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RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 16 | maggio-giugno 2017 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente
Intervista a Walter R. Stahel: lunga vita agli oggetti •• Thomas Rau e Sabine Oberhuber: serve il passaporto dei materiali •• Un Regno disunito dai rifiuti
Dossier bioeconomia/Francia: coinvolgere è la strategia vincente •• Circle economy, fare la birra con il pane avanzato •• French window: verso gli appalti pubblici circolari
Watergrabbing: la sporca guerra del Sudafrica •• Ripensare il frigorifero •• Moda, cannibali e forchette •• Simbiosi & Innovazione
Quando gli States invaderanno il Canada •• Le cose difficili da dire •• Jeans in affitto
IN COLLABORAZIONE CON L A NAZIONALE ITALIANA DI PALLANUOTO
SE GETTI VIA L’OLIO USATO DELLA TUA AUTO INQUINI SEI PISCINE OLIMPICHE. A volte basta poco per inquinare tanto: un cambio d’olio dell’auto gettato in un tombino o in un prato. Un gesto insensato che rischia di inquinare una superfice enorme di 5.000 metri quadri. Invece se raccolto correttamente l’olio usato è una preziosa risorsa perché con il riciclo diventa nuovo lubrificante. Così si risparmia sull’importazione del petrolio e anche l’ambiente ci guadagna. Aiutaci a raccoglierlo, non mandare a fondo il nostro futuro: numero verde 800.863.048
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Economia Circolare: Politiche e Pratiche 3 - 5 Luglio 2017 | Venezia
Informazioni e iscrizioni: bit.ly/circular_training
Le iscrizioni sono aperte fino al 2 Aprile 2017. Tariffe agevolate per le iscrizioni entro il 3 Marzo 2017 Contatti: info@acrplus.org - www.acrplus.org
YEARS ANNIVERSARY
CALL FOR ABSTRACTS
sardinia_2017 16th INTERNATIONAL WASTE MANAGEMENT AND LANDFILL SYMPOSIUM Forte Village / S. Margherita di Pula (CA) / Italy 2-6 October 2017
ORGANIZZATO da: IWWG - INTERNATIONAL WASTE WORKING GROUP
SUPPORTO SCIENTIFICO di: Università di Padova (IT) / Fukuoka University (JP) / Hamburg University of Technology (DE) Technical University of Denmark (DK) / Tongji University (CN) / University of Central Florida (US)
SARDINIA 2017 / 30° ANNIVERSARIO Dopo lo straordinario successo del Sardinia 2015 / Arts Edition, entusiasmante edizione alla quale hanno partecipato 732 delegati provenienti da oltre 70 paesi differenti, siamo lieti di annunciare il 30° Anniversario dei Simposi Sardinia, che dal 1987 rappresentano il forum di riferimento per tutta la comunità scientifica internazionale. Il Sardinia 2017 si preannuncia come l’evento più importante dell’anno nel campo della gestione sostenibile dei rifiuti e dello scarico controllato. In linea con le edizioni precedenti, il Simposio si focalizzerà sulle nuove tecnologie e strategie di gestione dei rifiuti, presentando casi di studio e discutendo sugli aspetti più controversi in una condivisione di esperienze tra paesi differenti. Il Simposio si articolerà in un programma della durata di 5 giorni che prevede 8 sessioni parallele dedicate alla presentazione di contributi orali e workshop, una sessione poster, meeting business to business, forum di discussione, laboratori di progettazione pratica ed un’ampia esposizione commerciale dedicata alle aziende che operano nel settore della gestione dei rifiuti. Prima dell’inizio del Simposio si svolgeranno alcuni corsi di aggiornamento organizzati dall’IWWG.
TEMI DEL SIMPOSIO
Politiche e strategie di gestione dei rifiuti • Necessità di una legislazione aggiornata e più appropriata • Partecipazione pubblica e consenso • Gestione dei rifiuti e strumenti di supporto alle decisioni • Circular Economy • Responsabilità del produttore • Soluzioni per la gestione dei rifiuti nelle grandi città • Trasporto e raccolta dei rifiuti • Minimizzazione dei rifiuti e reciclaggio • Deposito finale per • Trattamento biologico e produzione di energia • Compostaggio • Biocombustibili da rifiuti • Trattamenti termici e tecnologie avanzate di conversione • Discarica controllata • Tecnologie per la sostenibilità della discarica (trattamenti pre e in situ) • Landfill mining • Comportamenti a lungo termine delle discariche: ripensare il progetto • Gestione integrata delle acque reflue e dei rifiuti solidi • Gestione dei rifiuti e cambiamenti climatici • WEEE - Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche • Ingegneria Forense nella gestione dei rifiuti • Nanotecnologie nella gestione dei rifiuti • Gestione e smaltimento della plastica • Gestione dei rifiuti nei paesi in via di sviluppo • Workshop di progettazione per la gestione sostenibile dei rifiuti
INVIO DEGLI ABSTRACT Gli abstract dovranno essere inviati entro l’1 Marzo 2017 seguendo le istruzioni riportate al seguente link: http://www.sardiniasymposium.it/abstract-form
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA EUROWASTE srl / via B. Pellegrino, 23 / 35137 Padova t +39 049 8726986 / info@eurowaste.it / www.eurowaste.it
www.sardiniasymposium.it
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selezione ADI Design Index 2015
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Partner Tecnici
Stampato da Geca Industrie Grafiche con inchiostri a base vegetale privi di oli minerali. Il sistema produttivo di Geca non produce scarichi e ogni sfrido delle nostre lavorazioni è immesso in un processo di raccolta e riciclo. www.gecaonline.it
Stampato su Crush, carte ecologiche di Favini realizzate con sottoprodotti di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero: copertina Crush Mais 250 g/m2, interno Crush Mais 120 g/m2. www.favini.com
Eventi
Editoriale
È di moda la sostenibilità di Antonio Cianciullo
P. Sukhdev, Corporation 2020. Trasformare le imprese per il mondo di domani, Edizioni Ambiente 2015; www.edizioniambiente. it/libri/1076/ corporation-2020
Sul cibo non c’è più discussione. In pochi decenni il mondo del food è stato capovolto e una visione che si può definire politica – cioè la capacità di collegare settori diversi, esigenze diverse, business diversi – è diventata senso comune in chi si avvicina al tema alimentare. Nella definizione di una strategia agricola moderna convivono ormai con buona frequenza elementi come l’amore per la tradizione, la volontà di mantenere la coesione sociale, la difesa dei territori marginali e della biodiversità, l’aumento dei fatturati, il rilancio del turismo. Uno dei capisaldi del brand Italia è entrato dunque a pieno titolo nell’era contemporanea trainandosi dietro un forte rilancio dei prodotti a marchio territoriale, del biologico e del biodinamico. Adesso tocca alla moda. Non certo perché la moda sia rimasta indietro dal punto di vista della capacità competitiva: i numeri dimostrano il contrario e la natura stessa del settore è legata al continuo aggiornamento della sensibilità. Ma il tema può essere affrontato toccando varie corde. E da qualche tempo quelle ambientali risuonano con più frequenza. Questa partita è cominciata in difesa. Campagne come Detox di Greenpeace sono servite a mettere a fuoco la necessità di depurare il sistema dalla presenza di elementi indesiderati. La consapevolezza dell’impatto sanitario di sostanze tossiche sia nei vestiti sia nell’ambiente ha avviato una trasformazione dei processi produttivi del settore dell’abbigliamento che è ancora in corso e che viaggia a velocità diverse nei diversi paesi. Adesso sta prendendo corpo un’altra scommessa: far entrare la variabile ambiente all’interno della scelta delle materie da impiegare, utilizzandola anche come fattore di competizione. L’accettazione di questo principio non è scontata perché le resistenze si addensano su vari fronti. Uno è ben individuato in questo numero di Materia Rinnovabile dall’articolo di Marco Ricchetti che lancia il tema con una citazione di John Elkington tratta dall’incipit di Cannibals with Forks: “È progresso se un cannibale usa la forchetta?” Cioè, fuor di metafora, è progresso se le corporation che lottano per la supremazia adottano modelli di produzione sostenibili?
La provocazione coglie una diffidenza diffusa che è tipica anche dei ragionamenti attorno ad altri settori produttivi fortemente innovativi. E, presa in astratto, è difficile da giudicare: può essere una saggia cautela per stanare il greenwashing; oppure un pregiudizio ideologico, un atteggiamento acriticamente anti industriale. Pavan Sukhdev, l’economista indiano che ha elaborato il progetto Teeb sul valore degli ecosistemi, in Corporation 2020 ha espresso una visione ottimistica del futuro delle multinazionali: “Il peso degli investimenti green è cresciuto del 61% negli ultimi due anni, passando dai 13.300 miliardi di dollari del 2012 ai 21.400 del 2014. Cambiano pelle vecchie società, come la Dow Chemical che in Louisiana ha fatto investimenti in efficienza energetica con una resa del 204% in 13 anni. E ci sono nuove aziende come Patagonia, Natura o l’indiana Infosys cresciute moltissimo scommettendo sull’impegno sociale e ambientale”. Ma nel campo della moda quanto è avanzato questo processo e in che misura si può saldare in modo coerente con la prospettiva dell’economia circolare? Per rispondere a questa domanda abbiamo messo sul tappeto i dati di base, cioè la forte crescita del flusso di materia per alimentare il settore. Più 68% negli ultimi 15 anni: da 8 chili di fibre tessili pro capite a 15. Con l’ovvio codazzo di consumo di acqua, energia, suolo per sostenere il meccanismo. Di fronte a questi numeri la proposta che questa rivista sostiene è articolata in un libro appena uscito Neomateriali nell’economia circolare: Moda (a cura di M. Ricchetti, Edizioni Ambiente 2017, ndr). Un testo che documenta esempi dell’uso sostenibile di materiali nella filiera produttiva della moda e analizza il tema anche dal punto di vista del consumo dei materiali non rinnovabili, dell’uso delle risorse idriche, dell’impatto delle sostanze chimiche adoperate. Si può sorridere della brevità dello stato di grazia di una giacca degna di una sfilata di moda, e pensare ai cannibali con la forchetta. Ma, se guardiamo ai grandi numeri, conta di più il ciclo di vita della materia che va a comporre quello che indossiamo tutti i giorni: vestirsi è un’attività che produce un rilevante impatto ambientale. Sta a noi sceglierne il segno.
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16|maggio-giugno 2017 Sommario
MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE
Antonio Cianciullo
7
È di moda la sostenibilità
Emanuele Bompan
10
Avrò cura di te Intervista a Walter R. Stahel
Silvia Zamboni
15
Un Regno disunito dai rifiuti Intervista a Dominic Hogg
Antonella Ilaria Totaro
18
Chiudere il cerchio è solo un’opzione Intervista a Thomas Rau e Sabine Oberhuber
Emanuele Bompan
23
Acqua vs carbone, la sporca guerra del Sudafrica
Mario Bonaccorso
32
Adrian Deboutière
40
Francia: verso gli appalti pubblici circolari
Shyaam Ramkumar
42
Fare la birra con il pane avanzato
Marco Ricchetti
47
Focus moda Moda, cannibali e forchette
www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014
Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Ilaria Nicoletta Brambilla, Rudi Bressa, Daniela Bqain, Adrian Deboutière, Marc Delcourt, Julien Dugué, Boris Dumange, Sergio Ferraris, Federica Fragapane, Roberto Giovannini, Cristina Govoni, Marirosa Iannelli, Dominic Hogg, Ben Alexander Kennard, Achille Monegato, Sabine Oberhuber, Federico Pedrocchi, Fausto Podavini, Riccardo Pravettoni, Thomas Rau, Shyaam Ramkumar, Marco Ricchetti, Walter R. Stahel, Bav Tailor, Antonella Ilaria Totaro, Freija van Holsteijn, Silvia Zamboni
Think Tank
Direttore responsabile Antonio Cianciullo
Ringraziamenti Katie Hans, Melanie Wijnands Caporedattore Maria Pia Terrosi
Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi Design & Art Direction Mauro Panzeri Impaginazione e infografiche Michela Lazzaroni Traduzioni Erminio Cella, Franco Lombini, Meg Anna Mullan, Mario Tadiello
Dossier Francia È la bioeconomia la nuova force de frappe
Policy
Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini
a cura dell’Institut de l’économie circulaire, Parigi
9
Coordinamento generale Anna Re
Antonella Ilaria Totaro
53
Focus moda Jeans da affittare
Responsabile relazioni esterne Anna Re Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it
Freija van Holsteijn
Sergio Ferraris
65
68
Frigorifero: la rivoluzione è alle porte
Focus carta DS Smith: the power of less
Focus carta Simbiosi & innovazione
Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright ©Edizioni Ambiente 2017 Tutti i diritti riservati
Rudi Bressa
70
Focus carta Un packaging di buona fibra
Rudi Bressa
72
Focus carta Da foglio, a imballaggio, a giornale
Silvia Zamboni
74
Roberto Giovannini
76
Il circolo mediatico Quando gli States invaderanno il Canada
Federico Pedrocchi
77
Pillole di innovazione Le cose difficili da dire
Rubriche
Case Studies
Ilaria N. Brambilla
58
Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333
La doppia vita delle armelline di pesca e albicocca
In copertina La tarma maggiore della cera (Galleria mellonella. Linnaeus, 1758), è un lepidottero infestante degli alveari. Riesce contemporaneamente a mangiare e degradare il polietilene, come dimostrato da una ricerca del dipartimento di Biochimica dell’Università di Cambridge in collaborazione con l’Istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria (Paolo Bombelli, Christopher J. Howe, Federica Bertocchini), riportata per la prima volta nella rivista Current Biology (volume 27-8, 24 aprile 2017). Foto di Wayne Boo. Courtesy of the U.S. Geological Survey. Wikimedia Commons, Public Domain.
10
materiarinnovabile 16. 2017
Avrò cura di te Intervista a Walter R. Stahel di Emanuele Bompan
Riuso, riparazione, rilavorazione, adeguamento tecnologico. Partendo da questi concetti Walter R. Stahel parla dell’estensione della vita degli oggetti, l’altra faccia dell’economia circolare. Ma occorre sviluppare una nuova relazione con i beni, un approccio basato sulla cura contrapposto a quello “usa e getta”. E non manca una forte critica al Circular Economy Package dell’Ue.
Walter R. Stahel, architetto, è stato il fondatore di Product-Life Institute, prima agenzia europea di consulenza per lo sviluppo di strategie e politiche sostenibili. Membro effettivo del Club di Roma, è visiting professor alla Facoltà di Ingegneria e Scienze fisiche della University of Surrey, e presso l’Institut Eddec de Université, HEC et Polytechnique di Montreal.
Se Ellen MacArthur è la signora dell’economia circolare, a Walter R. Stahel (nato il 9 giugno 1946) può benissimo essere riconosciuto il titolo di padre di questo modello economico. Stahel ha avuto influenza nello sviluppo del campo della sostenibilità, sostenendo “l’estensione della vita dei beni – le filosofie di riutilizzo, riparazione, rilavorazione, adeguamento tecnologico” come vengono applicate alle economie industrializzate. Se la gestione dei rifiuti rappresenta solo una metà del modello circolare, con i suoi cicli chiusi e la rinascita dei materiali, la vita dei prodotti rappresenta l’altra metà. L’estensione della vita utile dei beni come strategia di prevenzione dei rifiuti, l’utilizzo di prodotti come servizi e l’efficienza nell’uso delle risorse attraverso la dematerializzazione dell’economia industriale sono i pilastri del suo pensiero. Stahel ha dedicato la sua vita allo sviluppo di questi concetti, fondando nel 1982 il Product-Life Institute di Ginevra, in Svizzera, una società di consulenza finalizzata alla promozione di queste idee. Il suo libro The Performance Economy (Palgrave, 2010) è un’enorme raccolta di casi di studio in cui vengono analizzate le performance di produzione e consumo mostrando come la performance sia un indicatore chiave del vero business circolare. Ora che l’economia
Product-Life Institute, www.product-life.org
circolare è una filosofia che fa tendenza, Stahel è tornato sulla scena e lavora a stretto contatto con la Ellen MacArthur Foundation alla diffusione delle sue idee presso gli attori economici. Materia Rinnovabile l’ha intervistato per contestualizzare meglio cosa sono l’economia circolare e la vita dei prodotti nel 2017. Lei è uno dei padri fondatori dell’economia circolare. Come la definisce? “È un’economia incentrata sulla gestione delle scorte di risorse umane, naturali e di prodotti, mantenendo il loro valore come beni, estendendo la vita utile degli oggetti e – dal punto di vista tecnologico – aggiornando i prodotti più a lungo possibile.” Quando si rese conto che l’economia lineare non rappresentava la filosofia di sviluppo adeguata? “Nel 1973, quando l’Europa subiva la prima crisi dei prezzi del petrolio e viveva l’aumento della disoccupazione. Allora suggerii alla Commissione europea di cercare le possibilità per sostituire l’energia con la forza lavoro. E cominciammo a pensare ai materiali. La conclusione del rapporto del 1976 stilato per la Comunità europea da me e Geneviève Reday era la definizione dell’economia circolare; e lo rimane tuttora. Nel 1981 poi
pubblicammo il rapporto in forma di libro: Jobs for Tomorrow.” Oggi c’è un grande fervore riguardo al concetto di economia circolare. Quali sono i rischi? Potremmo trovarci di fronte a qualcosa di simile a quanto successo con il greenwashing che seguì l’introduzione del concetto di green economy? “Il rischio principale relativo all’economia circolare è il progresso tecnologico e scientifico. Se viene sviluppata un tecnologia di livello superiore per i beni – per esempio come avvenuto nel passaggio dalla macchina da scrivere ai word processor o dalle auto a benzina a quelle elettriche – i vecchi oggetti potrebbero essere comunque riutilizzabili in un altro contesto geografico, per esempio in paesi privi di una rete elettrica nazionale. Se viene sviluppata una tecnologia di livello superiore per i materiali – per esempio il progetto Two-Teams per la produzione di carta (una metodologia innovativa promossa da The Confederation of European Paper Industries – CEPI, nda) contrapposta alla produzione tradizionale – i processi di riciclo potrebbero essere messi a rischio. Il successo di un’economia circolare per i beni di consumo dipende dalla cura che ci si prende di essi, dallo sviluppo nelle persone di una nuova relazione con i beni – la funzionalità invece della moda – un approccio amorevole contrapposto a quello “usa e getta”. La cura è un presupposto per gestire qualsiasi capitale, che sia naturale, culturale, umano o costituito da beni prodotti industrialmente.” Lei ha lavorato sul tema dell’economia di performance. Quali sono gli assunti chiave? “Negli anni ’90 ho definito la performance economy in scritti e articoli come functional service economy (economia di servizio funzionale, nda), e nel 2006 ho pubblicato queste idee nel mio libro The Performance Economy per renderle accessibili a un pubblico più ampio. Nella performance economy si vende l’utilizzo dei beni come servizio – come succede con hotel, taxi e trasporto pubblico – come anche quello di molecole come servizio, cioè un leasing di sostanze chimiche. Mantenendo la proprietà dei beni e delle risorse in essi contenute, gli attori economici sono costretti a mantenere all’interno delle loro aziende tutti i costi legati ai rischi e alla produzione di materiale di scarto, il che rappresenta un forte incentivo economico verso la prevenzione di perdite e produzione di rifiuti. In cambio gli attori economici acquisiscono una sicurezza riguardo alle risorse per il futuro. La performance economy rappresenta il modello di business più sostenibile nell’economia circolare – in termini sociali, ecologici e finanziari – ma implica un’affidabilità illimitata riguardo alla performance di beni e materiali.” Lei ha anche svolto ricerche molto approfondite sul concetto di vita
Think Tank di un prodotto; e ha anche un gruppo di lavoro che si occupa di questo. Cosa dovrebbe fare oggi una persona che si occupa di progettazione quando si accinge a ideare un nuovo prodotto? “I progettisti, inclusi gli architetti, hanno due limitazioni. Prima: sognano l’immortalità il che significa che le cose devono essere nuove, uniche e di moda; e il fatto che perdono il controllo dei loro beni nel momento della vendita. Uno può progettare un’auto che durerà cinquant’anni, ma se l’acquirente ha un incidente e con l’auto nuova si schianta contro un muro, la vita del prodotto è breve. Il miglior approccio per i progettisti consiste nello sviluppare soluzioni sistemiche, oggetti fisici come concetti modulari con componenti standardizzati e soluzioni virtuali/ digitali invece che materiali. In molti casi questa è una sfida assolutamente nuova.” Pensa che ricercatori e progettisti siano al corrente della filosofia dell’estensione del periodo di vita? “L’estensione della vita del prodotto e l’economia circolare sono concetti sconosciuti nelle scuole e nelle università che preparano economisti e ingegneri per l’ottimizzazione dei processi produttivi; e lo sono anche ai tecnici che escono da queste scuole. La conoscenza e il know-how dell’estensione della vita dei prodotti appartengono a molte Pmi e ai manager di flotte, come ferrovie, linee aeree e forze armate. Una delle principali sfide consiste nel trasferire questa conoscenza nelle aule scolastiche e nelle sale riunioni per accelerare il passaggio a un’economia circolare.” La moda e l’obsolescenza programmata sono due acerrimi nemici del modello di economia circolare. Come possiamo risolvere il problema della morte prematura indotta dei beni? “Le soluzioni tecniche per superarlo consistono nello sviluppare soluzioni modulari con componenti standardizzati; le soluzioni commerciali sono il noleggio o il leasing dei beni invece della vendita. Se la proprietà rimane del produttore o della società di gestione di flotte, la moda e l’obsolescenza manderebbero in bancarotta il proprietario, il quale pertanto starà molto attento a non investire in beni di questo tipo. I consumatori trasformati in utenti hanno una serie di diverse soluzioni: avviare un repair cafè o simili innovazioni sociali al fine di disaccoppiarsi dai produttori; limitarsi a noleggiare o prendere in leasing oggetti come borsette o indumenti, un’opzione anche questa che garantisce flessibilità e scelta; comprare beni dotati di una garanzia di lunga durata, attualmente ne esistono a dozzine sul mercato.” I prodotti come servizio sono un elemento chiave dell’economia circolare: quali sono le principali sfide in termini di proprietà e di legislazione correlate al passaggio
dal possesso al noleggio/leasing/ condivisione? “Gli elementi chiave di un’economia circolare sono i cicli di riutilizzo e di estensione della vita utile dei beni – per esempio eBay, riparazione e rilavorazione, che sono opzioni percorribili dal proprietario-utente – e i loop di riciclo dei materiali, un’opzione disponibile per chi gestisce i rifiuti. I prodotti come servizio rappresentano un modello di business della performance economy che permette di intensificare l’utilizzo dei beni, ma richiede il mantenimento della loro proprietà, Questa è un’opzione disponibile solo per i produttori (come la Rolls Royce che vende potenza a ore invece di turbine di jet) o per i gestori di flotte (linee aeree, compagnie marittime che vendono servizi di trasporto).”
Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008. Autore con Ilaria Brambilla del libro Che cos’è l’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016).
Non pensa che usando solo beni come servizi si perdano alcuni beni finanziari, e quindi le famiglie potrebbero impoverirsi? “La gente dovrebbe comprare quei beni che aumentano di valore, come le case, ma noleggiare quelli che perdono valore, come auto e smartphone. Seguendo questa regola le famiglie vedranno aumentare i loro beni finanziari a lungo termine; lasciamo che qualcun altro perda soldi in beni che finiscono in discarica. L’Internet of Things e si basa sull’utilizzo dei beni come servizi: la gente vive già profondamente inserita in un’economia di servizio senza sentirsi derubata.” Qual è la sua opinione riguardo al Circular Economy Package dell’Ue? “Il Circular Econmy Package si basa ancora sul vecchio pensiero economico lineare che deve essere sostituito dalla valutazione delle scorte o dei beni. Sul lato delle risorse, dovrebbe prevederne la conservazione, e non strategie per la gestione dei rifiuti; dovrebbe dare la massima priorità al riuso e all’estensione della vita utile dei beni e dei componenti (scorte), perseguendo gli obiettivi della EU Waste Directive del 2008, e considerare il riciclo dei rifiuti (flusso) come ultima opzione. Di conseguenza, il Pacchetto dovrebbe delineare politiche di incentivazione per trasformare gli odierni gestori dello smaltimento di rifiuti ecologicamente motivati in gestori delle risorse economicamente motivati, creando mercati che rendano i beni usati e i componenti ai produttori per il riuso/rilavorazione. Gli obiettivi espressi come percentuale di riciclo dei rifiuti (flussi) dovrebbero essere rimpiazzati dalla percentuale annuale massima di perdita di risorse (perdita di scorte); per i beni usati poco questi sono mondi separati. Sul lato sociale, il Pacchetto ignora il potenziale di creazione di impiego e i meccanismi per sfruttare questo potenziale per la prevenzione dei rifiuti e lo sviluppo regionale e locale. E ignora la cruciale necessità di fornire gli strumenti per trasferire questo sapere e know-how dell’economia circolare dalle pmi e dai manager che gestiscono flotte a tutte le classi e alle sale riunioni delle aziende: un programma Erasmus sull’economia circolare per studenti e manager.”
L’estensione della vita del prodotto e l’economia circolare sono concetti sconosciuti nelle scuole e nelle università che preparano economisti e ingegneri per l’ottimizzazione dei processi produttivi.
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Think Tank
Un Regno disunito dai rifiuti
Magnae Britanniae et Hiberniae Tabula, 1631. In: Blaeu, G., Atlas Major, 1634 - 1672. Wikimedia Commons, Public Domain
Intervista a Dominic Hogg di Silvia Zamboni
In materia di scarti il Regno Unito non sembra avere una univoca direzione di marcia, né una visione innovativa. Con il risultato che le politiche di Scozia, Galles, Irlanda del Nord e Inghilterra sono molto diverse tra loro. I motivi per cui occorre rivedere la gerarchia europea, oggi superata.
Dominic Hogg, una laurea ad honorem dell’Oxford University e un Phd della Cambridge University, ha curato progetti sull’uso efficiente delle risorse ed economia circolare per i governi di Regno Unito, Scozia e Galles, Agenzia per l’ambiente europea, Ocse e Commissione europea. Dirige il centro di ricerche Eunomia.
Ogni anno nel Regno Unito dai rifiuti vengono recuperate materie secondarie ed energia per un valore pari a circa 15 milioni di sterline (17,70 milioni di euro), che però in larga parte prendono il volo. Infatti nonostante il paese sia un importatore di materie prime ed energia, ogni anno esporta circa il 50% (tra 12 e 14 milioni di tonnellate) dei materiali ottenuti da riciclo e il 90% dei cdr (combustibili derivati dai rifiuti), che vanno a saturare l’eccesso di potenza degli inceneritori installati nei paesi Ue. E il puzzle annuale dell’export si completa con altri 4 milioni circa di tonnellate di css (combustibile solido secondario) indirizzati ai cementifici d’oltremanica.
Centro di ricerche Eunomia, www.eunomia.co.uk
Questi i dati contenuti nello studio A Resourceful Future - Expanding the UK Economy che Eunomia Research & Consulting – una società di consulenza economico-ambientale – ha prodotto per l’impresa SUEZ Recycling and Recovery UK, proponendo un piano integrato di interventi a favore dell’uso efficiente delle risorse, che consentirebbe di ottenere benefici in campo economico, occupazionale, ambientale e di riduzione delle emissioni di gas serra. “L’odierno stato dell’arte dell’economia circolare nel Regno Unito non è però riconducibile
a un quadro omogeneo”, precisa Dominic Hogg, presidente di Eunomia, un autentico esperto di livello internazionale in progetti multidisciplinari di gestione dei rifiuti con in tasca una laurea ad honorem in fisica dell’Università di Oxford e un PhD in economia dello sviluppo tecnologico dell’Università di Cambridge. “Scozia, Galles, Irlanda del Nord e Inghilterra stanno infatti realizzando politiche specifiche molto diverse tra loro” puntualizza Hogg. “Il governo gallese, in particolare, ha lavorato in stretta collaborazione con le amministrazioni locali e le imprese per sviluppare un nuovo approccio alle attività di riciclo e migliorarne le performance, mentre in Scozia, dove l’incremento delle percentuali di riciclo è meno significativo, il governo sta mettendo in campo interessanti iniziative rivolte all’industria per sostenerne l’impegno ad adottare misure in linea con l’economia circolare.” In dettaglio, qual è la situazione in Galles e in Scozia? “In Galles, in materia di rifiuti solidi urbani, il governo ha avviato un programma di supporto tecnico per i Comuni, aiutandoli nell’acquisto di impianti per il trattamento anaerobico dei rifiuti organici e nella diffusione di buone pratiche per la raccolta degli rsu. L’obiettivo è incrementare la qualità delle frazioni raccolte
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materiarinnovabile 16. 2017 Silvia Zamboni, giornalista professionista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.
A Resourceful Future – Expanding the UK Economy, www.eunomia. co.uk/reports-tools/aresourceful-futureexpanding-the-ukeconomy
Se si intende imboccare la strada che porta all’economia circolare, l’obiettivo prioritario deve essere il riciclo di materia dicendo addio alle discariche e agli inceneritori.
separatamente e le percentuali di riciclo. Queste politiche hanno portato la raccolta differenziata degli rsu a superare il 60% in tutto il paese. Per quanto riguarda la Scozia, Zero Waste Scotland, movimento legato al governo locale, spinge a favore dell’introduzione di misure in linea con l’economia circolare attraverso un programma specifico rivolto alle pmi. Inoltre ha promosso degli studi specifici di settore per valutare come rendere più circolari i comparti produttivi più importanti nel paese.” Per esempio? “Nel settore del gas naturale e delle piattaforme per l’estrazione del petrolio realizzate nel Mare del Nord si sta studiando cosa fare in futuro di tutte queste infrastrutture. Così come si cerca di introdurre i principi dell’economia circolare nel settore edilizio. Glasgow, in particolare, ha dichiarato di voler diventare una città dell’economia circolare, per cui si stanno esaminando i flussi di materia locali. In Scozia stanno sorgendo molte fondazioni finalizzate a sostenere l’economia circolare. Dunque la situazione è davvero interessante, a parte il settore degli rsu dove, come ho già detto, la situazione non è così positiva come in Galles ed evolve più lentamente.” E in Inghilterra come definirebbe lo stato dell’arte dell’economia circolare? “Disperato (ride)! Il governo ha perso ogni interesse, la situazione è davvero deludente e ha riflessi sull’intero paese. Vivo in Inghilterra, presiedo una società di consulenza: con l’attuale governo penso che non avremo molto lavoro nei prossimi anni. Per lo più cerchiamo di aiutare le amministrazioni locali a non abbassare il livello di qualità dei servizi in un contesto finanziario decisamente critico a causa della riduzione delle risorse che vengono allocate dal governo, risorse che nei bilanci municipali dei comuni inglesi in buona parte coprono le spese di gestione dei rifiuti e che sono destinate in futuro a subire ulteriori tagli. Molte organizzazioni si battono a favore dell’economia circolare, ma non disponiamo di politiche nazionali coerenti a sostegno di questo obiettivo: il governo centrale mostra un interesse molto tiepido a riguardo e scarica sulle imprese l’onere di realizzare gli interventi necessari. Un provvedimento a livello di Regno Unito ha però colto nel segno e ha avuto grande successo: l’introduzione della tassa sui conferimenti in discarica.” A quanto ammonta la tassa? “Premesso che le discariche da noi sono gestite quasi esclusivamente da privati, e che questi applicano mediamente una tariffa di circa 30 euro a tonnellata, la tassa è intorno ai 100 euro a tonnellata, per cui si arriva a 130 euro complessivi.” Quali vantaggi porta questa misura? “Ho studiato a fondo i sistemi di gestione
dei rifiuti di molti paesi europei e sono fermamente convinto che sia molto meglio introdurre una tassa elevata sul conferimento in discarica piuttosto che mettere fuorilegge questi impianti, come invece hanno fatto Germania, Belgio, Paesi Bassi, Svezia, Danimarca e Norvegia. La messa al bando delle discariche porta a sovradimensionare la potenza di incenerimento installata. Da noi questa sovra-capacità non c’è. Per cui penso che i paesi che, al contrario, ce l’hanno, siano molto grati al Regno Unito che ha mantenuto in funzione le discariche, altrimenti non avrebbero rifiuti da bruciare, a parte quelli che arrivano dall’Italia (ride).” Cosa pensa della gerarchia europea dei rifiuti che, al contrario, vede la combustione con recupero energetico precedere il conferimento in discarica? “Da diverse analisi che ho condotto sul rapporto costi/benefici non è mai emerso che i costi aggiuntivi richiesti dall’incenerimento dei rifiuti siano giustificati dall’ottenimento di benefici aggiuntivi. Ed è questo uno dei motivi per cui ritengo che il Regno Unito ha fatto bene a non mettere al bando le discariche. Del resto, se si intende imboccare la strada che porta all’economia circolare, l’obiettivo prioritario deve essere il riciclo di materia dicendo addio alle discariche e agli inceneritori. Ovvero alle due opzioni collocate in fondo alla gerarchia europea dei rifiuti che costano denaro, non permettono di fare grandi guadagni e portano alla perdita di materia. La gerarchia europea oggi andrebbe messa in discussione: funzionava in passato, quando l’incenerimento dei rifiuti andava a sostituire la produzione di elettricità generata negli impianti a carbone, petrolio o gas. Ma oggi la situazione è cambiata: la produzione di energia viene sempre più dirottata verso l’impiego di fonti a basso contenuto di carbonio. Al contrario, bruciare rifiuti comporta l’emissione di gas serra al pari di qualsiasi altro processo di combustione; né sarà più possibile compensarle con l’eliminazione dei gas serra prodotti dalle centrali a carbone perché nel Regno Unito stiamo per vietarne l’impiego. Quindi non si potrà più sostenere che bruciare i rifiuti consente di non dover bruciare carbone.” A parte le sue critiche alla gerarchia dei rifiuti, pensa che il quadro normativo europeo abbia contribuito a rendere più circolari le politiche dei rifiuti del Regno Unito? “Indubbiamente ha esercitato un’influenza positiva: senza la direttiva-quadro sui rifiuti e le direttive sugli imballaggi, le discariche e le apparecchiature elettriche ed elettroniche penso che oggi non ricicleremmo più del 5% degli rsu. Per anni avevamo suggerito target di riciclo, ma non disponevamo di misure efficaci per raggiungerli. Il messaggio che era una buona cosa rispettare quegli obiettivi, indipendentemente dal fatto che fosse l’Europa a imporcelo (ride),
Think Tank è stato recepito nella fase conclusiva dell’ultimo governo laburista quando, sull’onda dei benefici che si cominciavano a intravvedere dall’incremento delle quote di riciclo e da una migliore gestione dei rifiuti, è stato avviato nel Regno Unito il primo sistema realmente nazionale di gestione dei rifiuti, in parziale autonomia rispetto ai dettami stessi dell’Europa. Ma poi la situazione è cambiata. Il successivo governo di coalizione ha ripreso a sollevare le stesse domande di più di dieci anni prima, mentre l’odierno governo inglese non mostra alcun interesse per queste politiche, con l’aggravante di avere un impatto sul Regno Unito nel suo complesso.”
Per modificare in meglio i comportamenti dei consumatori vorremmo che fosse introdotto un sistema di depositi cauzionali sui contenitori per bevande e un’imposta sugli articoli usa-e-getta.
La Brexit potrebbe pesare negativamente sullo sviluppo futuro delle politiche di gestione dei rifiuti? “Penso di sì. Il problema è che questo settore è strettamente influenzato dalle politiche regolative vigenti. Senza obblighi di legge, finiscono per prevalere le soluzioni di smaltimento più a buon mercato, con l’aggiunta del rischio delle attività illegali, che sono aumentate negli ultimi dieci anni. La tassa sul conferimento in discarica ha avuto successo, ma questo genere di provvedimenti apre le porte anche alla possibilità di far soldi tramite attività criminali per evitare di pagare le imposte, un problema serio che finora non abbiamo affrontato adeguatamente.” Cosa bisognerebbe fare per migliorare le performance nella gestione dei flussi di materia nel Regno Unito e non solo? “Nel corso degli anni Eunomia ha presentato parecchie proposte. In relazione alla gestione convenzionale dei rifiuti, per esempio, riteniamo sarebbe auspicabile l’introduzione di una tassa sull’incenerimento a supporto di quella già esistente sulle discariche. Per modificare in meglio i comportamenti dei consumatori vorremmo che fosse introdotto un sistema di depositi cauzionali sui contenitori per bevande e un’imposta sugli articoli usa-e-getta, come quella sulle buste di plastiche già in vigore, con grande successo, in tutto il Regno Unito. Un’altra misura importante è il prolungamento, per legge, della durata delle garanzie sugli elettrodomestici ‘bianchi’ durevoli, come frigoriferi e lavatrici. E bisognerebbe introdurre una sorta di deposito cauzionale sui piccoli elettrodomestici, come i tostapane per esempio, che oggi qui da noi sono venduti a prezzi stracciati, sui 10 euro o anche meno; ma proprio perché costano così poco, sono di scarsissima qualità e si rompono velocemente, spesso nel periodo di durata della garanzia. La gente tuttavia se ne infischia della garanzia e, visto che costano così poco, invece di farseli sostituire, ne compra di nuovi. Per questo l’imposizione di un deposito potrebbe spingere le persone a riportarli al negozio, consentendo così di avviarli a un corretto processo di recupero dei materiali, invece di finire nel bidone della spazzatura indifferenziata.”
Per la gestione dei rifiuti ingombranti che proposte fate? “Una riguarda i mobili di seconda mano, che si possono restaurare in centri appositi per migliorarne l’aspetto e la qualità, riportandoli il più possibile allo stato iniziale di bene nuovo, per rivenderli poi a un prezzo superiore rispetto ai mobili usati proposti nello stato di fatto in cui si trovano. È una modalità di recupero che ha mercato nel Regno Unito, dove operano già parecchie ditte molto abili in questo genere di lavorazioni grazie anche agli investimenti che sono stati fatti per affinare le tecniche di restauro.” Nel settore delle costruzioni cosa avete suggerito? “Per ridurre la produzione di rifiuti nel settore edile, si potrebbe introdurre una ‘cauzione’ che funge da una forma di risarcimento per inadempienza per incentivare una migliore gestione dei rifiuti. Funzionerebbe nel seguente modo: nella fase di progettazione, la ditta sviluppa un piano per la gestione dei rifiuti che specifica gli obiettivi relativi al riutilizzo e al riciclo. All’inizio del progetto, viene pagata una cauzione alle autorità pubbliche competenti. Se la ditta raggiunge gli obiettivi, le verrà rimborsato il deposito per inadempienza pagato nella fase progettuale, decurtato degli esigui costi amministrativi; se non vengono raggiunti, perderà parte della cauzione (in relazione al divario tra obiettivo e risultato reale). Il sistema potrebbe fungere da incentivo per realizzare progetti edili orientati, sin dalla fase progettuale, a minimizzare i rifiuti e massimizzare il riciclo dei rifiuti generati. Nei progetti pubblici, i processi di gare di appalto potrebbero fissare target di riciclo molto elevati. Tale misura viene già adoperata in molte parti degli Usa e del Sudest asiatico con risultati soddisfacenti.” In materia di creazione di nuova occupazione cosa dicono gli scenari che avete elaborato? “Ci sono molte organizzazioni, come la Zero Waste Scotland, e società di consulenza, come Eunomia, che hanno prodotto analisi e documenti che mostrano il legame positivo tra l’economia circolare, l’efficienza delle risorse e la creazione di nuovi posti di lavoro. Però sono convinto che senza un cambiamento nella strategia industriale del governo questi obiettivi non potranno essere raggiunti. Motivo per cui molti addetti, che sono convinti dei benefici per l’occupazione, sono abbattuti per via dell’inattività del governo e vedono la strategia industriale come un meccanismo fondamentale per fare passi avanti in Inghilterra. Purtroppo, la strategia industriale non pone un accento sufficientemente marcato sull’economia circolare.”
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Chiudere il cerchio è solo un’opzione Intervista a Thomas Rau e Sabine Oberhuber
Il futuro dei materiali visto dall’Olanda. Tra passaporto dei materiali, limited edition e prodotto come servizio. Con un suggerimento: iniziare dalla Ferrari.
di Antonella Ilaria Totaro
Madaster, www.madaster.info
In alto: Nuovo edificio Liander, Duiven.
Due tedeschi nel regno d’Olanda. Una bella fetta dell’economia circolare olandese passa anche attraverso la visionarietà di Thomas Rau e Sabine Oberhuber che, ormai da decenni, hanno eletto i Paesi Bassi a propria dimora. In Olanda Rau e Oberhuber, architetto lui e business strategist lei, hanno fondato Turntoo. Attraverso nuove forme di architettura, concept innovativi, prodotti e servizi circolari, si pongono l’obiettivo di facilitare l’equilibrio tra uomo e natura, nonché la nostra temporanea presenza su questo pianeta. “Siamo ospiti sulla Terra”, dicono. Così Materia Rinnovabile li ha intervistati nel loro ufficio nella zona nord di Amsterdam, un open space ricco di luce, dove la disposizione delle scrivanie non lascia percepire molto sulle gerarchie interne. Non c’è alcun ufficio inaccessibile,
Rau e Oberhuber sono immediatamente visibili a chi entra. Li incontriamo circa un mese dopo il lancio della Madaster Foundation che mira a eliminare a livello mondiale i rifiuti nel settore edilizio, tramite un registro online per i Material Passport, che servirà a catalogare tutti i materiali presenti attualmente negli edifici. Thomas Rau e Sabine Oberhuber hanno di recente pubblicato il libro Materials Matter, al momento disponibile solo in olandese. Perché i materiali hanno bisogno di un passaporto? Rau: “I rifiuti sono materiali senza un’identità. Per evitare che diventino rifiuti hanno bisogno di un passaporto, che permette di catalogarli con l’obiettivo di preservarli, riutilizzarli e anche
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risparmiare sui costi, in modo da ridurre e, infine, eliminare gli scarti. Prendiamo il caso dell’oro: una certa quantità di oro oggi in circolazione potrebbe derivare dall’epoca romana. Storicamente l’oro non diventa un rifiuto perché tutti sanno che è un materiale in edizione limitata. Tuttavia oggi l’oro è utilizzato in quantità minime, per esempio negli smartphones in una maniera tale che ne impedisce il riutilizzo. Si tratta di quantità minime se si guarda al singolo pezzo, ma nell’insieme la perdita è notevole: una tonnellata di smartphones contiene più oro di una tonnellata di minerale d’oro. Il ‘Passaporto dei Materiali’ permetterà di sapere esattamente dove sono collocati tutti i materiali, oro compreso, e a mantenerli in circolazione”. Oberhuber: “Da quando si producono apparecchi elettronici l’oro sta sparendo e non sono piccole quantità se si guarda al totale. Nei Paesi Bassi, ad esempio, è stato perso, nel solo 2014, una quantità pari a 27 milioni di euro”.
Fondatore di Turntoo e Rau Architects, due delle prime aziende dedicate all’economia circolare in Olanda, Thomas Rau ha creato, insieme a Sabine Oberhuber con cui lavora da oltre 25 anni, alcuni dei più originali esempi concettuali di economia circolare e modelli di business. Tra i progetti più visionari e all’avanguardia realizzati da Rau e Oberhuber: nel 2010 Luce come servizio (“Pay per lux”) sviluppato con Philips; nel 2012 un modello di ‘concessione’ di lavatrici basato sulle performance messo a punto con Bosch; nel 2013 il primo edificio circolare come deposito di materiali grezzi per il municipio di Brummen e il primo edificio circolare net energy positive per Liander. Di recente hanno lanciato la Fondazione Madaster, il Passaporto dei Materiali e la Dichiarazione universale dei diritti dei materiali, con l’obiettivo di presentarla a fine 2018 all’Onu in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. www.rau.eu turntoo.com/en
Foto di Mirjam Verschoor
Cosa si potrà fare con la piattaforma dei materiali realizzata dalla Fondazione Madaster? Rau: “L’obiettivo è creare un inventario globale dei materiali disponibili. Siamo convinti che bisogna inventariare e gestire le risorse nel sistema. La piattaforma Madaster sarà un ente pubblico comparabile al catasto. Nessuno la possiede. Tutti possono usarla, anche se ci sarà una quota per poter accedere. Dopo ognuno potrà disporre delle informazioni presenti. Permetterà ai singoli proprietari di immobili, per esempio, di registrare il proprio edificio e, come servizio, conoscere ogni anno il valore dei materiali presenti nella sua struttura. Gli edifici demoliti sono miniere di materiali
In alto: Vecchio edificio Liander, Duiven.
Antonella Ilaria Totaro è esperta di economia circolare e sostenibilità, di cui si occupa da diversi anni tra Olanda e Italia. Si interessa di startups e nuovi business models, energia rinnovabile, mobilità e sistemi alimentari sostenibili. Pianta alberi con la Land Life Company, di cui è la responsabile in Italia.
da sfruttare, i materiali derivanti dalla demolizione di un edificio non saranno più considerati rifiuti e buttati via, ma valorizzati come risorse. Con Madaster non solo sarà possibile vedere quali materiali un edificio contiene, ma anche come è stato costruito, il che fornisce importanti informazioni su quanto facilmente i suoi materiali possono essere estratti. Crediamo che ciò condurrà a un modo completamente nuovo di progettare gli edifici, avendo sempre ben in mente il processo di de-costruzione finale. E questo è il modo in cui lo studio Rau oggi progetta i suoi edifici”. Come si possono rinnovare i vecchi edifici? Rau: “La domanda alla base è come reinventare l’edificio preservandone l’identità. Ciò non significa conservare tutto, ma fare un’analisi per capire quali edifici sono ricchi abbastanza – sia in termini di identità e storia sia a livello di materiali – da essere conservati. Gli edifici da demolire sono le miniere di materiali che possono servire per nuove costruzioni, ma anche per ristrutturare quegli edifici che si vogliono riqualificare perché, essendo stati costruiti nello stesso periodo, hanno lo stesso tipo di materiali alla base. Oggi si conosce il numero di edifici da rinnovare, ma non si conoscono i materiali che li costituiscono – lacuna a cui si può sopperire inventariando i materiali tramite il passaporto e Madaster”. Oberhuber: “È importante analizzare a che livello è possibile riutilizzare i materiali nell’edificio – a livello di edificio, a livello dei componenti o a livello dei materiali – e guardare in maniera creativa a come utilizzare quanto è presente. Questo è quel che abbiamo fatto, nel 2015, per la sede di Liander, uno dei primi edifici circolari al mondo. Quello che abbiamo trovato quando abbiamo iniziato il progetto era una struttura molto brutta dagli anni ’60 composta da diversi edifici sconnessi tra di loro. Abbiamo analizzato
come poter riutilizzare al massimo quanto già esisteva e, allo stesso tempo, creare un ‘nuovo’ edificio. Il risultato è stato la conservazione del 90% di tutti i materiali che abbiamo trovato e, contemporaneamente, la creazione di un edificio che non assomigliava per niente a quello che avevamo trovato. Abbiamo riutilizzato la maggior parte dei componenti e dei materiali degli edifici esistenti, i pannelli dei soffitti, il calcestruzzo delle diverse parti, che erano state demolite. Abbiamo riciclato, tra l’altro, l’asfalto dai tetti e convertito le porte esistenti in nuovi arredamenti. Tutto quel che abbiamo aggiunto è stato progettato avendo in mente il suo futuro disassemblaggio e riassemblaggio. La struttura metallica del tetto è stata progettata con l’aiuto di un gruppo di costruttori di montagne russe, minimizzandone il peso, riducendo l’uso superfluo delle materie prime e consentendo lo smontaggio per un successivo riutilizzo. Tutto è documentato in un ‘passaporto delle materie prime’ per assicurare il riutilizzo di tutti i materiali in futuro”. Come si possono combinare la ristrutturazione e la manutenzione di vecchi e nuovi edifici con la riduzione del consumo energetico? Rau: “Secondo me il focus non è l’energia, non c’è un problema energetico. Abbiamo abbastanza fonti rinnovabili. Siamo in grado di creare edifici a energia positiva, edifici che producono energia, siano essi nuovi o ristrutturati. L’energia diventa, invece, importante se guardiamo a quella consumata dagli apparecchi elettronici usati negli edifici, come i dispositivi elettronici, il cui consumo è spesso inutilmente alto. In tal caso il concetto di ‘prodotto come servizio’ offre una soluzione ottimale permettendo di spostare la bolletta elettrica sul produttore, in modo che quest’ultimo abbia un incentivo a fornirci apparecchi che consumano meno energia.
Think Tank Con il ‘prodotto come servizio’ si può abbassare la richiesta energetica e spostare il focus da quanto bisogna produrre a quanto si può ridurre la domanda di energia senza perdere alcun comfort”. Il futuro è, quindi, nel servizio, non nel possesso? Rau: “Certamente sì. L’uso, invece del possesso può funzionare in ogni settore dove è richiesto quello che noi chiamiamo limited edition. Siamo convinti che, una volta che i produttori manterranno la proprietà dei loro prodotti e guarderanno ai dispositivi installati come depositi di materiali per il futuro, inizieranno a produrre in maniera diversa. Il pianeta Terra è un sistema chiuso. Tutto ciò che c’è di fisico in un sistema chiuso è un’edizione limitata nella sua essenza e, dunque, ha valore. Abbiamo materiali limitati e il servizio, anziché il possesso, facilita il modo in cui possiamo usarli in maniera illimitata. Se vogliamo davvero cambiare il mondo, si devono cambiare i modelli di business”.
In alto: Veduta interni nuovo edificio Liander, Duiven.
Il pianeta Terra è un sistema chiuso. Tutto ciò che c’è di fisico in un sistema chiuso è un’edizione limitata nella sua essenza e, dunque, ha valore.
Cosa cambia per le aziende che adottano un modello di business basato sul prodotto come servizio? Rau: “L’azienda produttrice mantiene il possesso e la responsabilità del prodotto che viene concesso come servizio e lo considera come deposito di materiali. Restandone proprietario, il produttore capisce che creando oggetti di bassa qualità, oggetti di bassa qualità torneranno indietro; mentre creando oggetti di buona qualità, dopo un certo periodo, torneranno oggetti di buona qualità. Che possono essere riusati o integralmente o parzialmente”. Qual è il passo successivo per chiudere il cerchio? Rau: “Non penso si tratti di chiudere il cerchio, questo è un equivoco. Chiudere il cerchio vuol dire che stiamo ancora ottimizzando i flussi di materiali tra le catene che abbiamo già organizzato. Il prossimo passaggio è la ‘catena perpetua dei materiali’, che abbiamo disegnato come alternativa alla chiusura del cerchio. L’elemento centrale è che i materiali sono sempre presenti nel fronte o nel retro della catena, non sono mai persi”. Oberhuber: “Chiudere il cerchio è una delle opzioni. Bisogna pensare in cerchi multipli. I cerchi più piccoli sarebbero i cerchi in cui i prodotti sono riparati e ricondizionati, ma si può anche pensare di riutilizzare i componenti da essi derivanti nel cerchio più grande dei materiali. Componenti o materiali possono tornare indietro al produttore iniziale oppure possono andare anche ad altri produttori. Ci sono elementi che non possono tornare di nuovo in un computer, ma potrebbero funzionare perfettamente in una lampadina o in un altro device. Non importa chi userà il materiale dopo: quando quest’ultimo torna indietro anche un’azienda diversa dalla precedente può utilizzarlo”. Quali sono i principali ostacoli in questo passaggio e come si può spingere su questa
trasformazione in paesi e aziende che ancora non vedono quest’opportunità? Rau: “L’ostacolo principale si trova tra le nostre orecchie. L’ostacolo mentale si supera soltanto facendo vedere l’incentivo finanziario di questa trasformazione. Non funziona approcciare il problema da un punto di vista morale: solo mostrando i benefici finanziari si può andare oltre la paura che le aziende hanno del nuovo sistema. Inizierei con i marchi di alto livello, in Italia dalla Ferrari, che ha un modello di business basato sull’edizione limitata da sempre, ma non sa nulla di ambiente. Le aziende devono continuare con il loro business tradizionale e parallelamente a esso iniziare un nuovo business in modo da partire piccoli, correre un basso rischio, provare, prendere confidenza e via via espandersi”. Oberhuber: “La maggior parte dei grandi produttori dipendono soprattutto dai materiali grezzi. Corrono il grande rischio che questi materiali finiscano, mentre con il nuovo sistema i rischi si abbassano. Un’azienda produttrice che mantiene il possesso dei materiali, sa quali torneranno indietro, quando e con quale qualità. Ciò non vuol dire che le aziende produttrici devono gestire da sé la fase di take back, l’importante è che facilitino il processo sotto la propria responsabilità”. Non si perde così la competizione tra aziende? Rau: “La competizione non è più sui materiali. Nel settore automobilistico tedesco, per esempio, Volkswagen, Audi, Mercedes e Bmw hanno sviluppato insieme una piattaforma e hanno un unico budget per la ricerca sui materiali. Quando i materiali tornano indietro, Mercedes, se non ne ha più bisogno, può darli ad Audi. Si potrebbero creare nuovi mercati tra produttori. Con il vantaggio che tutto potrebbe diventare più economico perché aziende che oggi commerciano solo materiali senza creare alcun valore, verranno così tagliate fuori”. Cambierà, dunque, anche la logistica? Oberhuber: “Sì, credo ci saranno centri di riparazione vicini e centri di produzione più centralizzati. La stampa 3D giocherà un ruolo importante, realizzando solo le parti mancanti di cui si ha bisogno per riparare il prodotto”. Come sarà la casa del futuro? Rau: “Immagino qualcosa a metà tra un hotel e una casa di proprietà. Ci sono cose in una casa a cui non siamo affezionati, come gli apparecchi elettronici, che non abbiamo bisogno di possedere e che possiamo quindi avere come servizio. Ci sono, però, anche oggetti speciali, magari un ricordo dei nonni, che vogliamo conservare. Questi sono gli oggetti che vogliamo possedere e tramandare ai nostri nipoti. Possesso significa non solo avere il potere su un oggetto, ma anche averne la responsabilità. La responsabilità di possedere un oggetto, in un sistema chiuso dove le risorse sono limitate, è immensa e le persone devono esserne consapevoli”.
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materiarinnovabile 16. 2017 In questo quadro c’è un attore mancante al momento? Rau: “Sì: il governo olandese, che dovrebbe definire il quadro di riferimento entro cui si può organizzare l’economia circolare e finora non l’ha fatto”.
In basso: Esterno e interno del Municipio di Brummen.
Cosa può fare concretamente il governo? Rau: “Non dare alcun permesso edilizio se non si tratta di edifici a energia neutrale o positiva, come accade in Svizzera. Tassare di più le risorse e meno il lavoro che è una risorsa illimitata”. Oberhuber: “Il governo può promuovere la riparabilità degli oggetti come si fa in Svezia. Può, per esempio, porre un tetto massimo al costo delle riparazioni di un prodotto rispetto a uno nuovo. Ci sono molti incentivi che si potrebbero attivare. Le aziende si muoveranno di conseguenza, una volta stabiliti gli obiettivi”. Qual è il messaggio per le aziende che ancora non hanno intrapreso
il loro percorso verso l’economia circolare? Oberhuber: “Le aziende che non cambiano abbastanza velocemente saranno presto sorpassate. Devono cambiare altrimenti arriverà il momento in cui non avranno più accesso ai materiali di cui hanno bisogno per continuare a produrre. Ciò richiede non solo un cambiamento operativo, ma una profonda trasformazione culturale. Tutti i processi devono essere rivisti: progettazione, produzione, modelli di business, finanza”. Rau: “Questo è già il presente e sarà il futuro. Il pianeta non sta ad aspettare e segue le sue leggi. Sta a noi decidere se partecipare a questo processo o fare da spettatori. Dobbiamo diventare ‘contadini mentali’. Come il contadino che sa tutto sulle piante, sugli animali, sulle nuvole, sul meteo, sull’acqua, sulla pioggia e pianifica sul lungo termine in cicli multipli essendo sempre messo a confronto con le conseguenze delle sue stesse decisioni, noi dobbiamo diventare mentalmente contadini, ma in un’ottica immateriale, non avendo un terreno con cui confrontarci. Dobbiamo essere consapevoli che ci saranno conseguenze alle nostre decisioni e queste andranno a ripercuotersi sui pianeta e sulle risorse limitate che abbiamo a disposizione”. Quale può essere il ruolo degli investitori? A chi tocca investire in questa transizione? Rau: “L’interesse negativo sui capitali attuali significa che c’è troppo capitale in circolazione. La transizione non è un problema di soldi”. Oberhuber: “I fondi pensione sono molto interessati a questa transizione circolare perché cercano investimenti sostenibili a lungo termine che oggi sono molto difficili da trovare”.
ACQUA VS CARBONE, di Emanuele Bompan
la sporca guerra del Sudafrica
In Sudafrica cadono solo 490 millimetri di pioggia l’anno, ma l’economia è strutturata come se ci fosse grande disponibilità idrica. Le contraddizioni di un paese dove per estrarre una tonnellata di carbone servono 10.000 litri di acqua e centinaia di migliaia di litri al minuto sono usati per raffreddare le turbine delle centrali elettriche. Mentre in molti villaggi gli abitanti hanno a disposizione solo tre litri e mezzo d’acqua al giorno ciascuno.
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materiarinnovabile 16. 2017 Pagina precedente: Witbank. All’interno di una miniera di carbone una donna raccoglie del carbone per uso personale. Il carbone è l’unica risorsa per le persone del posto.
Foto: Fausto Podavini Ricerche: Marirosa Iannelli Grafica: Riccardo Pravettoni e Federica Fragapane
“Sai cosa significa essere vicino a una centrale elettrica? Essere vicini a un problema.” Tiger B. ha 41 anni, sebbene ne dimostri quasi sessanta. Da sempre lavora come saldatore alla centrale a carbone Duvha Power Plant, vicino a Emalahleni. Un nome appropriato per una città mineraria: in lingua nguni significa “il luogo del carbone”. La sua vita e quella della sua famiglia sono in simbiosi con quella della centrale elettrica da 3.600 megawatt della Eskom, la utility elettrica nazionale, per anni la più grande del Sudafrica, e della miniera di litantrace che nutre la produzione di energia e ricopre di una patina nera caliginosa il villaggio e i suoi polmoni, intasati di catarro e polvere. “Vedete i cavi dell’alta tensione e le tubature d’acqua? Sono per la centrale elettrica. Ma nel villaggio non abbiamo né elettricità, né tantomeno acqua. Centinaia di migliaia di litri al minuto sono usati per raffreddare le turbine che generano elettricità che viene venduta in Swaziland e Mozambico. Per noi il buio e tre litri e mezzo d’acqua al giorno portati con una cisterna.” Nell’improvvisato villaggio, quasi 5.000 abitanti vivono accatastati a ridosso di un muro di carbone e di una pozza d’acqua nera, aspettando ogni settimana che sia riempita la piccola cisterna comunitaria. “Spesso la gente litiga furiosamente per qualche litro in più”, spiega Lucky,
il nome intero preferisce non darlo per paura di ritorsioni, passando una sigaretta di tabacco sporco a Tiger. “Il carbone sta rubando il nostro diritto all’acqua e all’aria.” Sudafrica e acqua Il paese di Nelson Mandela e del parco naturale Kruger, ultima riserva di leoni e rinoceronti, è diventato negli ultimi anni uno dei meno sostenibili del continente africano. Il principale imputato è il settore minerario, che vale circa l’8,3% del Pil. Ogni anno il Sudafrica estrae otto milioni di carati di diamanti, possiede oltre l’80% del platino e il 12% dell’oro mondiale, estratti dalle immense miniere sudafricane – la più grande profonda oltre 3.900 metri. Ma sul trono del materiale più impattante “donato” dalla terra, si trova il carbone, responsabile principale del riscaldamento globale (il Sudafrica è al tredicesimo posto per emissioni di CO2) e del forte prelievo idrico, circa il 10% del totale del paese. Il Sudafrica possiede il 3,5% delle risorse mondiali di carbone ma conta per oltre il 6% dell’export globale. Il carbone rimanente alimenta l’81% della produzione elettrica, controllata quasi completamente dalla Eskom. Il carbone ha un costo idrico pesantissimo: per ogni
Polokwane
Black water
Matimba
Le centrali idrovore del Sudafrica
Medupi
LIMPOPO
Centrali elettriche a carbone Potenza installata 4.800
North West
2.000 1.000 500 180
Pretoria
Centrali esistenti Centrali in costruzione Consumo d’acqua annuo delle centrali a carbone Milioni di metri cubi
Arnot
Kendal Johannesburg
Hendrina
50 HAMABATO
Kusile Komati
MPUMALANGA
40
30
20
10
0
Marla
Tecnologia “wet cooling”
Camden
Majuba
Miniere
Tutuka
Miniere di carbone operative Miniere abbandonate “Dry cooling”
Scarsità d’acqua Bacino con grave deficit Kroonstad idrico rispetto alla potenziale domanda d’acqua nel 2030
GAUTENG Nkwazulu-Natal
Policy In basso: In uno dei centri commerciali nei pressi di Witbank costruiti grazie ai profitto degli investimenti sul carbone. In mancanza di acqua potabile, l’unico modo per gli abitanti è quello di acquistarla nei supermercati. I prezzi dell’acqua non sono però alla portata di tutte le persone.
A destra: Witbank. All’interno di una miniera una donna raccoglie del carbone che porterà alla propria famiglia per poi utilizzarlo per cucinare. Non essendoci elettricità, il carbone è l’unico materiale che può essere usato per cucinare.
Pagina a sinistra: Fonti: Water Research Commission, Long Term Forecasts Of Water Usage For Electricity Generation: South Africa 2030, 2015; The 2030 Water Resources Group, Charting Our Water Future, 2009; globalenergyobservatory.org, accessed March 2017.
tonnellata estratta sono necessari oltre 10.000 litri d’acqua, mentre una centrale elettrica di grandi dimensioni, come quella Kusile – in apertura nel 2017 nei pressi di Maheleni – impiegherà 71 milioni di litri di acqua al giorno. Una quantità simile a quella di Duvha, dove vivono Tiger e Lucky. “Il Sudafrica è un paese molto secco, con solo 490 millimetri di precipitazioni l’anno, caratterizzato da forte scarsità di acqua per gli usi domestici. Eppure ha un’economia strutturata come se ci fosse tantissima acqua”, spiega Stephen Law direttore dell’Environmental Monitoring Group, un gruppo di analisi ambientale con sede a Cape Town. “Il 75% delle risorse è già completamente impiegato e non rimane acqua da usare. Secondo le nostre proiezioni, entro il 2030 il paese avrà un deficit idrico del 17%. Il che vuol dire che molte persone rimarranno senz’acqua, soprattutto i più poveri. Che senso ha tutto questo carbone?” “La battaglia per l’acqua è una battaglia per i diritti” racconta Kumi Naidoo, ex-direttore di Greenpeace International e oggi attivista per l’ambiente in Sudafrica. “Il governo di Jakob Zuma usa la logica che investire in carbone crea posti di lavoro e sviluppo. In realtà nessun minatore vuole che il figlio faccia il suo lavoro. E nessuno vuole essere privato di aria respirabile e acqua da bere. Il paese può creare lavoro nelle nuove energie rinnovabili, nel solare e nell’eolico.” Per il momento coal is king, il carbone è re. Il settore vale 22 miliardi di dollari, secondo i dati della Chamber of Mines, la società di promozione delle imprese minerarie. La stessa famiglia del presidente Zuma – il figlio Duduzane – è coinvolta nel business del carbone. “Nessuno a Pretoria farà nulla per fermare
il carbone. Gli interessi sono troppo alti e sono tutti coinvolti”, continua Naidoo. Compagnie minerarie come Anglo-American e Exxaro, pressate da cittadini e ambientalisti, hanno iniziato a implementare politiche di sostenibilità, riducendo il consumo d’acqua per abbattere le polveri e minimizzare gli impatti sull’ambiente delle miniere a fine vita. Anche Eskom, il principale produttore di elettricità sudafricano – controlla il 95% del mercato – sta cercando di ridurre gli impatti idrici. Secondo il portavoce di Eskom, la società ha ridotto il suo consumo idrico da 2,85 litri/kWh nel 1980 a 1,44 l/kWh nel 2015, praticamente dimezzandolo. “Oggi in alcune centrali impieghiamo sistemi di raffreddamento asciutti – come nella nuova megacentrale di Medupi – che impiegano l’aria per raffreddare il vapore riducendo il consumo d’acqua, impiegando solo 0,1 litri per kilowatt/ora contro gli 1,9 litri delle stazioni a raffreddamento umido”, spiega in una mail il portavoce di Eskom, Khulu Phasiwe. Attenzione anche all’approvvigionamento: per garantire sostegno idrico nella regione del Waterberg, dove si trova la centrale termoelettrica Medupi, Eskom realizzerà un acquedotto dal fiume Crocodile a Thabazimbi. L’acqua in surplus presente nel bacino idrografico del fiume è dovuta agli elevati flussi di ritorno provenienti dagli impianti di depurazione liquami della provincia di Gauteng. “Sono solo operazioni cosmetiche”, ribatte Dean Muruven, Manager Water Source Areas for WWF South Africa nel suo ufficio di Johannesburg. “Quando ci sarà una vera crisi idrica ci troveremo ad affrontare simultaneamente una crisi energetica, dato che le mega-centrali dovranno essere spente. Il carbone deve rimanere nel suolo e va favorito l’uso di rinnovabili.”
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Witbank. Vista aerea della Duvha Power Plant della Eskom, la seconda più grande centrale di tutta l’Africa. Eskom fornisce il servizio pubblico di elettricità in Sudafrica.
In alto: Mabola, nei pressi di Wakkerstrom. Tusajigwe 17 anni mentre lava i piatti per il pranzo. Le famiglie di questa zona verranno spostate dalle loro abitazioni poichè prossimamente verrà aperta una nuova miniera per l’estrazione del carbone. Il WWF sta cercando di impedire l’apertura della miniera. In basso: Witbank. Un uomo attraversa un piccolo ponte che divide
l’area della miniera di carbone a ridosso della Duvha Power Plant e una townships abitata in parte da lavoratori della centrale elettrica. A destra: In uno dei centri commerciali nei pressi di Witbank costruiti grazie ai profitto degli investimenti sul carbone. Due donne studiano le offerte del momento. I centri commerciali sono le uniche zone ricreative per la cittadina di Witbank, vera e propria cittadina industriale.
Policy Poca e di cattiva qualità Nel villaggio di Coronation e di Driewater, due slum alle porte di Emalahleni, si staglia un panorama dickensiano: montagne di carbone, catapecchie polverose immerse nella caligine nera dei mezzi pesanti usati per l’estrazione e rocce di incrostazioni bianche e pulviscolo nero, dovute al drenaggio acido delle miniere. Il fumo esce persino dal sottosuolo, dove il carbone di una vecchia miniera abbandonata, per combustione spontanea brucia lentamente, infestando con un odore di zolfo le capanne addossate intorno alle montagne di carbone fumante. L’acqua disponibile è scarsa e spesso imbevibile. Nei dintorni ci sono ventidue miniere attive e numerose esaurite. È impossibile pensare che questo sia un luogo salubre. Willonah Noudo Kubeka ha 33 anni e da quattro è in dialisi per malfunzionamento dei reni. “Non bevo più acqua, solo succhi. Qui l’acqua è insicura.” Willonah è uno dei tanti abitanti con problemi di salute legati al settore minerario e alla contaminazione delle acque che in alcune zone è tossica sopra ogni livello di guardia. “Abbiamo misurato il pH delle acque che vengono scaricate fuori dalla miniera”, spiega Rudolph Sambo, un giovane attivista di Emalaheleni che lavora per creare consapevolezza dei rischi di salute legati all’acqua tra i minatori. Il risultato? Le acque sono fortemente acide, con un pH inferiore al 2,2. “Non si può bere, non si può usare per coltivare, non ci si può nemmeno lavare. Chi lo fa rischia malattie della pelle, dei reni, del fegato.” I dati medici non ci sono. Negli ospedali di Emalaheleni i dottori intervistati parlano di malattie, ma preferiscono non dare cifre. Sebbene richieste più volte all’ufficio di Sanità del distretto di Nkangala, non è arrivata nessuna risposta.
In alto: Witbank. All’interno di una townships dove vive Willonah Noudo Kubeka, 33 anni con sua madre Agnes. Willonah, a causa dell’inquinamento dell’acqua e dell’aria, soffre di insufficienza renale sistematica (systematic kidney failure). Due volte a settimana deve praticare la dialisi per contenere la sua malattia.
A destra: Witbank. All’interno di una townships. Una donna controlla in controluce il deposito di materiale pesante nell’acqua prelevata da una fontana a disposizione della townships. L’estrazione del carbone negli anni ha reso l’acqua altamente inquinata. In questa zona l’acqua viene utilizzata per l’estrazione del carbone.
“In Sudafrica abbiamo sulla carta dei buoni regolamenti, il problema è l’attuazione: inesistente. Numerosi impianti di trattamento delle acque non sono in regola o non funzionano del tutto; molte imprese minerarie, specie quelle meno grandi, estraggono senza controllo alcuno sull’acqua”, illustra Stephen Law mentre tira fuori carte e documenti. “Basta vedere il fenomeno dei drenaggi acidi di miniera, che sta diventando sempre più diffuso e critico.” In Africa l’immensa attività mineraria causa abbondanti percolamenti di minerali e metalli pesanti che reagiscono con l’acqua contaminandola e rendendola corrosiva, con effetti devastanti su ambienti acquatici, acqua potabile e infrastrutture. “Il problema – continua Law – è che più acqua viene estratta, meno possibilità avranno gli acidi di essere diluiti. Per non parlare della chiusura del cerchio: più carbone significa maggiori emissioni, che significano maggiori impatti sul clima e meno precipitazioni. È una tempesta perfetta quella che si sta sviluppando in Sudafrica”. Assalto all’ambiente Le compagnie estrattive, multinazionali e piccole realtà locali, sembrano poco interessate ai problemi idrici e, stimolate dal lasseiz-faire del governo, stanno spingendo per lo sfruttamento verso aree inesplorate, in particolare nella regione del Limpopo. Come Waterberg Project, 8.000 ettari di estrazione di platino; o Makhado, una nuova miniera da 5,5 milioni di tonnellate di carbone sviluppata da Coal of Africa Ltd. Una delle aree meno note ai media – e agli investitori – è l’area meridionale del Mpumalanga, al confine con lo stato del Kwalazulu-Natal. Atha-Africa Ventures Ltd, parte del gruppo indiano Atha, ha presentato – secondo alcune fonti – la richiesta presso il ministero delle Risorse minerarie per realizzare una miniera
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materiarinnovabile 16. 2017 nel cuore di un’area protetta, la Mabola Protected Environment. Un deserto pronto per essere sfruttato? Nient’affatto: Mabola è una zona umida fondamentale, dove confluiscono le acque di tre bacini idrici, il Vaal, il Tugela e il Pongola, parte di un sistema di aree protette di rilevanza strategica. Un territorio che ricopre l’otto per cento della superficie totale nazionale, ma dove si raccoglie il 50% delle precipitazioni. Oubaas Malan, un uomo di sessantasei anni dalle gambe secche, bianchissime, ricoperte da un paio di pantaloncini kaki, è appoggiato al suo Toyota pick-up. Guarda da lontano le sue tremila pecore che pascolano in una vallata verde dalle piogge di dicembre. L’aria è fresca, collinare, profuma di clorofilla. Una jeep di turisti armati di binocoli professionali e teleobbiettivi da 700 mm si avventura lentamente lungo la sterrata, nella speranza di avvistare qualche uccello raro come la gru del Paradiso, un alaudidi di Rudd o il raro ibis eremita. Un gruppo di ragazzi cammina a piedi nudi nei pascoli, sulla terra resa morbida dalle piogge della notte. “La miniera sorgerà esattamente qua” dice indicando la valle, “e io dovrò andarmene. L’acqua per le vacche sarà a rischio. Ho amici che avevano vacche nei pressi
In alto: Operai della centrale Duvha nella pausa pranzo. La maggior parte degli uomini della zona di Witbank lavora nella centrale elettrica. La maggior parte di loro con contratti a tempo.
In alto, a destra: Lungo la strada per Witbank. Un treno di carbone da Pretoria, si dirige verso Witbank. Una volta arrivati a destinazione, il carico sarà diretto verso la centrale elettrica a Duvha. A destra: Witbank. All’interno di una miniera. Una ruspa scava il terreno per estrapolare il carbone.
di una miniera e si sono ammalate tutte”, dice Oubaas, in un inglese corrotto dal suo forte accento Afrikaans. La popolazione locale si oppone al progetto. In caso di incidente o drenaggio acido dalla miniera a essere impattata non sarà solo la valle, ma l’intera area, visto che la miniera sarebbe collocata nel punto più alto del triplo bacino idrico. “La miniera rischia di devastare questa zona” spiega Andrea Weiss di Wwf South Africa. “Questo non solo avrebbe un impatto sulla biodiversità, ma anche sul turismo locale di Wakkerstroom, fortemente incentrato sui viaggi ecosostenibili e sul bird watching.” Per queste ragioni gli ambientalisti sono sul piede di guerra. “Questa area è protetta, classificata dal National Biodiversity Institute sudafricano come una delle ventuno risorse strategiche idriche” spiga Melissa Fourie, responsabile legale del Cer, il centro per i diritti ambientali di Johannesburg. “Non possiamo permettere che Atha vinca questa battaglia legale.” Fermare la miniera di Mabola non significa essere ostili alla produzione di carbone, ma come spiega Andrea Weiss, “significa deviare la fame delle compagnie minerarie verso aree
Policy A sinistra: Witbank. All’interno di una miniera di carbone. Un bambino aiuta la madre ad estrarre carbone dalla miniera.
“Che investano in energia solare e eolica. Qui vento e sole non mancano.”
In basso: Witbank. In una delle numerose townships di Witbank a ridosso di una miniera di carbone esaurita. Kantigi attende che il carbone si faccia brace per poter cucinare. Nella townships l’unico materiale che si puo usare per cucina e riscaldarsi è il carbone che in piccole quantità si trova ancora all’interno della miniera dismessa.
meno vulnerabili e meno centrali per la sicurezza idrica. Inoltre il paese deve realizzare una strategia coordinata per evitare gli impatti del drenaggio acido e la contaminazione di risorse per l’agricoltura e l’uso umano”. Il verdetto su Mabola è atteso per l’estate.
figlia di un accordo tra il presidente russo Valdimir Putin e la sua controparte africana, Jacob Zuma. Un progetto che ha fatto risvegliare le compagnie con concessioni minerarie legate all’uranio, incluso il Karoo meridionale.
Nuove energie, nuove crisi idriche
“Si tratta di una follia” spiega Bill Steenkamp, mentre parcheggiamo in una valle desertica appena fuori da Beauford West, nel cuore del Karoo. La temperatura tocca i 37 °C, il calore sfoca l’orizzonte alterando la traiettoria della luce. “Nel Karoo non c’è acqua, lo vedete con i vostri occhi. Per estrarre uranio l’acqua andrebbe importata dalla costa utilizzando i treni, sfruttando fino all’ultima goccia quella che c’è oggi. Le compagnie interessate hanno già fatto i loro conti. Nella regione la popolazione usa 7 miliardi di litri d’acqua l’anno. Le sole operazioni dell’uranio richiederebbero oltre 14 miliardi di litri. Magari l’acqua arriva dalla costa. Ma cosa succede se contaminano con elementi radioattivi le poche riserve di acqua dolce che abbiamo?”. Già il cambiamento climatico ha fatto la sua. Negli ultimi anni le precipitazioni si sono ridotte pericolosamente, e per anni numerosi bacini intorno a Beaufort West, uno dei principali centri urbani del Karoo meridionale, sono rimasti a secco.
Se la battaglia del carbone non sembra destinata a risolversi brevemente, due nuove sfide stanno emergendo nel confronto tra sicurezza idrica e sviluppo energetico nazionale. L’area interessata è il Karoo meridionale, una zona desertica nel cuore del paese, distante delle provincie minerarie. Secondo i prospettori, sotto le rocce bruciate dal sole del Karoo, si troverebbero sia importanti miniere di uranio, fondamentali per sostenere il rinnovato – e controverso – piano nucleare sudafricano, sia importanti risorse di gas di scisto, un tipo non convenzionale di gas naturale estratto per mezzo del fracking, la fratturazione delle rocce usando acqua e agenti chimici ad alta pressione nel sottosuolo. Secondo il think-tank Transnational Institute, il fracking è considerato “un sistema che mette in grave pericolo le comunità e una preoccupante diversione dell’uso idrico a favore delle compagnie estrattive”. Per il momento una campagna ambientalista iniziata nel 2011, raccontata nel documentario Unearthed, di Jolynn Minnaar, ha messo uno stop temporaneo allo sviluppo dell’estrazione del gas di scisto. Prosegue, invece, la prospezione su nucleare ed estrazione dell’uranio. Il governo dovrebbe investire oltre settanta miliardi con la russa Rosatom per una nuova centrale,
A Beaufort West la disoccupazione supera il 40% e per molti il nuovo boom minerario potrebbe essere un’opportunità per uscire dalla povertà. “Che investano in energia solare e eolica. Qui vento e sole non mancano”, dice Bill alzando la polvere con la scarpa per sottolineare la brezza da nord. “Basta che la smettano di continuare a scavare in questo povero paese.”
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Dossier
FRANCIA
1,9 milioni di posti di lavoro e un giro d’affari superiore ai 300 miliardi di euro l’anno: in Francia la bioeconomia è una realtà solidamente radicata nel territorio e competitiva, con forti ambizioni. E un significativo impulso alla crescita e allo sviluppo di nuovi prodotti biobased viene dalle grandi aziende.
Policy
È LA BIOECONOMIA la nuova force de frappe Primo produttore – ed esportatore – di prodotti agricoli nella Ue, la Francia ha saputo realizzare sinergie efficaci tra agricoltura e industria. Come dimostra Iar, il cluster a vocazione mondiale specializzato in chimica verde e biotecnologie industriali che ospita una delle più grandi bioraffinerie al mondo. La visione del futuro del settore indicata dalla recente strategia nazionale. di Mario Bonaccorso
A bioeconomy strategy for France, tinyurl.com/mth5njc
*In questo dossier quando ci si riferisce al governo francese si intende sempre il governo Hollande, che ha emanato la strategia nazionale di bioeconomia nel gennaio di quest’anno. A giudicare dai primi passi, il nuovo governo guidato da Emmanuel Macron difficilmente farà passi indietro rispetto alla direzione tracciata, ndr.
La Francia si è finalmente seduta al tavolo dei paesi europei con una strategia nazionale sulla bioeconomia. Annunciata nel giugno 2015 e presentata lo scorso 18 gennaio, Une Stratégie Bioéconomie pour la France propone una visione per “lo sviluppo coordinato e sostenibile di tutte le filiere basate sulle biomasse per la produzione alimentare, dei materiali, dei bioprodotti, delle bioenergie e dei servizi ecosistemici”. È il frutto di un lavoro concertato, durato oltre un anno, che ha visto protagonisti il ministero dell’Ecologia, dello Sviluppo sostenibile e dell’Energia; il ministero dell’Educazione nazionale, dell’Istruzione superiore e della Ricerca; il ministero dell’Economia, dell’Industria e il ministero dell’Agricoltura, dell’Agroalimentare e della Foresta, insieme a tutti i portatori di interesse di questo metasettore che in Francia ha il proprio fondamento nell’agroalimentare. La Francia, infatti, è il primo produttore agricolo dell’Unione europea e il primo esportatore. I terreni destinati all’agricoltura rappresentano il 51% del territorio nazionale (il 28% è coperto da foreste) e danno lavoro a 936.000 persone, generando un volume d’affari di 72,8 miliardi di euro. Le attività legate alla pesca e all’acquacoltura hanno un volume d’affari di 1,8 miliardi di euro. Mentre, secondo Ania, l’Associazione nazionale dell’industria agroalimentare, nel 2015 in Francia erano attive 16.218 imprese per un’occupazione totale di quasi 441.000 addetti e un volume d’affari di 170 miliardi di euro. Sul fronte dell’industria chimica, stando ai dati
forniti da Cefic, l’Associazione europea di settore, la Francia è il secondo paese europeo per fatturato, dopo la Germania e prima dell’Italia, e il settimo a livello globale, con un valore di 74,2 miliardi di euro nel 2015. Tra il 5 e il 10% delle materie prime utilizzate dall’industria chimica e dei materiali è di origine biologica. Insomma, la bioeconomia in Francia è una realtà (la seconda in Europa per valore della produzione, anche in questo caso dopo la Germania) saldamente ancorata al territorio e, al tempo stesso, un’ambizione di cambiamento, come rivendica il governo* nella strategia: “Per l’avvenire nostro e quello del pianeta, la scelta strategica della Francia è di incoraggiare e sostenere lo sviluppo di una bioeconomia sostenibile”. Parigi, dunque, ha rialzato la testa e guarda avanti orgogliosa, spinta dal buon esito della COP21 ospitata a casa propria e incoraggiata anche dai dati positivi della propria economia, con un Pil la cui crescita è stata confermata a +0,4% nel quarto trimestre 2016 rispetto al trimestre precedente, con un rialzo annuo rivisto a 1,2%. “Sono necessari – si legge nella strategia – nuovi modi di produzione e di consumo più efficienti, più resilienti e compatibili con i limiti del pianeta”. Ciò significa una migliore utilizzazione delle biorisorse, di cui sono ricche le filiere agricole, forestali e marine, da considerare come “una grande opportunità per l’economia francese, per rinforzare la sovranità alimentare e l’indipendenza negli approvvigionamenti, riequilibrando la bilancia commerciale, creando valore e rafforzando il dinamismo dei territori rurali e lo sviluppo dell’impiego”.
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materiarinnovabile 16. 2017
Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.
1994 ©Jean Widmer
1991 ©ACG – Grapus
1993 ©Alain le Quernec
1990 ©Raymond Savignac
Chaumont e la grafica Questi manifesti appartengono alle prime 19 edizioni del Festival de l’Affiche (Festival Internazionale del Poster) di Chaumont (Haute-Marne), realizzati dal 1990 da grandi nomi della grafica francese. Quest’anno, dal 13 maggio fino a settembre, Il Festival si è trasformato in Biennale con mostre, workshop e un concorso internazionale. Courtesy Le Signe, Centre National du Graphisme à Chaumont www.centrenationaldugraphisme.fr
Per il governo guidato da François Hollande lo sviluppo della bioeconomia in Francia dovrà basarsi su forti investimenti in ricerca e innovazione, sia pubblici sia privati, e su un approccio sinergico e coerente, indispensabile a livello di politiche nazionali, regionali ed europee in materia di economia, ambiente, agricoltura, silvicoltura, ricerca e sviluppo del territorio. La sinergia tra industria e agricoltura
3Bi, www.3bi-intercluster. org/about-3bi
I francesi sanno bene come creare sinergia tra settore industriale e agroalimentare. L’esempio più significativo a questo riguardo è il polo di competitività a vocazione mondiale “Industrie e agrorisorse”, meglio noto come Iar Pole, specializzato in chimica verde e biotecnologie industriali: quasi 200 aderenti attivi, tra Piccardia e Champagne Ardenne, nella costruzione della nuova economia basata sull’impiego di fonti rinnovabili. Si tratta della crème dell’industria francese: Michelin, Roquette, Veolia, Faurecia, Total, ma anche L’Oréal, Danone e Lacoste, per fare qualche nome. Nei pressi di Reims, capitale della Champagne Ardenne, il Polo Iar ospita l’Istituto europeo di bioraffineria, una delle principali bioraffinerie al mondo. Il principio che anima il cluster francese è quello della condivisione e delle sinergie: il sito
di Reims comprende anche un laboratorio di Ricerca & Sviluppo condiviso, un dimostratore industriale (Biodemo) e un centro di ricerca che riunisce diversi istituti di istruzione superiore (Cebb). Sempre a Reims si sviluppa il progetto Futurol, per la produzione di biocarburanti di seconda generazione, quelli che non impiegano biomassa proveniente da colture vegetali. Se sinergia è la prima parola d’ordine del Polo Iar, la seconda è internazionalizzazione. Il cluster francese non è chiuso in una logica regionale, ma ha accordi di partnership attivi in Europa, in Canada, negli Stati Uniti, in Giappone, in Brasile e in India. In particolare, nel Vecchio Continente ha dato vita nell’ottobre 2015 all’intercluster 3Bi insieme al cluster inglese BioVale, a quello olandese Biobased Delta e al tedesco BioEconomy Cluster di Halle. L’obiettivo condiviso è di unire le forze nella ricerca, nello sviluppo e nell’applicazione di nuovi approcci high-tech nella conversione di biomassa, materia prima rinnovabile e rifiuti in nuovi prodotti ad alto valore aggiunto. In precedenza, in Francia nel marzo del 2011, il Polo Iar aveva già avviato la United Bioeconomy Clusters (Ubc), un’associazione che punta a condividere una visione strategica di sviluppo nazionale incentrata sulla chimica verde e a presentare all’estero la bioeconomia francese in modo unitario. I cluster coinvolti: Axelera, il cluster della chimica e dell’ambiente della regione di Auvergne-Rhône-Alpes, focalizzato sulla chimica verde e sul riciclo dei materiali; Agrimip, Agri Sud-Ouest Innovation, il cluster per l’agricoltura e l’industria alimentare delle regioni di Aquitania e Midi-Pyrenees e Xylofutur, il cluster della filiera della carta della regione dell’Aquitania. Il ruolo delle imprese Un grande impulso alla crescita e al radicamento della bioeconomia francese è dato dalle grandi imprese, come Total, Arkema, Roquette e Faurecia, che stanno investendo pesantemente per sviluppare nuovi prodotti biobased sostenibili. Lo scorso marzo il colosso petrolifero che ha il proprio quartier generale a La Défense di Parigi ha lanciato ufficialmente le attività della joint-venture Total Corbion PLA, costituita al 50 e 50 con l’olandese Corbion, per la produzione e la commercializzazione di acido polilattico, un polimero biobased e biodegradabile ottenuto da risorse rinnovabili. Non solo: insieme all’americana Amyris, Total sta sviluppando un biocarburante per il mercato dell’aviazione commerciale che mira a ridurre le emissioni di CO2 delle compagnie aeree, responsabili a oggi del 2% di tutte le emissioni di CO2 dovute all’attività umana. In questo settore, il colosso petrolifero francese ha siglato un accordo di collaborazione anche con Air France, Airbus e Safran, la società nata nel 2005 dalla fusione tra Sagem (elettronica e difesa) e Snecma (aerospazio). Sull’asse franco-olandese si sviluppa un’altra
importante partnership: quella tra Roquette e Royal Dsm. La joint-venture da loro costituita, Reverdia, è una società attiva nella produzione di acido succinico biobased (biosuccinium), che ha il proprio stabilimento produttivo in Italia, a Cassano Spinola in Piemonte, e che nell’ottobre 2015 ha siglato un accordo con la tedesca Covestro (ex Bayer Material Science) per sviluppare un poliuretano termoplastico (Tpu) ricavato da materie prime rinnovabili, da utilizzare nel settore calzaturiero e nell’elettronica di consumo. Arkema, la società chimica creata nel 2004 a seguito della riorganizzazione della divisione chimica di Total, è attiva soprattutto nella produzione, in Cina e negli Stati Uniti, di poliammidi (materiali termoplastici ideali per le applicazioni di carattere meccanico) da fonti rinnovabili da impiegare nell’industria automobilistica, dell’elettronica di consumo e dello sport. Faurecia, uno dei più grandi gruppi mondiali per la componentistica per l’industria automobilistica, nel 2006 ha avviato un progetto denominato BioMat per la produzione di bioplastiche da materiali naturali, a cui ha fatto seguito nel 2012 una partnership con i giapponesi di Mitsubishi e una joint-venture con la thailandese PTT per l’avvio di un impianto di PBS (polibutilene succinato) con una capacità produttiva di 20.000 tonnellate all’anno in Thailandia. Obiettivo condiviso di Faurecia e Mitsubishi Chemical è lo sviluppo di un biopolimero che può essere utilizzato nella produzione di massa delle parti interne delle auto, attraverso l’impiego di acido
succinico biobased fornito dalla società biotech americana BioAmber. Gradualmente, secondo i due gruppi industriali, si arriverà all’impiego del 100% di materiali di derivazione biologica nelle autovetture. Faurecia detiene i diritti esclusivi per le applicazioni automotive dei nuovi biopolimeri, il cui contenuto biologico è attualmente del 65%, ma la società francese mira a raggiungere il 100% entro il 2018 grazie all’arrivo sul mercato del bio-butandiolo. Il PBS infatti – sia esso derivato dal petrolio o dalle fonti biologiche – è composto al 60% da acido succinico e per il 40% da butandiolo. Al fianco delle grandi imprese impegnate nella bioeconomia, non mancano quelle piccole e medie: tra queste spicca la Global Bioenergies. La società biotech fondata nel 2008 da Marc Delcourt e Philippe Marlière, e quotata all’Euronext di Parigi, si è ritagliata negli anni uno spazio da grande protagonista nel panorama europeo, grazie al suo dinamismo e a partnership importanti con attori del calibro di Audi, Clariant, Arkema, L’Orèal e Cristal Union. Nel 2015, la società francese ha realizzato lo scale-up industriale della propria tecnologia per produrre isobutene, consegnando ad Arkema i primi lotti di isobutene purificati dall’impianto pilota di Pomacle. Ma non solo: parte di questo isobutene è stato trasformato in isoottano, un biocarburante avanzato testato dalla tedesca Audi. In Germania, Global Bioenergies ha anche attivato il proprio impianto dimostrativo da 100 tonnellate annue nel sito chimico di Leuna. Mentre un impianto commerciale è stato realizzato in Francia attraverso una partnership
Tutto quello che succede a Bazancourt-Pomacle La bioraffineria di Bazancourt-Pomacle è una delle più grandi d’Europa. Ogni anno trasforma tre milioni di tonnellate di biomassa (barbabietola da zucchero, frumento, erba medica) in zucchero, glucosio, amido, alcol alimentare e farmaceutico, etanolo e principi attivi cosmetici. Nel 2005, quando la Francia ha lanciato una nuova politica industriale con i poli di competitività, Piccardia e Champagne-Ardenne si sono unite per sviluppare un progetto congiunto: il cluster a vocazione mondiale Industria e risorse agricole, Iar. L’eccellente esempio di Bazancourt-Pomacle è stato scelto dal Presidente della Repubblica francese per la cerimonia di lancio della politica nazionale incentrata sulla cooperazione tra attori pubblici e privati per re-industrializzare il paese. Nel 2007, il lancio di una nuova regolamentazione a favore dei biocarburanti ha stimolato, su iniziativa di Cristal Union e Blétanol (unione delle cooperative francesi di cerealicoltori), la costituzione di Cristanol, che gestisce nel sito un impianto per la produzione di etanolo derivato da un mix di barbabietola
da zucchero e cereali. Pochi anni dopo, nel 2011, questo stesso ambiente favorevole ha portato alla creazione del progetto Futurol da parte della società Procethol 2G e alla costruzione del suo impianto pilota. Inoltre, dal 2012 un significativo sostegno finanziario da parte delle autorità locali (Consiglio regionale Champagne-Ardenne, Consiglio dipartimentale della Marne e Area metropolitana di Reims) ha consentito l’avvio di un Centro di eccellenza per le biotecnologie industriali (Cebb), il quale, insieme al dimostratore industriale Biodemo, costruito nel 2010, ha reso possibile per Ard (Agro-Industrie Recherches et Développements, una struttura di ricerca privata di proprietà di grandi gruppi agroalimentari francesi e delle cooperative agricole regionali) lo sviluppo di processi biotecnologici su scala industriale. Più di recente, la Fondazione Jacques de Bohan è stata istituita da Vivescia e Cristal Union. Il suo primo obiettivo è la promozione del concetto di bioraffineria come strumento industriale integrato per l’uso ottimale della produzione agricola.
2003 ©Michal Batory
1995 ©Michel Bouvet
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Le misure di sostegno Uno degli obiettivi prioritari che si pone la strategia francese sulla bioeconomia è comunicare adeguatamente alla società il fermento di cui il paese è protagonista sul fronte industriale e della ricerca. Oltre a ciò, è avvertita con forza la necessità di “precisare e valorizzare le esternalità positive dei bioprodotti” (attenuazione dei cambiamenti climatici, manutenzione dei territori, impiego locale, riduzione della dipendenza dalle fonti fossili, sostenibilità e rinnovabilità delle risorse, minore impatto sanitario e ambientale,
protezione contro i rischi naturali e fisici, preservazione delle risorse idriche, valorizzazione degli scarti), dando sostegno alla loro domanda attraverso un sistema di appalti pubblici verdi e un sistema di etichettature e di norme su misura per le esigenze delle imprese e del mercato. Come già fatto, del resto, con il piano industriale “Chimica verde e biocarburanti”, che ha portato alla legge sulla “Transizione energetica e la crescita verde”, attraverso cui sono state introdotte misure per sostenere l’impiego dei bioprodotti nel quadro dei mercati pubblici tramite l’analisi della loro performance ambientale e il loro contenuto biologico. Con la stessa legge, voluta da Ségolène Royal, ministro dell’Ecologia, dello Sviluppo sostenibile e l’Energia nel governo Hollande, è stata consentita, a partire da gennaio di quest’anno, la commercializzazione dei sacchetti ultrasottili per ortofrutta, carni e pesce solo se biodegradabili e idonei al compostaggio domestico, prodotti in parte con materie prime rinnovabili: 30% dal 1° gennaio 2017, 40% dal 1° gennaio 2018, per poi salire al 50% dopo il 1° gennaio 2020 e al 60% a partire dal 1° gennaio 2025. Il paese che ha, di fatto, segnato il passaggio all’età contemporanea entra nel Terzo millennio con l’ambizione di porsi alla guida di una nuova rivoluzione industriale: quella guidata dall’impiego delle risorse biologiche. La nuova force de frappe di Parigi è la bioeconomia.
Intervista
di M. B.
Coinvolgere è la strategia vincente
Foto: Pascal Xicluna/Min.Agri.Fr
Julien Dugué, ministero francese dell’Agricoltura, dell’Industria Alimentare e del Patrimonio Forestale
Julien Dugué è il responsabile per la bioeconomia e la bioindustria nel ministero francese dell’Agricoltura, dell’Industria Alimentare e del Patrimonio Forestale. Coordina il lavoro interdipartimentale sulle strategie nazionali per la bioeconomia. “Materia Rinnovabile” l’ha intervistato per approfondire come le politiche francesi ne favoriscono lo sviluppo. Che ruolo gioca la bioeconomia nella strategia di crescita sostenibile della Francia? “Diversi settori hanno già un forte orientamento verso le soluzioni a base biologica: bioenergia, prodotti bio per l’edilizia e la chimica. Con la strategia nazionale questo ruolo diventa più importante e visibile. La strategia porterà anche maggiore coerenza tra le politiche pubbliche che puntano a sviluppare gli utilizzi delle biomasse.” E quale è il ruolo del settore agroalimentare nella bioeconomia? “Dal punto di vista della Francia, le catene di valore agroalimentari sono indubbiamente parte della
bioeconomia: l’alimentazione è uno degli impieghi per la biomassa e dobbiamo considerarlo attentamente perché è il più strategico. Inoltre, le industrie agroalimentari rappresentano anche attori importanti quando si parla di prodotti a base biologica: questo potrebbe offrire nuove opportunità di valorizzazione o un modo molto interessante per utilizzare i flussi collaterali di materiali provenienti dalla lavorazione delle materie prime alimentari. Gli usi, alimentari e non, devono essere considerati contemporaneamente, in maniera sinergica.” Quale è il piano di azione del governo per implementare appieno la strategia? “Oltre ad azioni specifiche finalizzate a sviluppare usi innovativi delle biomasse, puntiamo a spingere le persone a collaborare in un approccio sistemico e a coordinare le loro azioni. Porteremo a termine questo lavoro grazie a un piano d’azione operativo.” Quali sono le politiche in vigore in Francia per supportare la bioeconomia?
1998 ©Claude Baillargeon
con Cristal Union: quando sarà operativo, entro la fine del 2018, produrrà 50.000 tonnellate all’anno. L’isobutene è un intermedio chimico la cui domanda è in crescita da parte di diversi settori industriali (dalla cosmetica – da qui l’interesse di L’Orèal per l’impianto commerciale di Global Bioenergies – all’agroalimentare, fino alla chimica, ai combustibili e al gas per uso domestico), per un valore stimato in 20 miliardi di dollari. Per diversificare la materia prima utilizzata, la società guidata da Delcourt ha completato lo scorso febbraio l’acquisizione di Syngip, un’impresa olandese che ha sviluppato un processo per convertire fonti di carbonio gassoso in olefine leggere (etilene, propilene, buteni, butadiene).
1997 ©Michel Quarez
materiarinnovabile 16. 2017
Policy
2000 ©Nous Travaillons Ensemble
E il ruolo delle regioni a questo proposito? “Diverse politiche nazionali supportano lo sviluppo della bioeconomia: la nuova legge per la transizione energetica e la crescita verde, le politiche industriali e quelle agricole e forestali. La strategia per la bioeconomia sosterrà e coordinerà queste diverse iniziative. Anche le regioni sono molto importanti perché gestiscono strumenti per lo sviluppo economico, l’innovazione e sono a un buon livello per sviluppare progetti intelligenti nella bioeconomia. Vogliamo davvero aiutarle a realizzare i loro progetti.”
2001 ©La Fabrique d’images
I punti forti del suo paese nella bioeconomia? “La Francia ha una consistente produzione di biomasse nei settori agricolo, forestale e marino. Gli attori economici sono già in campo con progetti concreti. E, ultimo ma non meno importante, le politiche su ricerca e innovazione sono molto forti e si lavora parecchio nell’ambito della bioeconomia.” Se le persone non vengono coinvolte, è davvero difficile mettere in campo tutto il necessario per potenziare la bioeconomia. Qual è la percezione della bioeconomia da parte dell’opinione pubblica francese? Ci sono piani di istruzione e formazione? “Siamo totalmente d’accordo su questa affermazione. La bioeconomia come approccio globale non è molto diffusa nella società francese. Alcuni prodotti della bioeconomia sono ben conosciuti (biocarburanti,
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biomasse legnose, sacchetti di bioplastica), ma ci sono tuttavia alcune reazioni negative. Per questo motivo, la comunicazione in diversi settori della società (ong, scuole, università, consumatori) è uno dei pilastri della strategia francese al riguardo.”
Intervista
di M. B.
Iar, catalizzatore dell’innovazione Boris Dumange, direttore generale di Iar Pole
Foto: Iar
Impegnato fin dalla sua nascita sullo sviluppo della chimica a base vegetale e delle biotecnologie industriali, il cluster Iar (Industries et AgroRessources) sta ora concentrando i suoi sforzi nella realizzazione di bioraffinerie competitive: una fonte di sviluppo economico regionale. “Materia Rinnovabile” ha intervistato Boris Dumange, dal 2014 direttore generale dello Iar, il cluster della bioeconomia francese. Entrato a far parte dello Iar nel 2010 come vicedirettore del settore gestionale, in precedenza Dumange aveva lavorato per la Camera del Commercio e dell’Industria del dipartimento francese di Aisne dove era responsabile di attività di intelligence nel business. www.iar-pole.com
Alla fine anche la Francia si è dotata di una strategia nazionale per la bioeconomia. Qual è la sua opinione al riguardo? “La Francia è davvero uno degli ultimi importanti ‘Stati membri biobased’ dell’Unione europea a pubblicare delle linee guida ufficiali per la produzione e la valorizzazione di risorse rinnovabili. Ma i francesi non
hanno aspettato una strategia per essere tra i maggiori esperti mondiali nella bioeconomia. Le autorità nazionali e regionali, specialmente nelle regioni Hauts-de-France e Grand Est, hanno una lunga storia in fatto di supporto allo sviluppo e alle industrie biobased. L’adozione della strategia è un nuovo forte segnale del fatto che la Francia è un attore chiave nel campo della bioeconomia e speriamo che questo contribuisca a rafforzare la sua posizione come uno dei paesi leader a livello mondiale.” Quali misure dovrebbe introdurre a breve termine il governo per promuovere il pieno sviluppo della bioeconomia francese? “Il governo ha annunciato la sua intenzione di sviluppare un piano di azione nei prossimi mesi e di fondare un consiglio nazionale per la bioeconomia, mettendo insieme industrie, ong, accademici e istituti di ricerca come anche decisori politici a livello locale, regionale e nazionale. Come catalizzatori dell’innovazione, allo Iar riteniamo che servano strumenti e meccanismi finanziari per potenziare l’innovazione e gli investimenti nelle catene
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materiarinnovabile 16. 2017 di valore a base biologica esistenti e in quelle che nasceranno. Il governo ha recentemente varato il suo programma pluriennale per il supporto alla ricerca, l’innovazione e l’industria (PIA3). Ora è importante che le priorità della strategia bioeconomica si riflettano in questo programma guida. Anche l’incremento dell’utilizzo di innovazioni biotecnologiche da parte del mercato è di importanza cruciale. Le autorità pubbliche nazionali e regionali potrebbero avere un ruolo chiave attraverso l’acquisto da parte del settore pubblico di prodotti innovativi, sia per applicazioni alimentari, come proteine a base vegetale, sia industriali. Tali misure contribuirebbero in maniera significativa al rafforzamento della bioeconomia.”
2006 ©Pascal Colrat
2004 ©Rik Bas Backer et José Albergaria
Allo stato attuale delle cose, quali sono i punti forti e quelli deboli della bioeconomia in Francia? “La bioeconomia francese è solidamente radicata nel settore e competitiva. Nella principale potenza agricola europea (22,9% della produzione di cereali, 32,9% di quella di barbabietole da zucchero e 24,5% di quella di colza e di rape), la bioeconomia rappresenta 1,9 milioni di posti di lavoro e un giro d’affari da oltre 300 miliardi di euro all’anno. È un’occasione unica per le regioni francesi per consolidare le loro economie e offrire opportunità agli agricoltori per diversificare i loro introiti. La Francia è anche la patria di diverse eccellenze nel settore biobased e di alcune grandi cooperative agricole e industrie agroalimentari che sono coinvolte nella bioeconomia. Inoltre il paese può anche contare su un settore dell’innovazione ad alte prestazioni. Nelle sole regioni Hauts-de-France e Grand Est, dove lo Iar è particolarmente attivo, abbiamo sviluppato una delle offerte a più ampio raggio e integrative al mondo per accelerare l’innovazione riguardo alla maggior parte delle materie prime. Sono stati sviluppati impianti
e programmi per l’innovazione come Pivert, Improve o B.R.I. di Pomacle-Bazancourt come anche laboratori di ricerca e sviluppo, impianti pilota e dimostrativi, dimostrativi con capacità fino a 180 metri cubi e TRL7 (TRL – Technology Readiness Level – indica il livello di maturità dell’impianto; il 7 è il livello System prototype demonstration in operational environment, ndr). Tra gli elementi di debolezza, il fatto che, come in molti altri paesi europei, la bioeconomia rimane un concetto abbastanza astratto per molti cittadini e consumatori, anche se è parte della loro vita quotidiana. La strategia punta a coinvolgerli maggiormente in futuro: crediamo che questo possa contribuire a renderla più inclusiva e tangibile per le persone.” Che ruolo gioca nella bioeconomia francese il piano industriale “Chimica verde e biocarburanti”? E qual è il ruolo delle regioni? “Il Piano Chimica verde e biocarburanti era parte di 34 piani per potenziare l’industria francese, successivamente fusi in 9 soluzioni che rientrano nella ‘NFI’ (Nouvelle France Industrielle è la politica di reindustrializzazione lanciata nell’aprile 2015). Due di queste soluzioni sono fortemente interconnesse con la bioeconomia: quella sulle ‘nuove risorse’ che tratta le applicazioni non alimentari della bioeconomia come la chimica a base biologica, materiali biobased e biocarburanti. E la soluzione riguardante il ‘cibo intelligente’ in cui vengono affrontate importanti sfide come quella delle proteine a base vegetale. Gli attori della bioeconomia francese sono fortemente coinvolti nelle discussioni su queste due soluzioni, poiché queste sono un mezzo per implementare alcune delle priorità della strategia mediante azioni e misure. Per esempio lo Iar ha giocato un ruolo fondamentale nel piano ‘Proteine del futuro’ – che fa parte delle soluzioni inerenti al ‘Cibo intelligente’ – e nell’impegno del governo francese e di un consorzio di aziende private per rendere la Francia uno dei paesi leader mondiali nel campo delle proteine. Le regioni sono essenziali nello sviluppo della bioeconomia francese. Regioni come Hauts-de-France e Grand Est hanno percepito la bioeconomia come una delle loro priorità assolute: per più di 30 anni, hanno supportato le grandi iniziative nel settore biobased e i progetti di bioeconomia.” Uno dei temi centrali affrontati nella strategia è l’informazione e la diffusione della bioeconomia, sul quale anche la Commissione europea sta concentrando i propri sforzi. Cosa serve per relazionarsi con l’opinione pubblica? “La bioeconomia non è niente di nuovo. Esiste già, ma è diventata una priorità politica in Europa e negli Stati membri. Attraverso plastiche, cibi, detergenti, detersivi e molte altre applicazioni, è parte della vita quotidiana di tutti i cittadini. Ma semplicemente loro non lo sanno. La visione della bioeconomia dello Iar è inclusiva e profondamente legata ai territori locali, e contribuisce quindi a una crescita verde e sostenibile, alla creazione di posti di lavoro e anche alla rivitalizzazione di aree rurali. La bioeconomia sarà sostenuta dai cittadini solo se si rendono conto dei suoi vantaggi e del valore aggiunto. Grandi iniziative di comunicazione potrebbero probabilmente contribuire a una maggiore consapevolezza riguardo alla bioeconomia.”
Policy Intervista
di M. B.
Tutto è iniziato con Pasteur Marc Delcourt, co-fondatore e amministratore delegato di Global Bioenergies
Global Bioenergies è una delle imprese più dinamiche nel panorama della bioeconomia europea. Fondata nel 2008 nel Biocluster Évry Génopole, la società guidata da Marc Delcourt è l’unica nel Vecchio Continente che sta sviluppando un processo per convertire le risorse rinnovabili in idrocarburi attraverso la fermentazione. Inizialmente la società ha concentrato i propri sforzi sulla produzione di isobutene, uno dei più importanti building block petrolchimici convertibili in combustibili, plastica, vetro organico ed elastomeri. Più recentemente si è dedicata anche alla produzione di propilene, butadiene e altri membri della famiglia delle olefine gassose, molecole chiave nel cuore dell’industria petrolchimica. “Materia Rinnovabile” ha intervistato il suo amministratore delegato e co-fondatore, Marc Delcourt.
2009 ©Henning Wagenbreth
2008 ©Frédéric Teschner
www.globalbioenergies.com
Qual è il suo parere sulla strategia per la bioeconomia presentata dal governo francese? “La strategia ha il merito di fornire un quadro di riferimento al settore, però la bioeconomia in Francia non è nata certo lo scorso gennaio, ha radici molto solide nella storia. La microbiologia è un settore scientifico rilevante sin dai tempi di Louis Pasteur e il settore agroalimentare è alla base della stessa economia francese. La Francia dispone di numerosi strumenti per sviluppare la bioeconomia, abbondantemente messi in campo negli ultimi anni: dal supporto allo sviluppo dei biocarburanti avanzati, al sostegno alle imprese innovative. Nel 2013 la mia impresa ha ricevuto fondi dal governo per 4 milioni di euro nell’ambito del programma Investissements d’Avenir.” Cosa si aspetta adesso in termini di misure politiche di supporto alla bioeconomia a livello francese ed europeo? “Credo che il sostegno ai biocarburanti avanzati vada incrementato fino a quando essi non potranno essere competitivi sul mercato. La Francia recentemente ha deciso di incrementare il tetto dei biocarburanti al 7,5%, e io penso che questa sia una buona notizia che aiuterà l’intero settore, incluso chi come noi è focalizzato sull’innovazione. Inoltre penso possa essere un ottimo incentivo alla bioeconomia introdurre un sistema di appalti pubblici verdi, come il Biopreferred degli Usa. Noi adesso stiamo esplorando in Francia e in Europa tutti gli strumenti messi in campo negli scorsi anni per finanziare la costruzione di impianti commerciali primi nel loro genere. Penso che la chiave sia qui, perché stiamo parlando di grandi investimenti (tipicamente, 100 milioni di euro per impianto). I meccanismi di decisione per supportare le innovazioni che hanno raggiunto questo stadio di maturità saranno determinati.” Può raccontarci la storia della società? “Siamo partiti nel 2008 raccogliendo il primo capitale di
rischio in Francia per sviluppare il nostro progetto. Allora abbiamo dimostrato che eravamo in grado di insegnare ai batteri come produrre idrocarburi, e alla fine, abbiamo raggiunto il livello di prototipo. Poi, abbiamo raccolto altri fondi e quindi, nel 2011, abbiamo quotato in Borsa la società. Ciò ci ha consentito di passare progressivamente dallo sviluppo in laboratorio allo scale-up industriale. Lo scorso novembre abbiamo ultimato la costruzione del nostro impianto dimostrativo da 100 tonnellate/ anno di isobutene a Leuna, in Germania, anche grazie a un finanziamento di 5,7 milioni di euro ottenuto dal ministero tedesco della Ricerca e a un prestito di 4,4 milioni concesso da un consorzio di banche francesi.” Costruito l’impianto di Leuna quali sono i prossimi passi per la Global Bioenergies? “Nei prossimi mesi – e anni – l’impianto di Leuna ci permetterà di validare ulteriormente la tecnologia in ambiente industriale producendo lotti su scala della tonnellata. Questi campioni di prova saranno necessari ai diversi attori industriali per validare le specifiche del nostro prodotto. Questa è la ragione per cui ci aspettiamo numerose nuove collaborazioni, sulla scia di quelle già attive con Clariant nel campo della chimica, con Butagaz nel campo del gas domestico, con Arlanxeo in quello degli pneumatici, con Saudi Aramco in quello degli idrocarburi, con Lantmännen Aspen in quello dei biocarburanti, con Preem e Sekab nei biocarburanti da fonti lignocellulosiche e con L’Oréal in quello della cosmetica.” A febbraio avete concluso l’acquisizione della società olandese Syngip. Qual è il valore strategico di questa operazione? “Syngip sviluppa un processo biotecnologico per convertire le fonti di carbonio gassoso in olefine leggere. Il processo si basa su un microrganismo proprietario capace di metabolizzare l’anidride carbonica (CO2) e il monossido di carbonio (CO) in una vasta gamma di biochemicals ad alto valore, come isobutene, isoprene, butadiene e propilene. L’intero team Syngip sarà assegnato allo sviluppo del processo per l’isobutene di terza generazione, quello derivante dalla CO2. In questo quadro si inserisce anche la nostra collaborazione con l’americana LanzaTech.” Quali sono le vostre attese per il 2017? “Ci aspettiamo di andare avanti con il progetto del nostro primo impianto commerciale, attraverso IBN-One, la joint-venture che abbiamo creato con Cristal Union (il quarto player nel mercato dello zucchero in Europa). Ci aspettiamo anche di progredire in modo significativo nella diversificazione delle risorse utilizzabili nel nostro processo. In particolare, io mi aspetto di progredire significativamente nell’uso delle risorse di seconda generazione (paglia di grano, trucioli di legno ecc.).”
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materiarinnovabile 16. 2017 a cura dell’Institut de l’économie circulaire, Parigi www.institut-economie-circulaire.fr
Francia: verso gli appalti pubblici circolari Gli ostacoli da rimuovere e le leve su cui agire. Cosa stanno facendo al riguardo la città di Parigi e le ferrovie nazionali francesi.
di Adrian Deboutière
Adrian Deboutière
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Adrian Deboutière, project manager presso l’Institut de l’économie circulaire.
Gli appalti pubblici sono considerati una delle più importanti leve politiche poiché rappresentano una parte significativa del pil (circa il 14% in Europa). La legge nazionale francese sulla transizione energetica afferma che gli appalti “devono essere al servizio” del passaggio all’economia circolare. Inoltre, recenti modifiche legislative sugli appalti pubblici a livello europeo incoraggiano gli investitori pubblici a includere criteri di performance sociale e ambientale. Invece, nella pratica, molti investitori non tengono in considerazione l’economia circolare per mancanza di volontà politica e di strumenti operativi fondamentali. Un recente studio del Club di Roma stima che l’economia circolare in Francia potrebbe creare 500.000 posti di lavoro e ridurre di un terzo le emissioni di gas serra. La transizione verso l’economia circolare è ora guidata direttamente dalla legge nazionale sulla transizione energetica. La direttiva 2014/24/EU sugli appalti pubblici, diventata legge in Francia nel 2016, permette agli investitori di includere l’economia circolare sia attraverso la definizione dell’oggetto dell’appalto aggiungendo specifiche tecniche, sia attraverso criteri di incentivazione. I singoli criteri applicati ai prezzi dovrebbero ora essere limitati a prodotti strettamente equivalenti, mentre per la maggior parte dei processi di incentivazione negli appalti pubblici dovrebbero essere impiegati dei criteri di valutazione multipli e i costi del ciclo di vita. Quindi, la nuova struttura normativa sugli appalti pubblici incoraggia gli investitori a cambiare il loro modo di agire, ma alcuni impedimenti non
legislativi stanno tuttora impedendo loro di includere ulteriori criteri finanziari. L’Institut de l’économie circulaire sta attualmente conducendo un workshop in cooperazione con l’osservatorio nazionale per l’acquisto sostenibile, per identificare questi impedimenti e prevedere le leve appropriate per gli appalti pubblici circolari. La tabella a pagina seguente li riassume. La condivisione delle pratiche migliori è essenziale per replicare le iniziative esistenti. Di seguito vengono riportate in sintesi le esperienze portate avanti dalla città di Parigi e dalla Sncf (Società nazionale delle ferrovie francesi). Città di Parigi: strategia per appalti pubblici sostenibili Ogni autorità pubblica francese il cui budget per gli acquisti superi i 100 milioni di euro deve produrre un piano di appalti sostenibili. La città di Parigi è stata la prima autorità locale ad adottare un simile piano nel 2016. Il metodo parigino sta promuovendo l’economia circolare attraverso i suoi tre pilastri principali. Stimolare la transizione ecologica: •• definire i criteri dell’economia circolare, in particolare per il settore edilizio; •• sviluppare il riuso e combattere l’obsolescenza programmata; •• promuovere prodotti di origine biologica, i sistemi di prodotti-come-servizi e l’economia collaborativa. Costruire una città fondata sulla solidarietà: •• il 20% degli appalti deve contenere una clausola
Policy Impedimenti e leve per gli appalti pubblici circolari
Impedimenti politici e organizzativi
Classificazione Supporto politico
Partnership pubblico-privato Riconoscimento del ruolo degli investitori pubblici
Professionalizzazione
Impedimenti tecnici
Conoscenza dell’economia circolare
Valutazione
Condivisione delle pratiche migliori
Impedimenti
Leve
L’impegno politico delle autorità pubbliche allo sviluppo di appalti pubblici circolari è troppo debole
Considerare gli appalti pubblici come uno strumento per sviluppare un’economia circolare tra le autorità locali
L’economia circolare non viene considerata nella definizione dell’oggetto dell’appalto
Promuovere appalti pubblici circolari mediante strategie e documenti di pianificazione
Insufficiente conoscenza dei prodotti circolari disponibili, specialmente all’interno del territorio
Uso diffuso del sourcing (consultazioni di mercato preliminari)
È complicato promuovere l’innovazione attraverso gli appalti pubblici (rischi finanziari e legislativi)
Sviluppo di partnership per l’innovazione e di accordi reciproci come green deals
Mancanza di una chiara governance collegata alla sottovalutazione del ruolo degli investitori pubblici
Creare un albo trasversale degli appalti pubblici in relazione ad altri servizi di autorità pubbliche
Stretta conformità alle norme sugli appalti pubblici senza considerare gli aspetti economici e ambientali
Mettere l’aspetto economico al centro degli appalti pubblici (oggetto del contratto e criteri di incentivazione)
Mancanza di conoscenza riguardo le opportunità legislative per includere ulteriori criteri finanziari: dagli investitori pubblici viene utilizzato solo il prezzo
Fornire la conoscenza e gli strumenti necessari agli investitori pubblici per selezionare “l’offerta economicamente più vantaggiosa” mediante formazione preparatoria e continuata
Mancanza di conoscenza di standard, criteri e unità di misura dell’economia circolare che possono essere usati per implementarla
Progettare guide “facili da usare” ai segmenti di acquisto per aiutare gli investitori ad applicare criteri dell’economia circolare rilevanti
Mancanza di una struttura a criteri multipli per valutare le offerte considerando la performance ambientale
Sviluppo di metodi di valutazione a criteri multipli che considerino le performance sociali e ambientali
Mancanza di metodi di valutazione consolidati per stimare il costo del ciclo di vita (tranne per i veicoli)
Definire metodi standardizzati per la valutazione del costo del ciclo di vita per tipi di prodotti quando rilevante
La fornitura dei dati richiesti potrebbe complicare l’accesso al mercato e trattenere alcuni fornitori dal fare offerte (in particolare le pmi)
Permettere ai fornitori di dimostrare che la loro offerta è conforme agli standard senza che questo richieda uno sforzo sproporzionato
Mancanza di visibilità delle migliori pratiche di appalto dell’economia circolare
Informare sulle pratiche migliori e renderle disponibili in un database open source
È complicato raccogliere domanda e offerta sul territorio
Semplificare l’accesso alle opportunità di offerta e facilitare il sourcing attraverso piattaforme internet
Visione globale dei costi del ciclo di vita
Costi non monetizzati del ciclo di vita
Costi delle esternalità non monetizzate Costi delle esternalità ambientali/sociali
Costi monetizzati del ciclo di vita (Lcc)
Costi/benefici di rischi/opportunità Costi di acquisizione, utilizzo e fine vita Prezzo di acquisto
Costo totale del possesso (Tco) Prezzo Organizzazione
di integrazione sociale focalizzata sui posti di lavoro dell’economia circolare; •• promuovere le piccole catene di produzione di cibo e combattere lo spreco alimentare. Parigi come città modello: •• sviluppare il sourcing mediante una piattaforma dedicata; •• istituire una commissione per la pianificazione degli appalti per assicurare la continuità delle politiche e la coerenza riguardo all’oggetto dell’appalto. L’economia circolare nelle politiche di appalto della Sncf La Società nazionale delle ferrovie francesi ha incluso l’economia circolare nelle sue politiche inerenti gli appalti per ridurre i costi ottimizzando
Società
l’uso delle risorse. Per raggiungere questo obiettivo ha identificato quattro diverse strade: •• optare per il sistema prodotti-come-servizio invece che per la proprietà; •• lavorare sulla progettazione ecologica dei prodotti; •• sviluppare nuovi flussi di recupero degli scarti e dei sottoprodotti; •• favorire i cicli brevi come il riuso interno. Ecco alcuni esempi delle azioni compiute da Sncf attraverso gli appalti: •• i macchinari per i lavori pubblici a fine vita vengono rivenduti per il riuso; •• la progettazione ecologica di sospensioni in gomma e metallo ne permette la rilavorazione; •• le uniformi dei lavoratori vengono recuperate in collaborazione con altre aziende per sviluppare una catena di recupero sostenibile.
Fonte: ISO 14001.
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Fare la BIRRA con il PANE avanzato La collaborazione tra le città e il mondo degli affari è fondamentale per l’economia circolare. Grazie a efficaci strumenti di misura e di supporto alle decisioni, e con il giusto ambiente, molte città e molte aziende stanno iniziando a comprenderne i benefici. di Shyaam Ramkumar
Chiamatela campagna pubblicitaria se volete, ma l’economia circolare non è un fenomeno passeggero: sta prendendo forza in tutto il mondo e le strategie che fornisce possono risolvere la nostra attuale dipendenza da risorse limitate. Con un uso efficace delle risorse che abbiamo, l’economia circolare abbandona le pratiche lineari per abbracciare un sistema nel quale non si debbano trovare compromessi tra prosperità economica, sociale o ambientale. Grazie alla sua natura sistemica,
l’economia circolare richiede un approccio all’implementazione che coinvolga tutte le parti interessate; in particolare le città e il mondo del business hanno la chiave per accelerare la transizione. Gli attuali modelli economici e di business si basano su una disponibilità infinita di risorse naturali da sfruttare per soddisfare i bisogni della società. Questo presupposto, che è invece errato, ha purtroppo gettato le basi e reso possibile un’economia globale decisamente lineare. Con una previsione di crescita della popolazione mondiale a nove
Policy
Birra
Trebbie
Birrificazione Pane Biscotti di avena Funghi
Forno
Fattoria locale
Circle Economy
Come Knowledge and Innovation Manager di Circle Economy, Shyaam Ramkumar rappresenta il motore degli innovativi progetti dell’organizzazione riguardo alla condivisione e alla digitalizzazione del sapere. Ha creato strumenti online per aiutare il mondo del business a comprendere i vari aspetti operativi e organizzativi dell’economia circolare ed è costantemente alla ricerca di nuovi modi per fare leva sulla conoscenza per innestare
un cambiamento positivo. Ha studiato Ecologia industriale e gli approcci del pensiero sistemico in Norvegia e precedentemente ha avuto ruoli di consulenza per la Accenture nell’ambito dell’area Strategia e Sostenibilità.
Circle Economy è un’impresa sociale con base ad Amsterdam che punta ad accelerare l’implementazione pratica ed espandibile dell’economia circolare. Crede in un futuro visionario per il pianeta – nel quale non si debbano trovare compromessi tra prosperità economica, sociale o ambientale. Insieme a un network internazionale e attraverso la sua filosofia open source favorisce la collaborazione tra diversi settori industriali e punta a creare le condizioni per il cambiamento e l’innovazione. Il suo obiettivo principale è avviare il mondo del business, le città e i governi all’economia circolare, aiutandoli a individuare le opportunità per realizzare la transizione e fornendo loro soluzioni pratiche per concretizzare il cambiamento. www.circle-economy.com
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materiarinnovabile 16. 2017
1. Nazioni Unite, Divisione Popolazione del Dipartimento degli Affari Economici e Sociali (2015), World Population Prospects: The 2015 Revision, Key Findings e Advance Tables.
Erasmus Research Institute, www.erim.eur.nl
miliardi per il 20501,la realtà di questo sistema lineare – e della scarsità di risorse che esso crea inevitabilmente – è diventata sempre più difficile da ignorare. Il degrado dell’ambiente, i cambiamenti climatici e una crescente diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, semplicemente evidenziano e rafforzano la necessità di un approccio del tutto diverso al modo in cui produciamo, consumiamo e buttiamo via. Noi di Circle Economy crediamo che l’economia circolare fornisca la revisione sistemica di cui abbiamo bisogno. Mettendo in primo piano i modelli di business e le strategie che assicurano l’impiego di materiali e risorse al massimo del loro potenziale, l’economia circolare riduce i rischi inerenti alle risorse, minimizza l’impatto ambientale e, fondamentalmente, contribuisce alla mitigazione dei cambiamenti climatici. È un sistema che non solo rende realizzabile una prosperità inclusiva ma, grazie all’utilizzo efficiente delle nostre risorse, è anche consapevole dei limiti del nostro pianeta. Inoltre l’economia circolare fornisce nuove opportunità di occupazione e migliora la vivibilità delle aree urbane in rapida crescita. Di fatto, città di tutto il mondo stanno cominciando a riconoscere l’economia circolare come la soluzione che cercavano. Molte altre, invece, fanno ancora fatica a capire come e da dove iniziare. Città, funzionari governativi e decisori politici devono prima essere in grado
di valutare e mettere alla prova efficacemente la circolarità. Hanno bisogno di strumenti per quantificare il potenziale di creazione di posti di lavoro, di riduzione dei rifiuti e di collaborazione del mondo del business, ma anche di stabilire linee guida e indicatori di performance delle strategie dell’economia circolare che vogliono mettere alla prova. Attualmente questi strumenti non esistono, ma si stanno rapidamente sviluppando e sperimentando, e la ricerca empirica sta iniziando a fornire prove delle promesse dell’economia circolare. Prendete per esempio l’occupazione. Con il supporto dell’Erasmus Research Institute, Circle Economy è riuscita a definire e misurare il tipo di lavori che favoriscono e riflettono pratiche circolari, e ha sviluppato una metodologia standardizzata e replicabile in ogni città da utilizzare per monitorarli. Questo ci ha permesso di determinare che, attualmente, l’8,1% di tutti gli impieghi nei Paesi Bassi contribuiscono – direttamente o indirettamente – all’economia circolare. Si tratta di una linea guida che i funzionari governativi possono utilizzare attivamente per stabilire quanto circolare sia l’economia olandese oggi, ma offre anche un banco di prova per misurare i risultati delle future strategie circolari. Speriamo che questa metodologia apra la strada ad altri paesi affinché possano seguire le nostre orme e spinga istituzioni accademiche e organizzazioni
Policy a collaborare nello sviluppo degli strumenti di cui le città hanno urgente bisogno per misurare, monitorare e valutare i loro sforzi. Le città devono sapere dove indirizzare i loro sforzi al fine di implementare efficacemente l’economia circolare. Quando Glasgow ha deciso di diventare circolare al 100%, ci si è presto resi conto che era necessario comprendere meglio come iniziare a dare forma alla propria visione del cambiamento sistemico. Quali industrie sarebbero state pronte ad adottare con successo il modello circolare di business? Quali aree all’interno della cerchia cittadina avrebbero potuto trarre maggiori benefici da un approccio collaborativo tra diversi settori? Quali erano le opportunità di mercato esistenti che le pratiche lineari non avrebbero potuto cogliere? E, cosa più importante, come si sarebbe potuto realizzare il cambiamento?
Circular Jobs: The Circular Economy and Opportunities for Employment in the Netherlands, www.circle-economy. com/Circular-Jobs
Per rispondere a queste domande, abbiamo analizzato l’economia di Glasgow usando il nostro metodo Circle City Scan, il primo su scala cittadina che identifica le aree chiave per attivare il passaggio alla circolarità di una città, definisce le opportunità per il settore locale del business e specifica le strategie di implementazione. Come primo risultato di questa analisi, è stata identificata un’opportunità per collegare i flussi di rifiuti delle panetterie ai birrifici locali. Nello scorso mese di marzo, il birrificio locale Jaw Brew ha annunciato il lancio di Hardtack: una nuova birra artigianale ottenuta dal pane invenduto o scartato localmente. Hardtack non avrebbe mai potuto vedere la luce del sole senza il lavoro di mobilitazione della Camera di Commercio scozzese e il desiderio del business locale di collaborare. La nostra speranza è che questa sia la prima di una lunga serie di storie di successo circolare. Fondamentalmente, nonostante città e funzionari governativi possano creare il giusto contesto legislativo e politico per supportare l’economia circolare, il mondo del business rimane determinante per accelerare la nostra transizione.
Attualmente la maggior parte dei modelli di business sono incentrati su prodotti ideati per avere un ciclo di vita utile limitato, e le catene di valore sono progettate per ottimizzare tale approccio. Questi modelli, sebbene finanziariamente redditizi, non prendono in considerazione un punto di vista sistemico e si trovano di fronte molti rischi futuri. Le aziende, invece, possono sia rendere le loro operazioni adatte al futuro sia contribuire a risolvere le sfide sistemiche correlate al modello “prendere, produrre, buttare”. Integrando la filosofia della progettazione circolare in tutte le fasi del loro business, le aziende possono usare a loro vantaggio proposizioni di valore nuove, innovative e competitive. Che sia attraverso l’eliminazione dei rifiuti dalle loro catene di rifornimento, la progettazione incentrata su cicli di vita futuri, o la totale rivalutazione dei loro modelli di business, i vari settori possono godere dei benefici – sia finanziari sia non – della circolarità. Le aziende stanno già iniziando a realizzare questa transizione. Fairphone, per esempio, ha introdotto modularità, riparabilità e longevità nei suoi telefoni, e si è impegnata a sostenere solo pratiche eque lungo tutta la sua catena di valore. Il suo lavoro pionieristico ha fatto crescere significativamente la consapevolezza dei consumatori e la richiesta di prodotti di questo genere. Mud Jeans, azienda produttrice di tessuti denim, ha messo a punto un piano di leasing che le permette sia di stabilire relazioni durature con i propri clienti sia, ancora più importante, di mantenere il controllo di preziose risorse e di riutilizzarle. Desko, una casa produttrice di mobili per ufficio, utilizza strategie di riacquisto per estendere la durata dei suoi prodotti. Riparando e rimettendo a nuovo i vecchi mobili che riacquista, è in grado di rivendere gli stessi prodotti tre volte. L’elenco continua, e questi stimolanti esempi del mondo reale ci fanno credere fermamente che la circolarità non sia un fenomeno passeggero. Attraverso la stretta collaborazione con le aziende che stanno già implementando i principi dell’economia circolare, siamo in grado di rimanere al vertice degli ultimi sviluppi del business e di imparare dalle sfide che queste aziende si trovano ad affrontare. In questa ottica di recente abbiamo avviato workshop per aiutare organizzazioni, imprenditori e sviluppatori di prodotti ad applicare la filosofia della progettazione circolare nei loro business, servizi e prodotti.
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MODA
Dr. F.Nemos, Farfalle europee, particolare, Tavola VI, Oestergaard Verlag, Berlin (ca: 1895) – Wikimedia Commons, Public Domain
Focus
È la seconda industria inquinante al mondo con un consumo enorme di materia. Per coniugare moda e sostenibilità le parole chiave sono riciclo e riutilizzo degli scarti, eliminazione di sostanze e processi inquinanti. Ma anche ricerca su nuovi materiali e modelli di business. Le aziende di riferimento del fashion sostenibile e circolare.
MODA,
cannibali e forchette di Marco Ricchetti
Negli ultimi 15 anni nel mondo si è consumata una quantità sempre maggiore di abbigliamento: si è passati dai circa 8 kg di fibre tessili per abitante del 2000 a circa 13 kg nel 2015. E ogni chilo in più comporta un corrispondente incremento di energia consumata, di sostanze chimiche rilasciate nell’ambiente, l’esaurimento di materiali non rinnovabili. Ma l’aumento di consapevolezza e sensibilità agli impatti ambientali prodotti dal settore sta spingendo la moda verso un cambio di paradigma. Marco Ricchetti, economista, co-fondatore di sustainability-lab.net e Blumine Srl, advisor di Camera Nazionale della Moda Italiana e Pitti Immagine. Consulente di imprese tessili e della moda nello sviluppo di progetti di sostenibilità. È autore di Neomateriali nell’economia circolare: Moda (Edizioni Ambiente, 2017).
“È progresso se un cannibale usa la forchetta”? si chiede di John Elkington nell’incipit di Cannibals with Forks, uno dei più importanti libri sulla sostenibilità pubblicato nel 1997 in cui per la prima volta si formula il principio della triple bottom line. Elkington rispondeva positivamente alla domanda: se i cannibali, che rappresentano nella metafora le grandi corporation che cercano di “divorarsi” l’una con l’altra, usano la forchetta, ovvero adottano modelli di produzione sostenibili, realizzano un vero progresso?
In alto: Particolari del tessuto a maglia di Besani.
La domanda si applica perfettamente anche alla moda. Si dice infatti che la moda sia cannibale, affetta da una sindrome di Crono al contrario. Nella moda, i figli, le nuove collezioni e tendenze, divorano i padri, le collezioni e le tendenze della stagione precedente, rendendole obsolete, fuori moda e azzerandone il valore commerciale. Si potrebbe rubricare il cannibalismo della moda a perfetto esempio di obsolescenza programmata, come ha scritto Catherine Rampell su The New York Times in un articolo del 2013 in cui – in maniera
provocatoria – invitava i marchi come Apple a imitare il brainwashing che la moda esercita sui consumatori a ogni cambio di stagione per convincerli ad acquistare qualcosa di nuovo. C’è ovviamente del vero. Ma anche qualcosa di più, che risulta chiaro se confrontiamo la moda con una “pura” industria creativa come l’editoria o il cinema: si potrebbe forse sostenere che la pubblicazione di un nuovo romanzo o la produzione di un nuovo film siano uno spreco causato da strategie di obsolescenza programmata da parte di editori e produttori? Possiamo limitarci a rileggere o rivedere i classici? Il bisogno di novità è insito nelle industrie creative da cui l’industria ibrida della moda eredita una parte del Dna. Difficile pensare a un mondo in cui il bisogno di novità e la dimensione culturale e simbolica – in una parola la moda – non abbiano grande influenza su come ci vestiamo e in cui l’abbigliamento sia ridotto a pura funzionalità. Diversamente dalle “pure” industrie creative, come il cinema, la musica o l’editoria in cui la produzione è prevalentemente immateriale, la moda consuma però grandi quantità di materiali. Anzi sono
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materiarinnovabile 16. 2017 Flussi di materia nell’industria dell’abbigliamento e della moda
NON RINNOVABILI
FIBRE MM* SINTETICHE DISCARICA O INCENERITORE
ABBIGLIAMENTO, PELLETTERIA, SCARPE E GIOIELLERIA
CONSUMO
METALLI PLASTICHE PER SCARPE E BORSE RIUSO O RICICLO POSTCONSUMO FIBRE NATURALI RINNOVABILI ALTRE INDUSTRIE PELLE
*Fibre man made, chimiche. FIBRE MM* CELLULOSA
Fonte: elaborazione sustainability-lab su dati CIRFS, UN Comtrade; FAO Leather compendium; FAO, Jute, kenaf, sisal, abaca, coir and allied fibres statistics; World Silver Survey.
proprio i materiali ad attribuire il valore estetico e simbolico ai capi di abbigliamento: la foggia dell’abito, la “mano” del tessuto, leggerezza, la maggiore o minore lucentezza o vivacità del colore, tutto dipende dai materiali usati o dai processi industriali con cui vengono lavorati. Il libro Neomateriali nell’economia circolare: Moda affronta il tema della tensione che si genera tra dimensione materiale e manifatturiera e il continuo bisogno di novità che alimenta la moda e il consumo di materia. Il problema è chiaro, ma le soluzioni?
Catherine Rampell “Cracking the Apple Trap”, The New York Times, 29 ottobre 2013; tinyurl.com/q6pyykl
Lo “spreco” di materia insito nel cannibalismo della moda aveva un impatto trascurabile quando, alla fine dell’800, il sociologo americano Thorstein Veblen la descriveva come un attributo distintivo della classe agiata, un affare cioè limitato alle elités. L’impatto ha cominciato a crescere dagli anni ’70 del Novecento con lo sviluppo del prèt à porter – termine francese, ma rivoluzione avvenuta
RICICLO POSTINDUSTRIALE
in Italia – che ha ampliato l’accesso alla moda a uno strato più ampio di popolazione facendone un fenomeno globale. Ed è infine esploso nel nuovo secolo con il boom del fast fashion che consente a tutti e a prezzi irrisori di sentirsi all’ultima moda, accelerando, per di più, i cicli di obsolescenza dei prodotti. A rendere più drammatica l’esplosione dei consumi materiali di moda ha contribuito poi la crescita del reddito e dei consumi nelle economie di recente industrializzazione. Si pensi per esempio alla Cina dove i consumi di abbigliamento, al netto dell’aumento dei prezzi, sono quasi quadruplicati tra il 2002 e il 2015, secondo i dati del China Statistical Yearbook pubblicato dall’ufficio centrale di statistica cinese. La dimensione del cambiamento che si è generato negli anni recenti è evidente nei dati sui consumi pro capite di fibre tessili che sono cresciuti negli ultimi 15 anni dai circa 8 kg per abitante del 2000 ai circa 13 kg nel 2015 (+68%), più di quanto siano aumentati nei 40 anni precedenti visto che nel 1960 erano circa 5 kg. Ogni chilogrammo in più
Case Studies Crescita dei consumi mondiali pro capite di abbigliamento (1960-2014) 14 kg pro capite
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del problema, si dice, non può essere parte della soluzione. Un altro punto di vista, invece, assume l’interesse per la moda, e l’obsolescenza anticipata dei prodotti che inevitabilmente ne deriva, come un dato di fatto – fatti salvi alcuni eccessi che meritano una limitazione – e che la soluzione si debba trovare nell’introduzione di nuove tecnologie più sostenibili e modelli economici circolari. Ovvero nel dotare i cannibali – designer e produttori di moda – di forchette, avrebbe detto Elkington. In questa prospettiva le parole chiave sono: riciclo, riduzione e riutilizzo degli scarti; eliminazione di sostanze e processi inquinanti o a elevato impatto ambientale. Cambio di paradigma: i protagonisti di una moda più sostenibile
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14 20 11 20 08 20 05 20 02 20 99 19 96 19 93 19 90 19 87 19 84 19 81 19 78 19 75 19 72 19 69 19 66 19 63 19 60 19
Fonte: elaborazioni sustainability-lab.net su dati ICAC-FAO World Apparel Fiber Consumption, anni vari e UN Population Prospects.
Made-by, www.made-by.org
consumato, si porta dietro, a parità di materiali, tecnologie e processi impiegati un corrispondente incremento di energia consumata, sostanze chimiche rilasciate nell’ambiente, esaurimento di materiali non rinnovabili. Queste semplici cifre evidenziano un problema ormai ampiamente riconosciuto e sulla cui importanza c’è un largo consenso tra tutti gli stakeholders della moda. Meno condivisa, invece, è la visione riguardo alle soluzioni. Da un lato si fa appello a un cambiamento dei modelli di consumo, a una radicale limitazione del “cannibalismo” della moda, a una ridotta ossessione per la novità che si tradurrebbe in minori consumi e minor spreco di materia. Se il cannibalismo – esteso su una scala di massa e alimentato da prezzi bassi – è la causa
Le analisi e i casi di buone pratiche presentati in Neomateriali nell’economia circolare: Moda sono una presa di posizione a favore del secondo dei punti di vista che non solo è più realistico, ma può generare effetti positivi già nel breve termine. Anzi, ha già cominciato a produrli. Il libro raccoglie esempi dell’uso sostenibile di materiali nella filiera produttiva della moda che si sono affermati sul mercato negli anni recenti. Dopo la presentazione del modello di valutazione della sostenibilità dei materiali tessili proposto da Made-by, uno dei punti di riferimento internazionale per le imprese del settore, nei capitoli dedicati ai materiali non rinnovabili, a quelli rinnovabili, al riciclo, all’uso dell’acqua e delle sostanze chimiche, sono raccolte 14 storie aziendali di adozione di tecnologie e processi più sostenibili da parte dei protagonisti della filiera produttiva della moda: produttori di fibre, filatori, tessitori, tintori, produttori di impianti per la gestione delle acque. Sono storie reali, di successo di imprese piccole e grandi, alcune di recente costituzione altre con un secolo di storia alle spalle. Tutti casi di “uso efficace della forchetta”.
L’Environmental Fibre Benchmark di Made-by Più sostenibili
Meno sostenibili
Classe A
Classe B
Classe C
Classe D
Classe E
Non ancora classificate
Nylon riciclato meccanicamente
Nylon riciclato chimicamente
Lino convenzionale
Modal®
Viscosa di bamboo
Acetato
Poliestere riciclato meccanicamente
Poliestere riciclato chimicamente
Canapa convenzionale
Acrilico
Cotone convenzionale
Alpaca
Lino biologico
CRAiLAR® Lino
PLA
Poliestere vergine
Cupro
Cashmere
Canapa biologica
Cotone in conversione a coltivazione biologica
Ramié
Viscosa, Rayon
Pelle
Cotone riciclato
Monocell®
Rayon
Mohair
Lana riciclata
Cotone biologico
Spandex (elastan)
Bamboo naturale
TENCEL®
Nylon vergine
Lana biologica
Lana
Seta
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materiarinnovabile 16. 2017 The European Clothing Action Plan Estraz ione del le ma te rie
e m
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Retailer & Brand: scelta delle fibre
Retailers: campagne di take-back
Fornitori: efficienza e processi
Produzione te ssile
Comuni: raccolte differenziate
Pr o
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Ric icl o
Progettazione per la durata
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Consumatori: uso, manutenzione e fine vita dei prodotti
Consumi
Acquisti della pubblica amministrazione: criteri d’acquisto circolari
Nei capitoli sui marchi di nicchia o emergenti e i grandi marchi leader internazionali, si delinea invece una mappa parziale, limitata cioè ad alcuni casi esemplificativi, di iniziative e profili di marchi della moda, gli utilizzatori finali della materia, che stanno cambiando in senso sostenibile il panorama del mercato della moda. Un settore decisivo considerando che sono le richieste e le decisioni dei marchi della moda a condizionare i comportamenti di tutta la filiera dei fornitori. Tra i protagonisti del cambiamento c’è anche Greenpeace, l’Ong che nel 2011 ha lanciato la campagna “Detox my Fashion” per liberare la moda dalle sostanze chimiche pericolose e inquinanti. Una campagna controversa, ma che indubbiamente ha dato una scossa al settore, accelerando in modo imprevisto il percorso verso la sostenibilità. È soprattutto nell’ultimo decennio infatti che l’aumento della sensibilità all’impatto ambientale della moda ha avuto l’andamento di una esplosione improvvisa, una sorta di tsunami
inatteso. Problemi e sensibilità che solo pochi anni fa erano completamente assenti dal settore – che rispetto ad altri è arrivato a occuparsene con grande ritardo – o confinati a ristrettissime nicchie di mercato, sono oggi imprescindibili per tutti i grandi marchi leader, trovano spazio sui più importanti magazine e sulle passerelle degli stilisti. Uno tsunami, appunto, che ha improvvisamente spinto la moda su un terreno nuovo, seppur in modo ancora confuso, denso di contraddizioni, in cui si contrappongono forzature e resistenze, atteggiamenti utopistici e conservativi, accelerazioni e frenate, in un quadro complessivo ancora privo di una struttura consolidata. E se la moda sostenibile fosse cool “Helping the planet doesn’t have to be painful” (Aiutare il pianeta non deve per forza essere penoso o difficile, ndr), rispondeva già molti anni fa in un’intervista l’organizzatore di un evento di moda sostenibile. Questo tema si ripropone ancora oggi, la sensibilità dei consumatori
Case Studies
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In basso: From Somewhere with Speedo – Progetto creativo di Orsola de Castro e Filippo Ricci, sostenuto da Speedo. Abito prodotto riusando i materiali dei costumi da competizione Speedo LZR Racer, rimasti invenduti dopo i cambiamenti nei regolamenti internazionali delle gare di nuoto. Limited edition, presentata a Estethica 2011.
©Will Whipple
In alto: Carmina Campus – Anelli realizzati con due linguette di lattina bagnate in oro e due pietre finte di colore diverso; si possono indossare da un lato o dall’altro.
Make/Use – Alcuni cartamodelli e illustrazioni della collezione che mostrano la tecnica dello Zero Waste Design e la modificabilità dei capi.
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e utilizzatori finali resta infatti un elemento critico. Le grandi campagne ambientaliste e per la giustizia sociale, da “Detox my Fashion” di Greenpeace a quelle che hanno seguito la tragedia del Rana Plaza in Bangladesh che ha causato oltre 1.200 di morti tra i lavoratori che cuciono i capi di molti grandi marchi, ha dato una scossa verso una maggiore consapevolezza. Tuttavia la percentuale di coloro disposti a pagare un prezzo maggiore per un prodotto più sostenibile resta stabile tra il 10 e il 20% dei consumatori, a dimostrazione di come sia difficile far emergere la storia che sta dietro al prodotto.
Marco Ricchetti (a cura di), Neomateriali nell’economia circolare: Moda, Edizioni Ambiente, 2017; tinyurl.com/y9nn7ojm
I 28 marchi della moda DETOX per mercato Sportswear
7% 25%
18%
GDO Mass Premium Lusso
21%
29%
I 53 suppliers DETOXLeader per settore
2% 4%
Accessori Nobilitazione
13%
Tessitura Filatura
30%
25%
26%
Fibre Chimica
Fonte: www.sustainability-lab.net
C’è però un fenomeno nuovo, tutto da analizzare, che ha a che fare con forza della moda nell’ispirare i comportamenti: i prodotti realizzati con materiali e tecnologie sostenibili cominciano a diventare cool. Un esempio viene, proprio in questi giorni, da uno dei magazine online di riferimento per i giovani, della night-life urbana e dei party più di tendenza – il mondo forse più lontano dai valori tradizionali della sostenibilità – e riguarda uno dei prodotti, una scarpa sportiva che viene descritta così “è già diventata un must-have di stagione”, nessun riferimento è però fatto alle caratteristiche di sostenibilità del prodotto. Siamo cioè di fronte a una contraddizione, che probabilmente apre un dibattito molto divisivo nel campo di chi auspica un’economia più sostenibile: è possibile che gli stessi fenomeni e gli stessi meccanismi, la moda e i megabrand, che sono, in buona parte, alla radice del problema possano diventare anche parte della soluzione? Se non ora quando? Ora è il momento. Un confine, nell’industria della moda è già stato oltrepassato ed è un confine da cui è difficile tornare indietro una volta che si è intrapreso il cammino. Qualche tempo fa Rossella Ravagli, responsabile del Dipartimento di Responsabilità Sociale e Sostenibilità di Gucci, ricordava in una presentazione al Copenhagen Fashion Summit che la sostenibilità è una “one way journey”, che richiede investimenti e modelli organizzativi delle filiere produttive difficili da realizzare, ma a cui, per questo, difficilmente si rinuncia una volta realizzati. Il principio enunciato dal designer di moda Bruno Pieters che “la storia dietro il design deve essere bella come il design stesso” ha trovato il suo posto nel sistema della moda. Abbiamo la fortuna di essere parte di questo movimento, che ancora molta strada deve percorrere, ma che è ormai un valore irrinunciabile per la moda.
Case Studies
Focus moda
JEANS
da affittare Nuovi materiali e modelli di business, progettazione innovativa e sostenibile e costanti investimenti in ricerca e sviluppo possono togliere alla moda l’etichetta di seconda industria più inquinante al mondo. In Europa c’è chi ci prova da anni: tra riciclo, estensione del ciclo di vita e prodotto come servizio.
di Antonella Ilaria Totaro 1. Ellen MacArthur Foundation Report, Towards the Circular Economy Vol. 2: opportunities for the consumer goods sector, gennaio 2013. Esistono anche aziende extraeuropee che stanno provando ad andare in questa direzione come l’americana Le Tote (www.letote.com).
Dal 1993 la svedese Filippa K è tra le aziende di riferimento della moda sostenibile e circolare. Come sostiene, infatti, la sua fondatrice Filippa Knutsson “Ispirato ai miei bisogni, ho costruito un marchio che abbia sostanza e verità e che non sia dipendente dai trend superficiali dell’industria della moda”. Le collezioni e i modelli di Filippa K puntano sulla durata nel tempo, per qualità e stile. Dopo il negozio di seconda mano del marchio aperto già nel 2008, i front-runners realizzati in materiali potenzialmente riciclabili con le odierne tecnologie, i programmi di take back (Filippa K Collect) e di life extension (Filippa K Care), nel 2015 Filippa K esordisce tra i primi al mondo con il programma di ‘noleggio’ Filippa K Lease. Un po’ il Netflix per abiti ipotizzato dalla Ellen MacArthur Foundation,1 Filippa K Lease permette di affittare, in determinati negozi del marchio, alcuni capi delle
collezioni in modo che il cliente possa ampliare temporaneamente il proprio guardaroba, senza acquistare il capo, che può restituire in negozio quando non ne ha più bisogno. Ma l’azienda svedese non è l’unica ad aver visto nella moda circolare un nuovo modello di business nel Nord Europa. Alla Lena Library di Amsterdam, una sorta di biblioteca di abiti (o bisognerebbe iniziare a dire ‘vestoteca’) è possibile abbonarsi e prendere in prestito all’occorrenza determinati capi di abbigliamento. Si può noleggiare, per esempio, un Mud Jeans, ideato ad Amsterdam e prodotto in Italia o Tunisia. L’azienda olandese, che si definisce con orgoglio “Il primo brand circolare della moda al mondo”, basa il proprio modello di business sul “prodotto come servizio”. Con un abbonamento mensile di 7,50 euro si può noleggiare il jeans preferito
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materiarinnovabile 16. 2017
Case Studies
Info www.filippa-k.com www.lena-library.com www.mudjeans.eu www.originalrepack.com www.hifesa.com www.recovertex.com wornagain.info
(o anche più di uno), restituirlo dopo un anno, prenderne uno nuovo e rimandare indietro quello usato tramite i packaging riutilizzabili di RePack. In tal modo Mud Jeans mantiene il possesso del capo e rivoluziona il ruolo del brand, che, necessariamente, è chiamato a costruire una relazione con il consumatore e mantenerla anche dopo l’acquisto. I più sensibili al modello Mud Jeans sono i giovani. “Il nostro cliente tipo, è un esploratore consapevole che sa cosa sta succedendo nel mondo e cerca alternative, ha un livello di istruzione elevato, dai 25 anni in su, spesso vive in città grandi. I millennials sono sempre più importanti nell’identikit dei nostri clienti ideali. Più che un oggetto da possedere i millennials preferiscono un oggetto che abbia significato e che sia un’esperienza” affermano in azienda. I Mud Jeans sono disegnati sin dall’inizio per essere ricreati ciclicamente con l’upcycling, che li trasforma in capi vintage o nuovi prodotti. Secondo i dati forniti da Mud Jeans se “la produzione di un paio di jeans richiede 7.000 litri di acqua, per i nuovi Mud Jeans ne serve il 78% in meno (1.554 litri di acqua); per un Mud Jeans vintage l’89% in meno (equivalente a 777 litri d’acqua)”.
Il risparmio di acqua e delle materie prime in generale oltre che l’upcycling degli scarti di cotone sono anche i punti cardine della Hilaturas Ferre, con sede a Banyeres de Mariola, vicino Alicante. Un’azienda familiare ultracentenaria che già nel 1947 ha iniziato a sviluppare un sistema per riciclare scarti di cotone creando nuovi filati. Quattro generazioni e tanti anni di ricerca e sviluppo sono serviti per arrivare a lanciare nel 2015 il Recover Upcycled Textile System. Come sostiene Alfredo Ferre, Ad della Hilaturas Ferre: “Con il processo Recover, Ferre trasforma i rifiuti tessili nei migliori filati riciclati di qualità al mondo. Il sistema di upcycling tessile Recover permette di dar vita a tutta una serie di prodotti con il più basso impatto ecologico e al costo più competitivo al mondo”. In particolare, il Recover Upcycled Cotton Fiber consente di recuperare le fibre di cotone senza utilizzo di acqua e senza emissione di gas serra, mentre il processo ColorBlend® permette ai tessuti di essere colorati senza impiego di sostanze chimiche. Il cotone recuperato è unito, poi, ad altre fibre a basso impatto ambientale – quali Pet riciclato, nylon riciclato e canapa – e trasformato nuovamente in filati. Con scarti di tessuti provenienti da tutto il mondo, la Hilaturas Ferre produce filati acquistati, tra gli altri, da H&M, Mango, Zara, G-Star Raw e Whole Foods Market. “Riciclare tutto quanto già esistente per creare nuovi capi di abbigliamento permette di non creare più rifiuti, in un mondo dove la crescita della popolazione e il cambiamento climatico potrebbero trasformare alcuni materiali, come il cotone, in un oggetto di lusso” è il punto di partenza del lavoro di Cindy Rhoades, fondatrice di Worn Again, azienda con base a Londra dal 2012. A testimonianza di quanto impegno sia necessario per migliorare l’impatto della filiera produttiva del settore moda e di quanto anche i grandi brand si stiano muovendo in questa direzione, Worn Again, insieme a partner globali quali H&M, Kering e Nike, sta sviluppando e provando a rendere scalabile una tecnologia di riciclo tessile che separi e catturi le fibre provenienti da vecchi tessuti e abiti, riportandoli allo stato di materiali grezzi e reintroducendoli in tal modo nella catena produttiva come nuovi. In altre parole, Worn Again mira a chiudere il cerchio risolvendo il problema dell’end of life degli abiti e dei tessuti. Come la Rhoades dice “al momento siamo principalmente focalizzati su Pet e cotone, sia mono fibre sia fibre mescolate – il Santo Graal del tessile riciclato, dal momento che circa il 35% di tutti gli abiti sono realizzati da un mix di poliestere/cotone e circa il 75% è costituito da poliestere, cotone o entrambi. Ciò non vuol dire che non andremo poi più avanti nella filiera puntando al riciclo di altri polimeri”. Il lavoro di Worn Again e Recover e lo sviluppo di tecnologie che riciclino capi e tessuti sono resi più complicati dal fatto che, spesso, questi ultimi sono realizzati da un mix di materiali difficilmente separabili. Un limite superabile solo investendo in ricerca e sviluppo e ripartendo dalla progettazione dei capi.
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materiarinnovabile 16. 2017 Intervista
di A. T.
Rispetta il tuo corpo, rispetta l’ambiente Bav Tailor, stilista
Nata a Londra da genitori indiani, Bav Tailor è una stilista riconosciuta da “Vogue” tra i talenti della Sustainable Design Revolution. Ha esposto la sua collezione al Fashion Hub Market durante la settimana della moda milanese ed è membro dell’Ethical Fashion Forum, ente per la promozione di un futuro equo e sostenibile nel settore moda. Moda e sostenibilità: come riesce a combinare questi due elementi spesso in antitesi? “La sostenibilità è il Dna del mio marchio. Lo slogan
del mio brand ‘respect your body + your sphere’ è totalmente pervaso di sostenibilità: dalla ricerca sui materiali alla trasparenza della catena dei fornitori, dal design responsabile alle tecniche di produzione pensate per aiutare le comunità locali italiane e globali in difficoltà. Cerco di sensibilizzare sull’impatto sociale che tutti possono avere indossando abiti ecologici. I materiali delle mie collezioni sono certificati da enti terzi come naturali o riciclati. In tutto il processo produttivo, l’obiettivo è sempre quello di minimizzare l’impatto ambientale e promuovere la sostenibilità. Anche nelle fasi di distribuzione e vendita. La maggior parte dei miei tessuti provengono dall’Italia per la qualità premium – di alta qualità – dei materiali. Così punto verso il settore Eco-Luxury del mercato e investo sul ridotto impatto ambientale degli acquisti locali anziché esteri. Prediligo materiali speciali come la pelle di pesce riciclata, sottoprodotto di scarto della filiera ittica; oppure legno ecologico, ortica, bambù, canapa, eco lana. Per le rifiniture utilizzo bottoni di cotone riciclato, legno naturale e madreperla, zip e filati di cotone biologico.” Come la moda può essere più sostenibile? “Prima di sviluppare una collezione i designer devono pensare all’impatto sociale che il loro marchio avrà. E le aziende devono introdurre solidi codici di condotta nei propri modelli di business, puntando su trasparenza e tracciabilità della catena produttiva, ricerca e sviluppo di materiali, standard di retribuzione e sicurezza dei lavoratori. L’industria della moda ha bisogno di promuovere materiali più sostenibili e facilmente tracciabili. I fornitori dovrebbero essere costretti a certificare le materie prime, fare ricorso a organizzazioni fair trade ed essere incoraggiati a investire in ricerca e sviluppo di materiali riciclabili e/o rinnovabili che lasciano un’impronta ecologica positiva. Per esempio uno dei materiali che utilizzo è New Life, ricavato dal riciclo di bottiglie di plastica Pet. I consumatori poi possono diventare più intelligenti controllando le etichette degli abiti per capire dove sono prodotti; le cuciture per assicurarsi che siano durevoli; i tessuti per sapere se sono naturali, riciclabili e certificati. Si deve chiedere alle aziende sostenibilità. Bisogna amare i capi acquistati, non acquistare solo per avere di più, ma pensare a un acquisto in termini di indossabilità. Credo che il ciclo di vita di un indumento dovrebbe prevedere almeno trenta utilizzi.” Qual è la principale sfida in questa transizione verso un’industria della moda più sostenibile? “Vivere in diversi continenti mi ha reso molto sensibile alla mancanza di rispetto verso i lavoratori, le materie prime, i fornitori che sono nel retroscena della filiera produttiva. La sfida è spingere le aziende a investire
Case Studies
Ethical Fashion Forum, www.ethicalfashion forum.com
Camera nazionale della moda italiana, www.cameramoda.it/it
i soldi spesi dai consumatori in capitale umano, responsabilità sociale e giustizia economica. Le aziende e i key influencers hanno il dovere di sensibilizzare i consumatori sull’impatto che il consumismo sta avendo. È fondamentale creare un movimento, un approccio mentale dove ‘meno è più’ (less-is-more).” Quanto è importante la fase di ricerca? “L’impronta ecologica di un marchio deriva interamente dalla fase di ricerca e sviluppo. Tuttavia, il costo di ricerca e di sviluppo di risorse più sostenibili è molto elevato, difficile da affrontare per i piccoli marchi. La mia ricerca in questa fase è orientata verso l’approvvigionamento di materiali già esistenti riciclati, fibre naturali certificate e upcycled. Ora che il mio brand sta crescendo, investo in ricerca e sviluppo sui miei stessi materiali riciclati usando scarti pre-consumo.” Dove si possono trovare nuovi materiali? “È impressionante lo spreco globale che c’è in tutte le industrie. A oggi, non si investe abbastanza nella ricerca di come possono essere rigenerati gli scarti di produzione e i rifiuti pre-consumo come bucce d’ananas, cashmere rigenerato o scarti di pesce.”
Design: è possibile creare vestiti che durino più a lungo se non per sempre? “Gli abiti realizzati con tessuti premium, con tecniche di produzione di qualità e con disegni semplici possono essere fatti per durare. Il mio processo di campionamento e produzione si sforza da un lato di utilizzare materiali riciclati e upcycled, dall’altro di semplificare disegni e prototipi. Anche i consumatori, dal canto loro, devono cambiare atteggiamento e prendersi maggiore cura dei capi per farli durare più a lungo.” Qual è il traguardo già raggiunto di cui è più orgogliosa? E quale il prossimo obiettivo? “Sono fiera che il mio marchio sia stato riconosciuto dall’industria della moda e del design come un marchio sostenibile Eco-Luxury da importanti enti del settore, come la Camera nazionale della moda italiana e da ‘Vogue Italia’. Il mio prossimo obiettivo è creare un effetto a catena per cui il mio messaggio di rispetto verso gli esseri umani e il nostro pianeta possa raggiungere persone influenti in posizioni di visibilità e potere per creare insieme consapevolezza e cambiamento.”
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Foto: PIRO4D/Pixabay CC0 PublicDomain
FRIGORIFERO:
la rivoluzione è alle porte di Freija van Holsteijn
Nelle case europee ogni anno 84 milioni di tonnellate di cibo finiscono nella pattumiera. Conservare meglio gli alimenti può contribuire a tagliare questi sprechi, riducendo anche consumi energetici e impatti ambientali. Ma serve un frigorifero intelligente in grado di scambiare informazioni con il consumatore quando immagazzina i prodotti freschi e dare indicazioni su come mantenerli nel modo migliore.
1. R. Kemna, F. van Holstein, P. Lee, E. Sims, Complementary research on household refrigeration – Optimal food storage conditions in refrigeration appliances, VHK in collaborazione con Oakdene Hollins per la Commissione europea, Bruxelles, febbraio 2017; tinyurl.com/nyem9fb. Notare che le informazioni e i punti di vista esposti in questo studio sono quelli degli autori e non riflettono necessariamente quelli della Commissione europea.
Negli ultimi decenni il frigorifero che abbiamo in casa è cambiato ben poco: una grande scatola con una temperatura tra i 4 e i 7 °C, in cui si mettono i prodotti alimentari che non possono stare a temperatura ambiente. E nonostante ci siano stati importanti sviluppi tecnici nel campo dell’efficienza energetica e dei refrigeranti, la sua funzionalità essenziale è fondamentalmente rimasta invariata: in circa il 90% delle case il frigorifero è tuttora costituito dalla stessa scatola fredda da 180 litri. Ma nonostante vengano conservati al freddo, molti prodotti si deteriorano o perdono la loro freschezza prima che vengano tolti dal frigorifero per essere consumati. Nell’Ue vengono comperate ogni anno 485 milioni di tonnellate di cibo, di cui 84 milioni (il 17%) vengono buttate via e 52 milioni (l’11%) si rivelano superflue e potevano non essere acquistate del tutto. In realtà per produrre
tutto questo cibo serve una quantità tripla di prodotti grezzi: quindi in pratica sono circa 156 milioni le tonnellate di prodotti alimentari che vengono sprecate. Ma come possono i frigoriferi contribuire a ridurre lo spreco di cibo ridefinendo la loro funzione fondamentale? Invece di fornire la capacità di stoccaggio di 180 litri a basse temperature (4-7 °C), il frigorifero può diventare “un’unità di conservazione” con l’obiettivo di mantenere freschi i prodotti alimentari più a lungo possibile. Gli impatti dello spreco alimentare Lo studio Optimal food storage conditions in refrigeration appliances1 (“Condizioni ottimali per la conservazione del cibo nei dispositivi di refrigerazione”) pubblicato nel febbraio 2017, analizza i flussi totali di cibo dell’Unione europea, i loro impatti ambientali e gli effetti che condizioni
Case Studies 2. I prodotti correlati all’energia o ErP sono prodotti che consumano energia (elettrodomestici, apparecchiature per riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’aria, motori, illuminazione, apparecchi elettrici per la casa ecc.) o che hanno un impatto indiretto sul consumo di energia e sono regolamentati dalla direttiva europea ErP.
di stoccaggio ottimizzate possono avere sulla riduzione dello spreco alimentare nei nuclei domestici. Questi ultimi, infatti, giocano un ruolo importante nella prevenzione del deperimento dei cibi presenti in casa. Nell’Unione europea sprechiamo pro capite circa 160-170 chilogrammi di cibo all’anno, pari a quasi il 20% del cibo che acquistiamo. Naturalmente ci sono parti che è inevitabile buttare – come gli ossi, le bucce o i noccioli – ma complessivamente più della metà dello spreco potrebbe essere evitato. L’impatto legato alla produzione del cibo e in particolare allo spreco alimentare è enorme. Quando si parla di rifiuti, molte persone concentrano la loro attenzione – per esempio – sullo smaltimento e riciclo di frigoriferi, apparecchiature elettroniche e di altri prodotti correlati all’energia (Energy-related products, ErP).2 In realtà questa tipologia di rifiuti sono ben
poca cosa se paragonati allo spreco alimentare. Complessivamente, infatti nell’Unione europea vengono buttate 155 milioni di tonnellate di cibo, delle quali 71 milioni nella catena di lavorazione e vendita e 84 milioni nei nuclei domestici. Una quantità ben superiore a tutti i rifiuti derivanti dalla produzione e dallo smaltimento a fine vita degli ErP, che ammonta a 29 milioni di tonnellate. Per gli ErP lo spreco durante la fase di utilizzo – principalmente rifiuti da combustione – rappresenta la parte più importante (figura 1). In termini di consumo di energia, la produzione annuale di 485 milioni di tonnellate di cibo richiede 283 milioni di tonnellate di petrolio equivalente, pari a circa il 17% del consumo totale di energia dell’Ue; in termini di emissioni comporta l’emissione di 1.071 milioni tonnellate di CO2 equivalente, circa il 25% del totale delle emissioni di gas serra dell’Ue (figura 2).
Figura 1 | Produzione di rifiuti in milioni di tonnellate l’anno Cibo
ErP
Fine vita 14 Fase di utilizzo 91
Fine utilizzo, evitabile 52
Fine utilizzo, inevitabile 32 Lavorazione/vendita al dettaglio 71
Produzione 15
Figura 2 | Emissioni di gas serra in milioni di tonnellate di CO2 equivalente l’anno ErP
45% del totale dell’Ue
Energia per ErP non correlata al cibo 1.732
Cibo
24% del totale dell’Ue
Energia per ErP correlata al cibo 268
Suoli e altro 244 Fermentazione enterica 147 Gestione dei concimi 80 Energia per non-ErP correlata al cibo 332 Energia per ErP correlata al cibo 268
Fonte di tutti i grafici e tabella: Kemna R., van Holsteijn F., Lee P., Sims E. Complementary research on household refrigeration – Optimal food storage conditions in refrigeration appliances, VHK in collaborazione con Oakdene Hollins per la Commissione europea, Bruxelles, febbraio 2017.
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materiarinnovabile 16. 2017 E infine la spesa delle famiglie per il cibo è oltre quattro volte la spesa media totale annuale in energia o elettrodomestici. In breve, trovare modi per evitare lo spreco in ambito alimentare, farà risparmiare considerevolmente non solo dal punto di vista economico, ma anche in termini di energia ed emissioni.
Strumenti per il cambiamento Attualmente la battaglia contro lo spreco alimentare è principalmente focalizzata sull’aumento della consapevolezza e sul tentativo di modificare il comportamento dei consumatori. Sebbene questi siano aspetti essenziali,
Figura 3 | Stima delle pratiche di conservazione per cibi e bevande nei nuclei domestici nell’Ue Stima, in milioni di tonnellate/anno
BEVANDE REFRIGERATE
TEMPERATURA AMBIENTE 276 vino bianco 3 succhi di frutta 4
latte UHT 13
FREEZER
FREDDO 210
carne 16
verdure 6
bibite analcoliche 33
pizza 1
gelati 3
frutta 1
acqua minerale 38
pasti pronti 2
patate 4
birra 24
pesce 3
vino bianco 3
birra 12
acqua minerale 17 bibite analcoliche 17
latte UHT 6
alcolici 1,4 cibi per l’infanzia 1,1 aceto 1 tè 0,4
caffè 2,2
vino rosso 6
verdura fresca 7
patatine 2,2
sale 3
verdura in scatola 10
pesce in scatola 3
olio, noci 12
marmellate ecc. 8 altri latticini 17
pesce 2
burro 2
succhi freschi 3
panna 2
impasti 7
salse 4,4
margarina 2
FRIGORIFERO
Temporaneamente in frigorifero 59 (1/3 bevande refrigerate)
zucchero 17
patate fresche 22
formaggi 9
latte fresco 12
pane/pasta/biscotti 41
frutta fresca 27 verdure 31
carne 16
Permanentemente in frigorifero 115
Permanentemente a temperatura ambiente 161
TEMPERATURA AMBIENTE
Temporaneamente a temperatura ambiente 115 (2/3 bevande refrigerate) succhi di frutta 4
cioccolato e dolci 5,2
BEVANDE REFRIGERATE
Permanentemente in freezer 36
Case Studies il cambiamento comportamentale è una delle trasformazioni più difficili da realizzare e generalmente richiede al consumatore un grande sforzo, impegno e autodisciplina. Inoltre non tutte le strategie per i cambiamenti comportamentali sono applicabili a chiunque, ma vanno adeguate alle possibilità individuali. Aumentare la frequenza degli acquisti, per esempio, e comprare solo quello che è necessario per un breve periodo di tempo potrebbe rappresentare una strategia utile per le persone con sufficiente tempo libero, ma per le famiglie che fanno la spesa solo una volta alla settimana questa non è un’opzione percorribile. In ogni caso sarebbe vantaggioso avere uno strumento adeguato che interagisca direttamente con il consumatore quando immagazzina i prodotti alimentari freschi e dia indicazioni su come i vari prodotti possono essere conservati nel modo migliore. Un frigorifero che presenti condizioni di stoccaggio e istruzioni specifiche migliorate potrebbe rappresentare un simile strumento, perché prolunga il periodo di conservazione concedendo più tempo per consumare i prodotti freschi. Oggi oltre l’85% dei frigoriferi domestici ha un solo scomparto per i cibi freschi a una temperatura tra i 4 e i 7 °C, in funzione della regolazione del termostato. Per circa la metà dei cibi freschi (e delle bevande) comprati dai nuclei familiari, questa temperatura è o troppo alta o troppo bassa per la migliore conservazione del cibo. Attualmente nelle case europee i due terzi del cibo comprato pari a 326 milioni di tonnellate viene conservato permanentemente in frigorifero. O, nel caso delle bevande, comunque messe in frigo prima di essere servite (figura 3). Come migliorare Ma cosa causa la perdita di qualità o il deterioramento dei prodotti? C’è una vasta gamma di fattori fisici, chimici e microbici che influenzano la qualità, il deterioramento e la sanità del cibo. Le condizioni di conservazione ottimali sono quelle che consentono di rallentare il processo di deterioramento dei prodotti freschi, facendo sì che restino il più a lungo possibile in buone condizioni. Per conservare frutta e verdura sono importanti tre fattori principali: temperatura, umidità ed etilene (quest’ultimo – noto come “ormone della maturazione” – è prodotto dai frutti nel processo di maturazione, tranne, per esempio, da uva, agrumi, ciliegie). La frutta che produce etilene può dare inizio al processo di maturazione di altra frutta e causare l’ingiallimento delle foglie o la comparsa di macchie scure sulla verdura. Un’elevata umidità relativa (almeno il 90%) è necessaria per prevenire la perdita di umidità e – come risultato – delle vitamine idrosolubili come la vitamina C. La temperatura di conservazione ottimale varia in base al tipo e,
per la maggior parte della frutta, a seconda dello stadio di maturazione (matura, acerba). Prendete per esempio i pomodori: conservati a basse temperature (inferiori a 12 °C) per circa due settimane sviluppano sintomi di danni da freddo tra i quali una colorazione irregolare, l’afflosciamento dei tessuti, arrivando persino alla mancata maturazione. Quando i pomodori sono conservati a temperature ancora inferiori, questi effetti si sviluppano più rapidamente: dopo 6-8 giorni a 4-5 °C. I pomodori sono definiti come “sensibili al freddo” (sensibili cioè a basse temperature superiori a 0 °C) come molta altra frutta e verdura. Per far maturare i vostri pomodori una conservazione in dispensa (17 °C) è l’ideale, mentre per allungare il loro periodo di conservazione e in qualche modo ritardare il processo di maturazione, la conservazione in cantina (12-14 °C) è la soluzione migliore. Parlando in generale, più è alta la temperatura e più la frutta matura velocemente. Al contrario i prodotti a base di carne e di pesce non sono sensibili al freddo e si conservano meglio intorno a -1 °C per controllare la crescita di microorganismi e ridurre al minimo lo scoloramento (la trasformazione in marrone della carne rossa). I prodotti di origine animale, infatti, sono molto spesso responsabili di malattie trasmesse da alimenti: per questo abbassare la temperatura di conservazione recherebbe sicuri vantaggi alla salute del consumatore. Per quanto riguarda i prodotti caseari, si mantengono bene a una temperatura di 4 °C; i formaggi invece si conservano meglio attorno a 1-2 °C e le uova addirittura a -1 °C. Chiaramente molti dei problemi relativi a sicurezza e conservazione rientrano già nella regolamentazione sulla salute del cibo nelle linee guida di garanzia nel settore alimentare. Quello che oggi può fare il consumatore è mantenere i prodotti in condizioni ottimali dopo l’acquisto, impiegando pratiche corrette di conservazione. Ma serve un frigorifero adatto e istruzioni di conservazione precise. Allungare la vita dei prodotti Proprio studiando le condizioni di conservazione ottimali dei prodotti freschi, è emerso che conservandoli in scompartimenti a temperature differenti il loro periodo di conservazione in alcuni casi si estende in modo considerevole. Al riguardo sono stati studiati scompartimenti con cinque differenti temperature: -1 °C per carne, pesce e uova; +2 °C per lattuga, alcune varietà di frutta e verdura, ma anche formaggi; +4 °C per latte, yogurt e burro; +12-14 °C per agrumi, patate, pomodori, cipolle, peperoni, zucchine e melanzane; +17 °C per favorire una rapida maturazione di pomodori e di frutta.
Freija van Holsteijn è una giovane ricercatrice con un grande interesse per i sistemi alimentari sostenibili. Si è laureata in Scienze Animali alla Wageningen University, ha effettuato ricerche per la Fao al dipartimento Protezione dell’Agricoltura e dei Consumatori, e attualmente lavora come ingegnere di ricerca alimentare per l’olandese VHK, azienda leader a livello europeo nelle consulenze su ecodesign, etichettatura energetica e misure correlate.
Quello che oggi può fare il consumatore è mantenere i prodotti in condizioni ottimali dopo l’acquisto, impiegando pratiche corrette di conservazione. Ma serve un frigorifero adatto e istruzioni di conservazione precise.
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materiarinnovabile 16. 2017 Figura 4 | Tempi minimi di conservazione degli alimenti in un frigorifero tradizionale e uno “ottimizzato per gli alimenti” (in giorni) Minimo di giorni senza deterioramento
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19
8
18 11
15
6
4 Pane
4 5
4 Latticini e uova
Carne e pesce
Frigorifero “ottimizzato per gli alimenti”
6
7
Verdura
Frutta
Frigorifero tradizionale
8
4 Succhi di frutta
MEDIA
Figura 5 | Spazio medio occupato nel frigorifero espresso in litri (escludendo avanzi, salse ecc.) Frigorifero “ottimizzato per gli alimenti” Frigorifero tradizionale
20% del frigorifero
Cibi freschi (4 °C) 37
27% del frigorifero
Dispensa (17 °C) 7,5 Cantina (12-14 °C) 8,4 Cibi freschi (4 °C) 13,9
Refrigeratore per verdure (2 °C) 11,8
Refrigeratore per la carne (-1 °C) 7,6
In pratica sarebbero necessarie quattro opzioni aggiuntive di conservazione, oltre alle due standard a 4 °C e -18 °C. La tabella 1 mostra una panoramica delle migliori condizioni per i prodotti freschi al fine di massimizzare il periodo di conservazione. Conservando i prodotti freschi in queste condizioni ottimizzate, il loro periodo di conservazione si estende: a livello di stima ci si aspetta che possa raddoppiare o triplicare (la figura 4 mostra i tempi di conservazione previsti per vari gruppi di prodotti freschi). Anche se naturalmente il prolungamento massimo dipende moltissimo dal modo in cui i prodotti sono stati maneggiati lungo la catena di approvvigionamento. Volumi di stoccaggio Se più prodotti freschi devono essere conservati nel nuovo frigorifero multi-scomparto, abbiamo bisogno di frigoriferi più grandi? Attualmente il frigorifero a comparto singolo da 180 litri è occupato in media per 37 litri, in rapporto alla frequenza media di acquisto e ai prodotti freschi comprati: un po’ di più subito dopo aver fatto la spesa, e un po’ meno appena prima dell’acquisto di nuovi prodotti freschi. In altre parole, escludendo gli avanzi e le salse,
circa il 20% del frigorifero è occupato da cibo fresco. In un frigorifero “ottimizzato per gli alimenti”, questa percentuale salirà al 27%, perché prodotti che precedentemente venivano conservati a temperatura ambiente, verranno ora conservati nello scompartimento “dispensa” o in quello “cantina” (figura 5). Lo spazio occupato dal cibo fresco aumenterebbe da 37 a circa 49 litri, e in teoria questo dovrebbe anche significare che il nuovo frigorifero multi-scomparto consumi più energia, quando tutti gli altri parametri rimangono invariati. Ma il frigorifero odierno – anche considerandone un uso massimo – ha un volume doppio del necessario. In media, il contenuto occupa solo un quarto dello spazio refrigerato disponibile. La presenza di vari scompartimenti differenti in un frigorifero, a diverse temperature, crea nuove opportunità di risparmio energetico, per esempio facendo ricadere a cascata e riutilizzando il “freddo di scarto” derivante dallo sbrinamento. Pertanto l’utilizzo di frigoriferi multi-scomparto potrebbe ridurre significativamente lo spreco alimentare, senza aumentare il consumo di energia. Gli ostacoli da rimuovere È chiaro che molti prodotti alimentari vengono attualmente conservati in condizioni al di sotto
Case Studies dell’ottimale. Un frigorifero “ottimizzato per gli alimenti” con scompartimenti a diverse temperature può migliorare la conservazione e aiutare i consumatori a ridurre gli sprechi. Per arrivarci, però, è necessario superare alcuni ostacoli: •• progettazione dei frigoriferi; •• ecodesign ed etichettatura energetica; •• impostazione delle date di scadenza.
Info www.vhk.nl
pane
dispensa 17 °C
cantina 12-14 °C
fresco 4 °C
refrigeratore per le verdure 2 °C
refrigeratore per la carne -1 °C
freezer -18 °C
Tabella 1 | Temperature di conservazione raccomandate per i prodotti alimentari freschi
*
carne
*
pesci e crostacei
*
uova
*
formaggi
*
fragole
*
broccoli, cavolfiore, cicoria
*
carote, barbabietole
*
cavolo, lattuga, spinaci
*
porri, cipolle verdi, sedano
*
funghi
*
mele, pere, kiwi
*3
*
*
*4
pesche, pesche noce
*3
*
*
*4
latte
*
yogurt
*
burro/margarina
*
fagioli
* *
avocado
*
peperoni, cetrioli
*
zucchine, melanzane
*
cipolle
*
patate
*
banana, ananas, mango, melone
*
*4
pomodori
*
*4
4
Tempo max di conservazione. Maturazione.
Per quanto riguarda l’ecodesign e l’etichettatura energetica l’attuale legislazione invece penalizza i frigoriferi con più sportelli non considerando le inevitabili maggiori dispersioni presenti nei frigoriferi con un solo sportello. Per questo i legislatori dovrebbero introdurre un fattore di correzione per gli apparecchi refrigeranti multi-sportello. Infine, relativamente alle date di scadenza indicate sui prodotti è evidente che il potenziale massimo di riduzione dello spreco alimentare non può essere liberato se queste non vengono riesaminate. Occorre un’armonizzazione a livello europeo dei concetti di “data di scadenza” e “consumarsi preferibilmente entro”. Per esempio, analogamente a quanto avviene oggi per l’etichettatura dei cibi surgelati, le “date di scadenza” per la carne e il pesce potrebbero essere differenziate tra una conservazione a +4 °C (frigorifero tradizionale) e -1 °C (congelatore per la carne).
agrumi
3
Riguardo alla progettazione di un frigorifero “ottimizzato per gli alimenti”, il mercato europeo dovrà abbandonare i frigoriferi a temperatura singola. Alcuni marchi hanno sviluppato frigoriferi con cassetti speciali per i cibi freschi o cassetti per il congelamento rispettivamente per verdure e carne. Questi sforzi nel settore Ricerca e Sviluppo possono essere ulteriormente ampliati e la performance energetica dei frigoriferi multi-scomparto può essere ancora migliorata. Gli scompartimenti multipli sono necessari per soddisfare veramente le necessità della varietà di prodotti freschi. Nella progettazione pratica, gli scompartimenti “cantina” e “dispensa” potrebbero probabilmente essere separati internamente e avere un unico sportello. Lo stesso vale per gli scompartimenti per i cibi freschi e per l’insalata. Il refrigeratore per la carne, che ospita gli alimenti di maggior valore (carne e pesce), dovrebbe essere dotato di uno sportello separato. Insieme al freezer, un design compatto dovrebbe prevedere quattro sportelli esterni.
In conclusione, con il supporto della legislazione i frigoriferi multi-scomparto possono diventare lo strumento perfetto che permetterebbe alle famiglie di ridurre significativamente la parte di spreco alimentare evitabile. Potenzialmente, il frigorifero ottimizzato per gli alimenti può far risparmiare più mega-tonnellate di sprechi di quanto fatto da tutti i prodotti correlati all’energia regolamentati dalla direttiva ErP.
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Focus CARTA
Clker-Free-Vector_Images CC0 Public Domain
Alcuni esempi eccellenti di economia circolare applicata in aziende del settore cartario – in passato tra i più impattanti a livello ambientale – che hanno saputo riprogettare l’intero ciclo produttivo. Grazie all’innovazione e alla gestione circolare dei flussi di materia. E senza perdere di vista il mercato.
Case Studies
DS SMITH: the power of less di Ilaria N. Brambilla
15 miliardi di scatole prodotte ogni anno; 5,4 milioni di tonnellate di carta, plastica e altri materiali recuperati e riutilizzati nel ciclo produttivo. Il tutto riconvertito in nuovi imballaggi in due settimane. L’industria cartaria, fino ad almeno vent’anni fa, veniva considerata una delle industrie più impattanti sul pianeta a causa della materia prima di cui si nutre: cellulosa e pasta di legno fornite da boschi e foreste. Nel tempo, tuttavia, molto è cambiato e oggi possiamo trovare in questo settore dei casi eccellenti di aziende che hanno fatto della sostenibilità e del modello dell’economia circolare il proprio business di successo.
Ilaria N. Brambilla è geografa e comunicatrice ambientale. Collabora con istituti di ricerca, agenzie di comunicazione e con testate italiane e straniere sui temi della sostenibilità.
Ne è un esempio la DS Smith, azienda britannica nata nel 1940 e cresciuta fino a impiegare oltre 26.000 persone in 36 paesi, che si occupa della produzione di carta e di imballaggi in cartone, così come di soluzioni per imballaggi in plastica. A supporto, DS Smith ha anche sviluppato reti del riciclo in modo da avere materia prima seconda per i suoi processi produttivi. Pioniera del riciclo
da più di quarant’anni, ha intrapreso la strada della sostenibilità a tutto tondo chiudendo il proprio ciclo produttivo e pubblicando il primo rapporto di sostenibilità nel 2014. I numeri sono imponenti: 15 miliardi di scatole prodotte ogni anno, a fronte di un recupero di 5,4 milioni di tonnellate di carta, cartone, plastica e altri materiali, che rientrano nei cicli di produzione attraverso la divisione che si occupa del riciclo. Nel caso degli imballaggi a base di carta, tramite un processo interno DS Smith riesce a raccoglierli e, attraverso il riciclo, convertirli in nuovi imballaggi in sole due settimane dal momento della dismissione. La società ne parla in termini di “da scatola a scatola in 14 giorni”. In linea con l’obiettivo dell’azienda di essere leader di mercato in Europa nella fornitura di imballaggi sostenibili, le attività europee di DS Smith nelle sue divisioni di recycling, paper e packaging sono
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materiarinnovabile 16. 2017
Agire localmente, l’esempio della Croazia Crescendo, DS Smith non ha abbandonato la propria filosofia, anzi. In seguito all’acquisizione di Duropack Packaging Group nel 2015, la società ha portato il modello di integrazione delle attività anche in Croazia. Nell’ultimo anno l’azienda ha recuperato 100.000 tonnellate di carta, metallo, vetro, plastica, alluminio e legno destinate al riciclo. Il modello dei cicli di fornitura ha aiutato i loro fornitori e clienti a rendere i sistemi di gestione dei rifiuti più efficienti, tramite attività di formazione e alla distribuzione di contenitori specifici per la raccolta differenziata. La comunicazione e il coinvolgimento della comunità locale sono cruciali: DS Smith ha portato avanti le competizioni per le scuole primarie sul riciclo della carta che già da parecchi anni si svolgevano nel paese, continuando a educare le nuove generazioni a una corretta divisione dei rifiuti e a stili di vita sostenibili. Miles Roberts, Ceo del gruppo DS Smith, a tal proposito dichiara: “Siamo scrupolosi nel creare valore sostenibile anche per le persone che lavorano con noi. Assicuriamo i più alti standard di sicurezza e facciamo in modo che la DS Smith sia un luogo di lavoro dove le persone possano crescere e realizzare il proprio potenziale”.
Case Studies
allineate in modo da garantire un’offerta di riciclo a ciclo chiuso, “da scatola a scatola”. La strategia è la continua innovazione per l’uso più efficiente possibile della materia: per quanto riguarda il cartone ondulato, fondamentale è la progettazione di imballaggi affidabili, che proteggano il prodotto senza impiegare più materiale del necessario. Il tutto utilizzando fino al 90% di materia rinnovata per produrre imballaggi in cartone. Una visione che ha un motto: “The Power of Less”, “il potere del meno”, dove con “meno” si intendono gli sprechi, puntando invece a un maggiore riciclo. La progettazione è supportata dalla gestione circolare dei flussi di materia, proprio perché la società gestisce internamente le operazioni di recupero e riciclo dei propri imballaggi a fine vita, reimmettendoli nel ciclo produttivo e dando luogo a nuovi prodotti. L’idea è quella di un sistema di approvvigionamento e produzione circolare e chiuso, che permetta di risparmiare sulla materia prima e di rivalorizzare la materia prima seconda. Stefano Rossi, Ceo della divisione packaging in Europa, spiega: “In questo momento, più che mai, il pubblico sceglie non soltanto in base al prezzo o alla fedeltà a un marchio, ma in base alla riciclabilità del prodotto. Quindi, se in passato la sostenibilità era vista come un’attività accessoria, oggi i vantaggi di abbracciare una cultura del riuso e del riciclo sono estremamente reali, importanti e concreti.” La soluzione è semplice: “Creando ‘cicli’ di fornitura piuttosto che ‘catene’ di fornitura (o filiere). In questo modello circolare, dove altri vedono l’imballaggio usato come un rifiuto, noi lo vediamo come una risorsa.”
Il rifiuto come risorsa, paradigma dell’economia circolare, trova piena espressione nella divisione recycling della DS Smith. Jochen Behr, che la dirige, afferma: “Le nostre attività di riciclo, produzione di carta e confezionamento sono strettamente integrate. Ci impegniamo a mantenere i nostri materiali nel ciclo di fornitura il più a lungo possibile, di modo che il valore sia massimizzato, senza affidarci al recupero energetico come soluzione generica per il fine vita del materiale. Applicando la gerarchia dei rifiuti sia attraverso le nostre attività, sia attraverso quelle dei nostri clienti, possiamo ridurre gli sprechi e garantire che tutti i materiali che possono essere riciclati lo siano effettivamente. È qui che entra in gioco la qualità. Le economie circolari devono preoccuparsi dei processi produttivi e il riciclo è un processo produttivo. Senza materie prime di qualità all’inizio del processo, ci sarà inefficienza e questo a sua volta creerà sempre più sprechi. Una raccolta differenziata dei materiali riciclabili fatta in modo approssimativo porta alla contaminazione e di conseguenza a materia prima seconda in ingresso di scarsa qualità. Nel peggiore dei casi, materiali di pessima qualità non possono essere riciclati e finiscono nei termovalorizzatori o in discarica. Quindi il nostro messaggio al settore è semplice: focalizzandosi sulla qualità dei materiali portati al riciclo massimizzeremo le opportunità di riciclaggio e contribuiremo alle ambizioni dell’economia circolare”. Un’attitudine che DS Smith adotta in tutti i paesi in cui è presente, come nel caso della Croazia.
Info www.dssmith.com /it/recycling
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materiarinnovabile 16. 2017
Focus carta Illustrazione di Clovis-Cheminot – Pixabay, CC0 Public Domain
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Simbiosi & innovazione L’economia circolare sta iniziando a cambiare in maniera radicale le filiere produttive, spostando, nel caso della carta, i cardini dell’innovazione. di Sergio Ferraris
Crush, www.favini.com/ gs/carte-grafiche/crush/ cos-e-crush
Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.
Simbiosi industriale. Un concetto che può essere ristretto al ruolo noto, a livello industriale, delle partnership, oppure sviluppato a 360 gradi. E nel caso dell’economia circolare, innestata sulla sostenibilità è quest’ultima declinazione quella necessaria per trovare soluzioni alle sfide di oggi. Già perché quando si utilizzano risorse a bassa intensità di materia e di energia, come quelle derivate da biomateriali o da residui di lavorazioni industriali è necessario sfruttarne tutte le potenzialità. Ma non è una cosa semplice, visti i contesti produttivi e di mercato nei quali ci si trova oggi a operare. Le pratiche industriali legate all’economia circolare, per essere efficaci, infatti, devono sottostare in questo contesto a una serie di regole ben definite. La prima è quella del mercato. Ossia l’extracosto rispetto ai prodotti consolidati non deve essere eccessivo. Diciamo al massimo un 10-15% rispetto alle produzioni convenzionali. La seconda è quella dei processi. Ovvero le nuove lavorazioni non devono essere in contrasto con quelle esistenti né sotto al profilo delle lavorazioni, né dal punto di vista culturale. Mentre la terza regola è quella della simbiosi, ossia dell’incrocio di materia e di filiere, cosa che presuppone l’esistenza di un background di conoscenza condivisa tra le imprese.
Si tratta di tre questioni che, con ogni probabilità, saranno superate nel tempo, ma che oggi possono diventare delle barriere in grado di ostacolare la diffusione “circolare” di tecniche e materiali sostenibili. Ne sanno qualcosa da Favini, storica cartiera del nordest, che da anni “contamina” un prodotto consolidato da secoli come la carta, attraverso pratiche innovative, materiali diversi da quelli classici e sperimentando l’incrocio delle filiere, usando materie prime – che per altre filiere industriali e non, sono scarti – d’origine naturale. Rispettando così l’origine naturale della carta, aumentandone la sostenibilità e, sempre più spesso, la qualità, sia per l’utente finale sia per l’ambiente. “In Favini abbiamo quattro punti cardine che caratterizzano il processo Crush (la linea di carte ecologiche realizzata con sottoprodotti di lavorazioni agroindustriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero, ndr)” ci dice il direttore R&S dell’azienda, Achille Monegato, parlando dei metodi industriali che sono alla base delle carte Crush. “Ovvero il prodotto (la materia prima/seconda di base, ndr) deve essere alla fine del suo ciclo di vita nella filiera d’origine; deve essere secco; vagliato e macinato.” Cardini brevettati I “cardini” appena citati sono alla base della nuova filiera produttiva sostenibile di Favini – e del relativo
Case Studies brevetto – per le carte Crush che consentono all’azienda di agire con nuovi materiali quando se ne presenta l’occasione. Ed è ciò che successo con il gruppo Pedon, attivo nella distribuzione di legumi secchi. Un’esperienza dove si sono incrociate esigenze, esperienze e filiere. “Non fummo noi a cercare Pedon – prosegue Monegato – ma fu l’azienda agroalimentare a contattarci. A Favini non eravamo a conoscenza di quali fossero i residui di lavorazione di Pedon: anzi ne avevamo un’idea sbagliata visto che, prima dell’incontro, pensavamo di trovarci di fronte a baccelli o bucce, mentre la nostra materia prima/seconda erano i legumi scartati perché difettosi”. Insomma si sono dovute condividere conoscenze approfondite di filiera per riuscire ad avere un prodotto d’eccellenza, ossia una carta realizzata con un 25% di legumi, adatta al contatto alimentare. Un prodotto finale ancora più sostenibile visto che rende inutile utilizzare la bustina di plastica vergine per isolare l’alimento dal contenitore, come capita di solito con gli imballaggi prodotti con materiali riciclati nel caso non siano adatti al contatto con il cibo. “È necessaria molta esperienza – precisa Monegato – per individuare ciò che di interessante avviene nelle altre filiere”.
Info www.favini.com
Anche la comunicazione di quello che si fa, però, è importante. E sulla comunicazione si basa una delle esperienze più interessanti di Favini. “Veuve Clicquot – continua Monegato – stava cercando un imballo che fosse anche il testimonial del loro nuovo champagne bio, mentre noi all’epoca avevamo problemi nel reperire le alghe (la prima materia prima/seconda usata da Favini, oltre venti anni fa) perché era finita l’emergenza eutrofizzazione nella laguna di Venezia ed eravamo andati a rifornirci in Francia, in Normandia, dove c’era un’emergenza analoga a quella dell’Adriatico. La cosa fece notizia e finì in un telegiornale che fu visto dalla dirigenza di Veuve Clicquot, la quale ci chiese se eravamo in grado di produrre carta usando i loro residui: le vinacce dealcoolate”. Comunicazione di valore Il risultato è un packaging la cui filiera produttiva ha essa stessa un valore di comunicazione tale da spingere l’azienda a illustrarla con una infografica riportata sullo stesso contenitore. Questi due casi sono esemplificativi, ma l’economia circolare, nel caso della carta e anche per altri materiali, potrebbe cambiare la natura stessa del prodotto, anche – e specialmente – attraverso la simbiosi industriale. Ed è ciò che è accaduto con la carta Remake nella quale si incrociano due filiere molto diverse: quella della carta e quella della pelle. “Ho pensato al cuoio quando ho letto che il collagene era fibroso e aveva un’elica sinistrorsa con una struttura quaternaria (la fibra del collagene consiste di 3 catene polipepdiche avvolte
l’una intorno all’altra a formare la triplaelica, ndr) – prosegue Monegato – come la cellulosa. Allora mi sono detto: perché non provare a unire queste due fibre? E così abbiamo ottenuto un prodotto cartario di pregio, anche se in realtà eravamo partiti con un’idea diversa. Il progetto originale, infatti, era quello di produrre una carta compostabile e che magari potesse diventare un alimento per gli animali o essere utilizzata come fertilizzante. E per fare ciò bisogna mettere nella carta dell’azoto organico. Che si trova nelle fibre del collagene”. E la prospettiva è quella di usare questa esperienza per fare innovazione di prodotto non solo di fascia alta come nel settore del lusso, ma anche nelle fasce di produzione a più basso valore aggiunto. “Si potrebbe – conclude Monegato – produrre una carta per la pacciamatura in agricoltura che abbia un tempo di decomposizione di tre mesi al posto dei sette di quella odierna. Sarebbe un prodotto innovativo che però deve un prezzo basso perché la carta da pacciamatura non può essere costosa”. Mercato protagonista Ed ecco, quindi, arrivare il mercato che impone una ricognizione anche sul prezzo, sia per il prodotto finito, sia per quello delle materie prime/seconde che devono possedere un valore basso nella fase di passaggio da una filiera all’altra: cosa che è, per l’appunto, una questione di mercato. Si tratta di un punto importante e molto delicato, quello dell’adattamento della materia ai diversi processi. L’essicazione per esempio, nel processo produttivo Crush di Favini è fondamentale. Dover essiccare un sottoprodotto per renderlo compatibile con la filiera ha un costo: energetico, il che rappresenta un appesantimento sul fronte del mercato; e ambientale. A meno che – come fa Favini – non si usi energia prodotta da fonti rinnovabili. Il destino della carta con lo sviluppo dell’economia circolare potrebbe essere, attraverso la simbiosi industriale, quello di diventare un materiale composito connotato da uno specifico tasso d’innovazione grazie al passaggio dei materiali da una filiera all’altra. Innescando un processo di upcycling che non riguarda solo la materia, ma anche il lato del valore del prodotto, aspetto che non deve essere trascurato. Si tratta di un fenomeno che aprirà degli scenari produttivi inediti per il settore, innestando cambiamenti radicali che potrebbero avere come esito ultimo lo spostamento del focus dell’innovazione di filiera, dal processo (ossia dalle “macchine”), ai materiali e al prodotto finale. Si tratta di una scommessa importante, perché l’aumento del valore del prodotto finale, grazie ai “rifiuti di filiere lontane”, potrebbe essere un volano potente per tutta l’economia circolare. Con la carta nel ruolo sia di apripista innovativo, sia di protagonista.
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Focus carta
Un packaging di BUONA
FIBRA
Un nuovo materiale ricavato dal legno potrebbe presto rimpiazzare la plastica nei sacchetti per la spesa e altri packaging flessibili. Il PAPTIC è fatto di materie prime rinnovabili, può essere riciclato e al tatto sembra un tessuto. Una soluzione innovativa dalle foreste finlandesi. di Rudi Bressa
Pefc, www.pefc.org New Plastics Economy, newplasticseconomy.org
Ogni anno finiscono negli oceani 8 milioni di tonnellate di plastica. Ogni anno usiamo mille miliardi di sacchetti per la spesa, la maggior parte dei quali vengono utilizzati una sola volta. Un flusso costante di rifiuti di plastica, che sta riempiendo mari e oceani. “In uno scenario business-as-usual – dice The New Plastics Economy: Rethinking the future of plastics, un rapporto prodotto dal World Economic Forum e dalla Ellen MacArthur Foundation – si prevede che entro il 2025 l’oceano conterrà una tonnellata di plastica ogni tre tonnellate di pesce, ed entro il 2050, più plastica che pesce.” In questo scenario
l’Ue ha adottato una direttiva per ridurre l’uso di sacchetti di plastica e sta compiendo investimenti in nuove tecnologie, per sviluppare il concetto di un’economia biobased europea. Anche il packaging entra in gioco. Un settore sempre più importante, non solo dal punto di vista delle aziende che lo usano per distribuire e promuovere i loro prodotti, ma anche da quello dei consumatori, che sono sempre più consapevoli dell’aspetto relativo alla sostenibilità di quello che comprano. Per questo motivo il mondo dell’industria sta investendo in ricerca e innovazione, spingendo
Case Studies
Rudi Bressa, giornalista freelance e naturalista, scrive di ambiente, scienza, energie rinnovabili ed economia circolare per varie testate nazionali.
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progettisti, tecnici e startup a produrre nuove idee di packaging con migliori prestazioni e più riciclabili. L’industria cartaria, grazie alla sua stessa natura e alle materie prime che impiega può essere un esempio emblematico. È su queste basi che, in Finlandia, precisamente a Espoo, nasce PAPTIC. “È un prodotto rivoluzionario a base di fibra, il cui componente principale è fibra di legno sostenibile. È un materiale di nuova concezione che combina i benefici ambientali della carta con la funzionalità della plastica, e le proprietà al tatto di un tessuto,” dichiara Daniela Bquain, ingegnere addetto alla sostenibilità della Paptic®. “Oltre all’aspetto dell’essere sostenibile e di alta qualità, il PAPTIC è anche sigillabile a caldo e durevole. Inoltre è rinnovabile e riciclabile con il cartone.” La materia prima per la sua produzione, in questo caso, arriva dalle foreste della Finlandia settentrionale gestite dal Pefc (Programme for the Endorsement of Forest Certification) o da Fsc (Forest Stewardship Council). “Il PAPTIC è prodotto con le stesse macchine che producono la carta, solo con una tecnologia leggermente modificata che era già in fase di sviluppo al VTT Technical Research Centre finlandese,” continua Bqain. “La nuova tecnologia è un brevetto della Paptic®.” La startup finlandese fu creata nel 2015, come spinoff del centro di ricerca finlandese e nel 2016 ottenne il supporto finanziario dell’agenzia Easme (Executive Agency for Small and Medium-sized Enterprises) del progetto europeo Horizon 2020, per la pianificazione e la realizzazione di un passaggio su scala industriale della produzione di PAPTIC: 2,2 milioni di euro in due anni per arrivare alla produzione su scala commerciale entro
la fine del 2018. Si prevede la produzione di 20.000 tonnellate all’anno. “PAPTIC si presenta egregiamente sia alla vista che al tatto”, spiega Daniela Bqain. “La plastica non è considerata un materiale di alta qualità, mentre il PAPTIC offre ai marchi di fascia alta l’opportunità di lavorare con un nuovo materiale sostenibile, che si distingue dalla plastica e dalla carta per le sue proprietà che danno la sensazione tattile di un tessuto.” Dopo i test iniziali, nel giugno del 2016, partì la collaborazione con Seppälä, il famoso marchio dell’abbigliamento in Finlandia ed Estonia che decise di sostituire tutti i suoi sacchetti per la spesa con quelli fatti con il materiale della startup finlandese. Così, un innovativo materiale ricavato dalla fibra ha potuto gradualmente sostituire la plastica nei sacchetti per la spesa e altri packaging flessibili. Si stima che ogni anno vengano usati nella sola Europa almeno cento miliardi di sacchetti di plastica, e più dell’80% solo una volta. Una tale media significa che ogni cittadino europeo utilizza 180 sacchetti all’anno. Per questo motivo, nel 2015, il parlamento europeo ha obbligato gli Stati membri a ridurre il numero di sacchetti di plastica, adottando diverse misure per raggiungere l’obiettivo di 90 sacchetti all’anno per cittadino entro il 2019 e a 40 entro il 2025. E l’Italia, in questo caso, ha fatto da guida nella riduzione dei sacchetti a perdere, al punto che nel 2011 è stata la prima nazione in Europa a bandirne l’uso. “Oggi la plastica è utilizzata in un gran numero di applicazioni e penso che la sostituzione totale di questo materiale sarà assolutamente impossibile perché possiede delle qualità indispensabili per certi prodotti” conclude Daniela Bqain. “Ma per il settore del packaging credo che la possibilità di utilizzare materiali più sostenibili sia reale e tangibile.” E il PAPTIC ne è la prova.
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Focus carta
DA FOGLIO, a imballaggio, a giornale
di Rudi Bressa
Oggi in Europa si ricicla il 71% della carta (nel mondo il 57%). Viene prodotta generando la metà delle emissioni di carbonio rispetto al 1990 e utilizzando materie prime provenienti da foreste certificate o, nel 54% dei casi, carta riciclata. Numeri che fanno del settore un modello da seguire nella transizione verso una bioeconomia circolare. E il Cepi indica la strada da seguire.
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Biobased Industries, www.bbi-europe.eu
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La Pulp & Paper industry europea può essere considerata uno dei fari della bioeconomia nel Vecchio Continente. Un settore, quello della polpa di cellulosa e della carta, che ha alti tassi di raccolta e riciclo, impiega materie prime provenienti da foreste europee ed è capace di produrre nuovi materiali in grado di sostituire, a parità di prestazioni, quelli prodotti a partire da fonti fossili. Nel nuovo quadro europeo sulla gestione dei rifiuti, il 70% dei rifiuti urbani dovrà essere riciclato o preparato per il riutilizzo, mentre per i materiali da imballaggio – come carta e cartone, legno, acciaio, vetro e plastica – l’obiettivo è salito all’80% entro il 2030. Oggi il settore della carta è quello forse più vicino a questo traguardo, con un buon 71,5% di riciclo, contro una media a livello mondiale del 57,7%. Ogni fibra di cellulosa, in Europa, viene reimpiegata 3,5 volte, passando da semplice foglio di carta, a imballaggio, fino alla stessa rivista sulla quale è scritto questo articolo. “L’industria europea della carta ha una visione molto chiara per il suo futuro: guidare la transizione verso una bioeconomia circolare a basso tenore di carbonio”, spiega Ben Alexander Kennard, press and digital media officer del Cepi (Confederation of european paper industries). A febbraio di quest’anno la federazione ha infatti presentato la nuova Roadmap al 2050, con l’obiettivo di tagliare dell’80% le emissioni di carbonio dell’intero settore, aumentando nel contempo il 50% del valore economico che gira intorno alla Pulp & Paper industry. Un deciso passo avanti verso la decarbonizzazione, capace di disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni climalteranti, che avrà comunque bisogno di 44 miliardi di euro di investimenti. “Prendiamo per esempio paesi come l’Italia, dove le fibre riciclate di qualità sono una materia prima essenziale per la produzione di carta: raggiungere l’economia circolare in Europa sarà fondamentale per portare avanti questa visione e accedere in maniera più semplice alle fibre riciclate e ai fondi europei messi a disposizione per ricerca e sviluppo.” La carta, sostenibile per natura Incoraggiante è anche il contributo dell’industria della carta e dell’intera filiera nella riduzione delle emissioni di CO2 e dunque alla mitigazione dei cambiamenti climatici: il settore ha ridotto di quasi la metà le emissioni di carbonio (46% dai livelli di riferimento del 1990), per ogni tonnellata di prodotto. Non solo, ma i continui miglioramenti nella gestione dell’acqua, risorsa fondamentale per la produzione di carta e cellulosa, hanno permesso di reimmettere in natura il 92% dell’acqua impiegata nei processi produttivi. “La carta è l’unico materiale proveniente da fonte rinnovabile e ampiamente riciclabile. In sostanza ciò significa che i nostri prodotti – dalle fibre vergini a quelle riciclate – catturano il carbonio mantenendolo nel ciclo,
cosa che nessun altro processo produttivo può fare”, continua Ben Alexander Kennard. “Dobbiamo sottolineare inoltre come le foreste europee stiano crescendo a tassi esponenziali: negli ultimi dieci anni la crescita dell’area forestale è aumentata di una superficie pari alla Svizzera. In Svezia, per esempio, per ogni albero che viene tagliato, ne vengono piantati altri due. Tutto questo non è successo per caso, ma perché i proprietari delle foreste e gli utilizzatori finali hanno investito nella gestione sostenibile. La nostra visione per il futuro è quella di costruire una vera economia circolare, che mantenga le fibre riciclate e il carbonio in esse contenute il più a lungo possibile nel ciclo.” Obiettivo futuro? Aumentare le fibre riciclate riducendo gli impatti economici “Attualmente la carta riciclata rappresenta il 54% della materia prima del settore”, spiega Kennard. “Ovviamente ci sono limiti per quel che riguarda il raccolta, il riciclaggio e il riutilizzo.” Ma ci sono ancora margini di miglioramento; in particolare in quei paesi europei dove la raccolta è ancora bassa, come in Francia e nel sudest europeo. “Insieme ai nostri partner della filiera del riciclo della carta abbiamo fissato nuovi ambiziosi obiettivi di riciclo: 74% entro il 2020”, dice Kennard. Ma per raggiungere questi livelli gli stati meno virtuosi dovranno migliorare: “Per questo il Cepi sta lavorando al progetto europeo ‘ImpactPapeRec’, per implementare e diffondere best practice sulla raccolta differenziata della carta e portarla così a un livello successivo. In secondo luogo stiamo lavorando sulla riduzione o l’eliminazione dei contaminanti durante l’intero processo di riciclo”. Ma perché l’industria non risulti troppo penalizzata – uno studio commissionato dal Cepi ha mostrato come il 40% della redditività sia stato assorbito dalle normative europee –, sarà necessario pilotare nuovi investimenti, in particolare in R&S. “Come per esempio con il Biobased Industries Joint Undertaking, che ha messo sul piatto 3,7 miliardi di euro per ricerca e sviluppo. Gli strumenti necessari per garantire la trasformazione dell’industria in Europa ci sono, ma devono essere maggiormente allineati con i nostri programmi.” Solo in questo modo, entro la fine di questo decennio, la Pulp & Paper industry potrà diventare la vera leader della bioeconomia circolare europea.
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La doppia vita delle armelline di PESCA e ALBICOCCA Antighiaccio dal sale utilizzato per la lavorazione delle carni; biscotti dai noccioli di albicocca. Prima in Italia, la Regione Emilia-Romagna ha istituito un elenco dei sottoprodotti rimpiegabili come materie prime seconde nei processi produttivi o come biocombustibili. Con il vantaggio per le aziende di avere meno rifiuti da smaltire. E quindi minori costi. di Silvia Zamboni
Noccioli di albicocca e di pesca, sale utilizzato per la salatura delle carni: da febbraio di quest’anno in Emilia-Romagna non sono più rifiuti speciali da smaltire originati dai processi di lavorazione dell’industria agroalimentare, ma sono stati ufficialmente promossi al rango di sottoprodotti. Ovvero potenziali materiali da riutilizzare in altre filiere produttive o per altre finalità d’uso. E da marzo, a questi pionieri del recupero di materia si è aggiunto il liquor nero, noto a livello comunitario come black liquor, la sostanza liquida che si forma nelle cartiere come residuo della lisciviazione del legno nelle vasche in cui si ottiene la polpa per produrre la carta. Anche per questo scarto, quindi, si profila all’orizzonte una seconda vita post mortem. In materia di provvedimenti innovativi a sostegno dell’economia circolare è ancora la Regione Emilia-Romagna a tagliare per prima il traguardo, in questo caso con l’istituzione dell’Elenco regionale dei sottoprodotti reimpiegabili come materie prime secondarie e/o biocombustibili, uno strumento al momento unico in Italia a livello regionale. In particolare, le schede validate dalla Regione indicano per ognuno di questi processi produttivi
i sottoprodotti da essi derivanti. Per esempio dai noccioli di pesca e di albicocca si possono recuperare le cosiddette armelline, ossia le piccole “mandorle” interne utilizzate nell’industria dolciaria per produrre biscotti e altri prodotti da forno, e in quella cosmetica e farmaceutica mentre i gusci esterni e i noccioli interi si possono impiegare come biomasse combustibili e in impianti per produrre il biogas. I noccioli, inoltre, sono destinati a quel particolare settore manifatturiero che svolge proprio l’attività di sgusciatura, ossia di separazione delle armelline dal guscio, tappa intermedia tra lo snocciolamento che avviene nell’industria, per esempio, delle marmellate e dei succhi, e l’utilizzazione finale dei gusci vuoti e delle armelline in altri cicli produttivi. Per quanto riguarda i quantitativi in eccesso del sale utilizzato nei processi di salatura, e i residui che derivano dalla successiva dissalazione a stagionatura completata, potranno invece essere riciclati come antighiaccio stradale. Infine, dal black liquor – riconosciuto a livello comunitario come un prodotto energetico, e annoverato anche dal ministero dell’Ambiente tra le sostanze combustibili – attraverso un processo di evaporazione che si svolge nelle cartiere si
Case Studies Dgr Emilia Romagna 21 dicembre 2016, n. 2260, Istituzione elenco regionale dei sottoprodotti, www.reteambiente.it/ normativa/27988 Determinazione dirigenziale Emilia Romagna 31 marzo 2017, n. 4807, Approvazione della scheda tecnica del sottoprodotto liquor nero, www.reteambiente.it/ normativa/28855 Determinazione dirigenziale Emilia Romagna 13 gennaio 2017, n. 349, Approvazione delle schede tecniche dei sottoprodotti noccioli di albicocca e noccioli di pesca, www.reteambiente.it/ normativa/28256 Dlgs 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale”, www.reteambiente.it/ normativa/2099 Dm Ambiente 13 ottobre 2016, n. 264, www.reteambiente.it/ normativa/28331 S. Zamboni, “Le Regioni dell’economia circolare”, Materia Rinnovabile n. 8/2016; www.materiarinnovabile. it/art/173/Le_Regioni_ delleconomia_circolare
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potrà ottenere un olio ad alta densità e a elevato potere calorifero, utilizzabile sia negli impianti di digestione anaerobica per produrre un biogas particolarmente ricco di molecole di metano, sia direttamente in caldaia come biocombustibile. “Non è stata la smania di fare i primi della classe ad attivarci per istituire l’Elenco regionale dei sottoprodotti”, precisa con modestia Cristina Govoni, dirigente responsabile del servizio giuridico dell’ambiente, rifiuti, bonifica siti contaminati e servizi pubblici ambientali della Regione, “bensì una precisa sollecitazione dei rappresentanti delle associazioni d’impresa che, sulla base della loro conoscenza della disponibilità in regione di sottoprodotti di varia natura e della necessità di inserirli nell’Elenco per sottrarli al destino di rifiuti da smaltire, sono stati determinanti nell’individuazione delle filiere da certificare”. I processi produttivi da certificare vengono, infatti, selezionati dal coordinamento permanente per i sottoprodotti composto da Confindustria, Coldiretti, Tavolo Regionale dell’Imprenditoria (il cosiddetto Tri di cui fanno parte, tra gli altri, Cna, Confcommercio, LegaCoop, Confcooperative), Regione e Arpae (l’Agenzia per l’ambiente e l’energia). Si tratta di uno specifico tavolo di concertazione attivato in attuazione della legge regionale 16 sull’economia circolare del settembre 2015 con il compito di definire buone pratiche tecniche e gestionali che, nel rispetto delle normative nazionali vigenti in materia di rifiuti, possano consentire alle imprese di individuare determinati sottoprodotti nell’ambito dei diversi cicli produttivi. Coerentemente all’obiettivo prioritario della legge, ovvero la prevenzione della produzione dei rifiuti, il vantaggio è duplice: da un lato per le aziende che possono collocare i sottoprodotti sul mercato evitando l’onere economico di smaltirli come rifiuti; dall’altro per le imprese che possono avvalersene come materie prime secondarie o biocombustibili.
È chiaro che qualora un controllo operato da un’autorità terza evidenziasse delle irregolarità, scatterebbero le normali sanzioni di legge. “Il procedimento che abbiamo introdotto non ha la presunzione di essere esaustivo, per cui ci possono essere sottoprodotti che non sono registrati nell’Elenco regionale” puntualizza Govoni. “Diciamo che quelli iscritti godono di una sorta di validazione pubblica del rispetto dei requisiti di legge, che pertanto ne facilita il trattamento dando una certa tranquillità agli imprenditori della filiera di riferimento” sottolinea. “La premessa normativa nel cui contesto si iscrive l’istituzione dell’Elenco regionale dei sottoprodotti resta comunque il decreto ministeriale 264 del 13 ottobre 2016”, precisa ancora Govoni. Entrato in vigore il 2 marzo scorso, questo decreto è finalizzato “a favorire e agevolare l’utilizzo come sottoprodotti di sostanze e oggetti che derivano da un processo di produzione e che rispettano specifici criteri, nonché per assicurare maggiore uniformità nell’interpretazione e nell’applicazione della definizione di rifiuto”, precisando “le modalità con le quali il detentore può dimostrare che sono soddisfatte le condizioni generali di sottoprodotto”, quale “residuo di produzione che non costituisce un rifiuto ai sensi dell’articolo 184-bis del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”.
All’Elenco possono iscriversi le imprese regionali il cui processo produttivo e le sostanze o gli oggetti da esso derivanti abbiano i requisiti previsti dalla normativa nazionale vigente per la qualifica di sottoprodotti. L’impresa deve presentare una relazione che illustri le caratteristiche tecniche della sostanza o dell’oggetto e il processo produttivo che lo origina, l’impianto o l’attività di destinazione e le modalità di gestione, al fine di comprovare il rispetto di tutte le condizioni previste dalla normativa (vedi il richiamo all’articolo 184-bis del Dlgs 152 del 2006).
Il decreto 264, inoltre, all’articolo 10 (“Piattaforma di scambio tra domanda e offerta”), affida alle Camere di Commercio il compito di favorire lo scambio e la cessione dei sottoprodotti istituendo un apposito elenco al quale si iscrivono, senza alcun onere, i produttori e gli utilizzatori di sottoprodotti. In questo contesto normativo, che è la “ragione sociale” su cui di fonda l’Elenco, “la Regione fa una cosa diversa e compie un ulteriore passo in avanti”, sottolinea Govoni. Se è la normativa nazionale a fissare i requisiti di legge in base ai quali un derivato dalla produzione può essere classificato come sottoprodotto, “l’Elenco regionale funziona da strumento aggiuntivo finalizzato a promuovere la conoscenza di questa opportunità”. In altre parole, tramite l’attività del coordinamento permanente in cui è rappresentato il mondo dell’imprenditoria regionale da un lato, e l’attività concreta di certificazione dei processi produttivi dei sottoprodotti dall’altro, si sollecita nelle filiere di riferimento la consapevolezza che quelli che potrebbero essere scambiati per rifiuti, se rispettati i requisiti di legge, hanno in realtà lo status legittimo di sottoprodotti.
Per facilitare le iscrizioni online, la Regione ha anche predisposto un applicativo web. Al termine dell’istruttoria tecnica regionale volta a verificare il soddisfacimento di tutti i requisiti di legge, all’impresa viene rilasciato un attestato di iscrizione all’Elenco. Questo documento può essere usato, per esempio, nella fase di trasporto come una sorta di carta di identità che attesta la natura di sottoprodotto del materiale trasportato.
A poche settimane dalla sua attivazione è ovviamente impossibile valutare l’impatto che l’Elenco avrà sulla riduzione della produzione dei rifiuti. Se ne saprà di più in futuro: la Regione Emilia-Romagna ha infatti previsto che entro il 30 giugno di ogni anno le imprese iscritte trasmettano un report con i dati relativi ai sottoprodotti originati dal proprio processo produttivo riferiti all’anno precedente. Il countdown è cominciato.
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materiarinnovabile 16. 2017
Rubriche Il circolo mediatico
Quando gli States invaderanno il Canada Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.
Il mondo in cui viviamo è molto strano: una volta gli autori delle serie televisive dovevano sforzare al massimo la loro fantasia per creare scenari appassionanti o spaventosi. Qualche giorno fa però l’attrice Robin Wright, moglie e rivale del “presidente” Frank J. Underwood in House of Cards, ha dichiarato che Donald J. Trump “ha rubato tutte le idee per la sesta stagione” della serie. E insomma, è difficile negare che di questo passo ci sono rischi concreti che la realtà superi la finzione. Dunque, sembra giusto dedicare questa edizione della rubrica che racconta come l’ambiente e il clima stanno penetrando nell’immaginario collettivo attraverso i media, rispettivamente a un fumetto e a una serie televisiva che di recente hanno prospettato scenari pazzeschi. Ma – forse – neanche così tanto. Il fumetto è We Stand on Guard, scritto da Brian K. Vaughan e disegnato da Steve Skroce. A “stare in guardia” sono i cittadini del Canada, che devono vigilare sulle intenzioni decisamente aggressive del loro gigantesco vicino, gli Usa. La storia è ambientata in un inquietante ma purtroppo plausibile futuro, tra un centinaio di anni: a quanto pare la lotta al riscaldamento globale non sembra essere andata benissimo, il clima è cambiato, e nonostante un grande progresso tecnologico gli Stati Uniti sono stati devastati dalla siccità. A Salt Lake City, Utah, quotidianamente ci sono scontri tra polizia e i dimostranti davanti ai centri federali dove viene distribuita l’acqua potabile, e il verdissimo Nordest degli States è diventato una specie di deserto. Vaughan è americano, e conosce il “vizietto” dei suoi compatrioti: se serve qualcosa di importante bisogna prenderselo, con le buone o con le cattive, senza farsi troppi scrupoli. E nel mondo riarso del 2112 c’è un posto che di acqua ne ha ancora tanta. Un paese pacifico poco armato e molto vicino: il Canada. Gli americani così prima trovano una scusa – un attentato che fa saltare in aria la Casa Bianca, primo passo di una teorica intenzione canadese di attaccare gli Usa – poi lanciano una armada volante che distrugge le principali città del Canada. Segue uno strapotente esercito di mekka-robot che assomigliano agli AT-AT imperiali accompagnati da marines digitalizzati dotati di esoscheletri. Una volta annientata ogni resistenza e imprigionati i pochi civili rimasti vivi, ecco arrivare in volo immani pompe-serbatoio volanti a stelle e strisce, incaricate di aspirare l’acqua dei preziosi
laghi del Grande Nord canadese, per farli bere agli assetati americani, discendenti di generazioni di statunitensi che hanno ignorato il climate change condannando il loro paese e il pianeta tutto a un disastro ecologico. A contrastare il Leviatano, c’è solo un pugno di guerriglieri pronti a tutto per respingere l’arrogante invasore. E qui ci fermiamo: per i nostri lettori che fossero interessati non vogliamo spoilerare gli eventi di We Stand on Guard, che – garantiamo – è un albo divertente, pieno di colpi di scena e con un finale sorprendente. Nel fumetto il “cattivo” erano gli Stati Uniti, sia pure tra cento anni. Nella serie tv andata in onda con enorme successo in Norvegia, Okkupert (cioè “Occupati”, nel senso di invasi), si torna a scenari contemporanei. E si ritorna anche a proporre un “cattivo” più tradizionale, ovvero la Grande Madre Russia di Vladimir Putin. Una Russia che – dopo la decisione della Norvegia di sospendere la sua produzione di idrocarburi – su richiesta di una cattivissima Unione europea invade il pacifico paese scandinavo. La serie – la più costosa produzione cine-televisiva della Norvegia – ha spopolato e già si sta lavorando alla seconda stagione. Ecco la storia. Dopo un devastante uragano provocato dal cambiamento climatico che colpisce le coste norvegesi, le elezioni vengono vinte dal partito ecologista. Nel frattempo, gli scienziati norvegesi mettono a punto delle nuove centrali nucleari superpulite alimentate dal torio. Il nuovo premier ecologista decide una mossa a sorpresa: chiudere i rubinetti della produzione di petrolio e gas naturale, e condividere con il mondo la miracolosa invenzione dell’energia pulita. Una mossa apparentemente buonissima, che però porta lo sconquasso sui mercati internazionali, facendo infuriare i colossi della finanza, dell’energia, e i leader di Francia e Germania e l’Unione europea tutta, travolta da una crisi energetica. Il premier norvegese non capisce di essersi messo in un grande pasticcio planetario, tanto più che alla presidenza degli Usa è salito un politico isolazionista (eh beh...). E così, al termine della conferenza stampa in cui aveva annunciato la sua decisione super green, viene rapito da un commando inviato da Mosca e liberato a condizione che ripristini le vecchie politiche energetiche accettando il diktat dell’Unione europea. Insomma: il mondo è strano. È pericoloso. E il cambiamento climatico lo renderà più agitato.
Rubriche
Pillole di innovazione
Le cose difficili da dire Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.
Progetto Crew, www.progettocrew.it
Ho partecipato a una esperienza di coprogettazione, lavorando con colleghi che ne erano responsabili per gli aspetti di comunicazione interna ed esterna. Un progetto finanziato da Fondazione Cariplo: Crew. L’obiettivo: studiare degli strumenti per la disabilità e farlo mettendo insieme tutti i soggetti che hanno a che vedere con ogni singolo progetto. Ricercatori e ricercatrici, persone disabili, le loro associazioni, stakeholder come, in alcuni casi, gli insegnanti; decisori pubblici di istituzioni sanitarie. Ogni gruppo si è quindi messo al lavoro incrociando tutte le competenze fin dal primo minuto. L’approccio della coprogettazione cambia i risultati. È un approccio per nulla diffuso, ma che sta crescendo. C’è una sua versione spuria, che si potrebbe definire di “apertura” verso gli utilizzatori, che sono naturalmente i soggetti centrali per l’obiettivo finale. Nel nostro progetto erano i disabili. Spuria significa questo: c’è un team di ricerca che lavora sugli strumenti da produrre, che ha certamente una sensibilità verso gli utenti e quindi li convoca ogni tanto, diciamo così, per verificare le proprie proposte. È una modalità che può produrre risultati dignitosi, ma le manca un fattore che può moltiplicare l’efficacia complessiva: l’empatia che può emergere da una frequentazione costante, fin dall’inizio, una empatia che genera qualità tecnica del prodotto finale. Il motivo è semplice: una persona disabile racconta solo una parte dei suoi pensieri e delle sue emozioni. È una storia lunga, segnata da mille condizioni al contorno, carica di vecchie immagini e pesi che giungono da lontano. Mancano definizioni soddisfacenti ma quella che, grezzamente, si avvicina, è un sentimento di vergogna. Viviamo in un’epoca che senza dubbio presta molta più attenzione di una volta ai diversamente abili. Se andate su Teche Rai, il grande archivio delle trasmissioni televisive delle reti nazionali andate in onda dai primi anni ’50 del secolo scorso, troverete delle sequenze di show dove Adriano Celentano imita uno sciancato che cammina e tutti ridono. Abbiamo avuto comici di grande successo famosi per un loro personaggio balbuziente. Non parliamo della presenza di gobbi in un numero sterminato di film. Oppure di “scemi del villaggio” presi a sberle da cosiddetti normo dotati. Ma lo scenario è molto
ampio e diversificato, declinandosi in piedi piatti, gambe storte. Uno scenario infinito. Le cose sono molto cambiate. Sotto, in profondità, c’è tuttavia ancora un segno forte. Le cose difficili da dire, c’è scritto nel titolo. Uno dei progetti su cui ha fatto ricerca uno dei gruppi di progettazione è uno strumento di galleggiamento per consentire a persone con rilevanti disabilità motorie di andare in piscina. Per un uomo o una donna che passa la vita con grandi problemi nella movimentazione del proprio corpo, galleggiare è una condizione di grande piacere. La gravità è il fenomeno fisico più aggressivo nei confronti delle difficoltà motorie. Muoversi in acqua, però, si porta appresso un possibile sgradevolissimo evento per i disabili: il controllo spesso molto o del tutto carente sulle proprie deiezioni. E una piscina inquinata va svuotata, pulita, e nuovamente riempita, per legge. In un clima di confronto aperto, ravvicinato, sereno, questi problemi emergono. E si può lavorare con molte precisione sulla loro soluzione. Tutto ciò, a guardar bene, descrive uno strumento di conoscenza che è ben lontano dall’essere molto difficile da praticare. Voglio dire che un acceleratore di particelle è una “macchina” che ha richiesto 2.500 anni di strati successivi di conoscenze e di tecnologie prima di presentarsi come uno straordinario strumento di conoscenza. Invece, il prendere in considerazione che un “habitat” umano confortevole, sensibile, tendenzialmente poco competitivo – se si accetta di coprogettare è evidente che bisogna ridurre la rigidità dei propri punti di vista – ecco, è un potenziale evidente, dietro l’angolo, ma ancora ben poco praticato. Attenzione: qui l’aspetto centrale non è che la coprogettazione è una cosa bella, umanamente. Di questo ne parliamo un’altra volta. Il fatto è che funziona di più.
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