenze distintive rispetto alle quali abbiamo una concreta opportunità di emergere e per cui esiste una vocazione da parte del nostro contesto imprenditoriale. Si potrebbe per esempio sviluppare l’industria dell’idrometallurgia e della biometallurgia per
Policy il recupero di metalli preziosi e terre rare come alternativa ai grandi impianti pirometallurgici del Nord Europa. Si tratta di tecnologie innovative a basso impatto ambientale (se paragonate alle “vecchie” tecnologie che lavorano alle alte temperature) in cui l’Italia potrebbe giocare un ruolo importante. Da questo punto di vista sarebbe importante presentarsi in Europa con una visione chiara e con la capacità di sottoporre proposte progettuali robuste e credibili al fine di conseguire i finanziamenti necessari. In questo ambito si potrebbero identificare alcuni champion di filiera in grado di guidare una rete di partner verso la realizzazione di un nuovo sistema industriale che rafforzi i meccanismi di integrazione in chiave di economia circolare. Quasi certamente il nuovo pacchetto europeo per l’economia circolare indirizzerà il tema dello sviluppo di imprenditorialità e cultura dell’innovazione, attraverso il sostegno di interventi più incisivi di formazione teorica e sul campo. Come già accennato in precedenza, la Commissione è consapevole che la carenza di competenze e di professionalità nelle istituzioni e nelle imprese frena l’adozione di modelli innovativi di economia circolare. Semplificare per innovare Speriamo dunque che il pacchetto di Bruxelles riesca a modernizzare la regolamentazione ambientale. Nelle economie moderne l’ambiente rappresenta una risorsa essenziale da proteggere, ma non solo e non tanto attraverso un approccio formale, fatto di vincoli, adempimenti e oneri. Occorre piuttosto capire come misurare con precisione ed efficacia le esternalità ambientali (costi ambientali legati all’utilizzo degli ecosistemi da parte dei privati) penalizzando chi non interviene per ridurle
e premiando chi progetta l’azienda per mitigare il proprio impatto sugli ecosistemi. Oggi molto spesso questi tentativi vengono frustrati da una normativa rigida e obsoleta, che vede il “rifiuto” esclusivamente come un problema ambientale e non come un’opportunità di creare valore lungo le filiere produttive. Una questione di priorità In attesa di verificare i contenuti del pacchetto “economia circolare”, che recepirà tra l’altro gli esiti della consultazione con gli stakeholder appena conclusa, sarebbe opportuno che la Commissione definisse alcune priorità, indicando i settori a elevato potenziale su cui l’Europa dovrebbe puntare. Per quanto riguarda per esempio i beni con cicli di vita molto lunghi (settore delle costruzioni e delle infrastrutture) si possono avviare interventi ad altissimo potenziale soprattutto nel lungo periodo, mentre nel breve termine le azioni più interessanti possono essere sviluppate sui beni durevoli di consumo, in particolare i prodotti di struttura costruttiva caratterizzata da una complessità medio-alta. Si fa qui riferimento per esempio ai macchinari, agli apparecchi elettrici ed elettronici, ai mobili, alle macchine utensili, ai motori e ai veicoli. Il fatturato annuo attribuibile a questa tipologia di beni è di circa 2.600 miliardi di euro, a testimonianza dell’importanza del recupero a fine vita delle materie prime. Se ipotizzassimo che il costo delle materie prime incida mediamente per il 25% sul prezzo dei prodotti, potremmo attenderci un valore economico associato al recupero integrale, sia pure teorico, della materia di almeno 500 miliardi/anno, dato che sta facendo seriamente riflettere i decision maker della Commissione. Se son rose fioriranno...
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BIOECONOMIA: 1 euro investito oggi ne genera 10 nel 2025 Una proposta per rilanciare l’economia in Europa. E per ripartire sono disponibili 400 miliardi di euro dei Fondi europei, 315 del Piano Juncker e altri 3,7 da partnership pubblico-private. di Mario Bonaccorso
Mario Bonaccorso è giornalista esperto di finanza ed economia. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.
Programma Horizon 2020 della Commissione europea, www.horizon2020news.it
Un euro investito nel 2010 genera un valore aggiunto di 10 euro nel 2025. Nello stesso arco di tempo 35.000 euro investiti in ricerca e innovazione creano un posto di lavoro a tempo pieno. È questo l’impressionante potenziale di crescita offerto dalla bioeconomia all’Unione europea, secondo stime della Commissione rese pubbliche nel 2012 quando fu lanciata la strategia “Innovare per una crescita sostenibile: una bioeconomia per l’Europa”. Messa così, la ricetta per la crescita economica dei prossimi decenni sembra banale: investire nella bioeconomia. Ma, per un’Unione europea ancora alle prese con la più pesante crisi economico-finanziaria della sua storia e con una politica di austerità che lascia pochi margini di manovra, il tema principale è trovare i denari da investire. Possibilmente all’interno di una strategia definita che eviti inutili sprechi e che sia effettivamente ecosostenibile. Dunque la domanda semplicissima è: ci sono i soldi? La risposta non lo è
altrettanto, perché per capire come finanziare la bioeconomia bisogna districarsi tra una serie numerosa di programmi, fondi e partnership pubblico-private. Andiamo con ordine, quindi. Innanzitutto c’è il programma Horizon 2020 della Commissione europea che mette sul tavolo oltre 70 miliardi di euro per attività di ricerca e innovazione nel periodo 2014-2020. Altri 80-100 miliardi di euro saranno investiti in infrastrutture, logistica e nei cosiddetti motori dell’innovazione attraverso il Fondo di sviluppo regionale europeo. Ancora 70 miliardi dal Fondo sociale europeo per investimenti in innovazione e integrazione sociale, servizi all’impiego, educazione permanente e formazione all’imprenditorialità. Più di 100 miliardi di euro per lo sviluppo rurale dal Fondo agricolo europeo per lo sviluppo rurale, e per investimenti marittimi e nella pesca dal Fondo marittimo e per la pesca europeo. Infine, 66 miliardi per progetti ambientali e di creazione di reti di trasporto trans-europee. Totale: circa 400 miliardi di euro.
Policy
Ai fondi strutturali si affianca la partnership pubblico-privato “Bio-Based Industries Joint Undertaking” che – nel periodo 2014-2020 – prevede investimenti nel settore dei prodotti biobased pari a 3,7 miliardi di euro. Di questi 975 milioni saranno resi disponibili dalla Ue, prendendoli dai fondi di Horizon 2020, mentre Bic (il Bio-based Industries Consortium di cui fanno parte le imprese) contribuirà con 2.730 milioni di euro. Complessivamente i progetti finanziati dalla partnership in questa prima fase sono dieci: sette di ricerca, due demo e un flagship. Quest’ultimo rappresentato da First2Run coordinato da Novamont, unica impresa fino a ora a essersi aggiudicata il contributo. Al progetto coordinato dall’impresa italiana Bic ha assegnato lo scorso giugno, in collaborazione con quattro imprese e una università, un finanziamento di 17 milioni di euro a fondo perduto. Il progetto è finalizzato a dimostrare la sostenibilità tecnica, economica e ambientale di una bioraffineria integrata altamente innovativa, in cui colture oleaginose a basso input (per esempio il cardo), coltivate in zone aride e/o marginali, vengono impiegate per l’estrazione di oli vegetali da convertire attraverso processi chimici in bio-monomeri (principalmente acidi pelargonico e azelaico) ed esteri per la formulazione di bioprodotti quali biolubrificanti, cosmetici, plastificanti e bioplastiche. I co-prodotti
della filiera saranno valorizzati per la produzione di mangimi animali, altri prodotti chimici a valore aggiunto ed energia da scarti al fine di aumentare la sostenibilità della catena del valore. Standardizzazione, attività di certificazione e divulgazione saranno parti integranti del progetto, così come lo studio dell’impatto sociale dei prodotti provenienti da fonti rinnovabili. Il progetto supporta sviluppi connessi a impianti primi al mondo già costruiti e che hanno visto, a oggi, un investimento dei partner privati di oltre 300 milioni di euro. Nelle intenzioni dei promotori, il Bio-Based Industries Joint Undertaking creerà occupazione, specie nelle zone rurali, offrendo ai cittadini europei prodotti nuovi, sostenibili e realizzati localmente. Le industrie biobased aumenteranno la competitività dei paesi dell’Unione attraverso la reindustrializzazione e la crescita sostenibile, con la nascita di nuove catene di valore ottenute attraverso l’interconessione di settori diversi. Crescita e sostenibilità al centro del Piano Juncker E crescita economica, sostenibilità ambientale, nuova occupazione sono proprio gli obiettivi dichiarati dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker all’atto del suo insediamento. Per realizzare questi obiettivi ambiziosi, la Commissione ha presentato,
Partnership pubblicoprivato “Bio-Based Industries Joint Undertaking”, www.bbi-europe.eu
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Video “The Juncker Plan for Investment in Europe: What is the EFSI?”, tinyurl.com/njnkmas
il 26 novembre 2014 a Strasburgo, il cosiddetto Piano Juncker articolato su tre direttrici: 1. la nascita di un Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis); 2. la creazione di una riserva di progetti credibile e di un programma di assistenza per veicolare i progetti di investimento lì dove sono più necessari; 3. la definizione di un programma per rendere l’Europa più attraente per gli investitori e per rimuovere le strettoie regolamentari. Il Feis avrà un dotazione di 21 miliardi di euro: 16 garantiti dal bilancio Ue e 5 dalla Banca europea per gli investimenti (Bei). In base a stime prudenti basate sull’esperienza storica, si prevede che il Fondo sbloccherà investimenti con un effetto leva pari a 15 volte la dotazione iniziale: ovvero almeno 315 miliardi di euro nel triennio 2015-2017. L’idea di base è che l’impulso iniziale fornito dal Fondo riuscirà a mobilizzare la liquidità presente nel sistema finanziario e attualmente non utilizzata per investimenti a causa della mancanza di fiducia.
Il Bioeconomy Investment Summit si terrà a Bruxelles il 9 e 10 novembre, tinyurl.com/q9tgpvp
Oltre alle risorse generate dal Feis, altri 20-35 miliardi di euro di investimenti potrebbero essere immessi nell’economia reale mediante la massimizzazione della leva dei Fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020. Lo scorso giugno la Commissione Ue ha firmato l’intesa con la Banca europea per gli investimenti per la costituzione e la governance del Fondo, confermando nelle linee guida per i contributi nazionali, tramite le banche di promozione nazionale, le piattaforme per gli investimenti e i cofinanziamenti, che questi se in forma una tantum verranno esclusi dal computo del deficit. Finora sono nove i paesi che hanno deciso di contribuire: Italia, Francia, Germania, Polonia, Gran Bretagna, Spagna, Lussemburgo, Bulgaria e Slovacchia. Confermato anche che i finanziamenti tramite il Feis non verranno considerati aiuti di stato, mentre gli interventi degli stati membri di cofinanziamento dovranno essere comunque valutati, pur avendo una corsia preferenziale
con un tempo di esame non superiore alle sei settimane. All’Europarlamento è affidato un ruolo di monitoraggio e supervisione, insieme alla Corte dei conti Ue. Ma come impatterà tutto questo sulla bioeconomia? Secondo John Bell, direttore della Direzione Bioeconomia della Commissione europea, “il Fondo Feis è disponibile anche per gli investimenti nella bioeconomia e prevede quindi notevoli opportunità in aggiunta ai finanziamenti disponibili tramite Horizon 2020”. Lo stesso Bell assicura che “come parte del piano di investimenti sarà attuata anche una tabella di marcia ambiziosa per rendere l’Europa più attraente per gli investimenti ed eliminare le strozzature normative”. La sfida di Bruxelles è mantenere una legislazione semplice, non andando al di là di quanto strettamente necessario per raggiungere gli obiettivi politici e per evitare sovrapposizione di livelli di regolazione. Per vincere questa sfida è stato messo in campo il programma Refit (Regulatory Fitness and Performance Programme) che si impegna a definire un quadro normativo semplice, chiaro e prevedibile per i lavoratori, le imprese e i cittadini. Come a più riprese richiesto dai rappresentanti dell’industria europea. Sotto Refit, la Commissione presenterà l’intero corpus legislativo Ue su base continuativa e sistematica per individuare gli oneri, le incoerenze e le misure inefficaci e le azioni correttive individuate. Alcuni dei settori di interesse della bioeconomia per i quali sono già stati avviati i controlli di Refit sono i rifiuti e l’alimentazione. Occorre un quadro regolatorio più semplice e coerente Insomma, la strategia europea prevede da una parte finanziamenti per la bioeconomia, dall’altra la creazione di un quadro regolatorio semplice, stabile e coerente per attrarre quegli investimenti che, secondo gli addetti ai lavori, nell’ultimo periodo si sono spostati verso Stati Uniti, India e Cina. E in questo quadro si colloca il Bioeconomy Investment Summit convocato dalla Commissione europea a Bruxelles il 9 e 10 novembre. “Sarà l’occasione – afferma Bell – per definire un programma di alto livello per ulteriori investimenti nella bioeconomia. Lo scopo della manifestazione è creare lo slancio politico e di consenso in seno alla Commissione e, ove possibile, negli stati membri, per implementare una normativa che incoraggi gli investimenti in innovazione nella bioeconomia.” Ciò a sua volta dovrebbe contribuire a realizzare al meglio il potenziale della bioeconomia creando occupazione e crescita economica anche nelle aree rurali e costiere.
Policy Intervista
L’innovazione che apre le porte alla ripresa Josko Bobanovic, Sofinnova Partners
Oggi le aziende del settore della bioeconomia si trovano di fronte un’opportunità senza precedenti sul fronte del business grazie all’innovazione che stanno portando sul mercato.
“Se la bioeconomia non verrà riconosciuta come il motore trainante dell’economia dell’Ue rischiamo di prendere decisioni che potrebbero impedirne la crescita. A livello della nostra micro-scala ciò probabilmente si concretizzerà in una situazione in cui continueremo a sviluppare nuove startup basate su tecnologie partorite nella Ue, ma a portarle su scala industriale altrove. Il che, non serve dirlo, rappresenterebbe un’importante perdita per l’economia della Ue a lungo termine.” Lo afferma – in questa intervista per Materia Rinnovabile – Josko Bobanovic, partner del Sofinnova Green Seed Fund dedicato a diffondere attività legate alla chimica rinnovabile e alla bioenergia. Sofinnova Partners è una società di investimento in capitale di rischio con sede a Parigi. Con Bobanovic parliamo degli investimenti nella bioeconomia, del ruolo del capitale di rischio nel sostegno alla crescita di nuove compagnie e delle politiche europee per lo sviluppo del settore. Perché oggi può essere vantaggioso investire in aziende nel settore della bioeconomia? Alla Sofinnova guardiamo agli investimenti esclusivamente attraverso la lente della redditività con una chiara comprensione del fatto che tutte le nuove tecnologie seguono un certo percorso verso la redditività. Oggi le aziende del settore della bioeconomia si trovano davanti un’opportunità senza precedenti sul fronte del business grazie all’innovazione che stanno portando sul mercato. I clienti sono in cerca di nuove performance, materiali e soluzioni migliori, in gran parte già disponibili grazie alle recenti soluzioni della bioeconomia, specialmente attraverso avanzamenti nella biotecnologia ma anche mediante la capacità di produrre utilizzando materie prime differenti, spesso più economiche e con un prezzo più stabile. Allo stesso modo i processi petrolchimici sono stati ottimizzati
al massimo e ne è stato già spremuto ogni singolo centesimo di guadagno. La bioeconomia improvvisamente apre le porte a nuovi processi con maggiori guadagni o redditività su piccola scala, rendendoli quindi estremamente attrattivi. Uno dei chiari esempi nel nostro portfolio di investimenti è BioAmber (Bioa, per la Borsa di New York), azienda produttrice leader di acido succinico a base biologica, che utilizzando la sua tecnologia di fermentazione ha reso accessibili una serie di nuove applicazioni dell’acido succinico grazie alla sua economicità.
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Se la bioeconomia non verrà riconosciuta come il motore trainante dell’economia della Ue, rischiamo di prendere decisioni che potrebbero impedirne la crescita.
Quali sono i più importanti investimenti operati da Sofinnova in aziende appartenenti al settore della bioeconomia negli ultimi 2 o 3 anni? È una domanda alla quale è sempre difficile rispondere – come chiedere a dei genitori quale dei loro figli preferiscono – ma lasciatemi fare un esempio che, dal nostro punto di vista, ha il potenziale per cambiare profondamente l’aspetto di tutta la bioeconomia. Comet Biorefining è una società canadese che produce glucosio di alta qualità dalla biomassa lignocellulosica (legno, scarti agricoli ecc.): dopo aver provato il processo su una scala di 10 tonnellate al giorno, si sta attualmente preparando a costruire il suo primo impianto a livello commerciale. Lo zucchero, principalmente glucosio, rappresenta la materia prima chiave per molti processi basati sulla fermentazione. Oggi questi zuccheri sono ricavati da fonti alimentari come il mais o la canna da zucchero. In generale si prevede che la fase iniziale dello sviluppo bioeconomico si baserà su zuccheri commestibili, ma la sua crescita arriverà con l’accesso a zuccheri a base lignocellulosica sia per far fronte al dibattito “cibo contro carburante” sia, soprattutto, per eliminare l’alta volatilità dei prezzi dei prodotti. La Comet offre una soluzione basata su un equipaggiamento standard che è economicamente sostenibile a livello di impianti modesti (40.000 tonnellate all’anno), quindi con minori CapEx (capitali spesi per l’acquisto
di macchinari), producendo zuccheri di alta qualità a meno di 250 dollari a tonnellata. Questa tecnologia, una volta provata su scala commerciale, permetterà all’intera industria della fermentazione a valle di abbandonare gli zuccheri a base alimentare. Quali sono i parametri che considerate prioritari quando decidete di investire in una società? Gli investitori di capitali di rischio scommettono sulle persone. Cerchiamo veri imprenditori disposti a muovere le montagne per creare la società che sognano. Spesso diciamo che un team mediocre può distruggere una grande tecnologia, ma un grande team può trasformare una mediocre tecnologia in un successo. La loro ambizione è sempre costruita su tecnologie altamente differenziate e ben protette che possono essere applicate su scala industriale con un ragionevole investimento di capitali e indirizzate a mercati ampi. In che modo l’ambiente politico influenza le vostre scelte? L’ambiente politico non guida le nostre scelte: basiamo sempre le nostre decisioni su un’economia che esclude qualsiasi intervento governativo diretto, come i sussidi. Un chiaro esempio del pericolo è rappresentato dall’industria dell’energia solare negli ultimi anni. Detto questo alcuni elementi dell’ambiente politico aiutano le nostre società a raggiungere la scala commerciale più rapidamente. Questi possono includere garanzie, prestiti o garanzie sui prestiti, incentivi fiscali, decisioni legislative o mandati. In alcune parti del mondo c’è un’evidente competizione tra differenti livelli di governo (nazionale, regionale o cittadino) per promuovere condizioni favorevoli per la realizzazione della bioeconomia. Ciò viene valutato molto seriamente dalle società nel nostro portfolio quando devono scegliere dove industrializzare le loro tecnologie. Dal suo punto di vista di investitore, come considera le politiche di austerità perseguite dall’Unione europea? Potrebbero avere effetti negativi sullo sviluppo della bioeconomia? Siamo globalmente interessati alle economie in espansione, anche se il giudizio su come viene realizzata la crescita e che tipo di politiche macroeconomiche la agevolano va al di là delle nostre competenze. Allo stesso modo riconosciamo che l’unione monetaria è un nuovo esperimento e stiamo collettivamente imparando a farci i conti. Nel breve periodo desideriamo che si riconosca che diversi settori dell’economia – specialmente la bioeconomia – sul lungo termine non hanno lo stesso potenziale. Di conseguenza, se la bioeconomia non verrà riconosciuta come il motore trainante dell’economia della Ue, rischiamo di prendere decisioni che potrebbero impedirne la crescita. A livello della nostra micro scala ciò probabilmente si concretizzerebbe in una situazione in cui continueremo a sviluppare nuove start-up basate su tecnologie partorite nella Ue, ma a portarle
Policy su scala industriale altrove. Il che, non serve dirlo, rappresenterebbe un’importante perdita per l’economia della Ue a lungo termine. La Commissione europea organizzerà per i prossimi 9-10 novembre a Bruxelles il Bioeconomy Investment Summit. Potrebbe elencarci tre punti che vorrebbe sottoporre all’attenzione del summit per promuovere lo sviluppo degli investimenti nella bioeconomia? Premetto che l’Ue si trova in una posizione privilegiata: ha la più grande base di popolazione in un mercato comune con una chiarissima affinità per l’economia biobased e un potenziale agricolo, forestale e industriale altrettanto attrattivo. Attraverso vari programmi la Commissione ha storicamente fatto un discreto lavoro nel supportare la ricerca innovativa e la sua pre-commercializzazione. Per quanto riguarda i punti da evidenziare, per prima cosa riteniamo carente la capacità di accelerare
la crescita a scala industriale delle varie tecnologie mediante un supporto finanziario non diluitivo che, insieme al nostro forte impegno, aiuterebbe le società a colmare questo gap di finanziamento. L’Ue ha un bilancio ampio e dovrebbe usarlo per diversificare strategicamente il rischio connesso a portare a scala industriale tecnologie che rappresentano il futuro del continente. Secondo: uno dei meccanismi chiave per promuovere la crescita della bioeconomia passa attraverso l’investimento in fondi di capitale di rischio che si specializzano sul campo e idealmente ne vedremo emergere molti altri in Europa nei prossimi anni. Terzo: è necessario un meccanismo di incentivazione per grandi società che sono disposte a rischiare nell’espansione della bioeconomia e a fare squadra con start-up che portano nuove tecnologie sul mercato. Al meeting di Bruxelles la Sofinnova sarà rappresentata dal nostro presidente Denis Lucquin che parteciperà alla discussione su come i meccanismi della Ue possono promuovere ulteriori investimenti nella bioeconomia.
Intervista
L’accesso alla finanza è un problema critico Dirk Carrez, Executive Director Bio-based Industries Consortium
La Bbi sta usando la biomassa e i rifiuti europei per generare prodotti di alto valore e immetterli sul mercato.
“L’accesso alla finanza è un problema critico. In passato non esistevano molti fondi dedicati. Oggi si può avere accesso a una varietà di fondi differenti, inclusi quelli della European Investment Bank (Eib), Horizon 2020, Bbi Ju, European Structural and Investment Funds, banche private, senza dimenticare il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) o il cosiddetto Juncker Investment Plan. L’accesso e l’efficacia restano un problema. Si stanno cercando sinergie tra diversi fondi dell’Ue, ma la verità è che il panorama del finanziamento è troppo frammentato con diverse procedure tra istituzioni, regioni e organizzazioni che rendono l’intero processo molto lungo e complesso”. È quello che Dirk Carrez, Executive Director del Bio-based Industries Consortium, dice nella sua intervista per Materia Rinnovabile. Con Carrez parliamo della Bio-based industries Joint Undertaking e dei piani dell’Ue per finanziare la bioeconomia. Cos’è esattamente la Bio-based Industries Joint Undertaking? E perché è importante sostenere la bioeconomia europea? La Bio-based Industries Joint Undertaking (Bbi Ju) è l’entità legale fondata nel 2014 per amministrare e gestire la partnership pubblica-privata da 3,7 miliardi di euro sulle industrie biobased. La Commissione europea e il gruppo industriale multisettore, il Biobased Industry Consortium, hanno unito le forze per mettere in sicurezza un settore emergente e sviluppare la bioeconomia attraverso bandi annuali per nuove proposte, perseguendo progetti di ricerca
e innovazione e includendo progetti sperimentali e impianti di produzione “pilota”. Si tratta di uno strumento relativamente nuovo a livello europeo. Fino a poco tempo fa gran parte della ricerca e sviluppo finanziata dall’Europa veniva dislocata in altre parti del mondo. Gli European Framework Programmes, e specialmente il nuovo programma Horizon 2020, hanno in qualche modo cercato di contrastare questa tendenza concentrandosi sull’innovazione. La Ju come pure la Bbi stanno – quindi – andando oltre nella catena dell’innovazione. La Bbi non si fermerà alla fase di ricerca o a una fase pilota, ma porterà avanti progetti dimostrativi, creando impianti di produzione su piccola scala che potranno poi essere utilizzati per esplorare elementi come proof-of-concept, sostenibilità e competitività. Verranno integrati persino i cosiddetti flagship projects che godranno di finanziamenti specifici per gli impianti di produzione pilota in Europa. Naturalmente questi finanziamenti saranno disponibili per gli aspetti innovativi di questi impianti e non per l’intera infrastruttura. Mentre questo approccio già esiste in molte altre parti del mondo, in Europa è completamente nuovo. La Bbi sta usando la biomassa e i rifiuti europei per generare prodotti di alto valore e immetterli sul mercato. Al centro di questo processo ci sono avanzate bioraffinerie e tecnologie innovative che convertono le risorse rinnovabili in sostanze chimiche a base biologica, materiali e combustibili, permettendo alla Ue di ridurre la sua dipendenza dalle limitate risorse fossili. È importante sostenere una simile iniziativa a livello europeo, perché elimina i rischi da un settore
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materiarinnovabile 06-07. 2015 emergente e crea le condizioni strutturali per usare a proprio vantaggio le risorse rinnovabili, le tecnologie e il know-how industriale presenti. In questo contesto, qual è il ruolo del Bio-based Industries Consortium? Il Bio-based Industries Consortium (Bic) è il partner privato nella partnership pubblica-privata sulle industrie biobased. Il Bic supporta la Bbi Ju con un contributo di 2,7 miliardi di euro. Di questi 975 milioni sono usati per sostenere attività di ricerca e innovazione, mentre 1,7 miliardi vengono elargiti sotto forma di attività aggiuntive, come gli investimenti in infrastrutture. Bic è composto da un peculiare mix di settori: agricoltura, agroalimentare, biotecnologie/fornitori di tecnologie, silvicoltura/ industrie cartiere, chimica, energia e utilizzatori finali. Fondato nel 2012 per rappresentare collettivamente il settore privato nella Bbi, oggi Bic conta quasi 80 membri industriali puri (grandi imprese, piccole e medie imprese e gruppi di piccole e medie imprese) e circa 150 membri associati (organizzazioni di ricerca e tecnologia, università, associazioni, piattaforme tecnologiche). Un ruolo fondamentale di Bic è dirigere lo sviluppo dei Work Programmes annuali della Bbi Ju, in partnership con la Commissione europea. Inoltre Bic è coinvolto in attività di supporto finalizzate alla creazione di un ambiente politico e finanziario favorevole alle industrie biobased. L’introduzione nel pensiero mainstream del concetto di bioeconomia è essenziale per gli investimenti e per l’accettazione da parte della cittadinanza. Per questo Bic cerca costantemente nuove opportunità di partnership per promuovere i benefici della bioeconomia tra gli stati membri, le regioni, i settori, gli investitori e i consumatori della Ue. A quali progetti sono andati i primi finanziamenti? E quali sono i vostri piani per il futuro? Nel giugno 2015 – come risultato del primo bando indetto nel luglio 2014 – Bbi Ju ha approvato il finanziamento di 10 progetti per un totale di 120 milioni di euro. Sette saranno progetti di ricerca che affronteranno le sfide specifiche della catena di valore, come sostenibilità, tecnologia
e competitività. Due progetti dimostrativi proveranno la fattibilità tecnologica ed economica dei sistemi e dei processi delle bioraffinerie per produrre sostanze chimiche dal legno e ottenere – dalla polpa di barbabietola da zucchero – prodotti ad alto valore per detergenti, cura personale, pitture, rivestimenti e materiali composti. Infine, il progetto principale su scala industriale farà uso di cardi, piante da olio sottoutilizzate coltivate su terreni aridi e marginali, per ricavare oli vegetali da convertire in prodotti a base biologica (bio-lubrificanti, cosmetici, bio-plastiche). Anche i sotto- e i co-prodotti del processo saranno valorizzati per produrre energia, mangimi zootecnici e sostanze chimiche a valore aggiunto. La prima tornata di progetti delle Bbi ha avuto un effetto propulsivo: per 50 milioni di euro di denaro pubblico dalla Ue, sono stati 70 i milioni di euro da investimenti privati. E questo è solo l’inizio. Nel maggio del 2015 la Bbi Ju ha lanciato un bando da 100 milioni di euro per le proposte di progetti flagship riguardanti le materie prime lignocellulosiche, la valorizzazione della cellulosa e l’innovativo processo di recupero e conversione di zucchero dai rifiuti solidi urbani. Il 25 agosto è stata pubblicata la seconda parte del bando, questa volta focalizzata sulla ricerca e la dimostrazione. Complessivamente il budget stanziato per questo bando è di 106 milioni di euro: 28 per ricerca e innovazione, 12 per tecnologie per bioraffinerie innovative ed efficienti, mentre 64 milioni saranno stanziati per le dimostrazioni pratiche e 2 per le azioni di coordinazione e supporto.
L’introduzione nel pensiero mainstream del concetto di bioeconomia è essenziale per gli investimenti e per l’accettazione da parte della cittadinanza.
Policy per i biocarburanti di prima generazione. Molte società che hanno fatto partire i finanziamenti, ora si trovano a dover fermare la produzione perché non è chiaro quale sarà l’andamento delle cose. Da ciò emerge che la stabilità è la chiave per attrarre investimenti. E ciò vale per tutti i prodotti biobased. Sostenere la domanda di prodotti a base biologica mediante un sistema di approvvigionamento pubblico può certo essere un fattore trainante positivo. Anche se copiare l’US BioPreferred Program a livello della Ue non avrebbe, secondo me, lo stesso impatto che ha avuto negli Stati Uniti, dato che ogni stato membro o regione ha il proprio sistema di approvvigionamento. Occorre analizzare quale sistema potrebbe rappresentare un buon incentivo per sostenere la domanda di prodotti biobased in Europa. È quanto si sta facendo all’interno di un gruppo di esperti di prodotti a base biologica, coordinato dal Dg Grow della Commissione europea. Speriamo si arrivi a definire un buon modello per la Ue.
Sostenere la domanda di prodotti a base biologica mediante un sistema di approvvigionamento pubblico può certo essere un fattore trainante positivo.
Nell’Unione europea ci sono diversi fondi a sostegno della bioeconomia. Come possiamo coordinarli per evitare sprechi di denaro e supportare in modo significativo la bioeconomia? L’accesso alla finanza è un problema critico. In passato non esistevano molti fondi dedicati. Oggi si può avere accesso a una varietà di fondi differenti, inclusi quelli della European Investment Bank (Eib), Horizon 2020, Bbi Ju, European Structural and Investment Funds e di banche private. Senza dimenticare il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) o il cosiddetto Juncker Investment Plan. L’accesso e l’efficacia restano un problema. Si stanno cercando sinergie tra i diversi fondi della Ue, ma la verità è che il panorama del finanziamento è troppo frammentato in diverse procedure tra istituzioni, regioni e organizzazioni, il che rende l’intero processo molto lungo e complesso. La situazione negli Stati Uniti, per esempio, è molto più semplice, e ciò spesso porta a un vantaggio competitivo sull’Europa. Quindi sarà cruciale per la Ue, i governi, le regioni e le altre organizzazioni sovvenzionanti mettere in pratica queste sinergie teoriche per rendere l’investimento in Europa un processo uniforme. Per quanto la riguarda, quanto è importante il supporto alla domanda di prodotti biobased mediante un sistema di approvvigionamento verde pubblico? L’US BioPreferred Program potrebbe essere un modello realistico per l’Europa? Credo che la certezza del mercato sia una sfida notevole. Oggi all’interno della bioeconomia c’è un importante mercato per i biocarburanti, creato e stimolato da politiche di incentivazione. Comunque, le politiche non sono immutabili e recentemente sono state soggette a un importante dietrofront
Come considera le politiche di austerità perseguite dall’Unione europea? Potrebbero avere effetti negativi sullo sviluppo della bioeconomia? Per ora non mi aspetto effetti negativi. Prima di tutto il budget della Bbi Ju non ne è assolutamente influenzato. Inoltre il nuovo piano di investimenti dovrebbe fornire ulteriori opportunità per quelle società che vogliono investire in innovazione o impianti di produzione nell’area dei prodotti biobased. Oggi diversi dei nostri membri stanno trattando con la European Investment Bank per ottenere prestiti o garanzie per investimenti futuri. È un segnale molto positivo: vuol dire che c’è volontà da parte della nostra industria di investire nella bioeconomia europea. La Commissione europea organizzerà per il 9 e 10 novembre a Bruxelles il Bioeconomy Investment Summit. Può elencarci tre punti che vorrebbe sottoporre all’attenzione del summit per promuovere lo sviluppo della bioeconomia? Il mio primo punto riguarda la frammentazione del finanziamento pubblico e le complesse e lunghe procedure, come accennavo prima. Il secondo si riferisce alle regioni. Più regioni della Ue devono cominciare a pensare alle opportunità che hanno rispetto a materie prime come i rifiuti, i prodotti agricoli o la silvicoltura. Le regioni dell’Europa dovrebbero analizzare come utilizzare i fondi di sviluppo regionale e altri fondi per attrarre investimenti, e come sviluppare nuovi prodotti e nuovi mercati per creare nuovi posti di lavoro. Infine, è importante coinvolgere maggiormente gli azionisti “non convenzionali”. Un buon esempio è rappresentato dai settori industriali che attualmente non hanno grande familiarità con i prodotti dell’area biobased (non alimentari). Le città e le municipalità sono un altro buon esempio. Possono co-investire in impianti innovativi per convertire i loro rifiuti urbani in prodotti ad alto valore aggiunto. In tutti questi casi occorre esplorare e costruire nuove catene di valore e nuove partnership.
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Microplastic in the environMent Sources, Impacts & Solutions ber 2015 m e v o N 4 2 3 2 many r e G , e n g lo o C s, Maternushau
Goals
Confirmed speakers from
Scope
• Identify sources of microplastics and quantify the amount ending up in nature • Reveal impacts on marine ecosystems and human beings • Propose solutions for current problems, such as prevention, recycling and substitution with biodegradable plastics & other materials
University of Plymouth (GB), Mepex Consult (NO), COWI (DK), HYDRA (DE / IT), TU Berlin (DE), University of Bayreuth (DE), BUND – Friends of the Earth (DE), nova-Institute (DE), Plastic Soup Foundation (NL), OWS (BE), Jan Ravenstijn Consulting (NL), University of Stuttgart (DE)
The event will provide plenty of opportunities for discussion between producers, consumers, scientists, environmental organisations, governmental agencies and other interested stakeholders.
0 +++ More than 20 expected +++ participants are
www.microplastic-conference.eu Your contact Dominik Vogt +49 (0)2233 4814 - 49 dominik.vogt@nova-institut.de
nova-Institut GmbH Chemiepark Knapsack Industriestr. 300 50354 Huerth, Germany
Policy
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+++ WPC & NFC Newsticker at: +++
www.wpc-conference.com
© Resysta Furniture and Decking (2), Faurecia, Tecnaro
Sixth WPC & NFC Conference, Cologne Wood and Natural Fibre Composites 16 – 17 December 2015, Maritim Hotel, Germany
World’s Largest WPC & NFC Conference in 2015! Market opportunities through intersectoral innovation in Wood-Plastic Composites and Natural Fibre Composites
Programme, Sponsors: Dr. Asta Eder, asta.eder@nova-institut.de Organisation, Communication, Exhibition: Dominik Vogt, dominik.vogt@nova-institut.de
New applications – huge replacement potential in plastics and composites! ■ The international two-day programme, taking place in English
Organiser:
■ The world’s most comprehensive WPC exhibition ■ Vote for „The Wood and Natural Fibre Composite Award 2015“ ■ Gala dinner and other excellent networking opportunities
nova-Institut GmbH
Chemiepark Knapsack Industriestraße 300 50354 Hürth Germany
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LA METAMORFOSI
di un consorzio mentre cambia l’economia dei rifiuti In 30 anni più di 5 milioni di tonnellate di olio usato raccolte, 2,5 milioni di tonnellate di basi rigenerate prodotte, 3 miliardi di euro risparmiati dalle importazioni di petrolio, 1,1 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 evitate. Risultati ottenuti grazie alla capacità di affrontare i cambiamenti.
di Paolo Tomasi
Paolo Tomasi, ingegnere, presidente del Consorzio obbligatorio degli oli usati (Coou) dal 2003.
Fin dalla sua nascita, oltre 30 anni fa, un punto di forza del Consorzio obbligatorio degli oli usati è stato la scelta del modello giuridico. Il Coou è una struttura societaria di diritto privato che consorzia, in via obbligatoria, tutti i principali attori che operano nel settore dei lubrificanti: dalle grandi industrie petrolifere, a quelle che operano nella rigenerazione degli oli usati, fino a coloro che commercializzano oli lubrificanti. Il Consorzio è sottoposto al controllo pubblico di quattro ministeri: Ambiente, Sviluppo Economico, Economia e Finanze, Salute che hanno propri rappresentanti in Consiglio di Amministrazione. Una configurazione, quindi, dove le competenze, l’obbligatorietà, l’esclusione del fine di lucro, insieme all’obbligo di una gestione sana e trasparente sul piano industriale ed economico, hanno potuto creare una sinergia efficace nel conseguimento degli obiettivi di legge. Fin dall’inizio al Coou sono state attribuite competenze ampie: assicurare la raccolta anche in condizioni non accessibili in una logica
di mercato; monitorare e rendicontare alle autorità di controllo gli andamenti complessivi del fenomeno sul territorio nazionale; operare per l’informazione e l’educazione dei cittadini e degli operatori sugli aspetti di interesse ambientale. Raccogliere i lubrificanti usati non solo affinché non danneggino l’ambiente, ma anche perché possano tornare nel ciclo economico, industriale e di consumo con le modalità più vantaggiose per la comunità nazionale. In pratica: raccogliere più olio possibile; destinarlo ai processi di recupero e riuso più convenienti; ridurre al minimo le quantità e le tipologie di inquinanti residui, disponendone lo smaltimento in modo sicuro e nel rispetto di tutte le normative. Quale sia stata la performance ambientale del Consorzio è ben evidente nella figura 1 che mette a confronto il dato relativo all’olio usato teoricamente prodotto in Italia con la quantità effettivamente raccolta dal 1984 al 2008. Qualche numero: in trent’anni di attività sono state raccolte – e interamente acquisite nel ciclo
Case Histories
La raccolta, il trattamento e il riutilizzo di olio usato hanno portato il nostro paese a risparmiare circa 3 miliardi di euro sulle importazioni di prodotti petroliferi, ai valori 2014.
del riutilizzo – 5,238 milioni di tonnellate di olio usato. Di queste – con i processi di rigenerazione – 4,341 milioni di tonnellate (l’83% nei 30 anni, 91% negli ultimi 10) sono ritornate a essere olio lubrificante (ma anche gasolio e bitume); 0,565 milioni di tonnellate hanno sostituito fuel e carbone nella combustione; 0,028 milioni di tonnellate sono state avviate a termodistruzione poiché irrimediabilmente inquinate. Dalla rigenerazione sono state prodotte 2,592 milioni di tonnellate di basi rigenerate che entrano nelle formulazioni del 27% dell’olio lubrificante consumato in Italia. La raccolta, il trattamento e il riutilizzo di olio usato hanno portato il nostro paese a risparmiare circa 3 miliardi di euro sulle importazioni di prodotti petroliferi, ai valori 2014. Ma c’è un’altra e più importante faccia della medaglia. Si tratta della sostenibilità del nostro percorso che possiamo sintetizzare nei minori consumi di acqua, materia, suolo ed emissioni di CO2. In particolare: si è avuto un risparmio netto cumulato di 2,3 miliardi di metri cubi di acqua; si
è evitato il consumo di 6,4 milioni di tonnellate di materia prima vergine; si è registrato un risparmio netto cumulato di emissioni climalteranti di 1,1 milioni di tonnellate di CO2 equivalente e infine, in termine di consumo di suolo, sono stati risparmiati 7.306 ettari di terreni, rimasti nella loro configurazione originaria. Occorre saper cambiare quando è necessario Questi risultati, nella maggioranza dei casi, non derivano dalla circostanze o dalla fortuna, ma dalla scelta strategica di concepire il Consorzio come una struttura flessibile, in grado di affrontare il cambiamento quando necessario. Negli anni della mia esperienza di presidente, iniziata nel 2003, il Coou ha accentuato questo ruolo di supporto alla filiera, mettendo le proprie capacità al servizio delle aziende del comparto per compiere, di comune accordo, la metamorfosi che veniva richiesta dai mutamenti della realtà industriale e del mercato. In quegli anni, anche il nostro settore veniva coinvolto nella grande svolta che ha caratterizzato
Figura 1 | Produzione annuale di olio usato e quantità raccolta dal Consorzio 350
ton x 1.000
280
210
140
70
0 ’84 ’85 ’86 ’87 ’88 ’89 ’90 ’91 ’92 ’93 ’94 ’95 ’96 ’97 ’98 ’99 ’00 ’01 ’02 ’03 ’04 ’05 ’06 ’07 ’08 ’09 ’10 ’11 ’12 ’13 ’14 Produzione di olio usato
Olio raccolto dal Consorzio
Fonte: Coou.
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il mondo dei rifiuti all’inizio del terzo millennio: molti flussi di materiali cominciavano ad avere caratteristiche e qualità interessanti per il mercato e alcuni di essi valevano più del costo di raccolta determinando una serie di cambiamenti importanti all’interno dell’economia dei rifiuti. Dopo anni di stabilità stavano intervenendo sostanziali cambiamenti nei profili normativi, nell’organizzazione dei mercati e negli assetti delle aziende del settore, tali da configurare un sostanziale mutamento di scenario. C’era quindi la necessità di un riposizionamento strategico e anche la struttura operativa del Consorzio andava riformulata. Se da un lato, infatti, si evidenziavano inefficienze organizzative determinate dagli eccessivi costi e tempi di gestione della raccolta e stoccaggio dell’olio usato, dall’altra erano evidenti gli spazi di miglioramento del Consorzio nell’assolvere al suo mandato istituzionale. Per fare questo si è scelta la strada più radicale, ma più sicura: avviare uno studio di Bpr (Business process reengineering, riprogettazione dei processi aziendali) complessivo delle attività, rimettendo in discussione le modalità operative e le scelte, al fine di ridisegnare una struttura del Consorzio più idonea a rispondere alle esigenze di un contesto in rapida evoluzione. Si sono quindi rivisti i target settoriali, la politica di comunicazione, e studiate le necessarie modifiche strutturali (personale, organizzazione, sistemi informatici). La svolta nel 2009 Nel mese di settembre 2009 viene promulgato il Dl 135/09, per sanare i rilievi che la Commissione europea ha fatto all’Italia, riguardanti – tra l’altro – l’accisa agevolata sui prodotti energetici derivanti dall’attività di rigenerazione degli oli usati. Per il Consorzio si tratta di un importante incremento di competenze. Il decreto infatti, oltre a unificare l’accisa gravante su tutti gli oli lubrificanti, vergini o rigenerati a 750 euro/ton, riafferma l’obbligo del Consorzio di destinare alla rigenerazione tutti gli oli ritenuti idonei allo scopo e di riconoscere alle raffinerie un corrispettivo per il trattamento (vera novità); e quello di destinare a combustione tutto l’olio usato non rigenerabile. Un secondo importante cambiamento del quadro di riferimento è indotto dal drammatico calo del consumo dei lubrificanti, dai quali, alla fine del ciclo di vita tecnica, si origina l’olio usato. Dal 2000 a oggi i consumi di lubrificante si sono ridotti del 40% (260.000 tonnellate in meno). Un fatto non marginale ma traumatico, in quanto parte di un fenomeno strutturale e non congiunturale. Era dunque indispensabile una rilettura complessiva del contesto: meglio accelerare
la razionalizzazione della filiera per dare alle imprese nuova competitività indispensabile per affrontare un mercato aperto agli operatori esteri. Lo scenario, infatti, si complica per l’interesse di rigeneratori stranieri all’olio usato italiano. Il Consorzio affronta un tema nuovo: ripartire la raccolta di olio usato rigenerabile tra operatori non solo nazionali. Entra in crisi il faticoso equilibrio raggiunto dalla filiera e sono a rischio gli importanti risultati ambientali ed economici raggiunti. La raccolta di olio, già in forte flessione, non basterà a mantenere in equilibrio economico le raffinerie italiane. Viene richiesto al Ministro dell’Ambiente di interpretare le previsioni fornite dalla Direttiva europea in materia. In risposta viene emanata una circolare (la 0023876 del 26 marzo 2013 GAB) che argomenta in dettaglio l’opportunità ambientale di bloccare l’esportazione di olio usato italiano. Ma soprattutto offre una opportunità che va al di là degli obiettivi di tutela dell’ambiente, in quanto concede alle aziende della filiera olio usato il tempo tecnico necessario per ripensare il loro futuro, ovvero riprogettarsi in termini dimensionali diversi, macro e non micro. Purtroppo non tutte le aziende comprendono immediatamente l’entità del cambiamento: non basta più la capacità e l’esperienza ma occorre fare i conti anche con la globalizzazione. Ma c’è un terzo e altrettanto importante tema da risolvere: il fatto che il Consorzio, gestendo praticamente tutto l’olio usato nazionale, possa
Info www.coou.it
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Molti flussi di materiali cominciavano ad avere caratteristiche e qualità interessanti per il mercato e alcuni di essi valevano più del costo di raccolta determinando una serie di cambiamenti importanti all’interno dell’economia dei rifiuti.
Autorità garante della concorrenza e del mercato, www.agcm.it
rappresentare un elemento di distorsione del mercato. Infatti, dovendo ripartire l’olio usato tra tutte le imprese richiedenti, proprio perché in posizione dominante, vincola queste società al ritiro di quantità di olio usato non solo fisse, ma anche in riduzione essendo il mercato dei lubrificanti italiano in forte contrazione. In questa complessa situazione, quindi, non solo l’aspetto operativo della “filiera olio usato” è cambiato, ma anche tutti i relativi equilibri economici. Il sistema uguale a se stesso da tanti anni sembra entrare in crisi: il Coou comincia a pensare che, a certe condizioni, può anche non essere più l’acquirente unico dell’olio usato raccolto in Italia. Dall’analisi emergono linee guida che confermano il Consorzio nel ruolo di assicurare e incentivare la raccolta, favorendo contemporaneamente il passaggio alla libera contrattazione tra gli operatori del mercato (raccolta e rigenerazione) l’acquisto/cessione degli oli usati. Per mantenere in equilibrio il sistema in ogni condizione al contorno, il Consorzio si impegna a intervenire in via sussidiaria, nei casi di fallimento del mercato garantendo il servizio universale affidatogli dalla legge. Con questo nuovo modello, è il mercato a stabilire quando sia necessario che il Consorzio svolga il suo ruolo di sussidiarietà verso la raccolta e la rigenerazione; tuttavia ogni variazione è sempre visibile con largo anticipo.
Il Consorzio quindi modifica il proprio modello di gestione; l’olio usato comincia lentamente a essere conteso tra i rigeneratori – non più ripartito tra tutti i richiedenti – in un mercato che sta diventando sempre più libero, mentre la raccolta sarà garantita, per quanto congiunturalmente necessario, da un acquirente di ultima istanza. Una conferma della bontà della scelta viene da quanto detto dal professor Pitruzzella, presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), in una audizione al Senato a novembre 2014, “… una possibile soluzione che contemperi le esigenze di rispettare i principi concorrenziali e garantire gli oneri di servizio pubblico potrebbe dunque essere data dalla ristrutturazione del sistema consortile verso un modello di consorzio di ultima istanza, come sembra stia avvenendo da ultimo nel mercato degli oli usati, in cui si è passati dal modello del Consorzio obbligatorio – in cui questo prelevava l’olio usato dalle aziende di raccolta per assicurarlo alla rigenerazione – a un sistema che vede prevalere il contatto diretto tra aziende di raccolta e impianti di rigenerazione, nell’ambito del quale si pone come ‘intermediario di ultima istanza’, che interviene cioè solo qualora il mercato non sia in grado di autoregolarsi…”.
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Ecco come si passa da un BICCHIERE DI PLASTICA allo SCOOTER Bastano 45 minuti di lavorazione per trasformare il plasmix in granuli. Con cui realizzare prodotti per l’edilizia, componenti di scooter e di veicoli elettrici. E riciclare le plastiche miste anziché destinarle al recupero energetico produce poco più di un decimo delle emissioni climalteranti. di Roberto Rizzo
Roberto Rizzo è un giornalista scientifico esperto di tematiche energetiche e ambientali e dal 2010 insegna al Master di Giornalismo Scientifico della Sissa di Trieste.
La raccolta differenziata è un po’ come una partita di calcio. Nel primo tempo si produce il bene, lo si consuma e poi, se possibile, lo si invia alla raccolta differenziata. Nel secondo tempo avvengono la selezione dei materiali adatti per il riciclo, il riciclo stesso e la ricollocazione sul mercato. In Italia, però, tendiamo a guardare il risultato già alla fine del primo tempo e ci interessiamo meno a quello che accade nel secondo. Ovvero, puntiamo l’attenzione sulla percentuale di raccolta differenziata, mentre è solo quando si riesce a ricollocare sul mercato il bene o la materia prima seconda che si decide se si è vinto il match. Revet Recycling è in campo per far vincere il riciclo nel settore critico del plasmix, le plastiche miste post-consumo come vasetti dello yogurt, piatti e bicchieri usa e getta, vaschette, film, retine, shopper (55% del totale delle plastiche usate) che sono le più difficili da riciclare. Si evita in tal modo che il plasmix prenda la strada del recupero energetico, come avviene quasi sempre in Italia e all’estero. “C’è una fortissima domanda dei nostri prodotti, perché i motori dell’economia mondiale, prima fra tutti la Cina, ne richiedono
elevati quantitativi” spiega Alessandro Canovai, presidente di Revet Recycling. “Il mercato è quindi in forte espansione e la domanda è ben maggiore della nostra capacità di produzione, che raggiunge le 15.000 tonnellate annue. Al momento lavoriamo unicamente imballaggi che provengono da questa regione – prosegue Canovai – e tengo a sottolineare come la nostra sia un’esperienza dall’alto valore tecnologico per lo sviluppo del territorio toscano. Oggi c’è uno sforzo importante da parte dei gestori del ciclo dei rifiuti della Toscana e soci di Revet, per portare il livello complessivo dell’Lca del sistema di riciclo a valori di eccellenza e di piena sostenibilità industriale: da parte nostra, siamo fortemente impegnati per un migliore sviluppo delle potenzialità di mercato dei nostri prodotti”. La selezione dei materiali Nel 2013 a Pontedera (Pisa) Revet Recycling ha inaugurato un nuovo sito produttivo. Qui vengono realizzati granuli e, in base alle richieste di mercato, un densificato che è un sottoprodotto del processo di lavorazione. In questo sito, che è costato poco più di 5 milioni di euro, arrivano le plastiche selezionate da Revet Spa, azienda che
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da polipropilene con una tolleranza del 5% e per il 55% di polietilene a bassa densità, con la medesima tolleranza del 5%. Una forchetta del 5% per questo tipo di prodotti, provenienti dal riciclo di plastiche miste, è un intervallo di confidenza di tutto rispetto. Uno dei risultati più importanti che l’azienda ha ottenuto in questi due anni di lavoro è stato proprio quello della standardizzazione del prodotto immesso sul mercato: il cliente che compra i granuli Revet sa che da un mese all’altro non si troverà di fronte a variazioni di rilievo.” Il processo produttivo
Revet Recycling è in campo per far vincere il riciclo nel settore critico del plasmix, le plastiche miste post-consumo come vasetti dello yogurt, piatti e bicchieri usa e getta, vaschette, film, retine, shopper (55% del totale delle plastiche usate) che sono le più difficili da riciclare.
raccoglie l’80% dei rifiuti toscani e che insieme a Refri Srl è uno dei due azionisti di Revet Recycling. Nella selezione iniziale vengono suddivise le plastiche per tipo di polimero e talvolta anche per colore in modo di avviarle ai rispettivi canali di riciclo attraverso il sistema Conai. Le plastiche miste, invece, sono destinate a Revet Recycling, che opera un’ulteriore selezione individuando i polimeri a base poliolefinica (polietilene e polipropilene). “Non è possibile realizzare un impianto dove accogliere qualsiasi tipo di polimero, perché ciascuno di essi ha temperature di fusione e parametri di processabilità diversi” spiega Emanuele Rappa, amministratore delegato di Revet Recycling. “La selezione del materiale è duplice: la prima a secco, per mezzo di selettori ottici, è fatta da Revet; la seconda, la nostra, viene fatta nelle vasche di pre-lavaggio, dove il materiale più pesante va a fondo e viene espulso dal ciclo produttivo, mentre quello più leggero, che galleggia, può essere riciclato. Il processo di riciclo è tarato su polimeri a base di polietilene e polipropilene e la composizione chimico-fisica del prodotto finale ha un grado di tolleranza molto stringente. Pensiamo al nostro granulo Refill14, che è composto mediamente per un 10%
Da quando il plasmix entra nel processo produttivo all’uscita del granulo finito passano circa 45 minuti, un tempo che varia leggermente in funzione dalle caratteristiche del materiale di partenza. La linea produttiva ha uno sviluppo lineare di circa 120 metri ed è in grado di trattare da 1.5002.000 chili l’ora di plasmix, per un totale di circa 15.000 tonnellate l’anno. In sintesi, il processo di produzione dei granuli può essere suddiviso in quattro fasi: triturazione, lavaggio, riscaldamento e trafilatura. Nella prima fase (triturazione) la plastica è caricata su nastri e viene lavorata da due trituratori gemelli che la sminuzzano in una pezzatura inferiore ai due centimetri. Successivamente, il materiale viene messo in una prima vasca di prelavaggio, grazie a cui si espelle la porzione più pesante (detriti e poliestere) mentre la frazione galleggiante viene inviata a due centrifughe che separano il materiale dall’acqua di lavaggio e da inquinanti solidi per poi passarlo in una vasca di lavaggio vera e propria che serve per la depurazione. La fase di riscaldamento viene effettuata per mezzo di due essiccatori centrifughi e di due torchi, che strizzano ulteriormente il materiale. Da qui, la plastica entra in un densificatore, dove si raggiunge la temperatura di fusione di circa 200 °C arrivando a produrre una sorta di pasta dentifricia. Infine, dopo un ulteriore filtro che serve a togliere le ultime impurità, il fuso viene trafilato in spaghetti, che vengono poi tagliati da una lama rotante. “Il processo è tutt’altro che banale e necessita di una serie di impianti secondari a servizio di quello primario” spiega Emanuele Rappa. “In particolare, è attivo un depuratore dell’acqua, che in parte viene riutilizzata nel ciclo produttivo e in parte espulsa. Ma l’elemento più innovativo del nostro
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materiarinnovabile 06-07. 2015 processo industriale non è rappresentato tanto dai macchinari quanto dal know-how che abbiamo sviluppato e acquisito per giungere al prodotto finale. Mi riferisco soprattutto alle tipologie di materiali che usiamo per alimentare l’impianto e ai rapporti per realizzare le mescole. I macchinari sono comunque di ultima generazione: proprio pochi mesi fa abbiamo rinnovato l’estrusore – il cuore del ciclo produttivo – comprandone uno nuovo da un produttore della provincia di Reggio Emilia, leader del settore. Nella meccanica applicata al riciclo dei materiali l’Italia detiene, infatti, il primato delle eccellenze mondiali.”
Parchi pubblici toscani, sostenibili e a filiera corta: gli arredi sono realizzati con le plastiche miste raccolte in modo differenziato in Toscana e riciclate da Revet Recycling
I prodotti finali
Info www.revet-recycling.com
Revet Recycling non produce un granulo generico ma realizza varie mescole, definite in base alle necessità dei clienti con cui collabora. Il prezzo del prodotto finale è molto variabile perché dipende dalla tipologia di prodotto, se è colorato o meno, e dalle quantità acquistate. “Una prima esperienza che mi piace ricordare è con l’azienda toscana Roofy, che con i nostri granuli realizza prodotti per l’edilizia, come le coperture leggere adatte alla realizzazione o ristrutturazione di ogni tipo di tetto, ma anche dei giardini, con le piastrelle per camminamenti e rivestimenti di aree esterne Roofy Floor” afferma Rappa. “Abbiamo sviluppato un prodotto in grado di rispondere ai bisogni delle applicazioni edilizie: non deve scolorire al sole e deve essere resistente a caldo e freddo estremi. Il fatto che questi prodotti si possano trovare anche nella grande distribuzione, presso i punti vendita di Leroy Merlin, è un segnale dell’interesse dei consumatori finali per beni da riciclo. Un secondo progetto di rilievo è stato quello
Compostiere sostenibili tre volte: permettono di ridurre i rifiuti da gestire e di produrre compost da utilizzare in orti e giardini e per realizzarle non sono stati utilizzati polimeri vergini
con Piaggio. In questo caso il nostro polimero è stato usato, insieme ad altri, per realizzare alcune parti (interne e a vista) di uno scooter ibrido: portasella, controscudo, portafiltro, portatarga, bauletto, pedaliere. Si è trattato di una collaborazione importante, anche se adesso è conclusa, grazie alla quale abbiamo dimostrato che partendo dalle plastiche miste opportunamente lavorate riusciamo a ottenere una mescola in grado di soddisfare anche gli standard tecnologici più elevati.” Da alcuni mesi Revet Recycling sta collaborando con Sei Toscana, l’azienda che si occupa della raccolta dei rifiuti nella Toscana del Sud (province di Arezzo, Grosseto e Siena), per la realizzazione di veicoli elettrici usati nella raccolta nei centri storici delle città. “Con questo progetto chiudiamo il cerchio: i cittadini vedono concretamente come sono utilizzate le plastiche che in passato avevano raccolto.” Oltre al granulo, su richiesta Revet Recycling può produrre un materiale densificato che è un sottoprodotto del processo di lavorazione. È il materiale che fuoriesce dal processo produttivo prima della granulazione: viene impiegato per realizzare profili di varie forme e dimensioni, che vengono utilizzati in sostituzione del legno per creare arredi urbani. Questo ambito produttivo aveva riscosso un certo interesse alcuni anni fa quando la precedente giunta della Regione Toscana aveva emesso due bandi per finanziare l’acquisto di arredi per esterni in plastica riciclata. “Ci auguriamo che anche la nuova giunta regionale prosegua in questa attività” spiega Rappa.
Case Histories Dieci volte meno gas serra Prima di realizzare l’impianto produttivo di granuli provenienti dal plasmix, Revet aveva commissionato a un’azienda terza (E-cube) il calcolo dell’impronta ecologica dei due processi a cui può andare incontro la plastica mista: il riciclo delle plastiche miste (come avviene nel sito di Revet Recycling) e l’avvio delle plastiche al recupero energetico. La stima ha evidenziato che l’attività di riciclo ha delle emissioni climalteranti quasi dieci volte inferiori rispetto al recupero energetico. Considerando anche la fase di combustione, le emissioni totali legate allo scenario “Preparazione al recupero energetico” (produzione del combustibile da rifiuti, Cdr) sono infatti pari a 37.358,8 tCO2e/anno (2.400 kgCO2e per tonnellata di rifiuto trattato), mentre nello scenario “Recupero di materia” (produzione di granulo e profilati), le emissioni totali sono pari a 4.585,6 tCO2e/anno (290 kgCO2e per tonnellata di rifiuto trattato). Esattamente il 12,3% rispetto a quelle prodotte dal recupero energetico.
“Gli enti locali della Toscana sono più attenti di altri relativamente agli acquisti verdi della pubblica amministrazione, ma non ancora abbastanza. L’interesse dei Comuni toscani è a macchia di leopardo e ritengo sia importante che gli enti locali abbiano questo tipo di attenzione perché sono i principali responsabili della raccolta differenziata nei confronti dei cittadini e dovrebbero quindi essere i primi ad acquistare prodotti realizzati in materiali da riciclo. A livello normativo sarebbe necessario intervenire proprio su quelle materie, come il plasmix, più difficili da riciclare. Se il Pet è un materiale che viene riciclato da decenni e non necessita di incentivi, il riciclo del plasmix invece avrebbe bisogno di essere incentivato, esattamente come avvenuto con le energie rinnovabili. Il riciclo delle plastiche miste soffre in Italia di alcune distorsioni che vanno in direzione opposta a quanto indica anche la gerarchia europea, che privilegia il recupero di materia rispetto al recupero di energia.” L’apertura verso l’estero Oggi metà della produzione di Revet Recycling è venduta in Italia e l’altra metà viene esportata, soprattutto in Estremo Oriente ed Europa. “Abbiamo un importante cliente in Cina, una grande azienda con una produzione assai diversificata in ambito industriale” prosegue Rappa. “Spesso si pensa, erroneamente, che le aziende cinesi siano poco attente alla qualità. Invece, il nostro cliente cinese ci ha scelto anche per tutta una serie di analisi chimo-fisiche con cui
Comparazione delle emissioni (tCO2/anno) Recupero energia Trasporto
1
Triturazione
2
Lavaggio
3
Recupero energia (senza combustione)
380,8
380,8
471,91
521,35
83,15
Depurazione 3a Densificazione (continua+ discontinua)
4
Granulazione
5
Produzione Cdr
6
Trasporto Cdr
7
Estrusione
8
Incenerimento Cdr
9
1.269,66
1.179,77
2.595,2
2.595,2
271,2
271,2
134,83
52.815,4
Trasporto granulo 10 e profilati
12,95
Altri consumi (muletto, aspirazione...)
Fonte: E-cube, 2012.
Recupero materia
889,25
TOT 56.062,6
TOT 3.247,2
corrediamo le nostre forniture e tutti i mesi realizza approfondite contro-analisi sui nostri prodotti.” “Attualmente – spiega Alessandro Canovai – siamo attivi a livello internazionale per cercare di raggiungere a livello commerciale mercati che hanno una forte domanda per il nostro granulo e che quindi hanno anche prezzi d’acquisto migliori. Questo ci ha portato a condurre numerosi scouting commerciali. Quella di estendere la propria esperienza anche su altri territori, italiani ed esteri, è un’ambizione di Revet Recycling, ma prima dobbiamo consolidare alcuni elementi nel nostro percorso: lo stabilimento di produzione di granuli ha due anni e i numeri industriali vanno misurati sul lungo periodo. Fondamentale per noi proseguire negli investimenti in Ricerca&Sviluppo” conclude Canovai. “La fase di ricerca, finanziata in parte anche dalla Regione Toscana, che si è concretizzata nella realizzazione dell’impianto produttivo di Pontedera aveva preso avvio nel 2010 ma sta proseguendo tuttora, anche grazie alle collaborazioni con le Università di Pisa e Firenze.”
TOT 4.562,9
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materiarinnovabile 06-07. 2015
Il futuro dei mattoncini Lego è BIOBASED Svolta ambientalista per il maggiore produttore al mondo di giocattoli. Abbandonata la partnership con Shell, il Gruppo Lego ora vuole ridurre il proprio impatto ambientale e utilizzare materie prime sostenibili.
di Mario Bonaccorso
I mattoncini Lego del futuro saranno biobased. Il maggiore produttore al mondo di giocattoli ha deciso di investire nella ricerca, nello sviluppo e nell’implementazione di nuove materie prime sostenibili, da utilizzare nella produzione dei suoi celebri mattoncini colorati e degli imballaggi. La società, fondata nel 1932 a Billund in Danimarca, che dal 1949 fa sognare milioni di bambini in tutto il mondo con i suoi mattoncini colorati, ha annunciato lo scorso giugno, nell’ambito degli obiettivi di sostenibilità che si prefigge per il 2030, un piano di investimenti da un miliardo di corone danesi (circa 135 milioni di euro) e l’assunzione di oltre 100 dipendenti, grazie all’inaugurazione del Lego Sustainable Materials Centre, che entrerà a pieno regime entro la fine del 2016. È l’inizio di una nuova era per l’industria dei giocattoli, che parte dalla volontà del Gruppo Lego di ridurre il proprio impatto ambientale sul pianeta. Una svolta fortemente ambientalista che segue la fine della partnership con Shell, annunciata nell’ottobre del 2014 in seguito alla campagna online di protesta lanciata da Greenpeace contro le trivellazioni nell’Artico. Un video, divenuto in poco tempo virale in rete, mostrava un paesaggio artico in cui campeggiava una piattaforma della Shell fatta di mattoncini Lego in cui persone e fauna venivano sommersi dal petrolio. Ogni anno nel mondo vengono prodotti oltre 60 miliardi di mattoncini Lego con l’impiego di 6.000 tonnellate di Abs (una miscela di acrilonitrile-
butadiene-stirene), che oggi viene ricavata da combustibili fossili: benzene ed etilene per lo stirene, butano per il butadiene e ammoniaca e propilene per l’acrilonitrile. Come sono fatti oggi i mattoncini Lego Fino al 1963 il materiale utilizzato per i mattoncini era l’acetato di cellulosa. La sostituzione a favore della plastica Abs avvenne perché questa era considerata un composto più stabile. La miscela Abs – dicono gli esperti – è atossica, meno soggetta a deformazioni e perdita di colore e più resistente al calore, agli acidi e ad altri agenti chimici. I mattoncini prodotti a partire dal 1963 conservano ancora la loro forma e il loro colore a distanza di 50 anni e ancora oggi possono essere collegati con mattoncini prodotti dalla Lego. Il che ne garantisce una forte identità e riconoscibilità nel mercato. Ma è possibile oggi arrivare all’impiego di materie prime rinnovabili per produrre Abs? Sono diverse le società chimiche o biotecnologiche che ci stanno già provando. Sulle tracce del bio-butadiene ci sono – tra gli altri – Genomatica con Versalis (la divisione chimica del gruppo petrolifero italiano Eni) e Novamont, LanzaTech con Invista, Global Bioenergies con Synthos, il produttore di pneumatici francese Michelin con Axens e IFP Energies Nouvelles, Amyris con Kuraray. Nel campo della produzione di bio-benzene è attiva la Anellotech, una società biochimica newyorchese che impiega una tecnologia di cui è proprietaria (Cfp, Catalytic Fast Pyrolysis) per cui prevede le prime applicazioni industriali a partire dal 2019.
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Jørgen Vig Knudstorp
Video “Shell is polluting our children’s imaginations” tinyurl.com/pqrrhrt
Per quanto riguarda l’acrilonitrile, chi sta cercando di arrivare a un acido acrilico biobased è la Cargill, che recentemente ha acquisito la OPX Biotechnologies, una società con sede in Colorado (Usa) la quale ha annunciato l’inaugurazione del primo impianto commerciale per bio-acrilico nel biennio 2017/18. Se si guarda ai precursori di acrilonitrile, molto avanzata è la ricerca di propilene biobased. In questo campo si possono segnalare Grand View Research dopo l’acquisizione di Cereplast, Braskem, Dow Chemicals e Biobent Polymers, una piccola società americana fondata dalla Battelle, la più grande società di ricerca e sviluppo no profit al mondo, e da Univenture con lo scopo di commercializzare un polipropilene biobased al 10-40%. Alla ricerca di nuovi materiali E uno dei compiti del Lego Sustainable Materials Centre, che ha la sua sede operativa a Billund, sarà proprio avviare partnership con alcuni di questi progetti in corso. “Si tratta – afferma Jørgen Vig Knudstorp, amministratore delegato del Gruppo Lego – di un notevole passo avanti per il Gruppo Lego, destinato ad avvicinarci ai nostri obiettivi per il 2030 in fatto di materie sostenibili. Siamo già attivamente impegnati nella limitazione delle emissioni di carbonio e in iniziative volte a ottenere un impatto positivo sul nostro ecosistema. Per esempio riducendo le dimensioni degli imballaggi grazie alla certificazione Fsc (Forest Stewardship Council) e con investimenti in un parco eolico offshore.
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Ora il nostro impegno si estenderà anche alle materie prime.” “I test e le ricerche già effettuate – continua Knudstorp – ci hanno permesso di misurarci meglio con le sfide da affrontare per raggiungere questi obiettivi. La nostra risposta è il dispiegamento di un numero significativo di risorse aggiuntive per essere pronti a passare rapidamente alla fase successiva nella nostra ricerca di materie prime sostenibili.” Con l’obiettivo di sviluppare una strategia in merito alle materie sostenibili, già nel 2013 il gruppo danese ha siglato la partnership “Climate Savers” con il Wwf, con cui poi nella primavera del 2015, ha anche avviato una collaborazione finalizzata alla valutazione della sostenibilità generale e dell’impatto ambientale delle nuove materie biologiche per gli elementi Lego e gli imballaggi.
Foto di Dirkb86, elaborazione grafica
Info www.lego.com smc@LEGO.com
“Non esiste una definizione comune di materia sostenibile”, sottolinea Knudstorp. “Diversi fattori influiscono sull’ecosostenibilità di un materiale: dalla sua composizione al metodo utilizzato per estrarlo, al raggiungimento della fine del ciclo di vita del prodotto. Quando cerchiamo nuovi materiali dobbiamo considerare tutti questi fattori. Ciò che annunciamo è un investimento a lungo termine, e l’impegno di garantire la ricerca e lo sviluppo di nuovi materiali che ci permettano di continuare a offrire esperienze di gioco creativo di alta qualità in futuro, senza compromettere l’ambiente e il futuro delle generazioni a venire.”
E l’innovazione va a braccetto con la crescita Intanto sul mercato non si arresta la crescita dell’azienda scandinava, che nel 2014 ha detronizzato l’americana Mattel come maggiore produttore di giochi al mondo. Tanto che Lego ha archiviato il primo semestre dell’anno con un utile netto in rialzo del 31% a 3,55 miliardi di corone (476 milioni di euro), mentre i ricavi sono aumentati del 23% a 14,14 miliardi di corone, spinti dal dollaro forte. Al netto delle variazioni valutarie, le vendite sono cresciute del 18%. “Tutte le regioni hanno registrato una crescita a due cifre nel primo semestre, ma l’Asia è particolarmente soddisfacente perché ha messo a segno il più elevato tasso di crescita, alla luce dei considerevoli investimenti che facciamo per globalizzare l’azienda”, ha spiegato il direttore commerciale Loren Shuster. Entro la fine dell’anno, Lego aprirà il primo stabilimento in Cina, vicino Shanghai, destinato inizialmente solo a imballare i prodotti fabbricati altrove. Nei primi sei mesi del 2015, il Gruppo Lego ha avviato una serie di nuove assunzioni a livello globale fino a superare oggi il numero di 15.000 dipendenti. E – fa sapere la società danese – dal 2010 il numero dei dipendenti è aumentato di oltre il 50%. “Il nostro programma di innovazione, finalizzato a concretizzare i suggerimenti offerti dai consumatori in fase di progettazione, manifattura e, infine, vendita – sostiene Julia Goldin, executive vice president e chief marketing officer – si è dimostrato quest’anno più che mai efficiente. Durante la prima metà del 2015 abbiamo introdotto sul mercato oltre 300 set Lego diversi, dagli eroici ninja di Lego Ninjago™ alla gru mobile Lego Technic con i suoi impeccabili dettagli, per arrivare all’avventuroso tema fantasy Lego Elves. Questa strategia ci consente di mettere prodotti e servizi a disposizione di bambini di età, interessi e provenienze geografiche diverse, ma sempre basati sul sistema Lego e sull’infinito potenziale creativo del mattoncino Lego.” Del resto, i mattoncini Lego negli anni hanno resistito con forza alla diffusione di videogiochi e nuovi giocattoli ipertecnologici. Fino a meritare il titolo di giocattolo più emozionante di tutti i tempi attribuito da alcuni esperti del settore, grazie alla sua combinazione di divertimento, creatività e rapporto qualità-prezzo. Per la cronaca: al secondo posto Scrabble, al terzo Action Man (prodotto prima da Politoy e poi da Hasbro). Appena giù dal podio: Frisbee e Monopoli.
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CIRCOLARE
sì, ma quanto? Il rapidissimo diffondersi del termine rende necessaria la messa a punto di strumenti che permettano a imprese e utenti di fornire e ricevere informazioni efficaci sulle prestazioni “circolari” di un prodotto.
di Marco Capellini
Marco Capellini, tra i primi a occuparsi in Italia di design per la sostenibilità. Ceo di Matrec – Sustainable Materials & Trends, e libero professionista presso il suo studio MarcoCapellini | sustainable design & consulting.
Negli ultimi anni l’economia circolare è stata al centro di un’attenzione sempre crescente, fino ad arrivare a essere oggi quasi uno slogan/simbolo per contestualizzare interventi a carattere ambientale apportati (o da apportare) a un prodotto. Il dibattito in sede comunitaria – e la relativa scadenza dello scorso 28 agosto in merito alla consultazione pubblica – ha portato imprese, associazioni, consorzi e pubbliche amministrazioni europee ed extra-europee a confrontarsi sul tipo di approccio da seguire. E sulle modalità con cui le diverse tipologie di prodotti/rifiuti dovrebbero essere considerati in termini recupero e riciclo.
stessa commissione Ue, resta comunque il fatto che occorre contestualizzare le misure adottate con strumenti in grado di monitorare le azioni introdotte e i successivi risultati raggiungibili e raggiunti.
Ma, al di là di questo acceso e aperto dibattito politico, che dovrebbe portare entro la fine dell’anno a un documento guida emanato dalla
Focalizzando quindi l’attenzione sul come quantificare o misurare la circolarità di un prodotto, la tematica – per quanto delicata
E questo può essere fatto solo attraverso un controllo a diversi livelli – dalla singola impresa fino al territorio comunitario – e utilizzando strumenti e metodologie in grado di “misurare” l’effettiva azione intrapresa rispetto alla circolarità di un prodotto. Altrimenti il rischio è di avviare azioni e politiche ambientali in materia di economia circolare senza obiettivi precisi e senza la garanzia che il percorso avviato sia efficace per la salvaguardia delle risorse naturali e l’avvio di un vero mercato dei materiali riciclati.
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Livello base 90 Materiali kg Riciclo kg Discarica kg
8 2
INPUT Produzione
Imballaggio
Manutenzione 71
21 5 2
7
2
1
OUTPUT Produzione
Imballaggio
15%
INPUT
La flessibilità di approccio favorisce sicuramente la diffusione della metodologia, lasciando però alle imprese la possibilità di definire il grado di approfondimento/ miglioramento per progredire.
Manutenzione
Fine vita
85%
OUTPUT
Rispetto alla materia prelevata dal sistema, quanta ne viene restituita?
e complessa – deve tener conto di una serie di aspetti quali: •• l’impiego di indicatori unici sul flusso di massa dei materiali per arrivare a un risultato unico, misurabile e confrontabile tra tipologie di prodotti; •• la differenziazione delle tipologie di risorse impiegate: materie prime da fonte rinnovabile e non rinnovabile, materiali riciclati e riciclati permanenti; •• la determinazione del limite temporale per cui un materiale può essere definito da fonte rinnovabile; •• gli aspetti sociali della filiera produttiva (supply chain); •• il coinvolgimento attivo del consumatore nelle scelte di acquisto di un prodotto virtuoso mediante una comunicazione semplice e comprensibile. Seguendo i principi base espressi dall’economia circolare, e cioè – in estrema sintesi – la salvaguardia delle risorse naturali
e la valorizzazione dei materiali impiegati attraverso il riuso e riciclo, a questo punto si tratta di definire in che modo valutare e misurare azioni e risultati. La soluzione da percorrere potrebbe essere svolgere un bilancio di massa (il bilancio di materia) per quantificare le risorse in “input” e le risorse in “output” che caratterizzano il ciclo di vita di un prodotto. Si tratta di misurare la quantità di materia (kg) prelevata dal sistema per la realizzazione di un prodotto, rispetto a quella restituita (kg), quando il prodotto giunge a fine vita. Tenendo conto anche delle risorse materiche complementari al prodotto e impiegate nelle fasi di trasporto, uso e manutenzione (per esempio gli imballaggi). La differenza tra risorse in input e risorse in output permette di ottenere un bilancio di materia in merito alla circolarità del prodotto: tanto più le quantità di risorse in output recuperate e riciclate si avvicinano al valore di input, tanto più la percentuale di circolarità
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L’economia circolare può diventare strategia di azione utile per la salvaguardia delle risorse naturali, solo se gli strumenti applicativi sono in grado di misurare le reali performance di prodotto e tengono conto delle reali capacità aziendali di intraprendere azioni di monitoraggio e miglioramento.
Info www.matrec.com
di un prodotto sarà elevata. In questo modo la circolarità massima di un prodotto è identificata dal 100%, mentre quella parziale varia dall’1 al 99%.
le aziende i cui prodotti non hanno una gestione di recupero del fine vita. In questo caso l’azienda dovrà capire quale strategia perseguire per evitare di avere prodotti con circolarità pari a 0%.
Ci sono diversi livelli di approfondimento in base ai quali effettuare la quantificazione del bilancio di materia, la quale può o meno tener conto di diversi parametri. A titolo semplificativo: •• Livello base: quantificazione delle sole risorse impiegate. •• Livello medio: quantificazione delle risorse impiegate con suddivisione per tipologia di materiale. •• Livello approfondito: quantificazione delle risorse impiegate con suddivisione sia per tipologia di materiale sia per origine di provenienza: da fonte rinnovabile e non rinnovabile, materiali riciclati e riciclati permanenti.
A essere avvantaggiate sono le aziende i cui prodotti fanno già parte di un sistema di raccolta e recupero tramite consorzi di filiera, oppure quelle che si sono organizzate tramite sistemi autonomi di recupero. Per i consorzi di filiera si apre in questo caso un’opportunità di rilancio, in quanto gestori e detentori dei dati di output dei prodotti.
I tre livelli di misurazione della circolarità di prodotto lasciano spazio alle imprese di applicare personalizzazioni di bilancio, sulla base degli obiettivi da raggiungere o delle esigenze di settore. Per esempio il livello approfondito può essere ancor più specifico attraverso l’identificazione delle certificazioni che caratterizzano i materiali (sia che siano da fonte rinnovabile e/o riciclati), oppure da materiali biodegradabili e/o compostabili. In altri casi, le aziende che approcciano al livello base possono includere nel bilancio di materia la suddivisione tra materiali da fonte rinnovabile e non rinnovabile. Questa flessibilità di approccio favorisce sicuramente la diffusione della metodologia, lasciando però alle imprese la possibilità di definire il grado di approfondimento/miglioramento per progredire. È evidente che le maggiori criticità nel valutare la circolarità di un prodotto si manifestano per
I risultati raggiunti, applicando uno dei tre livelli di misurazione della circolarità di prodotto, possono diventare uno strumento di comunicazione verso il mercato. In modo particolare verso il consumatore, per esempio identificandosi con un label che metta in evidenza la circolarità del prodotto e le scelte perseguite dall’azienda. Inoltre, l’applicazione della metodologia di calcolo a una serie di aziende racchiuse in un territorio permetterebbe di aggregare e ottenere risultati per scale dimensionali, da quella comunale a quella nazionale. L’economia circolare può diventare strategia di azione utile per la salvaguardia delle risorse naturali, solo se gli strumenti applicativi sono in grado di misurare le reali performance di prodotto e tengono conto delle reali capacità aziendali di intraprendere azioni di monitoraggio e miglioramento. L’Italia, come altri paesi il cui tessuto produttivo è fortemente caratterizzato da piccole e medie imprese, non può pensare di raggiungere risultati utili senza un coinvolgimento attivo di queste realtà. È quanto mai necessario un approccio graduale e in primis volontario.
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Superare i limiti TECNOLOGICI, riconoscere i limiti delle RISORSE NATURALI Intervista a Catia Bastioli Per andare oltre la cultura dello scarto, le tecnologie possono fare la differenza. Le iniziative della Fondazione Cariplo per sostenere la ricerca nel campo della bioeconomia e dell’economia circolare. a cura di Mario Bonaccorso
“Essere in grado di vivere bene nel limite naturale è la grande sfida del nostro secolo, che richiede un cambio di modello di sviluppo. Occorre fare propria la cultura della produzione e della conservazione, andando oltre quella della dissipazione e dello scarto. Bisogna superare i nostri limiti tecnologici per essere in grado di vivere nel limite delle risorse disponibili, avendo chiare la consapevolezza della responsabilità delle nostre azioni sui cambiamenti della natura e l’essenzialità e centralità delle risorse naturali per l’umanità.” Lo afferma in questa intervista Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont e vera e propria guida della bioeconomia italiana. Anche nel suo ruolo di consigliere di amministrazione di Fondazione Cariplo con delega alla ricerca scientifica, la manager umbra si sta occupando di sostenere attività per favorire lo sviluppo della bioeconomia e dell’economia circolare e la creazione di nuovi posti di lavoro “verdi”. Investire in ricerca e innovazione. È questa la ricetta per uscire dalla crisi, secondo la quasi unanimità degli economisti. Quanto è importante, dal suo punto di vista, investire in ricerca scientifica oggi per assicurare
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Catia Bastioli
Catia Bastioli è AD di Novamont e Inventore Europeo 2007 per le bioplastiche. Ha trasformato la sua ricerca in una realtà industriale oggi leader nello sviluppo e nella produzione di bioplastiche e biochemicals da fonti rinnovabili, mettendo in pratica la sua idea di bioeconomia intesa come rigenerazione territoriale attraverso bioraffinerie integrate che combinano chimica, agricoltura e ambiente. Dal 2013 membro del Cda di Fondazione Cariplo con delega alla ricerca scientifica, è dal 2014 anche Presidente del Cluster Tecnologico Nazionale della Chimica Verde SPRING e Presidente di Terna.
Progetto Ager – Agroalimentare e ricerca, progettoager.it
lo sviluppo della bioeconomia nei prossimi decenni? “Essere in grado di vivere bene nel limite naturale è la grande sfida del nostro secolo, che richiede un cambio di modello di sviluppo. Occorre fare propria la cultura della produzione e della conservazione, andando oltre quella della dissipazione e dello scarto. Bisogna superare i nostri limiti tecnologici per essere in grado di vivere nel limite delle risorse disponibili, avendo chiare la consapevolezza della responsabilità delle nostre azioni sui cambiamenti della natura, e l’essenzialità e centralità delle risorse naturali per l’umanità. La conoscenza e le tecnologie, se a servizio di un progetto condiviso di sviluppo, possono fare la differenza. Pensiamo alla bioeconomia, considerata secondo un approccio dell’economia circolare e delle filiere integrate, interconnesse e interdisciplinari, dove la terra, la sua qualità e biodiversità e l’uso efficiente delle risorse – nel rispetto della dignità delle persone – diventano il centro di una rigenerazione culturale oltreché industriale, ambientale e sociale. Questo tipo di cultura si forma sul campo, condividendo progetti di territorio dove il fatto di costruire e imparare insieme genera fiducia e rispetto tra gli interlocutori, nonché ricchezza per molti, senza scarti. La ricerca consente di creare conoscenza e di sviluppare nuova imprenditorialità diffusa, nuovi modelli di interazione tra industria, agricoltura e ambiente. La formazione collegata alla ricerca scientifica quanto più allargata permette inoltre di superare le abitudini consolidate e di capire che ognuno di noi può fattivamente contribuire
a vincere la sfida, creando nuove opportunità di lavoro nel rispetto dell’ambiente e all’interno della cultura dei territori.” In questo quadro, in un periodo di forti tagli alla ricerca in Italia, un ruolo essenziale è giocato da soggetti privati quali le fondazioni bancarie. In qualità di consigliere della Fondazione Cariplo (la maggiore fondazione di origine bancaria in Italia) con delega alla ricerca scientifica, può dirci quali sono le principali iniziative intraprese per sostenere la ricerca nel campo della bioeconomia e dell’economia circolare? “Fondazione Cariplo ha sviluppato negli anni un sistema virtuoso di bandi e di selezione dei progetti all’altezza del sistema di valutazione dell’Unione europea, che permette di premiare le proposte di vero valore. Sta provando anche a stimolare la cultura brevettuale diffusa con iniziative che permettano alla Fondazione di seguire i diversi progetti nella loro evoluzione. Inoltre, essendo la Fondazione una realtà che conosce profondamente il territorio in cui opera, ogni progetto ha un effetto sistemico rilevante, nonché di modello e di stimolo per altre realtà territoriali. Nel campo della bioeconomia un progetto particolarmente significativo è stato Ager: un’iniziativa per sviluppare conoscenza nelle filiere alimentari, promuovendo anche lo studio delle tecnologie correlate e della trasformazione di scarti in risorse. Il progetto ha coinvolto ben 18 fondazioni e altrettanti territori. A seguito del successo di Ager abbiamo deciso di proseguire, destinando 1,5 milioni di euro per il sostegno a progetti di ricerca nel comparto
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Sta uscendo il nuovo bando sui green jobs, che si pone l’obiettivo di aumentare la consapevolezza dei giovani sulle opportunità offerte dalle professioni verdi.
dell’acquacoltura, con l’obiettivo di contenere i costi di produzione, ridurre l’impatto ambientale degli allevamenti e migliorare la qualità del prodotto finito. 2,5 milioni di euro, poi, sono andati a progetti nel comparto olivicolo finalizzati al miglioramento produttivo degli impianti, alla valorizzazione dell’olio extra vergine di oliva e al riutilizzo dei sottoprodotti ottenuti. Inoltre, insieme alla fondazione francese Agropolis, abbiamo portato avanti alcuni progetti, realizzati in collaborazione tra scienziati italiani, francesi e di paesi in via di sviluppo, sul riso e sui cereali nella logica di filiera integrata. E infine ricordiamo tutti i progetti a supporto dei giovani ricercatori o di iniziative scuola-lavoro, nonché a sostegno dei ricercatori universitari per concorrere a livello europeo ai grants dello European Research Council. Si tratta di iniziative particolarmente rilevanti, che spesso vedono come cofinanziatore la Regione Lombardia.” Ricerca scientifica a parte, quali sono le iniziative di Fondazione Cariplo che supportano, o che intendono supportare in futuro, la bioeconomia e l’economia circolare? “Sarà sempre più importante nell’ambito della bioeconomia l’interazione tra l’area Ambiente della Fondazione e quella della Ricerca scientifica. Questo perché la bioeconomia è interdisciplinare e interconnessa e ha bisogno di progettualità calate sul territorio, che vedano
la ricerca a servizio di un uso sempre più efficiente delle risorse, nel rispetto della biodiversità e degli ecosistemi.” Il bando Ambiente sulle comunità resilienti assegnava una priorità a quei progetti con ricadute in termini di opportunità occupazionali nell’ambito dei green jobs. Ci sono altre iniziative della Fondazione finalizzate alla creazione di “lavoro verde”? “Nell’ambito della collaborazione tra area Ambiente e area Ricerca sta uscendo il nuovo bando sui green jobs, che si pone l’obiettivo di aumentare la consapevolezza dei giovani sulle opportunità offerte dalle professioni verdi, migliorare l’offerta formativa in linea con le competenze richieste dalla green economy e favorire l’incontro tra domanda e offerta. È una iniziativa su cui molto si può costruire provando a lavorare con le altre fondazioni e i territori. Sarà anche possibile una forte interazione con imprese particolarmente interessate al tema, creando progetti di formazione su aspetti specifici nell’ambito dei green jobs. In questo caso una partnership pubblico-privata ampliata al massimo potrebbe generare opportunità di lavoro dipendente e imprenditoriale importanti. E su questo stiamo lavorando alacremente.” Tema connesso alla ricerca scientifica e alla creazione di nuove opportunità occupazionali è quello del trasferimento tecnologico.
Info www.fondazionecariplo.it/it/index.html
Case Histories Cosa si dovrebbe fare per favorire in Italia un migliore collegamento tra accademia e industria? In questo, che ruolo può avere una fondazione bancaria come la Fondazione Cariplo? “Quale leva di crescita e occupazione occorrerebbe contribuire alla creazione di un ecosistema orientato all’innovazione che tragga vantaggio ‘dall’incrocio dei saperi’ tra imprese tradizionali (Pmi e grandi aziende), imprese sociali, imprese culturali, scuole, enti di formazione, ambienti di educazione informale (musei, FabLab), incubatori/acceleratori, università, centri di ricerca, distretti tecnologici ecc. Il progetto green jobs, per esempio, connette accademia e industria attraverso progetti concreti: è il modo migliore per crescere insieme e creare ponti solidi basati su necessità reali e attuali. Altra realtà importante sono i Poli tecnico-professionali (Ptp): previsti da una legge del 2012, poi specificata da leggi regionali, sono alleanze collaborative tra istituti tecnici, imprese interessate alla disponibilità di diplomati con competenze tecniche e soft skills adatte alle loro esigenze, e altre istituzioni del territorio, quali università e associazioni. La finalità dei Ptp è di agevolare l’ingresso nel mercato del lavoro dei diplomati negli istituti tecnici. In questo ambito Fondazione Cariplo ha finanziato con un bando da un milione di euro le migliori attività di alternanza scuola-lavoro e di formazione su soft skills pianificate dai Ptp della Lombardia. La Regione Lombardia, coinvolta
Quello che ancora manca […] è una definizione di bioeconomia declinata attraverso il concetto di regioni sostenibili, basata sulla rigenerazione territoriale e sulle filiere integrate, capace di dare vita a nuovi modelli di produzione e di consumo.
nel bando, ha messo a disposizione 2 milioni del Fondo garanzia giovani per le imprese aderenti ai Ptp che assumeranno i diplomati al termine del percorso formativo. Più in generale, la Fondazione può contribuire a validare un nuovo modello di innovazione, differente dal tradizionale modello a tripla elica basato sulla (spesso scarsa) interazione tra pubblico, privato e accademia, dove il terzo settore e la società civile fungono da catalizzatori per coinvolgere i diversi stakeholder in percorsi di ricerca e innovazione responsabili, in grado di perseguire innovazione sociale.” L’interesse di una fondazione grant making non si esaurisce con la selezione e l’approvazione dei progetti. Come vengono monitorati e valorizzati i risultati conseguiti nell’ambito delle iniziative finanziate? “Quest’ultimo aspetto risulta fondamentale per Fondazione Cariplo, considerato il principio di pubblica utilità che muove il suo operato. Per far ciò la Fondazione si è dotata, da tempo, di: una policy di open access, che si pone l’obiettivo di favorire la diffusione del sapere e la fruizione democratica dei risultati delle ricerche finanziate, e una policy sulla tutela della proprietà intellettuale. Quest’ultima si prefigge di incoraggiare la valorizzazione economica delle innovazioni nel rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e obbliga i destinatari dei contributi che hanno conseguito un brevetto nell’ambito di un progetto finanziato da Fondazione Cariplo a re-investire i proventi – eventualmente generati dallo sfruttamento – per ulteriori attività di ricerca e sviluppo.” In conclusione, un riferimento all’attualità più stretta: come giudica la risoluzione sull’economia circolare approvata dal Parlamento europeo lo scorso luglio? Quali punti – se ci sono – ritiene debbano essere migliorati? “La risoluzione rappresenta un segnale positivo, poiché testimonia come oggi l’Europa sia compatta sulla necessità di un modello che metta al centro l’utilizzo efficiente delle risorse. Quello che ancora manca, e che mi auguro possa trovare spazio in una nuova e più ambiziosa iniziativa europea, è una definizione di bioeconomia declinata attraverso il concetto di regioni sostenibili, basata sulla rigenerazione territoriale e sulle filiere integrate, capace di dare vita a nuovi modelli di produzione e di consumo. Una bioeconomia che parta dai terreni marginali, poco fertili e incolti, da colture valorizzabili in tutte le loro componenti, da siti industriali non più competitivi, riqualificando i territori nel rispetto delle loro specificità e della loro biodiversità e agganciandosi anche all’economia più tradizionale con nuove prospettive di innovazione. Il punto, insomma, è incidere davvero sui punti di maggiore debolezza della Ue trasformandoli in motori di questo nuovo sviluppo nei limiti delle risorse naturali.”
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Questione
DI FIBRA
Nella produzione della carta oltre il riciclo c’è anche l’approccio a nuovi materiali. Voi per esempio in questo momento, se ci leggete su carta, avete in mano del cuoio.
Case Histories Le grafiche proposte nelle pagine seguenti sono tratte dal booklet promozionale di Remake che sviluppa il tema del riuso creativo “up-cycling” di rifiuti e sottoprodotti. Pagina a sinistra: Immagini di Andreas Scheiger
di Sergio Ferraris
Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.
C’è fibra e fibra. Nel caso della carta siamo stati abituati alla “nobile” fibra di cellulosa, derivata dal legno e che alcuni decenni addietro era tutta di “prima mano”, ma che negli ultimi anni viene sempre di più riciclata – fino a sette volte – in percentuali che raggiungono il 65%. È una strada, quella del riciclo della carta che è stata, per l’Italia, un percorso quasi obbligato vista la carenza di foreste adatte allo scopo, ma che non si è fermata alla ricerca di sistemi migliorativi. Esistono esperienze tecnologiche e scientifiche, infatti, nelle quali per incrementare la sostenibilità del settore cartario si sperimentano metodologie per rendere più sostenibile la produzione della carta. E non si tratta di ipotesi, ma di processi produttivi consolidati che hanno portato sul mercato nuovi prodotti. È il caso di Favini, storica azienda
cartaria le cui origini risalgono al 1736, che ha tra i propri prodotti tre tipologie di carta nelle quali si trova “altro” rispetto alla più classica fibra di cellulosa, vergine o riciclata che sia. La storia della ricerca di “ingredienti” alternativi, per Favini, inizia 25 anni fa. Per la precisione quando l’azienda pensò di usare come materia prima per la produzione della carta – in sostituzione della cellulosa – le enormi quantità di alghe cresciute nell’Adriatico a causa del processo di eutrofizzazione delle acque. Alga Carta, questo il nome del prodotto, fu un successo. Replicato, a distanza di circa dieci anni, con Carta Crush che utilizza tutta una serie di sottoprodotti dei processi alimentari. “E il risultato commerciale, oltre che ambientale – ci spiega Eugenio Eger, amministratore delegato di Favini – non si è fatto attendere. Evidentemente i tempi sono stati quelli esatti per intercettare tutti i soggetti interessati a valorizzare il concetto del recupero di materia.” Uso sostenibile In questo caso la sostituzione della cellulosa proveniente da alberi arriva fino al 15%, utilizzando materia di scarto che altrimenti sarebbe stata impiegata come integratore nella zootecnica, combustibile per gli inceneritori, oppure spedita in discarica. E la gamma dei prodotti di scarto utilizzati come materia prima è vasta. Si va, infatti, dal caffè al mais, passando per la ciliegia, la nocciola, la mandorla, l’oliva, il kiwi e gli agrumi, arrivando alla lavanda. E tutto è rigorosamente derivato da colture prive di ogm. “Il concetto che abbiamo voluto introdurre è quello di una sostenibilità a tutto tondo che coinvolga l’intero processo di produzione” prosegue Eger. “Oltre al recupero di materia
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e all’assenza di ogm questi nostri prodotti hanno un 30% di fibra riciclata, sono certificati Fsc (Forest Stewardship Council, ossia la certificazione internazionale indipendente che garantisce una gestione corretta e sostenibile delle foreste e la tracciabilità dei prodotti) e sono realizzati usando il 100% di energia rinnovabile.” Il tutto produce, valutando l’Lca (Life Cycle Assessment, ossia la valutazione del ciclo di vita) una riduzione delle emissioni di CO2
A destra: Illustrazione di Jakob Hinrichs
del 20%, senza però aumentare i costi di produzione poiché la gestione delle materie prime è analoga a quella della carta di qualità ottenuta con materie prime tradizionali. Ma è il target d’utilizzo a fare la differenza sul fronte commerciale. Sulla Carta Crush, che è venduta in 25 paesi, si stampano i rapporti di sostenibilità d’importanti aziende. Questa carta viene anche usata per il packaging di Veuve Clicquot che, per la propria linea Naturally, ha deciso
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costante ricerca e sperimentazione nell’utilizzo dei sottoprodotti di scarto ottenuti nei processi industriali diversi da quello cartario.”
Eugenio Eger
Da scarto a prodotto di pregio
Sulla Carta Crush, che è venduta in 25 paesi, si stampano i rapporti di sostenibilità d’importanti aziende. Questa carta viene anche usata per il packaging di Veuve Clicquot […] il contenitore, o il supporto, in questo caso diventa un veicolo di comunicazione per la sostenibilità. E non è una cosa da poco.
d’utilizzare una scatola in cartone prodotto con una percentuale del 25% di vinacce. Insomma il contenitore, o il supporto, in questo caso diventa un veicolo di comunicazione per la sostenibilità. E non è una cosa da poco. Ma la sfida dell’azienda nel riuso non si ferma qui. I nostri lettori che hanno tra le mani l’edizione cartacea di questo numero stanno toccando in maniera concreta un prodotto unico nel suo genere: una carta che per il 25% utilizza una fibra derivata da sottoprodotti della lavorazione del cuoio, espandendo così le potenzialità di riuso dei materiali di scarto e facendo fare al loro impiego un vero e proprio salto, di qualità e non solo. Così s’incontrano due filiere produttive differenti, quella della carta e quella della pelletteria. “La nuova carta, prodotta da un mix innovativo tra fibre vegetali e fibre di collagene, rappresenta ciò che noi chiamiamo upcycling, ossia il riuso creativo dei materiali di scarto” prosegue Eger. “Ed è il primo punto d’arrivo della nostra
Per la realizzazione di Remake, questo il nome della nuova carta, si utilizzano le rasature e gli sfridi della lavorazione del cuoio, a concia rigorosamente vegetale per non avere residui di metalli pesanti e cromo – cosa che potrebbe incentivare l’industria della pelle ad adottare processi più ecologici e meno inquinanti – ottenendo una carta di alto valore adatta anche all’imballaggio di pregio. “Si tratta di un passo importante per noi che ha coinvolto anche il processo produttivo” aggiunge Eger. “Nel cuoio si trova una fibra che deve ‘legare’ con quella del legno e non fare da riempitivo come nel caso della farina da alghe o scarti alimentari. Per questo motivo il cuoio non deve essere micronizzato, ma sfibrato e da qui deriva la maggiore difficoltà che abbiamo incontrato nel definire al meglio il processo di produzione.” La nuova carta è riciclabile e compostabile al 100%, cosa derivata anche dalla scelta dello “scarto” solo ed esclusivamente tra quello trattato con la concia vegetale, mentre il contenuto è derivato al 25% dalla lavorazione del cuoio e il restante 75% è diviso tra il 30% di fibra di cellulosa da riciclo e il 45% vergine, entrambe certificate Fsc. Comunicare la sostenibilità L’obiettivo di Favini con Remake è di offrire un supporto di comunicazione della sostenibilità ai mondi che si stanno affacciando all’ecologia da poco tempo. Primo tra tutti quello della moda, mentre i mercati di riferimento dovrebbero essere quelli italiano, tedesco, francese, giapponese. Senza trascurare il mercato cinese dal quale stanno arrivando segnali interessanti. E le quantità di produzione previste dovrebbero essere 150 tonnellate il primo anno, per poi passare il secondo anno a 300 tonnellate. “Non si tratta solo di un lavoro che riguarda l’aspetto produttivo tecnologico che in buona parte abbiamo già fatto con la fase d’industrializzazione e i test qualitativi” conclude Eger. “Stiamo lavorando alla comunicazione del prodotto per posizionarlo in maniera corretta, anche con una veste grafica che lo renda evocativo.” Già perché troppo spesso chi si occupa d’ecologia e sostenibilità usa solo i numeri, indispensabili, ma dimentica che i lavori, le economie e gli stili di vita innovativi e sostenibili hanno bisogno di una forte carica d’empatia per diffondersi. E magari toccare con mano un foglio di carta fatto in maniera diversa può essere un primo passo.
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A destra: Illustrazioni di Robin Dean In basso: Illustrazioni di Christian Northeast
In alto: Foto di Max McMurdo Reestore
La Carta Remake in cifre •• Residui di lavorazione del cuoio 25%; •• Cellulosa di riciclo post consumer certificata Fsc 30%; •• Fibre di cellulosa vergine certificata Fsc 45%; •• Totale Fsc 75%; •• Produzione prevista il primo anno: 150 tonnellate; •• Produzione prevista il secondo anno: 300 tonnellate.
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I vantaggi di Remake •• Si evita di utilizzare un 25% di materie prime vergini (cellulosa di albero) cosa che implica tra l’altro l’utilizzo di energia, inquinamento atmosferico e idrico ed emissioni di gas serra; •• si annulla il costo dello smaltimento; •• si rende disponibile al mercato cartario un nuovo materiale che dona alla carta migliori caratteristiche di compostabilità; •• si favorisce l’abbandono dei metalli e del cromo nell’industria della concia, a favore di sistemi ecologicamente più compatibili. In basso: Illustrazione di Ian Bilbey
A destra: Illustrazione di Harriet Russell
A sinistra: Foto di Max McMurdo Reestore
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materiarinnovabile 06-07. 2015 Intervista
L’etica della carta Achille Monegato, responsabile Ricerca e Sviluppo Favini
Durante la nostra visita in Favini abbiamo incontrato Achille Monegato, responsabile della Ricerca e Sviluppo, da 18 anni nell’azienda e da 27 nel settore della carta. A lui abbiamo fatto alcune domande sulle carte che utilizzano materie prime derivate da scarti. Qual è stata la logica che vi ha spinto verso la creazione di queste carte? La riflessione di fondo è rappresentata dal fatto che l’ecologia non è solo riciclo e che è necessario prepararsi alla scarsità della materia prima. E l’Italia sotto questo profilo è molto vulnerabile visto che importiamo il 98% delle fibre vergini di cellulosa. Ecco perché, secondo noi, è necessaria la ricerca di nuove materie prime.
Info www.favini.com
Quindi seguendo questa strada siete arrivati a Remake, la carta fatta dal cuoio? Sì, ma dire che Remake è fatta con cuoio è riduttivo sotto il profilo della R&S. Questa carta, infatti, è prodotta con il collagene che è una fibra dalla struttura quaternaria, formata da intrecci di fibre, della quale esistono una trentina di tipi diversi. Sono fibre che hanno una morfologia assolutamente simile a quella della cellulosa e quest’esperienza, secondo me, aprirà la strada ad altri tipi d’accoppiamento tra fibre. Che tipo di problemi avete incontrato in questa attività di R&S? Sostanzialmente due. Il primo è quello legato alla ricerca della materia prima, ossia il sottoprodotto, che si suddivide in tre fasi: l’identificazione e la produzione; la trasformazione per rendere
idonea la materia prima; l’impiego nella fabbricazione. Si tratta di questioni che devono essere affrontate nella fase di R&S. Il secondo problema è la barriera culturale che ci porta a non identificare come materia prima cose che prima non si consideravano tali. È una barriera “psicologica” che una volta superata permette d’accedere a un mondo di possibilità. Per quanto ci riguarda si è trattato di un problema legato a una cultura di processo che bisogna dimenticare per andare avanti in direzione della sostenibilità. Come avete ottimizzato i processi di produzione per questi nuovi prodotti? Per quanto riguarda la micronizzazione ci siamo dotati di un impianto di trattamento, per cui oggi l’unico limite è quello d’avere un materiale secco che non deperisca prima della lavorazione. Per il cuoio, invece, è stato necessario un impianto di sfibratura. La nostra filosofia di fondo, comunque, è internalizzare tutti i processi una volta verificata la bontà del prodotto sotto il profilo commerciale. Quali sono le vostre direttrici di ricerca e sviluppo? Abbiamo due direttici di ricerca. Quella dei nuovi materiali micronizzati e quella delle nuove fibre, legate da due denominatori comuni: il rifiuto nella maniera più assoluta di prendere in considerazione materiali che siano destinati, o destinabili, all’alimentazione umana e la scelta di non utilizzare coltivazioni ogm. Non abbiamo preso in considerazione, per esempio, la soia perché non avevamo garanzie sufficienti sul fatto che non fosse
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Illustrazione di Mick Marston
La barriera culturale che ci porta a non identificare come materia prima cose che prima non si consideravano tali. È una barriera “psicologica” che una volta superata permette d’accedere a un mondo di possibilità.
ogm, mentre per il mais e la crusca abbiamo deciso di servirci di materiali nazionali che sicuramente non lo sono. Si tratta di questioni etiche per noi prioritarie e inserite nella policy aziendale. Questo fatto è stato particolarmente apprezzato da Barilla che per realizzare i propri rapporti di sostenibilità e il packaging di Academia Barilla ha utilizzato la CartaCrusca da noi prodotta che abbiamo sviluppato in collaborazione con il loro settore R&S. Così la crusca da “packaging naturale” del chicco diventa poi packaging della pasta. In pratica la crusca, da involucro naturale, che protegge il chicco di grano trova nuova vita in un packaging a basso impatto ambientale, che segna un secondo incontro tra la crusca del cofanetto e i chicchi di grano duro della pasta Academia Barilla.
Quali sono i prossimi sviluppi all’orizzonte? Ci sono ancora delle frontiere inesplorate? Sì, per quanto riguarda i sottoprodotti di scarto agroalimentari ci sono almeno una decina di materie alle quali stiamo guardando, ma esistono anche i residui industriali, come la gomma e il vetro. Così come anche nella raccolta dei rifiuti urbani ci sono dei sottoprodotti utilizzabili nella nostra filiera. Qual è il problema per una diffusione di queste pratiche? Il problema di fondo rimane sempre e comunque culturale. Finché non riusciremo a vedere, in cose che consideriamo rifiuti, delle risorse sarà complicato trovare buone opportunità.
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CARTA: la sostenibilità entra nel ciclo di produzione
Foto: Vincenzo Dragani
Come coniugare qualità del prodotto, flessibilità di processo e sostenibilità riducendo costi e consumi energetici. Un esempio di come si può riprogettare l’intero ciclo produttivo.
di Sergio Ferraris
Sostenibilità dei processi. Non è solo una questione di materia ed energia, ma spesso anche di metodi e processi. Si tratta di un approccio che sta facendo breccia anche nella gestione delle attività industriali e che quasi sempre si coniuga con la scelta di materie prime sostenibili e il riuso di scarti industriali. Tutti aspetti poco conosciuti al grande pubblico e, molte volte, anche a chi si occupa d’ecologia. E la via della sostenibilità dei processi è quella che ha deciso di scegliere Geca, industria grafica attiva dal 1979 nei pressi di Milano: 35 dipendenti e un fatturato 2014 di 5,5 milioni di euro, metà del quale (circa) realizzato nell’editoria. Un’azienda nata come generalista e che dal 2009 – anche per rispondere alla crisi – ha puntato sulla qualità, sia della produzione sia del processo. “Prima di tutto abbiamo analizzato a fondo il processo produttivo, specialmente alla luce delle nuove tecnologie. Da utilizzare non per ridurre il lavoro degli addetti, ma per utilizzarlo al meglio, senza cedere sulla qualità” ci dice Luigi Bechini, responsabile marketing di Geca.
Prima di tutto abbiamo completato il ciclo di produzione internalizzando la legatoria e finitura di copertina. Poi abbiamo investito parecchio specializzandoci in cataloghi e libri che – nonostante la crisi – sono un prodotto ancora in crescita.
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Luigi Bechini
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Info www.gecaonline.it/index.php
L’azienda si è differenziata rispetto a molti concorrenti, riducendo i tempi di produzione, cosa che ha consentito anche di aumentare la sostenibilità del processo.
“Abbiamo creato un ciclo produttivo tarato su una durata massima di tre giorni, tutto incluso, ottimizzando in maniera completa la produzione.” La scommessa dell’azienda è stata quella di coniugare qualità, flessibilità di processo e sostenibilità, il tutto in un momento crisi. “Dopo aver abbandonato il mercato dei libri d’arte e fotografici che ormai si fanno per la maggior parte in Oriente, ci siamo orientati verso i cataloghi commerciali e l’editoria libraria” prosegue Bechini. “Ma per quest’ultima dovevamo offrire qualcosa in più rispetto a quanto offerto dalla concorrenza. Prima di tutto abbiamo completato il ciclo di produzione internalizzando la legatoria e finitura di copertina. Poi abbiamo investito parecchio specializzandoci in cataloghi e libri che – nonostante la crisi – sono un prodotto ancora in crescita.” Problem solving In questa maniera l’azienda si è differenziata rispetto a molti concorrenti, riducendo i tempi di produzione, cosa che ha consentito anche
di aumentare la sostenibilità del processo. Infatti con questa riduzione dei tempi di lavorazione, Geca offre la possibilità di risolvere due dei problemi più grandi dell’editoria libraria. Quello delle rese e del magazzino. Le rese dell’invenduto, infatti, spesso sono destinate al macero e ridurre la quantità della prima tiratura consente agli editori d’abbassare il numero dei volumi destinati a questa fine ingloriosa, con tagli importanti delle spese e degli sprechi di materie prime. “La riduzione dei tempi di produzione ci ha permesso d’offrire soluzioni efficienti per dimensionare in maniera precisa la prima tiratura” ci dice Giancarlo Spada, responsabile vendite. “In questa maniera quando l’editore va a rottura di stock può far avere al distributore la ristampa in 48/72 ore, mentre se ciò non accade non si ritrova copie in eccesso e risparmia soldi, movimentazione e carta.” E l’azienda sta spingendo ancora di più su questa flessibilità grazie alla stampa digitale, ormai arrivata a un buon livello qualitativo rispetto alla stampa offset che fino al 2010 era l’unica offerta alla clientela. “Andare in ristampa con la stampa offset per poche copie è una follia a causa dei costi
materiarinnovabile 06-07. 2015 rifiuti speciali prodotti sono quelli provenienti dalla pulitura delle macchine da stampa. Oltre ai solventi per la pulitura di cilindri e caucciù di stampa (il cui utilizzo è definito da protocolli standard stilati dal produttore delle macchine da stampa), ci sono i residui degli inchiostri, che corrispondono a mezzo fusto in due anni, corrispondente a 55 litri l’anno, ossia 150 millilitri al giorno. Se volessimo rapportarlo al fatturato dell’azienda, che è di 5,5 milioni l’anno, possiamo dire che Geca produce solo un litro di scarti di inchiostro ogni 100.000 euro di fatturato. Un indicatore di sostenibilità non indifferente. Giancarlo Spada
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d’avviamento, mentre con il digitale è possibile stampare anche bassissime tirature” afferma Spada. “La logica è quella di andare verso il concetto di magazzino zero. In questo momento siamo posizionati su tirature minime di 150-200 copie. E si tratta di percorso che potrà essere portato verso tirature ancora inferiori.” Fsc protagonista
Xquote.it, così si chiama il sistema di preventivazione, è in grado, per esempio, di dire al cliente quale formato scegliere per non sprecare carta, o quale grammatura preferire.
Per quanto riguarda la sostenibilità più “classica”, quella legata alle materie prime, Geca è stata tra le prime tipografie a fare uso della carta Fsc. “All’inizio abbiamo dovuto fare un grande lavoro di comunicazione per fare accettare questa carta, come del resto la carta riciclata, perché era assimilata a carte di bassa qualità” continua Bechini. “E poi siamo stati tra i primi a denunciare l’abuso del marchio Fsc, anche da parte dei grandi editori. Un fatto che stava squalificando la sostenibilità nel settore della carta. Oggi il 30% dei nostri prodotti è marchiato Fsc, ma in realtà la percentuale è molto più alta.” Succede, infatti, che i volumi siano stampati su carta Fsc, ma che il committente non voglia metterci il marchio in questione. Non si tratta di una questione di costi – il marchio non ha costi – ma di resistenze di carattere culturale, tra cui la sottovalutazione del valore, anche commerciale, della certificazione. Oppure il ritenere che il logo Fsc sporchi la grafica del prodotto. “Ora va meglio, ma all’inizio è stato molto difficile far accettare il logo di Fsc. Oggi il 90% delle carte che acquistiamo sono Fsc, ma promuoviamo anche le riciclate tra cui si trovano carte che garantiscono un’ottima qualità di stampa” ci dice Bechini. Si tratta di un caso interessante che la dice lunga su quale sia, al di fuori del mondo ambientalista, la percezione del valore della sostenibilità. Rifiuti zero, quasi Sui rifiuti industriali di processo, in Geca hanno avuto la stessa attenzione che hanno messo sull’ottimizzazione della produzione. Gli unici
Nel processo di stampa viene recuperata tutta l’acqua impiegata e si utilizzano quasi totalmente inchiostri a base vegetale. “Si tratta d’inchiostri con un’ottima resa, indistinguibile dagli altri, che non contengono oli minerali, hanno migliori tempi d’essicazione e una ottima resistenza allo sfregamento. Inoltre conservano queste qualità anche con carte più difficili”ci dice Bechini. “Hanno sostanzialmente lo stesso prezzo degli altri inchiostri e rendono più facile e sostenibile il riciclo della carta così stampata.” Per quanto riguarda le vernici, invece, vengono utilizzate solo quelle ad acqua i cui scarti non sono neanche considerati rifiuti speciali. E l’attenzione dell’azienda all’intera filiera l’ha portata a occuparsi anche di ciò che sta a monte della stessa ed è la “porta d’ingresso” della produzione: il preventivo. Da un paio d’anni, infatti, editori e aziende che vogliono servirsi di Geca possono fare preventivi online grazie
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Relativamente all’illuminazione, aver scelto un capannone dotato di ottima illuminazione naturale ha poi consentito – già dal primo anno – un risparmio del 26% di elettricità a parità di fatturato e parco macchine.
a un sistema in grado di soddisfare, attraverso un sofisticato algoritmo dedicato, le esigenze più specifiche e complesse, relative alla stampa dei volumi. “È stato uno degli elementi chiave del nostro successo: è uno strumento dedicato all’utenza professionale che abbiamo creato nella fase in cui abbiamo iniziato a rivolgerci agli editori. Il sistema è molto specializzato nella preventivazione di libri e cataloghi ed elabora un preventivo ottimizzato sul fronte dei costi, cosa che consente d’ottenere prezzi che sono tra i migliori del mercato” aggiunge Spada. “Xquote.it, così si chiama il sistema, è in grado, per esempio, di dire al cliente quale formato scegliere per non sprecare carta, o quale grammatura preferire. È un mezzo che ci ha consentito di aumentare la clientela, visto che ha incrementato la nostra capacità di preventivazione.” Xquote.it è anche in grado di consigliare il cliente sul fronte del risparmio e dell’efficienza, e di ottimizzare il processo di produzione a valle. Geca ha investito sul programma di preventivazione con l’obiettivo di raggiungere tutta la platea italiana degli editori (che sono circa 1.500): Xquote.it ha permesso all’azienda di decuplicare il numero di clienti editori, con migliaia di preventivi realizzati che sarebbe stato impossibile gestire con le risorse umane. A prova d’errore E non basta. Il programma di preventivazione, infatti, riduce al minimo le possibilità d’errore durante la gestione produttiva, visto che le informazioni contenute nel preventivo
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sono trasmesse al settore della filiera interna all’azienda in maniera inequivocabile. In pratica va in lavorazione solo ed esclusivamente ciò che è stato richiesto dal cliente nella commessa, con una drastica riduzione delle perdite di tempo, di materia e risorse. Ancora una volta la corretta e precisa gestione dei processi, aumenta la sostenibilità complessiva. Per quanto riguarda il risparmio energetico, l’azienda ha fatto una cosa molto semplice: ha cambiato lo stabilimento, scegliendolo bene. “Il fatto di lavorare su commesse più piccole ha diminuito l’esigenza di spazio: per questo abbiamo potuto scegliere uno stabilimento di superficie inferiore, quindi con ridotti consumi energetici.” Relativamente all’illuminazione, aver scelto un capannone dotato di ottima illuminazione naturale ha poi consentito – già dal primo anno – un risparmio del 26% di elettricità a parità di fatturato e parco macchine. “E il prossimo passo sarà sul fronte dell’illuminazione a led” aggiunge Bechini. “Ma c’è un altro dettaglio che ci preme sottolineare. Il disincentivo nell’utilizzo della cianografica cartacea che abbiamo sostituito con quelle digitali trasmesse online. Stampa, ma soprattutto ‘logistica’ delle cianografiche sono così state eliminate con un ulteriore abbattimento di costi e risparmio di risorse.” Ma c’è una cosa che sarà difficile da sostituire in Geca: l’attenzione e la professionalità di tutti gli addetti. Durante la nostra visita, infatti, abbiamo visto che tutte le maestranze hanno sguardi solo per il prodotto, libro o rivista che sia, e il controllo si fa ovunque. Fino a quando il libro finisce in magazzino, pronto per la spedizione.
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Noi ricicliamo il
Elaborazione grafica di illustrazioni tratte da freepick.com
PETROLIO
Riciclo e upcycle del rifiuto richiedono filiere integrate. La raccolta spesso è il nodo debole. In Italia uno dei modelli di industrializzazione della raccolta e della trasformazione del rifiuto viene dagli oli usati. Viaggio in un esempio virtuoso di economia circolare. di Emanuele Bompan
Nell’economia circolare uno dei nodi più controversi rimane l’approvvigionamento della materia da riciclare o rigenerare. Come racconta William McDonough in questo numero di Materia Rinnovabile, il rifiuto non va considerato necessariamente e solo come un’esternalità negativa con forti impatti sull’ambiente e sulla salute dell’uomo. Piuttosto, deve essere visto come una materia “prima” di grande valore, scarsa (in senso economico) e soggetta a una forte competizione per il suo utilizzo. Dunque, l’approvvigionamento è un fattore chiave e richiede un design intelligente dell’intera filiera. Spesso, però, raccogliere un rifiuto “di qualità” in maniera efficace è tutt’altro che semplice.
Case Histories
Nel nostro paese oltre il 90% degli oli lubrificanti raccolti è utilizzato per produrre basi rigenerate che vengono re-immesse nel mercato. I prodotti delle raffinerie di rigenerazione sono posti sullo stesso piano dei prodotti provenienti dalle raffinerie primarie, creando una positiva competizione tra i due mondi.
Per questo Materia Rinnovabile ha voluto analizzare alcuni casi studio al fine di evidenziare come, in diversi settori, le imprese si attrezzino per creare una filiera industrializzata. Un modello di successo è rappresentato dalla filiera della rigenerazione degli oli usati. L’Italia è una nazione all’avanguardia in questo settore. Nel nostro paese oltre il 90% degli oli lubrificanti raccolti è utilizzato per produrre basi rigenerate che vengono re-immesse nel mercato. I prodotti delle raffinerie di rigenerazione sono posti sullo stesso piano dei prodotti provenienti dalle raffinerie primarie, creando una positiva competizione tra i due mondi. Il restante 10% non è oggetto di rigenerazione e viene utilizzato come combustibile nei cementifici, mentre una quota minima è termodistrutta. Gli oli lubrificanti avviati a combustione sono
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Info www.viscolube.it
“materia non rinnovabile”, il cui livello di inquinamento non consente cioè di rientrare negli stringenti parametri di legge riferiti alle qualità chimiche che l’olio usato deve rispettare per essere recuperato.
pesante e dell’automobile, rigenera solo la metà dell’olio usato raccolto. In Italia nel 2013, su 171.000 tonnellate di rifiuto, ben 155.000 sono state reimmesse sul mercato sotto forma di basi rigenerate. Un’eccellenza all-italian poco nota.
La rigenerazione è un processo che opera una forte riduzione dell’impatto ambientale, fa diminuire il consumo di materia prima (petrolio greggio) e quindi abbatte le emissioni prodotte in fase di estrazione, trasporto e raffinazione dello stesso. Una tonnellata di base lubrificante rigenerata, prodotta grazie a una tecnologia avanzata, permette infatti di ridurre di almeno il 40% le emissioni di CO2 rispetto alla prima raffinazione. I dati relativi ad alcuni paesi europei danno un’idea della dimensione assunta dalla filiera della rigenerazione degli oli usati, rivelando nel contempo diversità di performance molto significative. In Francia è rigenerato circa il 70% del totale degli oli usati, il 60% circa in Spagna, mentre la Germania, culla dell’industria
Sicuramente un elemento che ha favorito questi risultati è la legge sulla rigenerazione: secondo Coou, il Consorzio obbligatorio degli oli usati, si tratta di una delle leve fondamentali per questo settore dell’economia circolare. Il quadro normativo nazionale in materia di gestione degli oli usati deriva dal recepimento delle direttive comunitarie. Tutto l’olio lubrificante raccolto è analizzato e la normativa italiana stabilisce con puntualità i criteri che determinano le diverse destinazioni. In Italia, quindi, la legge che regola il settore determina anche la destinazione d’uso. Un fattore senza dubbio positivo, ma che da solo non basta a determinare il successo della raccolta. “In circa 20 anni il mercato dei lubrificanti si è contratto del 40%. Effetto di questo trend è stata la sostanziale riduzione
La rigenerazione in Europa
50%
70%
90%
Rigenerazione sul totale degli oli usati raccolti Oli non rigenerati sul totale degli oli usati raccolti
60%
Case Histories nella disponibilità di olio usato”, spiega l’ingegner Marco Codognola, direttore della Divisione Ambiente, Acquisti e Business Development di Viscolube, azienda leader in Italia nella raffinazione degli oli lubrificanti usati. Questa riduzione degli approvvigionamenti ha spostato l’attenzione sulla filiera del rifiuto per una ragione fondamentale: il flusso di olio usato rigenerabile verso le raffinerie deve essere costante.
Laddove ci sono eccellenze capaci di dimostrare che si può fare industria e prodotti di qualità con la rigenerazione, diffondere la cultura dell’economia circolare e del riciclo è un dovere da parte di tutti.
“La stabilità di approvvigionamento in termini di caratteristiche e di quantità”, commenta Codognola, “è uno dei fattori chiave per ottimizzare il funzionamento del processo di rigenerazione degli oli usati e massimizzare l’efficienza e la qualità dei prodotti riciclati”. La congiuntura industriale ed economica è un elemento che può influire sul sistema di approvvigionamento del rifiuto: a un calo della produzione industriale nazionale corrisponde una proporzionale diminuzione nella disponibilità di oli lubrificanti usati. Sono fenomeni ben noti a Viscolube, che ha dovuto affrontare la grave crisi economica e industriale del 2008-2014. Da un lato, la chiusura di molte aziende italiane e il calo generale della produzione industriale (in Italia si è ridotta quasi di un quarto dal 2008 al 2013) hanno fatto diminuire la quantità di olio usato disponibile. Dall’altro il settore automobilistico, altra fonte d’importanza strategica per re-refiner come Viscolube, ha visto l’introduzione di motori sempre più performanti, con consumi ridotti di lubrificante. Nello stesso tempo, si è assistito a una riduzione generale dell’uso dell’automobile. Si allungano i tempi dei cambi d’olio, diminuisce l’uso dell’auto e, infine, si utilizzano maggiormente mezzi con minor consumo di olio (come per esempio le auto elettriche). “Per noi, come per tante imprese che si avvalgono del rifiuto come materia prima, alla base di un processo industriale complesso ci deve essere un processo di acquisizione idoneo. Dunque abbiamo ritenuto strategico partecipare a questa fase della filiera”, aggiunge Codognola. “Forti dell’esperienza cinquantennale nella gestione e rigenerazione dell’olio usato – e grazie alla conoscenza delle società che lo raccolgono – è maturata la decisione di Viscolube di entrare nel settore della raccolta e gestione di rifiuti speciali”. Per raggiungere questo scopo Viscolube ha creato Viscoambiente, divisione aziendale dedicata alla raccolta, gestione e trattamento dei rifiuti speciali. L’obiettivo di Viscoambiente è integrare la gestione dei rifiuti pericolosi offrendo ai propri clienti la più ampia scelta di servizi ambientalmente sostenibili. “Il consolidamento del settore italiano dei rifiuti pericolosi attraverso la costruzione e l’ottimizzazione di un player nazionale, dotato di crescenti capacità operative di raccolta logistica e di riciclo rientra nei nostri progetti”, spiega Codognola. “In questa ottica, Viscoambiente
assicura alle raffinerie del gruppo una parte del rifiuto a loro necessario: è partita nel 2013 e al momento ha acquisito cinque imprese, mentre per altre siamo in fase di negoziazione. Abbiamo aziende di raccolta in Piemonte (Settimo Torinese), in Veneto (Vittorio Veneto e Verona), in Friuli (Palmanova) ed Emilia Romagna (Bologna). Il quantitativo di olio usato così ottenuto rappresenta oggi circa il 12% del flusso totale in entrata. La parte rimanente viene acquistata da tutte le altre aziende operanti sul territorio nazionale”. Oggi Viscoambiente ha un fatturato aggregato di circa 25 milioni di euro. L’idea di base è avere una struttura industriale per la raccolta: senza questa efficienza il processo è meno integrato e più difficoltoso. Infine, per ciò che riguarda le fonti di approvvigionamento, Codognola precisa: “Il quantitativo italiano di olio usato non è sempre sufficiente a garantire il funzionamento ottimale degli impianti. Pertanto recuperiamo qualcosa dalla Francia e da altri paesi. Circa il 10% dell’ammontare complessivo di olio usato rigenerato dalle nostre raffinerie proviene dall’estero, da aree in cui la capacità di rigenerazione è inferiore ai quantitativi di olio usato raccolto. Ogni stato membro della Ue ha però una legislazione specifica e dato che si tratta di un rifiuto pericoloso, in osservanza del principio di prossimità, preferiamo ottenere la materia prima localmente”. Privilegiare un approvvigionamento basato su risorse prodotte localmente è una strategia dalla doppia valenza, economica e ambientale: consente di ridurre i costi e le emissioni derivanti dal trasporto. Quello della rigenerazione degli oli usati è un settore di eccellenza, dunque, ma con criticità ancora da superare. “Di sicuro, una è la scarsa consapevolezza della priorità che la Commissione europea assegna alla rigenerazione e al riciclo nella gerarchia di smaltimento dei rifiuti stabilita con la Waste Directive. Si tratta di una gerarchia di uso che dovrebbe essere applicata in maniera rigorosa in tutti gli stati, senza deroghe che consentano la combustione indiscriminata di olio.” E per quanto riguarda il mercato italiano? “Riteniamo che, laddove ci siano eccellenze capaci di dimostrare che si può fare industria e prodotti di qualità con la rigenerazione, diffondere la cultura dell’economia circolare e del riciclo sia un dovere da parte di tutti, in primis da parte della pubblica amministrazione che potrebbe adempiere con maggior rigore alla direttiva sugli acquisti verdi.”
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In
700 per la
BIOECONOMIA Intervista a Nathalie Moll Politiche europee, nazionali e locali, innovazione tecnologica, progetti industriali e programmi di ricerca. Se ne parlerà al Forum Europeo sul biotech industriale e la bioeconomia di Bruxelles. Un’occasione di confronto tra società, economia e politica. a cura di Mario Bonaccorso
Promosso e organizzato da EuropaBio, l’associazione di rappresentanza in Europa dell’industria biotech e biobased, Efib, Forum europeo sul biotech industriale e la bioeconomia, raggiunge quest’anno la sua ottava edizione. L’evento, che si terrà presso il centro congressi Square a Bruxelles, vivrà un’edizione del tutto particolare, se si considera l’enorme crescita di interesse che si registra attorno ai settori della bioeconomia e dell’economia circolare. Politiche europee, nazionali e locali, innovazione tecnologica, progetti industriali e programmi di ricerca: tutto ciò che si sta muovendo in un’area strategica
Nathalie Moll, Segretaria Generale di EuropaBio.
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Centro congressi Square a Bruxelles
L’ottavo Forum Efib – The European Forum for Industrial Biotechnology and the Bioeconomy – si terrà a Bruxelles il 27-29 ottobre 2015
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Efib: uno spazio in cui le industrie e i politici europei possono incontrarsi per conoscere meglio gli ultimi successi della bioeconomia resi possibili dalla biotecnologia industriale.
per la sostenibilità delle economie europee troverà a Efib un importante momento di sintesi, aggiornamento e soprattutto di confronto, tra società, economia e politica, Materia Rinnovabile ha intervistato Nathalie Moll, segretario generale di EuropaBio per tracciare un profilo ed entrare nei dettagli di questa nuova edizione di Efib che si svolge mentre, sempre a Bruxelles, si stanno prendendo decisioni (speriamo) importanti per far decollare lo sviluppo di questi settori. Può spiegarci per prima cosa come è nata l’idea di organizzare Efib e quali sono i suoi obiettivi? “Efib svolge due ruoli cruciali per le industrie europee che si occupano di biotech e di biobased industriale. Prima di tutto mette insieme l’intera catena di valore, dai produttori primari, all’industria della trasformazione, ai fornitori di tecnologie, ai grandi marchi, alla società civile. Questo è fondamentale per capire le differenti necessità e prospettive di settori diversificati che cercano di passare a un’industria basata sulle rinnovabili. In secondo luogo, crea uno spazio in cui le industrie e i politici europei possano incontrarsi per
conoscere meglio gli ultimi successi della bioeconomia resi possibili dalla biotecnologia industriale. E anche per discutere su come superare gli ostacoli presenti sul percorso per raggiungere maggiore competitività e benefici economici e ambientali.” Quali sono le più importanti innovazioni di questa edizione rispetto alla precedente? “In un anno sono successe molte cose e di conseguenza ci saranno molte innovazioni da tutto il mondo tra cui scegliere. L’Efib si è sempre concentrato molto sull’innovazione: quest’anno abbiamo quattro percorsi dedicati a quest’area. Sentiremo parlare persone che stanno operando rivoluzioni nello sviluppo sia del prodotto sia della lavorazione, rese possibili dal biotech industriale in diversi settori, tra cui l’industria cartaria, dei trasporti, della plastica, del trattamento dei rifiuti, del packaging e dei prodotti per la cura personale. Ogni anno abbiamo il compito – inevitabile – di selezionare le migliori presentazioni dai percorsi di innovazione e queste riceveranno il nostro premio John Sime: ecco perché bisognerà visitare questo spazio.”
Case Histories
Cosa ci dice della partecipazione dei paesi extraeuropei? “Malgrado il suo nome, un terzo dell’audience dell’Efib viene da fuori dall’Europa, in particolare da Stati Uniti e Canada. Quest’anno abbiamo molti speaker provenienti dagli Stati Uniti, tra cui Ron Buckhalt dell’Usda e il dottor E. William Radany, Ceo di Verdezyne. In più, in uno
dei workshop pre-conferenza sulla valorizzazione dei rifiuti daremo il benvenuto a Tony Duncan del Circa Group direttamente dall’Australia! Le edizioni precedenti dell’Efib hanno visto partecipanti anche da Sudafrica, Malesia, Thailandia, Cina e Brasile.” Dal suo punto di vista, pensa che i cittadini europei siano consapevoli del ruolo della bioeconomia in termini di garanzia di uno sviluppo economico ecosostenibile in Europa? “No, penso che abbiamo ancora molto lavoro da compiere per far sentire le nostre voci. Ci sono tanti buoni esempi di come il biotech industriale stia portando grandi benefici a molti livelli sia per l’Europa sia per i suoi cittadini. Dobbiamo però fare di più per renderli pubblici. È una grande sfida, e se tutti i settori della catena di valore faranno la loro parte potremo avere un forte impatto. Il problema per le industrie biobased emergenti è che sono così impegnate a cercare di consolidarsi, spesso con risorse limitate, che non hanno il tempo, lo spazio e il pubblico per spiegare perché stanno facendo ciò che fanno. L’Efib offre un showcase per queste industrie. E siamo orgogliosi di vedere come sia cresciuto: nel 2008 era un raduno di 80 persone, negli ultimi anni è diventato un evento internazionale con 700 partecipanti.” E quali sono i principali progressi nella bioeconomia? “Il lancio dell’impresa da 3,7 miliardi di euro Bbi Joint tra la Commissione europea e l’intera catena di valore della bioeconomia è una pietra miliare. Rappresenta, infatti, la creazione della European Bioeconomy Alliance che raggruppa molti settori diversi nella richiesta di nuove misure di supporto in quest’area. Inoltre, stiamo studiando misure per stimolare il mercato, come l’approvvigionamento pubblico, e per massimizzare le misure di supporto a quello industriale.”
Floral carpet, Gran Place, Bruxelles, 2008. Foto di Wouter Hagens
Info www.europabio.org www.efibforum.com
Chi partecipa all’Efib? “Quest’anno ci aspettiamo oltre 700 partecipanti da tutto il mondo e da un gran numero di differenti settori legati ai prodotti biotech e biobased. Ospiteremo anche oratori di alto livello dalla Ellen Macarthur Foundation, FrieslandCampina, Jaguar Land Rover, Akzo Nobel e Deinove come anche da Carlsberg e Wwf. Visto che l’evento sarà ospitato a Bruxelles speriamo di avere un numero record di politici: siamo felici di confermare che il discorso di apertura sarà tenuto dal Direttore Generale del DG Environment della Commissione europea, Daniel Calleja Crespo. Si uniranno a noi anche Ceo di società come Corbion, Metsa Fibre e Sodra. Il nostro scopo è rendere la discussione più possibile inclusiva, variopinta e dinamica allargando la partecipazione a tutti i campi della vita biobased.”
Le industrie biobased emergenti sono così impegnate a cercare di consolidarsi, spesso con risorse limitate, che non hanno il tempo, lo spazio e il pubblico per spiegare perché stanno facendo ciò che fanno. L’Efib offre un showcase per queste industrie.
Perché l’Efib quest’anno è focalizzato anche sull’economia circolare? “L’economia circolare è un argomento caldo a Bruxelles. In parte perché la tecnologia pulita è stata identificata come un bene europeo nell’impegno alla creazione di posti di lavoro e crescita, e anche perché la Commissione europea sta attualmente preparando la sua proposta al riguardo. Biotech e biobased giocheranno un ruolo chiave nel diffondere la promessa dell’economia circolare in quanto permettono la transizione verso le rinnovabili e rendono possibile un più efficiente utilizzo delle risorse. Vogliamo essere un chiaro collegamento tra l’economia circolare e la bioeconomia: e quest’anno vogliamo guardare avanti per discutere come il biotech industriale può recare benefici a entrambe.”
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Rubriche Profondo blu
In Islanda del merluzzo non si butta via niente Ilaria Nardello è specialista della ricerca industriale presso la National University of Ireland, Galway. Oceanografa con tredici anni di esperienza tra Usa e Ue, oggi sostiene l’interazione tra industria e università per creare innovazione e sostenibilità, con un interesse particolare per le applicazioni provenienti dall’uso delle risorse marine.
Iceland Ocean Cluster, www.sjavarklasinn.is/en/
Per la prima volta, il 24 settembre, gli islandesi hanno celebrato la “Giornata del merluzzo”. Un evento organizzato da Iceland Ocean Cluster e Cluster Ocean House per ricordare il grandissimo potenziale delle nostre risorse naturali, al di là delle consuete pratiche di sfruttamento. “Mentre nelle attività di pesca tradizionali – nel Nord Atlantico – testa, intestino e lische dei merluzzi vengono scartati, in Islanda i pescatori hanno imparato a fare soldi con i sottoprodotti della pesca”, dice Thor Sigfusson, Ceo di Iceland Ocean Cluster. Secondo le loro analisi gli islandesi sono in grado di utilizzare oltre l’80% del merluzzo, mentre molti paesi vicini – come Norvegia e Canada – gettano via la metà del pescato. Sono, infatti, oltre 500.000 le tonnellate di merluzzo scartate ogni anno, in mare o come rifiuti, nella regione del Mare di Barents e attraverso l’Atlantico del Nord, da Terranova alla Norvegia. La Giornata del merluzzo si svolge per celebrare il successo delle aziende di tecnologia che hanno trovato il modo di ottenere di più da ogni pesce; ma anche per ricordare a tutti noi il valore potenziale di questa fantastica risorsa”. Storicamente in Islanda il merluzzo alimenta una delle principali industrie del paese. In passato per tutelare i propri stock non solo l’Islanda ha minacciato guerre ai paesi limitrofi che pescano nelle loro acque, ma si è anche autoimposta misure molto restrittive nello sfruttamento della specie, quando la popolazione di Gadus morhua ha iniziato complessivamente a diminuire. E il declino continua tuttora. I dati attuali globali non offrono alcuna consolazione per i danni inflitti dalla pesca eccessiva di questa risorsa, tanto preziosa da essere chiamata anche “maiale di mare”, per la sua capacità di nutrire e sostenere la popolazione umana, nel Nord Atlantico. Tuttavia, uno sguardo più attento mostra che le acque nelle regioni nord orientali del bacino, per esempio quelle intorno all’Islanda e alla Norvegia, sono ancora molto produttive e questi paesi stanno godendo di una sana stagione di pesca. I dati del 2013 mostrano, infatti, la deposizione delle uova di merluzzo ai livelli più alti in quasi 50 anni. La pratica islandese di ridurre la quota di pesce in anni di bassa popolazione ha – dunque – permesso
ai merluzzi di recuperare e così di riportare la pesca islandese ai valori di prima della crisi. È comprensibile, quindi, e anche auspicabile, che gli islandesi continuino a proteggere il loro stock di merluzzo attraverso pratiche di gestione rigorose. E anche che questa risorsa incredibile svolga un ruolo politico. L’Islanda ha iniziato a considerare l’adesione all’Unione europea, nel 2009, quando il paese, molto scosso da una crisi economica che ha decapitato tre dei suoi istituti bancari e dimezzato il valore della corona islandese, è diventato il primo (anche se non l’ultimo) paese occidentale a ricorrere agli aiuti del Fondo monetario internazionale, dai tempi della Seconda guerra mondiale. In quegli anni difficili, la zona euro e l’adesione all’Unione europea apparivano come una prospettiva attraente. Il paese, però, ha interrotto le trattative di accesso alla Ue, nella primavera del 2015. Anche se non è stato mai discusso apertamente, un dibattito sui compromessi nazionali in relazione alle quote di pesca potrebbe essere stato un ostacolo insuperabile nei negoziati. Nella Giornata del merluzzo, l’industria islandese sale alla ribalta per mostrare come i suoi sforzi, la sua fantasia e le sue tecniche di gestione della pesca permettano al merluzzo di continuare a fare storia in Islanda. Rimanendo un elemento fondamentale dell’economia del paese in vari settori: non solo in quello alimentare, ma anche nella cosmesi, negli integratori alimentari, nella farmaceutica e tecnologia dei processi. E persino nell’industria della moda.
Rubriche
Capitale naturale
Rebus Terra: + 83 milioni – 15 miliardi Gianfranco Bologna è direttore scientifico e Senior Advisor di Wwf Italia. Segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei, che rappresenta il Club di Roma in Italia. È stato anche membro del Club di Roma per un mandato sotto la presidenza di Alexander King. Autore e curatore di numerose pubblicazioni, nel 2013 ha scritto Sostenibilità in pillole (Edizioni Ambiente) e Natura Spa. La Terra al posto del PIL (Bruno Mondadori editore).
Report 2015 Revision of World Population Prospects pubblicato dalle Nazioni Unite, esa.un.org/unpd/wpp
Crowther T.W. et al., 2015, “Mapping tree density at a global scale”, Nature 525; 201-205, tinyurl.com/p82t48t
World Resources Institute, www.wri.org Global Forest Watch, www.globalforestwatch.org
7 miliardi e 300 milioni: è il numero raggiunto dalla popolazione umana mondiale a luglio di quest’anno. Seguendo la variante media di crescita prevista dalle proiezioni Onu, quella che sino a ora si è verificata, gli esseri umani sulla Terra raggiungeranno i 9,7 miliardi nel 2050. Cioè 83 milioni di persone in più ogni anno. Anche assumendo che i livelli di fertilità continuino a declinare, la popolazione globale raggiungerà gli 8,5 miliardi nel 2030, i 9,7 miliardi nel 2050 e gli 11,2 miliardi nel 2100, rispetto alle proiezioni relative alla variante media. E seppure il declino della fertilità dovesse subire accelerazioni, la crescita demografica fino al 2050 sarà praticamente inevitabile. Ma non sempre è andata così. Per lunghissimi periodi di tempo la popolazione umana, infatti, è cresciuta molto poco, rimanendo al di sotto dei 100 milioni fino a circa il 2000 a.C.. Secondo i calcoli ormai accreditati di diversi studiosi, all’inizio dell’era cristiana sul pianeta vivevano circa 225 milioni di persone. Bisognerà aspettare il 1820 perché raggiungano il primo miliardo. Poi in poco più di un secolo, nel 1930, sono diventate 2 miliardi. La crescita è stata da allora molto sostenuta e in trent’anni, dal 1930 al 1960, la popolazione ha raggiunto i 3 miliardi; poi 4 miliardi nel 1974, 5 nel 1987, 6 nel 1999. Fino a 7 nel 2011. Oggi in Africa vivono 1 miliardo e 186 milioni di persone che si prevede – secondo il rapporto Onu – diventeranno 1 miliardo e 679 milioni nel 2030, 2 miliardi e 478 milioni nel 2050 e 4 miliardi e 387 milioni nel 2100. L’Asia che oggi conta 4 miliardi e 393 milioni di persone, ne avrà 4 miliardi e 923 milioni nel 2030, 5 miliardi e 267 milioni nel 2050 e 4 miliardi e 889 milioni nel 2100. La crescita della popolazione e le nostre modalità di produzione e consumo esercitano ormai un impatto sconvolgente sul capitale naturale e sui servizi ecosistemici di cui tutta l’umanità usufruisce quotidianamente e gratuitamente. E ciò andrà a intensificarsi per il futuro. Anche lo straordinario capitale naturale costituito dalle foreste del globo è sempre più a rischio a causa del nostro continuo e crescente impatto. Nature ha dedicato la copertina al lavoro scientifico che ha fornito i primi numeri degli alberi presenti sulla Terra.
Gli studiosi nel ricordare quanto sia importante conoscere l’estensione globale e la distribuzione degli alberi e delle foreste per comprendere al meglio la biosfera terrestre e il prezioso ruolo svolto nel fornirci fondamentali servizi ecosistemici (dai cicli biogeochimici dell’ossigeno e del carbonio, ai cicli idrici, al mantenimento dei suoli ecc.), hanno stimato in 3.040 miliardi il numero di alberi presenti oggi sul pianeta, dei quali approssimativamente il 42,8% si trova nelle foreste tropicali e subtropicali, il 24,2% nelle regioni boreali e il 21,8% in quelle temperate. Si stima che oltre 15 miliardi di alberi vengono tagliati ogni anno: dall’inizio della civilizzazione dell’umanità il numero totale di alberi presenti sul pianeta si ritiene si sia ridotto del 46%. Il World Resources Institute, attraverso il suo Global Forest Watch ha evidenziato che i dati della deforestazione mondiale per il 2014 sono aumentati ancora, come avviene dal 2012. In pratica sono andati persi più di 18 milioni di ettari, un’area grande quanto due volte il Portogallo, dei quali 9,9 milioni di ettari – superficie equivalente alla Corea del Sud e pari a più della metà del totale deforestato nel 2014 – nei paesi tropicali. A partire dal 1990 sono stati deforestati – dati del Global Forest Resources Assessment 2015 della Fao – 129 milioni di ettari, un’area pari al Sud America. Se 25 anni fa – nel 1990 appunto – avevamo 4.128 milioni di ettari di foresta, attualmente – 2015 – ne abbiamo circa 3.999 milioni di ettari. Inoltre oggi le foreste piantate dall’uomo coprono circa il 7% del totale. È fondamentale – sia per la nostra generazione sia per quelle a venire – mantenere in buona salute questo straordinario capitale naturale e la sua ricchezza di biodiversità. Per questo è necessario che vi siano impegni precisi per ottenere la Zero Net Deforestation and Forest Degradation al più presto e non oltre il periodo tra 2020 e 2030.
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Green & circular
Materia da rinnovare, non da incenerire Stefano Ciafani, ingegnere ambientale, è Vicepresidente nazionale di Legambiente. È stato consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della XIV legislatura e membro del Comitato di indirizzo sulla gestione dei Raee.
Dopo il via libera alle nuove trivellazioni di petrolio, arriva anche la bozza di Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm) sulla realizzazione di nuovi impianti di incenerimento. Chi pensava che con lo Sblocca Italia, l’estrazione degli idrocarburi, le nuove grandi e inutili opere, il governo avesse toccato il fondo delle politiche ambientali, sbagliava di grosso. L’ultima conferma arriva con lo schema di Dpcm sull’incenerimento dei rifiuti in attuazione dell’articolo 35 dello Sblocca Italia che prevede 12 nuovi inceneritori in Italia che si aggiungerebbero a quelli già attivi, di cui non si prevede lo spegnimento. Neanche di quelli evidentemente da dismettere (e ce ne sono diversi). Si tratta di una proposta da respingere al mittente per tanti motivi evidenti. Il primo è che Palazzo Chigi fa finta di non vedere che – ancora una volta – manca l’oggetto del contendere, e cioè i quantitativi di rifiuti. I rifiuti da bruciare sono sovrastimati perché calcolati sul 65% di differenziata già superato in diverse regioni. Non si considerano né il programma nazionale di prevenzione (ma il ministro Galletti si ricorda che ha messo in piedi un comitato scientifico presieduto dal professor Andrea Segrè per la sua attuazione?), né il fatto che i cementieri stanno cercando di bruciare Css nei loro impianti. Tra l’altro già oggi gli impianti più recenti, come quello di Parma, sono in difficoltà perché grazie alle raccolte differenziate e alla tariffazione puntuale non hanno più i rifiuti dal territorio che li ospita e sono costretti a cercarli in altre regioni. Insomma sull’incenerimento il governo dà veramente i numeri. Il secondo motivo è che ancora una volta si guarda agli interessi di poche società e non a quelli del paese. Si tratta infatti di una bozza di decreto che è il frutto della sommatoria delle richieste singole delle aziende – soprattutto delle multiutilities del Nord – che non hanno capito che non c’è più spazio per nuovi inceneritori. Opzione che va invece ridotta inesorabilmente a vantaggio della economia circolare. Il paese avrebbe bisogno di altri impianti che servirebbero molto ai cittadini e alle loro tasche. Specie al Centro Sud occorre realizzare impianti per trattare l’organico differenziato (recuperando
energia con il biometano) e che invece continua a viaggiare su gomma per diverse centinaia di chilometri sprecando soldi in inquinanti trasporti. Serve costruire la rete capillare degli impianti per la massimizzazione del riciclaggio (ecodistretti, fabbriche dei materiali ecc.) e per la preparazione al riutilizzo dei rifiuti. Insomma gli impianti servono, e ce ne vogliono davvero tanti nuovi sul territorio nazionale, ma non quelli che hanno in mente le società di igiene urbana quotate in Borsa, a partire da A2A, Hera e Iren. Il terzo motivo è che questo schema di Dpcm non fa altro che spostare l’attenzione su un piano complicato per questioni politiche (le Regioni hanno detto “no grazie”), sociali (quali sono i territori disponibili a ospitare impianti di questo tipo?) ed economiche. I potenziali prezzi di conferimento dei nuovi impianti non sono, infatti, competitivi con gli inceneritori esistenti, a partire da quelli del nord Europa, sovradimensionati e costruiti negli anni ’90, che garantiscono prezzi bassissimi che nessun inceneritore italiano, vecchio o nuovo, è in grado di assicurare. Tutto questo ci farà purtroppo perdere altro tempo che soprattutto in alcune regioni critiche (come Sicilia, Puglia o Lazio) non abbiamo. Insomma, se il governo vuole lavorare sul serio sulla gestione dei rifiuti cancelli questa bozza di Dpcm e scriva un nuovo testo sull’economia circolare. Basterebbe rivedere il principio di penalità e premialità economica nel ciclo dei rifiuti e il cambio di passo sarebbe garantito. Bisogna tartassare le discariche, cancellare gli incentivi alla produzione di elettricità da incenerimento e supportare economicamente la filiera della prevenzione, del riuso e riciclo. Se invece l’esecutivo andrà avanti sulla strada del Dpcm in discussione, ci sarà un solo risultato: lo stallo totale che farà felici ancora una volta i tanti signori delle discariche che continuano a fare soldi e governare il ciclo dei rifiuti grazie a inesistenti politiche di settore.
Rubriche
Pillole di innovazione
Expo: un racconto (in parte) mancato Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore. Coordina Triwù, web tv dedicata alla cultura dell’innovazione in Italia. Insegna New Media al Master in Comunicazione scientifica e Innovazione sostenibile dell’Università Milano Bicocca.
Un racconto accurato e spettacolare sui temi che tratta questa nostra rivista quando parla di materiali che si possono ricavare da tutto ciò che è food: ecco, uno spazio dedicato a questo scenario, fondamentale per gli equilibri energetici, ci sarebbe stato bene.
Sono stato quattro volte a Expo, e naturalmente ci sono andato conoscendo gli argomenti prodotti dal dibattito su come l’esposizione avrebbe dovuto essere e su come, invece, si presenta. Come sappiamo le posizioni critiche partono dal constatare l’assenza di una comunicazione strutturata relativa alle grandi criticità planetarie che riguardano l’alimentazione nel mondo. Qua e là, in realtà, a Expo queste tematiche appaiono, tenendo anche presente una distribuzione di appuntamenti su cinque mesi, ma è vero che non c’è una cornice progettuale che le faccia emergere. Però merita ragionare su quale format mediatico questa comunicazione mancante avrebbe dovuto seguire. C’era poi un’altra questione, quella degli sponsor, giudicati come portatori di una logica business oriented. Che dire: sulle sponsorizzazioni in generale ormai mi sembra superfluo discutere – salvo alcune eccezioni, ovviamente – anche perché credo che nella grande kermesse di una manifestazione come Expo da 200.000 visitatori giornalieri, la visibilità reale degli sponsor sia decisamente bassa: con una valanga di gente il “segno” dello sponsor si perde. Per inciso, nel padiglione francese, fra l’altro uno dei più interessanti dal punto di vista dei temi della sostenibilità, si possono osservare le espressioni dei visitatori profondamente segnate da turbati interrogativi quando, per una disattenta disposizione della location, ci si trova improvvisamente immersi in un concentrato di intimo femminile – anche in vendita – che per alcuni minuti è difficilmente assimilabile a tutto il resto. È lo sponsor. Non credo che una comunicazione diretta, sul filone mostre specifiche, dedicate alla fame nel mondo avrebbe centrato l’obbiettivo. Il pubblico che va a una fiera mondiale è sintonizzato su altre frequenze di comunicazione. Invece, per esempio, un racconto accurato e spettacolare sui temi che tratta questa nostra rivista quando parla di materiali che si possono ricavare da tutto ciò che è food: ecco, uno spazio dedicato a questo scenario, fondamentale per gli equilibri energetici, ci sarebbe stato bene. C’è poi un dato che è difficile non cogliere: Expo è un magnifico frullato di facce di tutti
i colori e di tutte le forme, sonorità di centinaia di lingue, come di vestiti, cappelli, scarpe (io penso che sia giusto considerare anche questi dettagli che segnano le tante tribù della nostra specie). Bene, di questi tempi così tanto fragili per ciò che è altro da noi, questa concentrazione di diversità è un messaggio vitale, anche inconscio. Ora, quando arriva il buio, a Expo migliaia di persone si radunano intorno all’Albero della vita per assistere allo spettacolo di luci e suoni. Questo è un momento che si poteva utilizzare per una narrazione dei grandi temi, emotiva, popolare – e cioè che va bene per tutti noi – qualcosa che parlasse di presente e di futuro, disegnando scenari positivi e ottimistici, anche, a partire dalle cose che possiamo fare. Cinque mesi di successivi mini-raduni di comunità mondiali, con una multimedialità che sapesse superare – è possibile, ci sono ottimi esempi – le barriere linguistiche, oppure ruotasse sulle differenze, sarebbero stati un contributo di valore. Chiudo con un suggerimento ai gestori del Padiglione Italia. Nella piccola sala che è stata dedicata a spiegare come sarebbero andate le cose senza la presenza dell’Italia, c’è un plastico dell’Europa nel quale, appunto, lo stivale e le sue isole non ci sono. Questa saletta è un piccolo momento tragico e incomprensibile. Tuttavia, è stata tolta anche Malta, giù, dove si trovano Lampedusa e Pantelleria. Bisogna rimetterla. Oppure, meglio, si potrebbe chiudere la saletta.
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