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RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE 18 | settembre-ottobre 2017 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente
Michael Braungart: non basta essere neutrali •• La nuova economia secondo Tim Jackson •• Rimettere in circolo Madrid e Barcellona
Dossier bioeconomia/Svezia: il futuro rinnovabile è già qui •• I cavalli preferiscono la gomma •• Giacimenti tessili in cerca d’autore •• Circle economy, mettere in moto la valanga
Focus: un viaggio nella materia riciclata •• Così ti trasformo i rifiuti in oro •• Nuove declinazioni •• Cominciamo a rigenerare le città •• La cura degli inerti
Dal micro al macro •• La seconda vita dell’Expo
Riapriamo VecchiE FABBRICHE con una nuova chiave: La bioeconomia. Siamo l’azienda leader a livello internazionale nel settore delle bioplastiche e nello sviluppo di bioprodotti, ottenuti grazie all’integrazione di chimica, ambiente e agricoltura. Uno dei nostri principali traguardi è la rigenerazione del territorio. Obiettivo che perseguiamo trasformando siti industriali e di ricerca non più competitivi o dismessi in vere e proprie infrastrutture della bioeconomia, generando nuovo valore e posti di lavoro.
Impianto Mater-Biotech per la produzione di biobutandiolo, risultato della riconversione di un sito industriale dismesso ad Adria (RO).
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Stampato su Crush, carte ecologiche di Favini realizzate con sottoprodotti di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero: copertina Crush Mais 250 g/m2, interno Crush Mais 120 g/m2. www.favini.com
Eventi
Editoriale
Rimettere in circolo Madrid e Barcellona di Antonio Cianciullo
M. Bonaccorso, “Ambizione sostenibile. Dossier Spagna”, Materia Rinnovabile n. 15, marzo-aprile 2017; www.materiarinnovabile. it/art/306/Ambizione_ sostenibile
Mentre questo numero di Materia Rinnovabile va in chiusura, sale l’allarme per la contrapposizione tra Barcellona e Madrid. Qualcuno potrebbe dire: ma perché dedicare l’editoriale di un magazine sull’economia circolare a un evento politico? Sembra una vicenda estranea ai temi di cui ci occupiamo; che oltretutto fa seguito ad altri casi di contrasto tra spinte autonomiste e governi centrali. Perché parlarne? Penso che sia il caso di farlo per vari motivi. Innanzitutto quello che colpisce è il livello di maturità delle società di cui stiamo parlando. La Catalogna è una bandiera storica dell’apertura culturale, tecnologica, politica. Un’area che ha legami profondi con l’Italia, come si percepisce immediatamente ascoltando il catalano. Una regione che ha dimostrato nella giornata del referendum di saper usare con sapienza le tecniche della non violenza (sperando che questa affermazione resti valida nelle prossime settimane e nei prossimi mesi). D’altra parte la Spagna nel suo complesso è un corpo sociale che va oltre le rigidità dimostrate dal governo centrale rifiutando una trattativa sul livello di autonomia della regione che, con ogni probabilità, avrebbe disinnescato il problema. E sono anche evidenti le preoccupazioni per una possibile disgregazione di un paese con una storia così lunga e tormentata. Un atto unilaterale della Catalogna può diventare un sasso nel meccanismo che tiene in piedi non solo la Spagna, ma l’Unione europea. Ma anche un atto unilaterale della Spagna è un sasso nel meccanismo della convivenza fra tradizioni almeno in parte diverse. La contrapposizione frontale che si è creata sembra destinata a creare un indebolimento di tutte le parti. Le scene di violenza della Guardia Civil nei confronti di cittadini anziani che volevano votare al referendum non hanno giovato all’immagine della Spagna. E la fuga delle banche da Barcellona non ha giovato all’economia catalana. Serve una mediazione: è evidente. Ma l’Unione europea è un club di Stati che ha difficoltà ad assumere questo ruolo. Le istituzioni non sembrano offrire in questo momento
(la situazione è in veloce evoluzione ed è possibile che tra la chiusura in tipografia e il momento in cui leggerete questo articolo il quadro sia cambiato) la necessaria spinta verso la ragionevolezza. E fin qui siamo a un’analisi largamente condivisa ma insufficiente perché non mette a fuoco le motivazioni che possono permettere di superare la contrapposizione. Cosa si potrebbe mettere in campo? Una ricucitura per esempio potrebbe venire dall’emergere di un punto di vista più ampio che metta al centro gli interessi sociali, economici e ambientali di un’area larga. Non restare nella contrapposizione ma spostarsi di lato, puntare a un salto come quello che Michael Braungart, uno dei padri dell’economia circolare, propone in queste pagine per l’economia circolare: passare da una prospettiva di riduzione dei danni a una prospettiva di incremento dei benefici: “Per prima cosa bisogna cambiare l’assetto mentale di partenza e considerare gli esseri umani come un’opportunità per il pianeta [...] Siamo troppi sulla Terra perché possa bastare ridurre i danni”. Dunque non limitarsi a un armistizio, ma porre l’attenzione sui vantaggi che vengono da fattori che scavalcano i confini. Crisi economica e squilibri sociali spingono verso chiusure, muri, identità contrapposte; mentre prospettive di crescita con benefici distribuiti rafforzano la tendenza a includere nuovi partner. Solo una crescita ambientalmente e socialmente sostenibile ha possibilità di durare nel tempo e allargarsi nello spazio. “In un paese dove la disoccupazione è al 18,4% la bioeconomia rappresenta una grande opportunità per conciliare crescita, creazione di posti di lavoro qualificati e sostenibilità ambientale”, scrivevamo nel numero del marzo scorso, nel dossier Spagna curato da Mario Bonaccorso. Uno sviluppo a misura d’ambiente viaggia lungo direttrici che scavalcano i confini politici: segue gli scambi di materia, di energia, di opportunità, di intelligenza, non li ingabbia in rigide caselle geografiche. È una prospettiva che può aiutare a sciogliere in una serie di identità concentriche la contrapposizione tra nazionalismi. Una nuova prospettiva per il Vecchio Continente.
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18|settembre-ottobre 2017 Sommario
MATERIA RINNOVABILE
Hanno collaborato a questo numero Elettra Agliardi, Matthieu Bardout, Diego Barsotti, Felipe Bastarrica, Francesca Bellaera, Andreas Birmoser, Emanuele Bompan, Mario Bonaccorso, Luigi Bosio, Michael Braungart, Rudi Bressa, Guglielmo Carra, Marino Cavallo, Roberto Cavallo, Carlo Cerruti, Daniele Cencioni, Marco Codognola, Giovanni Corbetta, Luca D’Ammando, Giuliana Da Villa, Alessandro Fabbrini, Simona Faccioli, Sergio Ferraris, Roberto Giovannini, Cristina Govoni, Tuomas Hyyryläinen, Rocco Andrea Iascone, Irene Ivoi, Tim Jackson, Tai Lee Siang, Serena Majetta, Luca Mattoni, Fabio Menghetti, Achille Monegato, Carlo Montalbetti, Sara Nicosia, Christophe Pautrat, Andrea Pavan, Carlo Pesso, Francesco Petrucci, Federico Pinato, Lena Pripp- Kovac, Weronika Rehnby, Emanuela Rosio, Felicia Reuterswärd, Fabrizio Rueca, Jan Patrick Schulz, Stefano Stellini, Karl-Henrik Sundström, Antonella Ilaria Totaro, Tim Weekes, Silvia Zamboni, Barbara Zancarli, Gloria Zavatta, Linda Zellner
Rimettere in circolo Madrid e Barcellona
Rudi Bressa
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La nuova economia secondo Tim Jackson Intervista a Tim Jackson
Silvia Zamboni
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Case come alberi, città come foreste Intervista a Michael Braungart
Mario Bonaccorso
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Dossier Svezia Il futuro rinnovabile è già qui
Matthieu Bardout
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La forza della valanga
Emanuele Bompan
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Silvia Zamboni
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Focus edilizia Sisma 2012: il modello Emilia-Romagna
Luca D’Ammando
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Focus edilizia La cura degli inerti
Guglielmo Carra
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Focus edilizia Perché è un modello da seguire
Policy
Direttore editoriale Marco Moro
Think Tank
www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Antonio Cianciullo
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Antonio Cianciullo
RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE
Focus edilizia Il rivoluzionario della costruzione venuto da Singapore Intervista a Tai Lee Siang
Caporedattore Maria Pia Terrosi Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi Design & Art Direction Mauro Panzeri
Case Studies
Ringraziamenti Katie Hans, Nick Purser, Arianna Tonelli
Impaginazione e infografiche Michela Lazzaroni Traduzioni Erminio Cella, Franco Lombini, Mario Tadiello
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Coordinamento generale Anna Re
D. Z.
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I cavalli preferiscono la gomma
Responsabile relazioni esterne Anna Re Responsabile relazioni internazionali Federico Manca
Antonella Ilaria Totaro
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Meglio riciclare che estrarre
Carlo Pesso
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Far circolare idee e know-how
Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333
Case Studies
Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it
Sergio Ferraris
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Focus qualità del riciclo Rifiuti eccellenti
Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers
Irene Ivoi
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Giacimenti tessili in cerca d’autore
Gloria Zavatta
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La seconda vita dell’Expo
Emanuela Rosio
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La circolarità viaggia su due ruote
Elettra Agliardi, Marino Cavallo e Daniele Cencioni
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* dai nostri partner * Nuove declinazioni
Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright ©Edizioni Ambiente 2017 Tutti i diritti riservati
Rubriche
In copertina Andrea Ferrarini, Luca Franchi, Marco Galimberti Lo spazio sensoriale, maquette in cemento (elaborazione fotografica di Panma Bolec)
Francesco Petrucci
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Circular by law A Bruxelles battaglia sull’efficienza
Roberto Giovannini
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Il circolo mediatico Micro e macro
Laboratorio Progettazione Architettonica 2 - A.A 2015-2016 Prof. Lorenzo Consalez, Prof. Sergio Sabbadini, Prof. Roberto Fedele Facoltà di Architettura e Società, Politecnico di Milano
Think Tank
LA NUOVA ECONOMIA
secondo Tim Jackson A distanza di sette anni dalla prima edizione esce una nuova versione del libro che rimette in discussione il mito della crescita. E spiega perché “l’attuale modello non sta migliorando la vita delle persone”. Intervista di Rudi Bressa
Direttore del Centre for the Understanding of Sustainable Prosperity (Cusp), Tim Jackson insegna Sviluppo sostenibile all’Università di Surrey. Alla ricerca scientifica affianca l’attività di drammaturgo, per la quale ha ricevuto numerosi premi.
Centre for the Understanding of Sustainable Prosperity www.cusp.ac.uk
Nato come rapporto per il governo inglese nel 2009, Prosperità senza crescita ritorna nelle librerie con una nuova edizione, completamente rivista. In questo volume Tim Jackson, docente di Sviluppo sostenibile all’Università del Surrey, affronta in maniera estremamente lucida un tema che non può più essere rimandato: creare prosperità per il genere umano, senza dilapidare ulteriormente le risorse planetarie e appianando le disuguaglianze sociali. Ovvero un’idea alternativa di economia, oggi ancora basata sulla crescita infinita. Secondo Jackson, infatti, è possibile pensare a un modello economico che vada al di là della crescita esponenziale e che sia capace di rivedere il concetto stesso di prosperità, condivisa e intrisa di speranza. Un mondo in equilibrio col pianeta e capace di creare un benessere diffuso. In questi giorni lei presenta la seconda edizione del suo libro. Ma la prima edizione nel 2010 nasce da un fatto perlomeno curioso. Quale? “Questo libro nasce da un rapporto commissionato dal governo britannico. Si trattò di una consulenza che feci sulla sostenibilità
per una commissione governativa. L’idea era quella di rivisitare l’idea di crescita economica, in particolare del conflitto tra la crescita infinita e l’ambiente. Un concetto già espresso nel ‘Rapporto sui limiti dello sviluppo’ redatto dal Club di Roma negli anni ’70. Prosperità senza crescita cercò di affrontare queste tematiche. Mentre lo stavo scrivendo la crisi finanziaria iniziò a farsi sentire. La cosa interessante è che il rapporto uscì durante il G20 che si tenne a Londra nel 2009, quando i Grandi della Terra si riunirono proprio per far ripartire l’economia. Come racconto anche nel libro, al governo il rapporto non piacque, lo stesso primo ministro Gordon Brown ne fu molto dispiaciuto. La stampa inoltre non ne parlò. Poi pian piano il rapporto divenne molto popolare, tanto che diventò un libro pubblicato in 17 diverse lingue, tra cui anche l’italiano.” Il libro suscitò molto interesse. Probabilmente perché anche le persone cominciarono a chiedersi come evitare che una crisi di questa portata potesse accadere di nuovo. È così? “La crisi economica ha avuto un profondo
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materiarinnovabile 18. 2017 Tim Jackson, Prosperità senza crescita. I fondamenti dell’economia di domani, Edizioni Ambiente 2017; www.edizioniambiente. it/libri/1182/prosperitasenza-crescita
La rottura era già nell’aria ancora prima della crisi finanziaria. Il modello stava già cadendo a pezzi: l’idea di un’economia che promuove sempre più i consumi, se necessario creando sempre più debito, non funziona.
impatto su come pensavamo l’economia e la politica. Ha portato alla luce le disuguaglianze, le profonde differenze tra i più ricchi e i più poveri. Ciò che è interessante è che tutto questo è arrivato in un momento durante il quale tutto il mondo doveva decidere di agire nei confronti del cambiamento climatico. Nel 2009 alla Conferenza sul clima di Copenaghen ci si era prefissati dei target specifici, in particolare per le nazioni sviluppate. È stato chiaro che se volevamo affrontare il cambiamento climatico avremmo avuto bisogno di investimenti. Ma per avere investimenti avremmo dovuto avere istituzioni finanziarie in salute. E questa era l’ultima cosa che avevamo. Cosa che sta continuando anche oggi. Certo ora abbiamo una finanza più stabile, banche più forti, ma continuiamo a non aver sufficienti investimenti nelle tecnologie per affrontare i cambiamenti climatici, anche nove anni dopo la crisi. Ed è questo che mi ha spinto a fare una revisione del primo libro.” La crisi finanziaria, l’austerity, le difficili condizioni economiche di alcune nazioni dell’Europa. D’altra parte abbiamo invece la crescita di economie come Cina e India. Cosa è cambiato in così pochi anni? Cosa ci dobbiamo aspettare? “Molte cose sono cambiate. Viviamo in un mondo completamente diverso. La rottura era già nell’aria ancora prima della crisi finanziaria. Il modello stava già cadendo a pezzi: l’idea di un’economia che promuove sempre più i consumi, se necessario creando sempre più debito, non funziona. Era già in difficoltà nel 2006. Quando arrivò la crisi finanziaria, secondo me abbiamo avuto una visione naif di quelle
che sarebbero state le implicazioni. Sembrava che tutto potesse tornare come prima. Ma il modello non funziona: crea disuguaglianze, crea problemi ambientali, crea un sistema finanziario instabile. Non sta migliorando la vita delle persone, rendendole più felici. Anzi le sta rendendo infelici. Pensiamo all’aumento delle malattie legate agli stili di vita, come l’obesità. Sono prodotti di un modello che non funziona più. E non possiamo risolvere questi problemi solo con la tecnologia, o con l’austerità, che è stato un esperimento orribile. L’austerità ha lasciato indietro milioni di persone. E ciò ha fatto crescere i movimenti populisti, sia a destra sia a sinistra, che rivendicano una sorta di speranza per il futuro, in qualsiasi modo. Se necessario anche uscendo dall’Europa, come accaduto in Gran Bretagna. Questo è periodo straordinario della storia perché l’intero consenso nei confronti del capitalismo e della democrazia sta crollando. Certo abbiamo la tecnologia, l’economia circolare, le energie rinnovabili. Quale dovrebbe essere quindi l’economia nella quale dobbiamo investire?” Nel frattempo l’1% della popolazione possiede il 50% della ricchezza mondiale. Dovremmo ridistribuire la ricchezza? E come? “Ciò che sta succedendo è che un numero sempre più piccolo di persone possiede la maggior parte degli asset e dei profitti che questi comportano (per asset si intende ogni entità materiale o immateriale suscettibile di valutazione economica di proprietà di un’azienda, ndr). Nel frattempo la vita lavorativa delle persone diventa sempre più insicura. Il lavoro retribuito è un costo. Ciò che il capitalismo fa è di ampliare sempre più questa differenza, piuttosto che ridurla, a meno che non vengano ridistribuiti i guadagni e gli asset. E per fare ciò ci sono tre modi. Uno è quello di aumentare la tassazione nei confronti della parte più ricca della popolazione. Ma questa soluzione è come mettere un cerotto quando si sta grondando sangue. Potrebbe funzionare, ma non cambierebbe necessariamente le disuguaglianze nel possesso degli asset. Ci sono poi altri sistemi, ne esistono degli ottimi esempi. Per esempio far partecipare i lavoratori al capitale aziendale: in questo caso la proprietà dell’impresa è in mano ai lavoratori, ed è così possibile ridistribuire la proprietà dei beni e dei capitali. La terza possibilità è la protezione del lavoro salariato: se rallentassimo leggermente la sostituzione del lavoro con la tecnologia e proteggessimo il lavoro salariato, automaticamente potremmo ridistribuire la ricchezza, perché ridurremmo la differenza tra salario e profitto.” Il mondo accademico è concorde nell’affermare che una crescita infinita in un mondo finito è praticamente impossibile. Perché la politica e parte del mondo
Think Tank
Rudi Bressa, giornalista ambientale e naturalista, si occupa di rinnovabili, economia circolare e sostenibilità.
economico faticano ad accettare questo concetto, così chiaro agli ecologi? “Perché abbiamo un modello basato sulla crescita. Pensiamoci un attimo. Da una parte sappiamo di vivere in un mondo dalle risorse definite, dall’altra abbiamo un sistema economico che ci dice che più consumiamo, meglio è. Gli ecologi ci dicono che non possiamo espanderci oltre al nostro pianeta, mentre gli economisti rispondono che la tecnologia potrà rendere efficienti tutti i processi, impiegando meno risorse. È il cosiddetto decoupling (disaccoppiamento), ovvero il trucco magico con il quale potremmo realizzare qualsiasi bene o servizio in maniera più efficiente. Ma quanto è realistica questa idea? Quanto velocemente dobbiamo sviluppare nuova tecnologia perché questo trucco magico funzioni? Abbiamo degli obiettivi climatici chiari, sappiamo quanta CO2 possiamo emettere, sappiamo quanto potrà ancora crescere l’economia. Quale dovrebbe essere dunque l’efficienza tecnologica e quanto può ancora crescere? Certo negli anni c’è stato un aumento dell’efficienza, ma ciò che stiamo vedendo ora è che il consumo di risorse non diminuisce quanto si era previsto. Negli ultimi anni le emissioni si sono sì stabilizzate, ma non ridotte. Tutto questo indica che il decoupling non è sufficiente e non sta funzionando.” Cosa pensa del concetto di economia circolare? Può dare nuova linfa alla crescita? “L’economia circolare è un’idea fantastica, come il pensiero di rendere tutto il sistema economico più efficiente, ma non è sufficiente. E non affronta il problema centrale dell’economia. Se pensiamo che l’economia circolare possa dare nuova linfa alla crescita economica, rendiamo tutto più difficile. Cioè se vogliamo che l’economia cresca sempre più velocemente, dovrà diventare sempre più circolare, più efficiente. E questo è estremamente difficile. Ciò di cui abbiamo bisogno è un altro tipo di economia. Dobbiamo rivedere i concetti di impresa, di lavoro, di investimento, di denaro. Da un punto di vista meramente capitalistico, l’impresa non è altro che un processo per massimizzare i profitti, per estrarre materie prime il più velocemente possibile, trasformarle e venderle al prezzo maggiore possibile, per poi buttarle via. Ma questa è un’idea sbagliata di ciò che dovrebbe essere l’impresa, che dovrebbe invece provvedere a fornirci ciò di cui abbiamo bisogno per raggiungere una qualità migliore di vita. Ecco perché dobbiamo ripensare il modello di impresa. Vogliamo un’impresa che continui a produrre secondo il modello lineare? No, vogliamo produca in maniera più circolare. Vogliamo che fornisca sempre più prodotti? No, vogliamo dare alle persone una migliore qualità di vita: quindi assistenza sanitaria e sociale, educazione, conservazione degli ecosistemi, riqualificazione urbana. Ovvero
degli investimenti nella società, nella cultura, nelle capacità delle persone di convivere. Si tratta di un compito estremamente specifico. Dovremmo iniziare a pensare, piuttosto che a un sistema di produzione di massa, a uno in grado di fornire prodotti e servizi di cui le persone abbiano realmente bisogno a livello locale, per incrementare la loro qualità di vita. Si tratta di una questione estremamente interessante, perché si collega al tema degli ‘asset bloccati’. Si tratta di un termine finanziario che parte dall’assunto che, se vogliamo affrontare il problema dei cambiamenti climatici, non possiamo continuare a utilizzare le fonti fossili. Ciò significa che continuare a investire nelle esplorazioni petrolifere, creerà nel tempo degli investimenti ‘bloccati’, ovvero investimenti che rischiano di diventare privi di valore nell’immediato futuro. Se vogliamo raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio, per quanto ancora saranno possibili questi investimenti, ancora 20 anni? Mentre gli investimenti pensati per migliorare la società avranno certo un minor margine di profitto, ma dureranno per sempre.” Recenti studi scientifici hanno dimostrato come solo 90 grandi compagnie siano responsabili del 70% delle emissioni di CO2. Gruppi potenti, capaci di condizionare l’opinione pubblica e la politica. Perché dovrebbero voler cambiare modello economico? “In particolare per due ragioni. La prima è che se i governi mettono in atto una legislatura pensata per affrontare i cambiamenti climatici, tutti gli ‘asset bloccati’ o ‘incagliati’, per i successivi 20-30 anni non sarebbero più buoni investimenti. E questo dimostra la battaglia in corso tra la politica e le persone comuni per affrontare i cambiamenti climatici. L’esempio interessante è quello della Norvegia, che ha disinvestito tutti gli asset basati sul carbone dal fondo sovrano. E questo è un messaggio potente per queste compagnie: ‘Il futuro è leggermente diverso da come ve lo aspettate’. L’altro motivo è che il mondo creato finora è un mondo nel quale l’instabilità sociale è il problema maggiore che la politica si trovi ad affrontare. E questo fa avanzare i movimenti populisti, più difficili da controllare e capaci di destabilizzare la politica. Governi così orientati non investirebbero più nell’industria dei combustibili fossili, perché impegnati ad affrontare disordini e problemi sociali. Sono convinto che almeno una piccola parte di questi grandi gruppi si stia rendendo conto che l’instabilità sociale e politica sia in grado di danneggiare il loro successo economico.”
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materiarinnovabile 18. 2017
Case come alberi, città come foreste Intervista a Michael Braungart
Non possiamo accontentarci di essere climate neutral, dobbiamo diventare climate positive. E imparare a fare bene al pianeta prendendo esempio dagli alberi.
Pinus Sylvestris Fastigiata, George Nicholson, Illustrated Dictionary of Gardening – A Practical and Scientific Encyclopaedia of Horticulture, circa 1885
di Silvia Zamboni
E. Bompan, “Al di là del riciclo. Intervista a William McDonough”, Materia rinnovabile n. 6-7, ottobre dicembre 2015; www.materiarinnovabile. it/art/125/Al_di_la_del_ riciclo
Basta guardare come funziona un albero, come supporta la vita di oltre 200 diverse specie viventi, come pulisce il suolo, come disinquina l’aria, come cambia i colori a seconda delle stagioni, come si riproduce e sostiene la propria esistenza.
Michael Braungart, una laurea in chimica, nel 1987 ha fondato Epea, l’Environmental Protection and Encouragement Agency con sede ad Amburgo, di cui oggi è amministratore delegato. Da oltre vent’anni il suo nome e quello dello statunitense William McDonough sono legati all’innovativo design concept “Cradle to Cradle”, “dalla culla alla culla”. Il loro ultimo libro nella versione tedesca è stato tradotto con Die intelligente Verschwendung. The Upcycle: Auf dem Weg in eine neue Ueberfluss-gesellschaft, ossia “Lo spreco intelligente. The upcycle: verso una nuova società dell’abbondanza”. Si tratta di una pura provocazione oppure sul piano teorico e pratico ci può essere uno spreco intelligente? “Alla base del concetto di ‘intelligente Verschwendung’ c’è la considerazione che disponiamo di una quantità di input energetici superiore di oltre 20.000 volte ai nostri bisogni, ragion per cui possiamo comportarci generosamente nell’impiego di materiali ed energia. A patto però che ciò che produciamo sia concepito per arrecarci benefici anziché limitarsi a ridurre gli impatti negativi, e che sia predisposto al riuso post-consumo dei materiali, invece di diventare un rifiuto. Soddisfatte queste condizioni, alla fine non si spreca nulla”, ci risponde Braungart. “Questo approccio invita a festeggiare la vita, il nostro ruolo di esseri umani e la nostra impronta, invece di sentirci un peso per il pianeta. In questo senso il titolo ha in parte un intento provocatorio verso l’approccio culturale del popolo tedesco orientato prioritariamente a ridurre la pressione sulla Terra. In ogni caso parliamo di spreco intelligente, non di spreco stupido. Niente a che fare con quanto si vede sulle vostre
Think Tank autostrade: colpisce vedere come gli italiani si divertano a gettare i rifiuti fuori dalle loro auto per tenerle pulite all’interno. Il problema è che non si tratta di materiali e beni concepiti per poter essere buttati per strada senza arrecare danni.”
Michael Braungart è ad di Epea, istituto tedesco di ricerche ambientali, culla del modello “Cradle to Cradle”. Con William McDonough è co-fondatore del centro di design chimico Mbdc di Charlottesville (Usa) e co-autore dei volumi Cradle to Cradle e The Upcycle: Beyond Sustainability – Designing for Abundance.
M. Moro, “Non dimenticare la bellezza. Intervista a Stefano Boeri”, Materia Rinnovabile n. 15, marzo-aprile 2017; www.materiarinnovabile. it/art/300/Non_ dimenticare_la_bellezza
Purtroppo lei non è il primo straniero a sottolinearmi questa pessima abitudine di casa nostra. Ma passiamo alla sua affermazione secondo la quale oggi l’inquinamento indoor è superiore a quello outdoor a causa delle polveri sottili e di altri inquinanti che vengono liberati, per esempio, da moquette, carte da parati, stampanti laser. “Si tratta di materiali e beni che non sono pensati per essere impiegati in ambienti chiusi. Inoltre, per isolarli termicamente, oggi si costruiscono edifici sigillati che contribuiscono ad aumentare la concentrazione degli inquinanti indoor: un classico esempio di cose sbagliate fatte perversamente alla perfezione. In Germania il 40% delle case è affetto da muffe, col risultato che si diffondono i casi di asma infantile. Senza contare i danni da esposizione alle polveri sottili e agli idrocarburi policiclici aromatici liberati nell’aria, per esempio, da tappeti e moquette. È mai credibile che basti esporre all’aria per 24 ore un materasso comprato all’Ikea per eliminare tutti i problemi che può generare? Sul mercato, però, sono disponibili innovativi prodotti ‘Cradle to Cradle’, come un letto che abbiamo progettato con una ditta olandese, il primo concepito per essere usato in un ambiente chiuso senza pericoli per la salute.” Per risolvere i problemi di inquinamento indoor lei propone di rovesciare il concetto di passive house (casa energeticamente passiva) in house like a tree (casa come un albero) e passare da sealed buildings (edifici sigillati) a healthy buildings (edifici salubri). Cosa significa concretamente? “Per prima cosa bisogna cambiare l’assetto mentale di partenza e considerare gli esseri umani come un’opportunità per il pianeta. È un approccio completamente diverso e cruciale, perché le religioni, compreso l’Islam, vedono nell’uomo il male che solo Dio può redimere. Di conseguenza, il massimo a cui potremmo aspirare è fare le cose un po’ meno male. Ma siamo troppi sulla Terra perché possa bastare ridurre i danni. Perché, invece, non costruiamo edifici che, al contrario, sostengono la nostra esistenza? Edifici con le caratteristiche positive degli alberi, ovvero in grado di pulire l’aria rimuovendo le polveri sottili e gli altri inquinanti, di filtrare l’acqua
e di essere vantaggiosi anche per le altre specie viventi.” “Edifici come alberi, città come foreste”: è il tema da lei approfondito l’anno scorso alla Biennale di Architettura di Venezia. È una visione senz’altro molto poetica, ma come si traduce in pratica? “In realtà è molto semplice. Basta guardare come funziona un albero, come supporta la vita di oltre 200 diverse specie viventi, come pulisce il suolo, come disinquina l’aria, come cambia i colori a seconda delle stagioni, come si riproduce e sostiene la propria esistenza. Tutte cose che un edifico convenzionale non può fare, per cui, paragonato a un albero, risulta molto più primitivo. Ecco perché esorto a prendere come esempio gli alberi. La domanda giusta da porsi è come si possa generare all’interno degli edifici aria pulita e sana per chi ci abita o lavora. E la risposta a questa domanda è legata all’innovazione tecnologica di qualità. Perché non sfruttare 100 metri quadrati di pavimento di un appartamento coprendolo con una moquette in grado non solo di non diffondere cattivi odori ma anche di ripulire l’aria? È questa l’innovazione che ci serve. Ci sono vernici che non sono anti-microbiche, ma, al contrario, pro-microbiche grazie ai microrganismi attivi che contengono capaci di depurare l’aria divorando gli inquinanti: una performance che solo una ventina di anni fa sembrava pura fantascienza. E proprio grazie all’innovazione tecnologica di qualità, che non origina extra costi, i profitti delle aziende produttrici sono superiori del 20-30% a quelli usuali nel settore. Lo stesso avviene con le imprese che producono materiali isolanti per l’edilizia a base di innocue sostanze organiche: guadagnano di più.” Qualche esempio? “Nel settore delle moquette penso alla Desso, un’azienda che produce moquette modulari con queste caratteristiche. C’è poi una ditta in Svizzera che si sta affermando in particolare sul mercato dei sedili montati sugli aerei grazie all’impiego di materiali che contribuiscono a migliorare la qualità dell’aria indoor, notoriamente piuttosto scarsa nelle cabine. Sono prodotti che stanno agli antipodi rispetto ai tradizionali sofà imbottiti di schiume sintetiche e rivestiti di tessuti talmente intrisi di sostanze tossiche che a fine vita finiscono negli inceneritori. Siamo ormai abituati a produttori che ci informano che i loro prodotti sono ‘liberi da’ (free from) determinate sostanze tossiche, ma non basta: occorre conoscere la qualità e salubrità di tutte le componenti di un prodotto. Da studente mi sono divertito a smontare un televisore: ho così individuato oltre 4.000 componenti chimiche. La domanda è: ci interessa possedere qualche migliaia di diversi composti chimici o vogliamo più semplicemente poter guardare la tv? La risposta a questa domanda ci porta a passare dal concetto di proprietà a quello di servizio e di uso di un bene, come avviene con le merci più innovative. Restando nel settore dell’edilizia, oggi ci
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materiarinnovabile 18. 2017 Silvia Zamboni, giornalista professionista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.
Park 2020, www.park2020.com/en
sono facciate degli edifici di cui si vende l’uso, non la proprietà, una soluzione che per gli utilizzatori finali abbassa i costi di accesso ai beni. Del resto non ci serve possedere la facciata, ma poterla usare. È un’impostazione mentale completamente diversa.” Ci sono già edifici realizzati come alberi e quartieri, se non proprio città, progettati e sviluppati come foreste? E l’ esperienza del milione di alberi piantati a New York tra il 2011 e il 2015 può considerarsi una iniziativa che va nella direzione giusta? “Tra tutte le esperienze realizzate l’esempio più avanzato è quello della città di Venlo, nei Paesi Bassi, dove la qualità dell’aria indoor degli edifici è eccellente e le facciate sono realizzate con materiali che puliscono l’aria. C’è poi il business Park 2020 a Haarlemmermeer, vicino ad Amsterdam, a cui ho lavorato con William McDonough: è un insediamento unico al mondo, ispirato a garantire il benessere delle persone, che combina l’ecodesign con prodotti innovativi certificati ‘Cradle to Cradle’ (C2C). Inoltre, nella città svedese di Ronneby, insieme a un pool di architetti locali ho contribuito a trasformare una vasta area industriale dismessa in un quartiere concepito in base ai criteri C2C, dove tutto, dalle scuole materne in su, è pensato e progettato in termini di positività, di benessere, non di riduzione del danno, di less bad. Quanto all’esperienza di New York, ha avuto di sicuro l’effetto di creare orgoglio di comunità e la soddisfazione di abbellire la propria città. Ma in termini di miglioramento della qualità ambientale l’impatto è insignificante.” Lei esorta a non demonizzare la carbon footprint umana e a passare al concetto di human carbon footprint positiva. Cosa comportano, nella pratica, questo passaggio e la sostituzione dell’approccio carbon neutral con quello carbon positive? “Carbon neutral è un concetto abbastanza assurdo: solo al prezzo di non esistere possiamo essere carbon neutral. Prendiamo di nuovo come riferimento gli alberi: non sono carbon neutral, ma carbon positive; non sono climate neutral, bensì climate positive. Perché non cerchiamo anche noi di fare del bene all’ambiente e al clima estraendo carbonio dall’atmosfera? Oggi invece succede il contrario: enormi estensioni di terre fertili sono impiegate per la coltivazione di biocombustibili. E ogni anno consumiamo inaudite quantità di suolo, che invece è un eccellente sequestratore di carbonio. Solo rigenerare il suolo ha un effetto benefico, solo fissare il carbonio nel suolo è carbon positive. Grazie all’immensa quantità di input energetici di cui disponiamo, potremmo agire positivamente per catturare la CO2 presente in atmosfera e, con l’ausilio dell’energia solare, trasformarla in metanolo, da impiegare come carburante. E dal momento che la CO2 verrebbe sottoposta a un processo di trasformazione, non sarebbe più dispersa in atmosfera. Questo significa
essere carbon positive: ridurre permanentemente la concentrazione della CO2 in atmosfera. In altri termini, dobbiamo fare la cosa giusta, non la cosa meno sbagliata, e sentirci in partnership con il mondo naturale, non in colpa.” Perché ritiene sbagliato l’approccio “Zero Waste”, un must consolidato nell’ambito dell’economia circolare convenzionalmente intesa? “Minimizzare i danni e la quantità di rifiuti che produciamo non serve a proteggere attivamente, positivamente, l’ambiente: tutt’al più ci aiuta a tagliare la nostra bolletta energetica. Che senso ha definire la sostenibilità, come si legge nel Rapporto Brundtland, come la via per soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere il soddisfacimento dei bisogni di quelle future? Che tristezza! Dobbiamo puntare a fare il bene degli altri esseri umani, dei bambini, dei giovani, che vogliono essere presi sul serio oggi, altro che non vedere compromessi i loro bisogni di domani. ‘Zero Waste’ è una prospettiva che sta agli antipodi di ‘Cradle to Cradle’ perché è un approccio all’insegna della negatività e implica il continuare a ragionare in termini di rifiuti. Se io le dicessi: “Non pensi ai coccodrilli rosa”, automaticamente nella sua mente si formerebbe l’immagine di un coccodrillo rosa. Si fabbricano mattoni che al loro interno contengono ceneri tossiche da riciclo e si parla di economia circolare! L’approccio ‘Cradle to Cradle’ elimina il concetto stesso di rifiuto: solo gli esseri umani producono rifiuti, nessun altra specie vivente lo fa, perché in natura tutto si trasforma in nutrienti utili alla vita di altre specie. Se un prodotto è dannoso per la salute o dopo l’uso diventa un rifiuto e/o non può essere smontato per recuperarne le varie componenti, vuol dire che all’origine c’è un deficit di innovazione e di qualità: non c’entrano l’etica e la responsabilità verso l’ambiente. Analogamente, non dobbiamo vivere per definizione il ruolo di consumatori con perenni sensi di colpa, ma considerarci agenti del cambiamento: una lavatrice che dura trent’anni è un incubo, perché impedisce all’innovazione tecnologica di arrivare sul mercato. Più in generale, ancora una volta si tratta di una questione culturale. In Germania, in Italia, ci si sente colpevoli per i danni arrecati a Madre-Natura, come un bambino che si pente di aver fatto arrabbiare la mamma che invece è tanto buona con lui; e ci si chiede se quello che si fa sia eticamente corretto o meno. In Olanda, invece, dove la metà del paese è sotto il livello del mare e il rischio di inondazioni concreto, l’approccio culturale alla natura non è così romantico. La natura può farci da maestra, non da madre.” Ci sono leve che possono spingere più di altre nella direzione C2C? “La più importante è il public procurement che vale ogni anno miliardi di euro nei bilanci dei Paesi: è cruciale che gli acquisti pubblici favoriscano prodotti C2C, per cui occorre lavorare seriamente per definire linee-guida di public procurement
Think Tank che vadano in questa direzione. Questa leva può anche servire a sostenere l’economia locale. Il secondo fattore fondamentale è prendere sul serio l’economia di mercato e sostenere le opportunità offerte dalla digitalizzazione. Non serve fare la Lca di un prodotto come se dovesse durare in eterno. Dobbiamo invece definire il periodo di usabilità di un bene, e passare dalla vendita, per esempio, di una lavatrice, alla vendita di un determinato numero di cicli di lavaggio. È questa la chiave dell’apprendimento e dell’innovazione. Come ho già detto, lavabiancheria che durano 30 anni bloccano l’avanzata sul mercato dell’innovazione tecnologica.” Non pensa che, in realtà, oggi siamo di fronte al problema di beni progettati per durare pochissimo a causa della cosiddetta obsolescenza programmata? “Il problema si risolve se, come dicevo, si passa dall’acquisto per esempio di una lavatrice, a quello di un determinato numero di cicli di lavaggio, diciamo 3.000. Questo tipo di elettrodomestico di nuova generazione disporrà di un contatore che parte da 5.000 punti: un lavaggio a 90° varrà 3 punti, a 30° ne varrà 1. In questo modo si sarà indotti a lavare alla temperatura più bassa per risparmiare punti e si avrà cura di riempire il cestello, dal momento che si paga in ragione dei cicli di lavaggio effettuati (pay per wash). A questo punto l’obsolescenza programmata non avrà più alcuna rilevanza, perché la lavatrice deve durare per i 3.000 cicli di lavaggio che ho acquistato. Inoltre, estendere la responsabilità sociale d’impresa impedisce alle aziende di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Perché, per esempio, dovremmo occuparci dello smaltimento, a fine vita, dei pannelli solari cinesi? È un problema che deve riguardare semmai i produttori che sanno con quali materiali li hanno fabbricati.”
Che cosa insegna nel corso “Cradle to Cradle for Innovation and Quality” che tiene alla School of Management dell’Erasmus University di Rotterdam? Si tratta dell’unica cattedra esistente nel panorama accademico mondiale? “Ho scelto di insegnare in questo istituto perché è una delle Business School pubbliche più quotate in Europa. Nell’ambito del mio corso cerco in prevalenza di mettere a fuoco la convenienza economica del modello industriale ‘Cradle to Cradle’. Al momento è l’unica cattedra universitaria esistente, ma il design concept ‘Cradle to Cradle’ rientra anche in molti curricula di waste management.” In conclusione, la vision C2C può rischiare, sia pur motivatamente, di alzare l’asticella della sfida all’economia lineare? “Attenzione: non è una vision astratta da archiviare nel cassetto per i prossimi vent’anni, ma l’opposto della filosofia tradizionale del ‘meno peggio’. E per quanto riguarda la portata della sfida, il cambiamento richiede tempo. Ma ce la possiamo fare. Il mio ufficio si trova in un antico edificio, nel centro storico di Amburgo, dove nel 1762 per la prima volta furono proclamati in lingua tedesca i diritti dell’uomo. Tra questa dichiarazione e l’ottenimento nel 1919 del diritto di voto per le donne ci sono voluti più di 150 anni in Germania. L’antesignano di internet è nato nel 1969, molto prima dell’odierna rivoluzione digitale. La tecnologia solare ci ha messo 60 anni per arrivare sul mercato di massa. Il modello ‘Cradle to Cradle’ ha compiuto 25 anni, eppure sono moltissimi i prodotti con questo marchio. Personalmente sono molto ottimista: appena si comprenderà che ‘meno male’ non significa ‘buono’ ma solo ‘meno peggio’, non si potrà che imboccare la strada C2C.”
“Zero Waste” è una prospettiva che sta agli antipodi di “Cradle to Cradle” perché è un approccio all’insegna della negatività e implica il continuare a ragionare in termini di rifiuti.
Cradle to Cradle La rivoluzione industriale dei prodotti certificati “Cradle to Cradle” va a gonfie vele in tanti settori: sono migliaia i prodotti presenti sul mercato con questo marchio. Cinque i fattori valutati nel processo di certificazione: impatto sulla salute dei materiali impiegati distinguendoli tra appartenenti al ciclo biologico o a quello tecnologico; possibilità di riciclo post-consumo in sicurezza dei materiali riconducendoli al ciclo di provenienza; impiego di energie rinnovabili nel processo produttivo e azzeramento delle emissioni di CO2; uso responsabile dell’acqua come bene inalienabile dell’uomo; rispetto dei diritti dei soggetti e dei sistemi naturali coinvolti nella progettazione, uso, gestione post-consumo e riuso dei prodotti. Nel settore edilizio – che la fa da padrone – si trovano facciate e rivestimenti per interni che a fine vita possono tornare al produttore che ne ricaverà altri prodotti; mattoni d’argilla ad alto potenziale di inerzia termica anch’essi riciclabili. Al posto della convenzionale lana di roccia sono disponibili isolanti realizzati con innocui materiali organici non infiammabili.
Nel comparto tessile c’è un tessuto biodegradabile adatto, per esempio, per confezionare indumenti da lavoro ad alta resistenza che dopo 50 lavaggi vengono ritirati dal produttore e riciclati come humus. Ampia anche la scelta tra i prodotti di igiene per il corpo e di cura per i capelli, e per detergenti domestici e detersivi. Non solo. Esistono colori impiegabili in tipografia prevalentemente a base di oli vegetali e biosolventi, e tinture per tessuti ottenute da estratti di foglie di ulivo, utilizzabili anche per la lavorazione del cuoio grezzo. Non manca nemmeno una chitarra costruita sul modello della mitica Fender, ma con materiali certificati C2C. Cinque i gradi di eccellenza crescenti previsti dalla certificazione: basic, bronzo, argento, oro, platino. Finora un unico prodotto si è laureato a pieni voti con il platino: un rivestimento per esterni e interni realizzato in corteccia d’albero rigenerata. www.cradletocradle.com
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Dossier
SVEZIA
In Svezia la bioeconomia rappresenta quasi il 23% delle esportazioni di beni. Ma il paese scandinavo è solo all’inizio della transizione che avverrà puntando su un uso più intelligente di materie prime e riciclo. Così come sulla modifica delle abitudini di consumo e sullo sviluppo di prodotti innovativi. E molti biomateriali sono già entrati in diversi settori industriali: nella carta, nel packaging, nell’arredamento e nella moda.
Policy
Il futuro rinnovabile
È GIÀ QUI
Nel 2014 la bioeconomia in Svezia rappresentava il 7,1% del valore aggiunto totale. Un paese con molte ambizioni alimentate dall’ampia disponibilità di biomassa e dal forte sostegno a ricerca e innovazione. Ma anche dal ruolo delle imprese che hanno capito come lo sviluppo di nuovi materiali sia centrale per il loro business. di Mario Bonaccorso
Bioeconomy in Sweden, www.business-sweden. se/en/Invest/inspiration/ publications/bioeconomyin-sweden
Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista. Lavora per Assobiotec, l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie.
Un paese che ha l’ambizione di avere entro il 2030 una flotta di automobili circolanti non più alimentate da fonti fossili. Un’industria chimica nazionale che – entro lo stesso anno – punta a rendersi totalmente indipendente dal petrolio. Un sistema di impianti per la produzione di cellulosa e carta già oggi al 96% alimentati da fonti biologiche. È facile comprendere perché la Svezia “sta aprendo la strada per un futuro rinnovabile”, come rivendica orgogliosamente il Consiglio svedese per il commercio e gli investimenti nel suo documento Bioeconomy in Sweden. Il paese scandinavo, che ha chiuso il 2016 con una crescita della propria economia del 3,7% e che si trova al sesto posto nel mondo per la competitività, in base al Global Competitiveness Index (Gci) 2016-2017, “ha l’ambizione di essere un attore leader nel cambiamento verso una società con un più ampio uso di materiali rinnovabili”. Un’ambizione legittima, se guardiano quali sono i suoi punti di forza: l’abbondante disponibilità di biomassa, il forte sostegno a ricerca, sviluppo e innovazione, la grande sensibilità ambientalista della popolazione, la presenza di un’industria tecnologicamente avanzata e di un largo numero di imprese multinazionali in diversi settori – come Tetrapak, Ikea, Volvo, Ericsson, H&M, SCA e Sandvik – che considerano centrale per il loro business lo sviluppo di nuovi materiali. Secondo Growth Analysis, un’agenzia governativa controllata dal ministero per l’Impresa e l’Innovazione, nel 2014 la bioeconomia svedese rappresentava il 7,1% del valore aggiunto totale (due terzi dei quali provenienti dal settore forestale), con 350.000 addetti e il 22,9% delle esportazioni totali di beni.
Una strategia che punta sulle risorse rinnovabili La sostituzione delle materie prime fossili con quelle rinnovabili è uno pilastri della strategia svedese sulla bioeconomia commissionata nel settembre 2011 dal governo di Stoccolma al Consiglio nazionale per la ricerca e lo sviluppo sostenibile (Formas), con il supporto dell’Agenzia per l’innovazione (Vinnova) e dell’Agenzia energetica nazionale. Il legno, ovviamente, gioca la parte del leone. “Le condizioni naturali geografiche della Svezia – si legge nella Strategia per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione per un’economia biobased – hanno da sempre significato che i prodotti provenienti dall’agricoltura e dalle foreste, così come dalla pesca, sono stati di grande importanza per lo sviluppo sociale”. Gli altri tre pilastri sono lo sviluppo di prodotti più intelligenti e un uso più intelligente delle materie prime (compresi i sottoprodotti e il riciclo); il cambiamento delle abitudini di consumo e delle attitudini; l’implementazione di nuove politiche che evitino conflitti di obiettivi e creino una ottimizzazione del sistema. La sfida lanciata dal governo è trovare soluzioni che aumentino i benefici sia commerciali sia ambientali, preservando o incrementando la biodiversità e riducendo, tra gli altri, l’impiego di pesticidi e antibiotici. Il settore forestale A essere chiamato in causa è soprattutto il settore forestale, che vanta un grande patrimonio di materia prima. Dalla fine del 19° secolo l’industria svedese della cellulosa e della carta è divenuta via via leader a livello mondiale.
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materiarinnovabile 18. 2017 Swedish Research and Innovation Strategy for a Bio-based Economy, www.formas.se/ PageFiles/5074/Strategy _Biobased_Ekonomy_ hela.pdf
Secondo l’Agenzia forestale svedese, il valore medio di un metro cubo di foreste è di circa 300 corone svedesi. Moltiplicato per il volume totale di 3 miliardi di metri cubi, si arriva a 900 miliardi di corone, ovvero circa 90 miliardi di euro. Si tratta di circa un quinto del prodotto interno lordo di tutta la Svezia. La fase di transizione in cui si trova questo settore, causata soprattutto dal declino della domanda di carta per giornali e per gli uffici, ha spinto le imprese alla ricerca di nuovi campi di applicazione. Si sono sviluppati così nuovi centri di ricerca: come l’Istituto svedese di ricerca forestale (Skogforsk) dove si svolge attività di ricerca applicata per ridurre il gap con l’industria. Oppure il Forest Machinery Cluster, che favorisce la cooperazione tra i ricercatori, le imprese forestali e l’industria e ha consentito alla Svezia di assumere una posizione di leadership nel mercato mondiale dei macchinari forestali.
Le grandi imprese: produttori e brandowners
Il caso più emblematico di riconversione dell’industria forestale alla bioeconomia è quello della Stora Enso, il colosso della cellulosa e della carta che ha creato una divisione Biomateriali avendo come obiettivo l’estrazione di emicellulosa, zuccheri e lignina dagli scarti della produzione per ottenere prodotti a maggiore valore aggiunto. Nel 2015 è stato inaugurato a Stoccolma un Centro Innovazione che ospita ricerca, applicazione, sviluppo commerciale e marketing strategico.
In particolare, secondo la Perstorp, Capa è certificata come compostabile e 100% biodegradabile entro 45 giorni, è idroliticamente stabile, e quindi utilizzabile per moltissime applicazioni, ed è compatibile con biopolimeri come il Pha e il Pla. L’attenzione primaria dell’impresa è oggi su tre principali segmenti di crescita della bioplastica: rivestimenti di carta, borse, pellicole e imballaggi. Nel campo degli imballaggi e del packaging alimentare, la Svezia può vantare uno dei maggiori player al mondo: Tetra Pak. La società fondata nel 1951 a Lund ha già introdotto sul mercato un imballaggio come Tetra Rex 100% da fonte rinnovabile, prodotto esclusivamente con carta e con polimeri derivati da fonte vegetale. Allo stesso modo della carta certificata Forest Stewardship Council (Fsc), i polimeri possono essere tracciati all’origine e questo ha consentito al contenitore di ricevere il più alto livello di certificazione biobased da parte di Vinçotte, ente di certificazione riconosciuto a livello internazionale. I polimeri di origine vegetale utilizzati da Tetra Pak non sono made in Sweden, ma prodotti dall’impresa biochimica brasiliana Braskem che ricava la materia prima da canna da zucchero coltivata su terreni degradati.
“Un altro passo importante sulla strada per la trasformazione di Stora Enso in una società di materiali rinnovabili” l’ha definito Karl-Henrik Sundström, amministratore delegato della società scandinava. “Siamo convinti che il nostro accesso alla biomassa, in combinazione con la competenza nel settore forestale in tutto il mondo, in futuro porterà vantaggi ai nostri clienti in modi nuovi e innovativi. Puntiamo allo sviluppo di un’offerta competitiva, che serva i clienti in più industrie e mercati, aggiungendo valore ai nostri flussi di cellulosa.” In questa direzione, la società guidata da Sundström ha investito lo scorso gennaio 12 milioni di euro per costruire una nuova linea produttiva per granuli biocompositi nello stabilimento di Hylte in Svezia. L’avvio della produzione è previsto per il primo trimestre del 2018, con una capacità annuale di circa 15.000 tonnellate. I granuli biocompositi sono un mix di fibre di legno, polimeri e additivi e vengono utilizzati come materie prime per lo stampaggio a iniezione e l’estrusione di prodotti tradizionalmente fabbricati esclusivamente in plastica. Il materiale può essere utilizzato in una vasta gamma di prodotti, dai beni di consumo (spazzole da piatto, pentole ecc.) alle applicazioni industriali, quali pallet o strutture portanti rinforzate da fibre di vetro.
Anche l’industria chimica guarda al settore dei biomateriali, trainata dal gruppo Perstorp, che destina l’85% delle proprie spese in Ricerca e Sviluppo alla sostenibilità ambientale. Leader mondiale nella produzione del polimero policaprolattone (Pcl), commercializzato sotto il marchio Capa, negli ultimi anni il gruppo svedese sta investendo nello sviluppo di nuove bioplastiche: nel 2014 è stato avviato un impianto pilota a Warrington, nel Regno Unito, e nel 2015 un laboratorio di ricerca e sviluppo nella cittadina di Perstorp. “Stiamo aumentando la nostra competitività nella bioplastica – fa sapere Linda Zellner, responsabile Progetto Bioplastics di Perstorp – dove intendiamo assumere una posizione di primo piano nello sviluppo di nuovi prodotti, dal momento che Capa Thermoplastics aggiunge valore significativo alle prestazioni dei biopolimeri e alle soluzioni di fine vita”.
I cartoni Tetra Pak Rex sono già utilizzati da colossi lattiero-caseari come la finlandese Valio e la danese Arla per commercializzare bevande a base di latte. Ed è solo un primo passo, perché Tetra Pak sta portando avanti trattative con numerose aziende in diverse parti del mondo per lanciare il contenitore. “Stimiamo – fanno sapere dalla multinazionale svedese – che considerato l’intero ciclo di vita del prodotto, la scelta del biopolietilene rispetto al polietilene di origine fossile riduca la carbon footprint del 20-35%”. Dal packaging all’arredamento, una partnership tutta scandinava è quella tra Ikea e la finlandese
Policy Neste. La società di Espoo fornirà al colosso dei mobili svedese materie plastiche rinnovabili e biobased. Si tratta di una collaborazione che combina l’impegno di Ikea a ridurre la propria dipendenza dai materiali fossili vergini e la competenza di Neste nello sviluppo di nuovi prodotti da fonti rinnovabili, come residui e rifiuti. “Siamo molto lieti – ha affermato Tuomas Hyyryläinen, Senior Vice President, Strategia e Nuove Imprese in Neste – di creare una partnership con Ikea. L’impegno di Ikea per avviare un cambiamento nell’industria è un passo estremamente importante nella ridefinizione del modo in cui i materiali saranno prodotti e come le materie prime saranno utilizzate nel prossimo futuro”. “Ikea vuole contribuire a una trasformazione dell’industria e allo sviluppo di materie plastiche prodotte da fonti riciclate o rinnovabili. In linea con i nostri obiettivi, ci stiamo allontanando dai materiali plastici a base fossile a favore di quelli prodotti da fonti rinnovabili più sostenibili, come rifiuti e residui, non utilizzando olio di palma e derivati come materia prima”, ha aggiunto Lena Pripp- Kovac, Sustainability Manager di Ikea. Il tema della sostenibilità è un punto fermo anche per un’altra multinazionale svedese, Hennes&Mauritz AB, meglio nota come H&M, il gigante dell’abbigliamento con 116.000 dipendenti sparsi per il mondo, dal 2015 partner della Fondazione Ellen MacArthur per l’economia circolare. “Alla H&M abbiamo una visione di lungo termine per diventare circolari al 100%, utilizzando per esempio materiali riciclati o da altre fonti sostenibili”, afferma Felicia Reuterswärd, Sustainability Manager alla H&M. Uno degli ambiti di ricerca più promettenti, su cui sta investendo molto la stessa Stora Enso, è l’utilizzo del legno come materia prima per produrre fibre tessili. “Il mondo sta usando sempre più tessuti, e c’è una crescente domanda di materiali sostenibili, come le fibre di legno”, dice Weronika Rehnby, responsabile per la sostenibilità dell’associazione svedese TEKO – Textile and Clothing Industries. “Stiamo cercando materiali rinnovabili e riutilizzabili, e in questo senso la viscosa prodotta in modo sostenibile è un’ottima alternativa al cotone.” Una ricerca di alta qualità
Rise, www.ri.se/en
A guidare la transizione svedese verso la bioeconomia sul lato della ricerca è la Rise Bioeconomy, una delle sei divisioni del riorganizzato Istituto svedese per la ricerca (Rise), co-partecipato dal governo di Stoccolma. Qui è confluita nel 2016 anche Innventia AB, la società di ricerca attiva nel settore della cellulosa e della carta e nel packaging, che già nel 2011 ha aperto nella capitale svedese il primo impianto pilota al mondo per la produzione di nanocellulosa (un nuovo materiale interamente rinnovabile, leggero e resistente, che può essere
impiegato in diversi settori. Nella produzione della carta e del cartone può fungere da agente di rafforzamento, nei rivestimenti dell’imballaggio alimentare può essere impiegata come materiale da protezione contro l’ossigeno, il vapore acqueo, il grasso e l’olio). È opera del Rise il nuovo programma di ricerca sulla bioeconomia 2018-2020, che è concepito come un vero e proprio acceleratore basato sulla ricerca per la trasformazione bioindustriale svedese. “Il programma – sottolineano dal Rise – offre una rete aziendale unica, un luogo d’incontro per la discussione e spazio per idee impegnative”. Gli argomenti di ricerca derivano dalle esigenze industriali, dalle tendenze globali e dai driver di mercato e saranno continuamente riveduti, raffinati e classificati in tutto il programma. Il punto di arrivo è la produzione di nuovi biomateriali, ma anche bioenergia, prodotti chimici biobased e biocarburanti per il trasporto, che “oggi – dicono al Rise – sono temi prioritari nell’agenda politica, come un modo per ridurre le emissioni di CO2 di origine fossile e aumentare l’uso dei materiali rinnovabili con l’utilizzo di risorse locali”. Nel quadro delle politiche di sostegno a ricerca e sviluppo sui biochemicals è da segnalare anche l’iniziativa “BioInnovation”, che con budget annuo di 10 milioni di euro coinvolge 60 attori della bioeconomia svedese, per la metà imprese e per l’altra metà organismi di ricerca. Il suo obiettivo è sviluppare materiali innovativi e dagli alti rendimenti, così come servizi e prodotti basati su materie prime rinnovabili in quattro aree: prodotti chimici ed energia, costruzioni e design, materiali e nuovi utilizzi. Le università non stanno ferme a guardare: ricerche sull’impiego della biomassa sono condotte in oltre 30 diversi dipartimenti e centri dei maggiori atenei, inclusi la Royal University of Technology (Kth), la Chalmers University of Technology, la Lund University e la Swedish University of Agricultural Sciences. Grazie alla loro attività è nato Gobigas, il primo impianto al mondo per la produzione continua di biometano di alta qualità da biomassa attraverso gasificazione. Le relazioni tra industria e università sono alla base della crescita della bioeconomia, secondo Growth Analysis. “Stimolare lo scambio e la collaborazione tra aziende, università, istituti di ricerca e altre parti interessate nei campi della bioeconomia e in altri settori in cui possono essere creati nuovi mercati, è una misura prioritaria”. Al pari della creazione di un mercato attraverso un sistema di appalti pubblici verdi.
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materiarinnovabile 18. 2017 Intervista
di M. B.
Carta e non solo Andreas Birmoser, vicepresidente Senior Strategy and Business Development della Stora Enso
“Stora Enso continuerà a essere sempre più concentrata sui biomateriali mantenendo al contempo il suo impegno con i suoi attuali clienti riguardo la pasta di cellulosa, la carta, il cartone e prodotti in legno. Il legno è la nostra più importante materia prima e sappiamo che è possibile ricavare di più dal legno e da altre biomasse non legate alla produzione di cibo per creare una vasta gamma di prodotti biobased ad alte prestazioni.” A dirlo – in questa intervista esclusiva per “Materia Rinnovabile” – è Andreas Birmoser, vicepresidente Senior del settore Strategy and Business della Stora Enso Biomaterials. Con il manager dell’azienda scandinava produttrice di pasta di legno e carta parliamo della sua trasformazione in azienda di materiali rinnovabili, di bioeconomia e di economia circolare.
Stora Enso, www.storaenso.com
Stora Enso è sempre più un’azienda produttrice di materiali rinnovabili. Quali sono i vostri prossimi passi per rimpiazzare i prodotti a base fossile? “Sicuramente Stora Enso si sta trasformando in un’azienda produttrice di materiali rinnovabili. Stiamo esplorando nuove strade per utilizzare in modo efficiente il legno e altre materie prime non legate alla produzione di cibo per soddisfare i bisogni di clienti e consumatori con materiali alternativi a
quelli a base fossile. Carta, cartone, beni e paste per usi specifici rappresentano il nostro principale segmento di mercato. Però, con il declino dell’utilizzo della carta, l’azienda sta diversificando le sue offerte e sviluppando nuovi prodotti. Nuove tecnologie stanno permettendo a Stora Enso di estrarre emicellulosa, zuccheri e lignina dalle biomasse e di utilizzare queste frazioni in modo più efficiente per nuove applicazioni. Il settore biomateriali della Stora Enso è nato nel 2012 per focalizzarsi sulle innovazioni relative ai biomateriali e sviluppare ulteriormente il business nel mercato della pasta di legno. Mediante i nostri quattro cluster dedicati all’innovazione, la divisione biomateriali sta lavorando per trasformare biomasse non legate alla produzione alimentare, non ogm, di seconda generazione in soluzioni per i suoi clienti. Undici anni fa, la carta costituiva il 70% del business della Stora Enso, mentre oggi ne rappresenta solo il 31%. I biomateriali rappresentano il 14% delle vendite totali.” Su cosa siete focalizzati maggiormente in questo momento? “Una delle principali aree sulla quale si concentra l’attenzione della divisione Biomateriali della Stora Enso è lo sviluppo della piattaforma per le tecnologie di estrazione, basata sulle biomasse. La tecnologia
I quattro cluster dedicati all’innovazione della divisione Biomateriali della Stora Enso
Applicazioni relative alla pasta di legno
Trasformazione della cellulosa e dei sottoprodotti della produzione della pasta di legno
Sviluppo della piattaforma per le tecnologie di estrazione
Trasformazione degli zuccheri
Policy è stata acquistata da Virdia nel 2014 ed è in via di sviluppo in un impianto a Danville, in Virginia. Nel corso di quest’anno sarà messo online un impianto dimostrativo finalizzato allo sviluppo del mercato a Raceland, in Virginia, dove dalla bagassa della canna da zucchero verrà prodotto xilosio che può essere trasformato in xilitolo a dimostrazione della tecnologia di estrazione acquisita. Recentemente l’attenzione si è focalizzata anche sull’estrazione di lignina. Nel 2013 abbiamo cominciato a commercializzare lignina Kraft essiccata, dato che abbiamo investito 32 milioni di euro nella nuova tecnologia di separazione della lignina nel nostro Sunila Mill in Finlandia. Utilizzando la tecnologia Ligno Boost, Sunila produce lignina dal 2015. La lignina è una candidata ideale per produrre nuovi materiali e prodotti intermedi. La lignina raffinata può essere un sostituto per i materiali fenolici derivati dal petrolio che vengono impiegati nelle resine per adesivi: per esempio nel compensato, nelle impiallacciature, nei laminati e nei materiali per l’isolamento. Per il futuro Stora Enso sta studiando la possibilità di sviluppare l’impiego della lignina nelle applicazioni della fibra di carbonio.” Oggi sembra che il paradigma della bioeconomia sia stato sorpassato da quello dell’economia circolare, sebbene quest’ultima sia per molti versi ancora legata al fossile. In che modo la vostra azienda potrebbe integrare completamente questi due paradigmi? “L’economia circolare sta rapidamente guadagnando forza e consapevolezza come concetto. In maniera simile alla bioeconomia, ha il potenziale per creare nuova occupazione, riducendo al contempo la dipendenza dall’energia e dalle materie prime. Stora Enso vede la bioeconomia e l’economia circolare come concetti complementari – la forte dimensione di ricerca e di innovazione della bioeconomia può contribuire alla transizione verso l’economia circolare riducendo nello stesso tempo la dipendenza dai combustibili fossili e le emissioni di carbonio. I prodotti biobased hanno un ciclo del carbonio più equilibrato e un passaggio alle bioraffinerie che utilizzano risorse rinnovabili, renderà l’economia circolare più sostenibile. L’obiettivo della strategia di business di Stora Enso Biomaterials, basato sulle biomasse, è di estrarre in maniera efficiente diverse frazioni dal legno e da altre biomasse, per arrivare a fibre di cellulosa, zuccheri C5, zuccheri C6 e lignina. Una volta che la tecnologia sarà dimostrata, questo modello di bioraffinazione potrebbe essere utilizzato negli impianti per la pasta di cellulosa esistenti. Recentemente, l’EVP Executive Vice President di Stora Enso, Per Lyrvall, è stato nominato tra i 25 rappresentanti per il programma di cooperazione del governo svedese ‘Economia Circolare e Biobased’, che punta a far crescere la bioeconomia e a promuovere soluzioni circolari.” Stora Enso, i cui packaging vengono utilizzati in tutto il mondo da aziende come Nestlé, Starbucks e Barilla, ora punta a diventare leader
del mercato cinese del packaging di fascia alta per alimenti e bevande. Attualmente c’è una richiesta da parte dei consumatori di nuove forme di packaging più ecosostenibili? “La richiesta da parte dei consumatori – e delle aziende – di packaging più ecosostenibili è certamente cresciuta negli ultimi anni. Per questo stiamo sviluppando tecnologie di estrazione e separazione, per ottenere il massimo dalle biomasse non legate alla produzione alimentare e ridurre i costi. Però un problema che continua a limitare la diffusione del packaging biobased è la mancanza di consapevolezza e di comprensione del significato di biobased, come pure della differenza tra biobased e biodegradabile. Per il mondo del business è essenziale comprendere tutto ciò e istruire i consumatori e le aziende sulla sostenibilità e sui vantaggi nelle prestazioni dei prodotti biobased.” Usate un sistema specifico di etichettatura per i prodotti biobased? “Tutto il nostro legno è tracciabile al 100% risalendo fino alle foreste di origine. Stora Enso promuove la certificazione attendibile delle foreste e lavora attivamente con i soggetti interessati a promuoverne la gestione sostenibile. Il nostro legno arriva dalle foreste dell’emisfero settentrionale e da piantagioni di eucalipto in tutto il mondo. Attualmente, Stora Enso utilizza per i suoi prodotti le etichette ecologiche esistenti, come il Nordic Swan e il Fiore dell’Ue.” Quanto sono importanti le politiche attuate dai governi finlandese e svedese nel sostenere il vostro settore Ricerca e Sviluppo riguardo alla bioeconomia? Quali, secondo voi, i punti forti e le debolezze della bioeconomia nei Paesi nordici? “La Finlandia, in tema di bioeconomia, segue una strategia che supporta fortemente l’obiettivo di Stora Enso di diventare un’azienda di materiali veramente rinnovabili. Anche le attuali aree chiave di sviluppo del governo, ‘Bioeconomia e soluzioni pulite’ sono perfettamente in linea con la trasformazione di Stora Enso. Il governo svedese sta lavorando a strategie per sostenere la produzione basata su materie prime rinnovabili. La loro strategia riguardo all’ambiente e al clima è in corso di aggiornamento e stanno anche sviluppando una strategia nazionale per le foreste che supporterà lo sviluppo della bioeconomia e quindi verrà sviluppato anche il business di Stora Enso.” In poche parole, il vostro futuro è interamente biobased? “Stora Enso continuerà a essere sempre più concentrata sui biomateriali mantenendo al contempo il suo impegno con i suoi attuali clienti riguardo a pasta di legno, carta, cartone e prodotti in legno. Il legno è la nostra più importante materia prima e noi sappiamo che è possibile ricavare di più dal legno e da altre biomasse non legate alla produzione di cibo per creare una vasta gamma di prodotti biobased ad alte prestazioni.”
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materiarinnovabile 18. 2017
La forza della valanga Bisogna affrontare il problema dei cambiamenti climatici all’origine, senza accontentarsi di curare i sintomi. La potenza trasformativa dell’economia circolare.
di Matthieu Bardout
Questo articolo è stato pubblicato precedentemente in Swiss ECS, NZZ-Verlagsbeilage, 18 settembre 2017; www.swissecs.ch/ de/medien-kontakt/ medienecho
Esperto in geofisica nei settori dell’energia e delle infrastrutture, Matthieu Bardout è stato consulente su finanza e politiche climatiche, su energie rinnovabili e sostenibilità. Oggi dirige i servizi di consulenza di Circle Economy.
1. Hoogzaad è un esperto di economia circolare e a basse emissioni di carbonio che ha recentemente condotto uno studio metabolico del Laos per l’Undp; Circular economy strategies for Lao PDR tinyurl.com/yddte6y3
L’economia circolare offre opportunità di mitigazione trasformativa per affrontare contemporaneamente il problema dell’energia e dell’efficienza nell’uso dei materiali. Affronta le cause che stanno all’origine dei cambiamenti climatici invece dei sintomi e modificherà in maniera significativa il modo in cui consideriamo e utilizziamo i materiali, i prodotti, i servizi e i rifiuti, facendo sì che si possano raggiungere gli obiettivi attuali in tema di mitigazione, e addirittura superarli. Negli ultimi mesi abbiamo visto alcuni sviluppi che hanno fatto suonare dei campanelli d’allarme e hanno mobilitato la comunità globale nella lotta ai cambiamenti climatici. A marzo la Ellen MacArthur Foundation ha pubblicato un report che prevede che entro il 2050 negli oceani del globo ci sarà più plastica che pesci, in uno scenario business-as-usual. Più avanti, a giugno, il presidente Trump ha annunciato la sua intenzione di far ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, nonostante i migliori sforzi diplomatici della comunità internazionale per impedirgli di farlo. Entrambi gli sviluppi sono profondamente integrati nel tessuto della nostra economia lineare. La nostra cultura “estrai-processabutta via” continua a generare quantità incommensurabili di rifiuti, e la nostra dipendenza dai combustibili fossili è incompatibile con le aspirazioni dei 194 paesi firmatari dell’accordo. E mentre i cittadini, il mondo del business, le città e le nazioni stanno intraprendendo azioni sempre più consistenti per combattere i cambiamenti climatici, gli attuali impegni non sono ancora sufficienti a garantire il raggiungimento dell’obiettivo di non superare i 2 °C di riscaldamento, tanto meno di quelli che ci siamo prefissati per mantenerlo al di sotto di 1,5 °C.
La correlazione tra i rifiuti di plastica e l’Accordo di Parigi non finisce qui: le materie plastiche, e più in generale i materiali che usiamo, sono strettamente legati alle emissioni di gas serra. Come spiega Jelmer Hoogzaad,1 “finché continuiamo a utilizzare i combustibili fossili per estrarre, lavorare e trasportare i materiali, come anche per recapitare, consumare e buttare via i prodotti, la gestione inefficace dei materiali risulta, alla fine, responsabile di 2/3 delle emissioni globali”. Si è reso evidente che gli impegni presi per ridurre progressivamente le emissioni dei nostri sistemi industriali non sono più sufficienti, e che la comunità che si occupa della mitigazione dei cambiamenti climatici ha bisogno di soluzioni innovative e sistemiche per potenziare i suoi sforzi. È qui che interviene l’economia circolare. Definita dalla Ellen MacArthur Foundation come “un sistema industriale rigenerativo e riparativo per definizione che ripensa i prodotti e i materiali per eliminare i rifiuti e gli impatti negativi, e crea capitale economico, sociale e naturale”, l’economia circolare richiede un cambio di paradigma. La sua adozione si basa su approcci ai materiali e sistemici, riassunti nei sette elementi chiave dell’economia circolare di Circle Economy: dare la priorità alle risorse rigenerative (tra cui le energie rinnovabili), preservare e amplificare quello che già si sta facendo, utilizzare i rifiuti come una risorsa, ripensare i modelli di business, progettare per il futuro, collaborare per creare valore aggregato e incorporare la tecnologia digitale. L’applicazione di questi principi alle nostre economie apre le porte a ulteriori e innovative opportunità di mitigazione che superano di gran lunga gli sforzi tradizionali – come le energie rinnovabili e l’efficienza energetica –
Policy
Circle Economy, www.circle-economy.com Report Ellen MacArthur Foundation, The New Plastics Economy: Rethinking the future of plastics, tinyurl.com/znkjp7j I sette elementi chiave dell’economia circolare di Circle Economy, tinyurl.com/y8ngqfvo
LA SITUAZIONE In uno scenario businessas-usual entro il 2100 la temperatura globale sarà di oltre 4 °C al di sopra dei livelli preindustriali
e danno la priorità all’utilizzo di materiali a basso contenuto di carbonio, alla dematerializzazione e a un cambiamento del sistema. Usare il legno invece del calcestruzzo nelle strutture di grandi dimensioni, per esempio, trasforma effettivamente le fonti di emissioni di carbonio in bacini di assorbimento dello stesso. Similmente, lo sviluppo di sistemi ad accesso digitale a prodotti e servizi porta a una riduzione considerevole della necessità di beni materiali, e in questo modo ha un impatto positivo sulla mitigazione. E forse ancora più notevolmente, l’economia circolare ci richiede di ripensare i bisogni funzionali della nostra società – dalla mobilità all’edilizia abitativa, fino all’energia – e ci permette di progettare un sistema che renda disponibili questi servizi in maniera più efficace.
Per sfruttare il potenziale di mitigazione dei cambiamenti climatici dell’economia circolare, comunque, è necessario che vengano attivate delle leve fondamentali nelle politiche relative al clima, nelle negoziazioni e nella finanza.
L’OBIETTIVO FINALE Per limitare l’aumento delle temperature a 1,5 °C dobbiamo ridurre le emissioni di gas serra da 65 a 39 miliardi di tonnellate di CO2e all’anno entro il 2030
Con la maturazione del concetto di economia circolare e la moltiplicazione degli sforzi nell’implementazione, le iniziative e le organizzazioni all’avanguardia hanno bisogno di capitali catalitici ad alto rischio per mettere in moto la “valanga” circolare. Le banche di sviluppo nazionali e multilaterali dovrebbero quindi vagliare il loro portfolio di investimenti per capire come hanno supportato le iniziative circolari in passato, e in che modo i progetti che sostengono si relazionano alla finanza del clima. Tali analisi ci permetteranno di comprendere meglio l’adeguatezza degli attuali strumenti finanziari per favorire lo sviluppo dell’economia circolare e per svilupparne di nuovi secondo le necessità.
Impegni nazionali Energie rinnovabili Efficienza energetica Riduzione della deforestazione
Business-as-usual
LA DIFFERENZA
Impatto rispettando gli impegni attuali
Ambizione di COP21
LA SOLUZIONE Gli attuali impegni nazionali arrivano circa a metà dei tagli alle emissioni necessari. L’economia circolare può colmare circa metà della differenza
Economia circolare Recupero e riuso Estensione del ciclo di vita Modelli di condivisione e servizi Progettazione circolare Piattaforme digitali Altre misure Ulteriore aumento delle rinnovabili e dell’efficienza energetica Riforestazione Agricoltura attenta al clima
Per esempio, mentre le emissioni vengono attualmente calcolate per settori e per nazioni, l’economia circolare promette di ottenere una mitigazione trans-settoriale e transnazionale migliorando l’efficienza lungo le catene di valore (per esempio attraverso la cooperazione) e permettendo sinergie tra i vari settori industriali (per esempio la simbiosi industriale). Per questo è fondamentale che i decisori politici e i negoziatori riconoscano la necessità di queste nuove possibilità di mitigazione e che le sostengano e le rendano realizzabili con politiche adeguate e meccanismi di implementazione come il calcolo basato sui consumi.
L’economia circolare è destinata a durare a lungo. Ora è il momento di renderla una forza trainante per l’ambiziosa azione climatica di cui abbiamo bisogno.
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Focus edilizia
Il rivoluzionario della costruzione
venuto da Singapore Intervista a Tai Lee Siang
Un’intervista con il presidente di World Gbc sugli edifici a zero emissioni e le difficoltà dell’economia circolare nel settore edilizio. di Emanuele Bompan
Leed – Leadership in Energy and Environmental Design, leed.usgbc.org Greenbuild International Conference and Expo, www.greenbuildexpo.com
Immagini: Lo studio EvoTre ha seguito la parte di sostenibilità di Palazzo Ricordi (Milano)
World Gbc, acronimo di Green Building Council, è una delle principali associazioni il cui obiettivo è rendere sostenibile il settore delle costruzioni. Nata nel 1999 in California, è la più grande organizzazione internazionale – ha associate in oltre 80 paesi – in grado di influenzare il mercato dell’edilizia ecologica. Rappresenta oltre 30.000 aziende immobiliari ed edili, supporta i Green Building Council esistenti e nascenti su scala nazionale e fornisce loro strumenti e strategie per promuovere l’edilizia ecologica in tutto il mondo, con il chiaro fine di ridurre le emissioni di carbonio, creare un ambiente sano e rigenerativo e favorire una nuova visione dell’ambiente costruito. Il World Gbc è collegato allo sviluppo della certificazione Leed – Leadership in Energy and Environmental Design e alla sua Greenbuild International Conference and Expo, la più grande conferenza ed esposizione mondiale dedicata all’edilizia ecologica, entrambe create dalla sezione statunitense del Gbc. Dopo avere ottenuto grande notorietà a livello globale, grazie al lavoro dell’ex presidente Rick Fedrizzi, che è riuscito a rimodellare il World Gbc creando un percorso sul quale progredire, l’associazione è ora pronta a guidare l’accelerazione del processo trasformativo del settore edile sotto la guida del suo nuovo presidente Tai Lee Siang, nato a Singapore. La sua filosofia è incentrata su alcuni pilastri fondamentali: la trasformazione dovrebbe essere
olistica e su larga scala. La rivoluzione dell’edilizia ecologica non può più essere applicata a un edificio alla volta. Isolati, quartieri e intere città dovrebbero essere rimodernati o costruiti avendo come riferimento una solida filosofia rigenerativa basata su emissioni quasi nulle e che eviti la produzione di rifiuti. Materia Rinnovabile ha intervistato Lee Siang a Milano durante la sua visita a Palazzo Ricordi, un edificio di riferimento relativamente alla certificazione Leed (Palazzo Ricordi è uno dei più antichi edifici al mondo ad avere questa certificazione, ndr). La sfida per il WGbc è più grande e complessa che mai. È necessario uno sforzo erculeo: accelerare e industrializzare il settore edile e favorire l’ammodernamento e la rigenerazione di milioni di edifici sparsi per il mondo per tagliare le emissioni di CO2. Qual è il suo piano? “Lasci che le esponga il contesto. Io penso che ci siano due cose che dobbiamo considerare. La prima: quanto tempo abbiamo? Se andiamo avanti con il business-as-usual, presto il riscaldamento globale diventerà incontrollabile, con un aumento delle temperature ben superiore ai 5 °C. Quindi credo che tutti siamo d’accordo sul fatto che dobbiamo esaminare molto seriamente gli obiettivi per il 2030/2050. Dobbiamo concentrarci sull’innalzare al massimo livello gli standard della
Case Studies
Nuovo presidente del World Green Building Council, Tai Lee Siang è anche presidente del Singapore Institute of Architects e Group Managing Director di Ong&Ong Pte Ltd, azienda di consulenze multi-disciplinari su architettura, pianificazione urbana, ingegneria, architettura del paesaggio e progettazione di interni.
costruzione: zero emissioni di carbonio entro il 2050, sia per gli edifici nuovi sia per quelli esistenti. Seconda cosa: come possiamo coinvolgere un grande numero di soggetti interessati? Dobbiamo stimolare i nostri membri a promuovere le iniziative e a concentrarsi sugli edifici puntando a evitare totalmente le emissioni di carbonio. Per riuscirci dobbiamo coinvolgere i cittadini. Questo richiede un grande sforzo nella comunicazione. Abbiamo in corso e in programma campagne per arrivare ai cittadini comuni e ai gruppi all’interno delle comunità, per informarli sui vantaggi dell’edilizia ecologica. Secondo la mia opinione il fattore chiave è la scala dell’intervento. Come ho sempre detto gli edifici non esistono come entità isolate, ma come parte delle città. Quindi, da un punto di vista sistemico, se la città non è ecologica, non importa quanto lo sia l’edificio, nel lungo termine non funzionerà. Abbiamo bisogno che governi e pubbliche amministrazioni rendano ecologiche le infrastrutture, anche se si trattasse di un’intera città. Studieremo come farlo. Se vogliamo raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi e mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C non possiamo solo concentrarci sul singolo edificio.” Lei ha affermato che è molto importante focalizzarsi sui paesi in via di sviluppo. Il suo scopo è di fare crescere il numero di Gbc in aree dove è maggiore il potenziale per arrivare a una rivoluzione dell’edilizia ecologica?
“Effettivamente sì, voglio veder crescere il numero di Consigli nelle regioni arretrate, specialmente in Africa e Medio Oriente, dove il Gbc ha storicamente un impatto minore tra i paesi dove abbiamo dei membri. Non sto dicendo che questi paesi non abbiano movimenti ecologisti, ma che non sono organizzati per contrastare l’industria edile; inoltre c’è un grande potenziale per gestire lo sviluppo ora, mentre è in corso, invece di farlo in seguito. Quindi queste sono le due regioni in cui vogliamo spendere più tempo per investire il nostro lavoro e le nostre risorse.” Parlando delle opzioni più facili per affrontare il tema dell’edilizia ecologica, cosa si dovrebbe fare? “Dobbiamo avere due priorità, entrambe legate al coinvolgimento delle persone. La prima è coinvolgere governi e amministrazioni civili. Una volta coinvolti, si moltiplicheranno e diffonderanno la visione, facendo pressioni per una leadership dall’alto verso il basso. Ecco perché mentre ero in Italia ho incontrato gli amministratori delle municipalità di Milano, Torino e di molte altre città, grazie al sostegno del Gbc Italy. Il secondo gruppo di persone a cui dobbiamo rivolgerci è rappresentato – in realtà – dalla comunità delle imprese edili alle quali dobbiamo far capire l’enorme opportunità economica che ciò rappresenta. Poi, naturalmente, in questo senso ci sono i social media e la stampa online: oggi con le nostre campagne possiamo raggiungere milioni di persone in un attimo. Io credo nella comunicazione forte. Gli uffici nazionali della comunicazione del Gbc giocano un ruolo fondamentale, bisogna riconoscerlo. Penso che con uno sforzo coordinato possiamo invertire la tendenza molto più velocemente.” Gli edifici futuri non dovranno solo essere a zero emissioni di carbonio, ma anche circolari, progettati utilizzando materiali riciclati e costruiti per essere riutilizzati, riciclati e pronti a funzionare come strutture rigenerative. Questo è ancora più difficile della semplice riduzione delle emissioni di carbonio. Pensa che sia prematuro renderli circolari? “Il concetto di edificio circolare non è di facile comprensione, perché in un paese o in una città con abbondanza di risorse, dove ogni giorno si possono ottenere nuovi materiali con le materie prime disponibili in loco, è difficile capire la necessità di usare materiali riciclati o rinnovabili. Tuttavia io ho lavorato a Singapore, una piccolissima città-stato, che non dispone di risorse naturali e dove tutto deve essere importato. Lì, per esempio, bisogna riciclare il calcestruzzo. Al punto che ora questa pratica è diventata molto popolare, perché demolire gli edifici costa più che limitarsi a riciclarli. È diventato subito un business. Ora si usano conglomerati riciclati, ricavati da edifici demoliti. Ma ciò è accaduto solo perché i costi della rimozione delle macerie sono più alti di quelli del loro riciclo. Non sono sicuro che sia realizzabile
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materiarinnovabile 18. 2017 Emanuele Bompan, geografo urbano e giornalista, si occupa di giornalismo ambientale dal 2008. Autore con Ilaria Brambilla del libro Che cos’è l’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016).
Info www.worldgbc.org
in un paese che ha disponibilità di risorse, come – per esempio – la Germania.” Cosa ci dice sugli altri materiali? “Vedo grandi opportunità per i materiali rinnovabili, come il legno o altri utilizzabili per la pavimentazione. O anche i tappeti di nylon o i pavimenti in bambù, che sono davvero facili da usare e da riciclare. In generale, credo ci sia un problema di percezione: oggi la gente non apprezza l’uso di materiali riciclabili per i beni di nuova costruzione, specialmente se costano di più. Al contrario le persone che hanno le giuste motivazioni e conoscono l’importanza dei materiali rinnovabili accetteranno di usarli, indipendentemente dal costo. Non sto pensando, in questo caso, ai costruttori, ma agli acquirenti finali.” Come possiamo risolvere tale questione? “Negli ambienti con un elevato livello di benessere è molto difficile modificare questo approccio mentale. A meno che non si crei una cultura, non lo si cambia. Supponiamo, invece, che tutti comprendano l’importanza della sostenibilità, come parte della cultura, allora utilizzare solo materiali rinnovabili diventa un non-problema. Si trasforma in una cosa di cui essere orgogliosi, diventa un fattore identitario. Questa potrebbe essere la strada.” Singapore le ha dato la capacità di vedere le città con altri occhi. È riconosciuta come un grande esempio di città rigenerativa a causa dell’esigua estensione del territorio. In particolare la disponibilità di acqua è molto limitata. Che tipo di strategia dovrebbero adottare gli architetti riguardo all’acqua? “L’acqua non è un problema di un singolo architetto o di un gruppo di architetti,
è un elemento essenziale per la vita, deve essere gestito almeno a livello di città, se non nazionale. Quindi in paesi come i vostri, dove avete in genere abbondanza di acqua, suppongo che potreste non sentire molto il problema.” Per ora. “A Singapore l’acqua arriva da un altro paese. Questo significa che se non c’è un accordo, rimaniamo senz’acqua! La nostra sicurezza è a rischio. Così impariamo a conservare ogni goccia d’acqua che abbiamo sull’isola, creando serbatoi, riciclandola, rendendo potabili persino le acque reflue. Quindi siamo completamente sostenibili in termini di scorte idriche, nonostante l’assenza di sorgenti d’acqua.” Per adeguarci al futuro non dovranno cambiare solo gli edifici, ma la stessa forma delle città? Quale sarà il propulsore della trasformazione? “Internet è senza dubbio la risposta a questa domanda, in particolar modo per i Millennials. Credo davvero che i prezzi vertiginosi delle abitazioni in proprietà non dureranno per sempre, già ora i Millennials non se le possono permettere. Per questo devono pensare a nuovi stili di vita, nuovi modi di lavorare. Non possono più permettersi di abitare nel centro delle città, dove rimarranno solo le persone di mezza età e le attività commerciali. Questo significa che devono essere costruite nuove comunità al di fuori della cerchia cittadina. Sia rigenerando vecchi villaggi, sia in nuovi siti, completamente a zero emissioni, dove le nuove generazioni possano vivere, lavorare e giocare, collegate col resto del mondo. I più giovani sono utenti di internet molto esperti e la migliore tecnologia è quella che permette di risparmiare energia evitando gli spostamenti inutili. Così rimane più tempo da dedicare a migliorare la qualità della propria vita.” La città futura non è una megalopoli? È un villaggio intelligente? “L’intelligenza sta nella testa, nel sapere come vivere e giocare, e nell’avere tempo e risorse a disposizione, senza sprecarli.” Per ora gli obiettivi del Gbc rimangono concentrati sulle zero emissioni o vedremo più lavoro rivolto ai modelli economici circolari? “Stiamo pensando di lavorare con tutti i Gbc per definire un’ampia serie di parametri, tra i quali – oltre ai fattori energetici – dobbiamo via via inserire quelli relativi al riciclo, alla CO2 incorporata, al riuso. I materiali sono diventati importanti, ma non possiamo completare questo passaggio in un attimo: i paesi hanno bisogno di tempo per mettere insieme le risorse e le competenze. In questo momento dobbiamo focalizzare l’attenzione di tutti sul raggiungimento dell’obiettivo nazionale del Gbc riguardo agli edifici. Ma terremo conto di ogni variabile che possa rendere migliore la vita su questo pianeta.”
Focus edilizia
SISMA 2012:
il modello Emilia-Romagna A distanza di un anno e mezzo dal terremoto era stato rimosso oltre il 90% delle 600.000 tonnellate di macerie. Un esempio di gestione eccellente basata sul lavoro di squadra, sul rispetto di una stringente tempistica e sulla rendicontazione delle attività. di Silvia Zamboni
Mentre infuria la polemica per la mancata rimozione delle macerie nei Comuni dell’Italia centrale colpiti dal terremoto poco più di anno fa, c’è una Regione, l’Emilia-Romagna che, al contrario, ha dato prova di grande efficienza nella gestione delle macerie prodotte dalle scosse sismiche del 20 e 29 maggio 2012 in un’area compresa tra le provincie di Modena e Ferrara. Risultato (avvolto finora da un inspiegabile silenziostampa): a un anno dal sisma era già stato rimosso circa il 70% delle macerie; a un anno e mezzo oltre il 90%. Viene quindi automatico domandarsi come mai, a quanto è dato sapere mentre andiamo in stampa, nessuno nel più recente terremoto del 2016 abbia pensato di chiedere lumi a chi ha dimostrato di saper ben fronteggiare la medesima emergenza. Questo nonostante il commissario Vasco Errani abbia capitanato le operazioni sia in EmiliaRomagna (fino a luglio 2014) sia, per un anno, nell’Italia centrale. D’accordo, i contesti sono diversi: nell’Italia centrale i Comuni interessati sono distribuiti entro i confini di quattro regioni (Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio) e in territori, rispetto alla Pianura Padana, geomorfologicamente più complessi per la presenza anche di zone e colli di bottiglia montuosi. Diversi anche i numeri: in EmiliaRomagna le macerie da smaltire ammontavano a poco più di 600.000 tonnellate, circa un quarto
degli stimati due milioni di tonnellate nel sisma del 2016. Ciò detto, resta però il dubbio se non valga la pena ricorrere a qualcosa di più di un paio di frettolosi contatti casuali per verificare cosa si possa trasferire in Italia centrale dell’innovativo know-how emiliano-romagnolo. Ideato ex novo, si badi bene, a seguito di un terremoto che ha colpito abitazioni, strutture private e pubbliche, chiese e monumenti, coinvolgendo un’area produttiva ad alta concentrazione di imprese di pregio dell’industria biomedicale, meccanica di precisione e agroalimentare, insediamenti che da subito si è voluto impedire che venissero delocalizzati. Un ulteriore motivo che ha spinto l’amministrazione regionale a rimuovere in fretta le macerie per consentire di ricostruire e ripartire. Basti pensare che a poche ore dal sisma i tecnici regionali erano già in possesso delle foto aeree del territorio colpito, immagini che insieme alle segnalazioni dei Comuni sono servite a formulare una prima stima del materiale da rimuovere e a tarare, di conseguenza, la dimensione degli interventi necessari. Ma quali sono gli ingredienti del “modello EmiliaRomagna”, apprezzato dalla stessa Commissione europea che con 15 milioni di euro ha cofinanziato i lavori? “L’atout numero uno è stato il lavoro di squadra: Regione, Comuni, gestori dei servizi integrati di rifiuti e gestori dei siti di stoccaggio, a suon di riunioni di ore e ore, a volte anche
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materiarinnovabile 18. 2017 Macerie rimosse e trasporti di macerie 268.575
MACERIE RIMOSSE (t) tot 612.841,51
Fonte: Regione Emilia-Romagna.
48.472 2012 14.975
TRASPORTI DI MACERIE (numero) tot 31.895
289.707
2013
2014
3.526
848
1.713
2015
2016
2017
14.397
2.267
2012
2013
2014
143
37
76
2015
2016
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in notturna, hanno formato un’equipe affiatata portando ognuno il proprio contributo”, premette Francesca Bellaera, della Direzione Generale Regionale cura del territorio e dell’ambiente, che ha gestito l’intera operazione insieme alla collega Simona Biolcati, sotto la supervisione della dirigente Cristina Govoni. “La Regione Emilia-
Romagna, in particolare, che nel corso dell’intera vicenda ha tenuto e tiene tuttora le redini della cabina di regia – prosegue Bellaera – si è occupata innanzi tutto dell’individuazione degli impianti di prima destinazione situati all’interno dell’area terremotata e atti ad accogliere le macerie; e ha stabilito al contempo quali Comuni potevano fare riferimento a ciascun sito”. Un compito, questo, portato a termine nell’arco di appena una decina di giorni (come testimonia la circolare regionale diramata il 6 giugno), “tenendo conto, per la scelta degli impianti, di due criteri-base: vicinanza ai comuni e capacità di stoccaggio”, precisa Govoni. Altro fattore vincente è stato “battezzare” le macerie ordinarie come rifiuti solidi urbani, una scelta che ha consentito di evitare di bandire le gare necessarie nel caso dei rifiuti classificati come speciali, e di affidare quindi l’incarico di trasporto delle macerie ai gestori dei servizi integrati rifiuti attivi sul territorio, i quali, a loro volta, se necessario, hanno subappaltato i lavori ad altre aziende. “In questo modo le prime rimozioni delle macerie a terra o degli edifici lesionati pericolanti da abbattere sono partite già a giugno, in un crescendo di attività che ha visto i Comuni raccogliere via via le richieste presentate dai proprietari degli immobili”, spiega Bellaera. Sulla base dell’urgenza e delle caratteristiche, i Comuni hanno redatto le liste dei siti (soprannominati cantieri) da sgomberare, comunicate settimanalmente ai gestori dei servizi rifiuti e alla Regione.
Cumulo di macerie a seguito delle attività di trattamento nell’impianto di prima destinazione del rifiuto – Discarica di Medolla
In alto: Demolizione effettuata dai Vigili del Fuoco in località Rovereto (Novi di Modena) e preparazione dei cumuli di macerie per il trasporto
Case Studies Come sono state gestite le macerie MACERIE TOTALI RACCOLTE
MACERIE DESTINATE
70% 428.084
12% 72.046 11% 69.996
6% 37.850
Recupero materiali selezionati
79%
13%
Smaltimento Viabilità discariche/ copertura giornaliera
7%
tot macerie trattate 612.841,51
1%
88%
Copertura definitiva discariche
Macerie in deposito temporaneo tot macerie destinate 540.795,34
1% 4.864
Le % indicate nella seconda torta sono riferite alle macerie già destinate in modo definitivo, quelle della prima torta sono invece le % totali che tengono conto anche delle macerie in deposito temporaneo.
Fonte: Regione Emilia-Romagna.
In basso: Attività di caricamento, raccolta e contestuale bagnatura delle macerie propedeutiche alla fase di trasporto e avvio al primo impianto di destinazione – Cantiere localizzato a Rovereto (Novi di Modena)
“Considerata l’esigenza di tracciare con precisione spostamenti e quantitativi dei materiali dal primo momento della presa in carico fino al conferimento finale, un tema sempre sensibile quando si ha a che fare con i rifiuti – sottolinea Govoni – è stato creato uno strumento condiviso, denominato ‘cruscotto’, in cui venivano riportati da ciascun trasportatore, Comune per Comune, cantiere per cantiere, i quantitativi di materiale rimosso. Questo meccanismo ha permesso alla Regione EmiliaRomagna di monitorare in tempo reale l’apertura e la chiusura, post-rimozione, dei singoli cantieri, operazione che in genere si concludeva in trequattro giorni”. A loro volta gli impianti di prima destinazione effettuavano la pesatura dei carichi in ingresso, camion per camion, e la rendicontavano alla Regione che controllava che ci fosse corrispondenza tra le varie cifre, senza zone grigie o numeri ballerini discordanti tra le diverse fonti. E non è finita qui: i camion erano monitorati in base a targa, telaio, carico trasportato e, ovviamente, destinazione. Un ulteriore affinamento dei controlli che ha pagato permettendo anche di individuare casi anomali: per esempio, grazie agli incroci con i dati in possesso delle forze dell’ordine, sono stati intercettati dei mezzi di trasporto (utilizzati da un sub-appaltatore fuori regione) che risultavano associati alla targa di… una Panda. Un caso di cui ora si stanno ovviamente occupando gli organi inquirenti. Insieme alla tracciabilità, l’altra motivazione che ha spinto la Regione Emilia-Romagna a escogitare queste griglie così rigorose è stato l’obbligo di rendicontazione dell’allocazione dei fondi pubblici (a fine agosto pari a 4 milioni di euro) e di quelli europei. Questi ultimi, in particolare, andavano assegnati alle aziende entro fine dicembre 2013, “una scadenza che ha ulteriormente giocato a favore della velocizzazione delle operazioni”, puntualizza Bellaera.
Tanto rigore contabile si rispecchia fedelmente nel rapporto regionale sulla gestione delle macerie, particolarmente preciso e che presenta i quantitativi (con decimali a due cifre!) aggregati per Comuni, cantieri, gestori dei servizi rifiuti, siti di prima destinazione, sia incrociati tra loro, sia distribuiti in singole tabelle tematiche. Con quale esito complessivo delle operazioni? A fine agosto 2017 figuravano rimosse circa 613.000 tonnellate di macerie senza amianto provenienti dai 1.595 cantieri chiusi sui 1.774 censiti. Con i 16 ancora aperti bloccati da questioni di natura patrimoniale. Per quanto riguarda il successivo riuso del materiale edile rimosso, per accelerare le operazioni di rimozione le macerie sono state caricate sui camion tal quali, senza differenziarle in loco, poiché questa operazione avrebbe richiesto l’impiego di ulteriori mezzi dedicati al trasporto dei rifiuti selezionati di legno e metallo. La cernita, pertanto, è stata condotta successivamente all’interno degli impianti di prima destinazione. L’unica selezione fatta di prima mano nei cantieri ha riguardato da un lato i detriti contenenti o sospettatati di contenere amianto, per i quali, come vedremo più avanti, è stata adottata una procedura specifica; e, dall’altro, i reperti di valore storico-artistico-architettonico, affidati alla valutazione delle Soprintendenze, le quali, a seguito dei sopralluoghi, potevano dare o negare l’autorizzazione alla rimozione. “Dopo di che, ultimata la selezione del materiale di pregio da conservare, ritornava in campo il trasportatore che rimuoveva tutto il resto”, spiega Simona Biolcati. E veniamo ora alla destinazione finale delle macerie senza amianto rimosse e già trattate, e al reimpiego dei materiali recuperati. Il rapporto di fine agosto parla di 540.795,34 tonnellate (88% del totale rimosso) destinate in maniera definitiva, mentre altre 72.046,17 tonnellate (pari al 12%) sono ancora stoccate in deposito temporaneo. Per quanto riguarda le quasi 541.000 di macerie “giunte al capolinea” del percorso di gestione,
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Info ambiente.regione.emiliaromagna.it
il 93% è stato reimpiegato. Scendendo più nel dettaglio, la finalità prevalente (per oltre il 79% del totale delle macerie rimosse e destinate) è stata la copertura definitiva delle discariche esaurite in cui erano state depositate; il 13% è stato utilizzato invece per la copertura giornaliera e per la viabilità interna delle discariche; l’1%, rappresentato dal ferro e legno selezionati, è stato conferito a impianti di recupero di questi materiali; infine, solo il restante 7% è stato avviato a smaltimento. “Purtroppo, a causa della normativa in vigore non ci è stato possibile riutilizzare le macerie, in un’ottica di economia circolare, per realizzare ex novo grandi opere, per esempio stradali”, commenta con rammarico Govoni. “Cionondimeno riteniamo di aver conseguito un buon risultato, considerato che solo il 6% non è stato recuperato in alcuna forma”. Per quanto riguarda invece la gestione delle macerie con amianto, era stabilito che nei casi in cui il tecnico trasportatore avesse avuto il sospetto di trovarsi di fronte a una traccia anche minima di amianto avrebbe sospeso le operazioni di carico. Il cantiere veniva così congelato e registrato nel “cruscotto” come “cantiere in sospeso per presunta presenza amianto”. Successivamente si sarebbe proceduto alla rimozione, a spese dei proprietari degli immobili, in base alla procedura ordinaria in vigore, sia pure con tempistica
A sinistra: Pesatura delle macerie nell’impianto di prima destinazione del rifiuto – Discarica di Medolla
agevolata per effetto del sisma. Poi ad agosto 2014 è stato deciso che anche le macerie con amianto derivanti dal sisma (e non da operazioni di bonifica ordinaria extra terremoto!) sarebbero state prese in carico dal commissario. A quel punto i lavori sono ripartiti dai cantieri che risultavano bloccati, mentre d’intesa con i Comuni è stata effettuata un’approfondita mappatura dei restanti siti con amianto, che ne ha rilevati 125. Quindi, con una prima gara d’appalto gestita dalla Regione è stata individuata la discarica di destinazione finale e con una seconda i trasportatori. E qui si è verificato un incidente di percorso, che ha bloccato i lavori per un anno: la ditta proprietaria della discarica con sede in Toscana che si era aggiudicata la gara col massimo ribasso è risultata, a posteriori, non in regola con i controlli antimafia. Per questa ragione le è stato revocato l’incarico, che è così passato alla seconda azienda in graduatoria, baricentrica rispetto al cratere sismico, che – pur avendo fatto un’offerta più elevata – ha accettato di svolgere i lavori allo stesso compenso richiesto dalla prima azienda aggiudicataria. I lavori di rimozione e messa a dimora definitiva delle macerie con amianto sono quindi ripresi a fine ottobre 2015 per concludersi completamente il 29 febbraio 2016. Sipario.
In alto: Movimentazione delle macerie nell’impianto di prima destinazione del rifiuto – Discarica di Medolla
Focus edilizia
La cura degli inerti Calcinacci, mattoni, sabbia, residui di cantieri edili e demolizioni: ogni anno se ne producono 45 milioni di tonnellate. Se il 70% di tutto questo venisse riciclato, anziché finire in discarica, si potrebbero chiudere per un anno almeno 100 cave. di Luca D’Ammando
Luca D’Ammando, giornalista, ha collaborato con il quotidiano Il Foglio e ora con Metro. Ha scritto per Vanity Fair e Sette.
I numeri, per prima cosa. In Italia al momento abbiamo 7.123 chilometri di autostrade, 24.241 chilometri di strade statali, 154.948 chilometri di provinciali e 1,3 milioni di chilometri di comunali. Ciò significa che il settore delle infrastrutture, tra manutenzione e realizzazione di nuovi tracciati, ha un impatto centrale nella produzione di rifiuti e nel conseguente inquinamento ambientale. Ma, visto da un’altra prospettiva, è un campo fenomenale dove applicare i principi dell’economia circolare, per rilanciare il settore e ridurre l’impatto degli interventi, spingendo il riciclo di materiali. Non si tratta di utopie ambientaliste ma di prospettive concrete, anzi, di un processo già in corso e delineato da leggi e decreti italiani ma anche dalla direttiva europea (2008/98/Ce), che prevede che al 2020 si raggiunga un obiettivo pari al 70% del riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione. E non mancano le opere pubbliche e private già realizzate in Italia, seppur tra molte difficoltà e rallentamenti. L’esempio più evidente è quello dell’Anas, una
società per azioni italiana avente per unico socio il ministero dell’Economia e delle Finanze, che gestisce direttamente circa 26.000 chilometri di strade, compreso il 90% di quelle statali. Da alcuni anni Anas sta effettuando una revisione dei propri capitolati speciali d’appalto, puntando a implementare, per le imprese affidatarie, la certificazione ambientale per la gestione di cantieri. Un caso concreto di infrastruttura realizzata da Anas recuperando i rifiuti edili è il passante di Mestre, dove si è potuto risparmiare oltre il 70% del materiale, pari a 32.000 metri cubi di materiale da cava. In questo modo, aspetto non secondario, si sono eliminati circa 40.000 viaggi di camion per il trasporto del materiale, riducendo notevolmente le emissioni di anidride carbonica. Qualche altro dato può rendere bene l’idea della questione in ballo. Ogni anno in Italia vengono prodotti quasi 45 milioni di tonnellate di rifiuti inerti, ovvero calcinacci, mattoni, pezzi di vetro e sabbia, residui di cantieri edili e demolizioni.
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materiarinnovabile 18. 2017 Se il 70% di tutto questo venisse riciclato, anziché finire in discarica, si potrebbero chiudere per un anno almeno 100 delle 2.500 cave attive in Italia, come ha evidenziato Legambiente nel suo ultimo rapporto dell’Osservatorio Recycle sul riciclo dei materiali edili, pubblicato lo scorso giugno.
Rapporto dell’Osservatorio Recycle L’economia circolare nel settore delle costruzioni, giugno 2017; www.legambiente. it/contenuti/dossier/ rapporto-recycle-2017
Info www.stradeanas.it
Oggi il 62,5% di quanto viene estratto dalle cave in Italia è composto da inerti. E lungo tutta la penisola esistono almeno 15.000 cave usate e abbandonate, di cui oltre la metà sono ex cave di sabbia e ghiaia. Una situazione destinata a ripetersi, con forti ripercussioni su paesaggio e territorio, visto che il recupero dei rifiuti inerti in Italia sfiora a mala pena il 10%, secondo i dati Uepg (Union Européenne des Producteurs de Granulats), e registra differenze enormi da regione a regione. In realtà le stime ufficiali (Eurostat 2012) parlano di 53 milioni di tonnellate di rifiuti e di un riciclo che viaggia attorno al 70% a livello nazionale, ma in Italia la quota di lavorazione in nero falsa completamente i dati. Basta confrontare per esempio i numeri italiani con quelli dei Paesi Bassi – che con una popolazione oltre quattro volte inferiore alla nostra registrano 81 milioni di tonnellate – per capire che qualcosa non torna. E che quel 70% è ben lontano dall’essere il dato reale. L’impatto delle cave sul paesaggio italiano è una delle questioni ambientali più stringenti, perché sono tante le ferite gravissime ancora aperte in tutta la penisola. È un dato oggettivo che oggi non esistono più motivi tecnici, prestazionali o economici che possano essere presentati come scuse per non utilizzare materiali provenienti dal riciclo nelle costruzioni. Anzi, l’applicazione di un sistema economico circolare porta con sé più di un vantaggio. In primo luogo in termini di lavoro e attività imprenditoriali, perché le esperienze europee dimostrano che aumentano sia l’occupazione sia il numero delle imprese attraverso la nascita di filiere specializzate. In secondo luogo, nella riduzione del prelievo da cava. Perché arrivando al 70% di riciclo di materiali di recupero si genererebbero oltre 23 milioni di tonnellate di materiali che – come detto – eviterebbero di ricorrere alle cave. Infine, in termini di contenimento dei consumi energetici e delle emissioni di gas serra. Infatti se – da qui al 2020 – si raddoppiasse la quantità degli pneumatici fuori uso recuperati, con il polverino di gomma da questi ricavato si potrebbero riasfaltare 26.000 km di strade. Il risparmio energetico ottenuto, considerando che non si userebbero più materiali derivati dal petrolio, sarebbe di oltre 400.000 MWh, ossia pari al consumo di circa due anni di una città come Reggio Emilia, con un taglio alle emissioni di CO2 pari a 225.000 tonnellate. In questo scenario a tinte cupe, un esempio positivo di economia circolare applicata alle infrastrutture da diversi anni è l’utilizzo di polverino di gomma proveniente dal trattamento degli pneumatici fuori uso negli asfalti. Infatti, ogni anno in Italia si registrano circa 350.000 tonnellate
di pneumatici recuperati presso impianti che ne operano la frantumazione e triturazione per produrre gomma riciclata, acciaio, fluff tessile e combustibili alternativi a quelli di origine fossile. In 27 diverse province ci sono già circa 250 chilometri di strade con asfalti con gomma riciclata, una tecnologia che ha i suoi punti di forza nel dimezzamento del rumore del traffico e il fatto di avere una vita media tre volte più lunga rispetto agli asfalti tradizionali. Legambiente ha calcolato che, se la Società Autostrade utilizzasse materiali riciclati per le opere di ampliamento in corso o in programma nei prossimi anni – pari a una lunghezza di 141 chilometri – solo considerando gli strati di fondazione e quelli bituminosi, con l’utilizzo di materiali riciclati si risparmierebbero dal prelievo di cava circa 400.000 metri cubi di materiale, pari ad almeno la produzione annuale di due cave di medie-grandi dimensioni. Eppure al momento, in nessuno di questi cantieri è previsto di usare polverino di gomma negli asfalti o aggregati e materiali provenienti dal riciclo nei sottofondi. Ci sono però diversi ostacoli al raggiungimento del target europeo del 70% di riciclo dei rifiuti da costruzione e demolizione entro i prossimi tre anni. La prima barriera riguarda i cantieri dei lavori pubblici e privati. In molti capitolati è ancora previsto l’obbligo di utilizzo di alcune categorie di materiali da cava o comunque “naturali”, obbligo che di fatto impedisce lo sfruttamento di quelli provenienti dal riciclo. Un notevole passo in avanti al riguardo è stato fatto con l’introduzione dei Criteri ambientali minimi per l’affidamento di servizi di progettazione e i lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici e per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione. Un secondo ostacolo deriva dall’assenza di riferimenti chiari e obblighi per l’utilizzo di materiali provenienti dal riciclo nei cantieri dei lavori pubblici. In sostanza il problema è che per tanti materiali provenienti dal riciclo si rimane in un campo di incertezza che ne limita l’utilizzo. Per questo diventa fondamentale fare chiarezza sul passaggio da rifiuto a prodotto riciclato. Innanzitutto perché i rifiuti che non hanno completato con successo il loro trattamento di recupero possono, se utilizzati al posto dei tradizionali materiali da costruzione, creare seri problemi all’impresa di costruzione di natura sia legale (traffico illecito di rifiuti) sia tecnica (mancata accettazione dei materiali da parte dei direttori lavori delle opere). L’obiettivo deve essere quello di fissare criteri tecnici e ambientali molto specifici con regole sulle caratteristiche geotecniche e ambientali che gli aggregati devono possedere per tutti i materiali di cui parliamo. Un passaggio indispensabile per stabilire quando, a valle di determinate operazioni di recupero, un rifiuto cessi di essere tale e diventi una materia prima secondaria o un prodotto non più soggetto alla normativa sui rifiuti.
Case Studies Intervista
di L. D.
Bisogna premiare chi utilizza materiali riciclati Serena Majetta, responsabile Geologia e gestione materie di Anas
In tema di economia circolare applicata al settore delle infrastrutture Serena Majetta ha molto da raccontare. La geologa è responsabile Geologia e gestione materie di Anas, l’ente nazionale delle strade che conta su un piano di investimenti da 30 miliardi l’anno e che, anche per questo, può diventare il motore di un processo di sviluppo davvero sostenibile, indicando ed evidenziando gli indirizzi di gestione per tutto il territorio. Buone intenzioni che però devono fare i conti con i numeri e i bilanci. “L’obiettivo di Anas – spiega Majetta – è trovare uno sbocco produttivo in un contesto duraturo di riutilizzo efficace dei rifiuti da costruzione e demolizione, andando a contenere i processi di consumo del suolo e delle risorse primarie”. Le direttive europee da questo punto di vista appaiono stringenti. “È vero, l’ormai noto target europeo del 70% di recupero rifiuti inerti entro il 2020 pone obiettivi e limiti ben precisi, ma la trasformazione nella pratica non è stata e non è così immediata, purtroppo.”
In un sistema con molti ostacoli, tutto inizia dai bandi di gara. “Anas sta mettendo a punto capitolati di gara che premino chi utilizza materiali riciclati, non solo terre e rocce, ma anche aggregati secondari. Un’implementazione di certificazioni ambientali per la gestione dei cantieri, laddove non previsto già dalle leggi. L’obiettivo è evitare sempre più diffusamente il ricorso alle cave.” Un ottimo proposito, ma è al momento realizzabile sia dal punto di vista organizzativo sia economico? “Non possiamo nascondere che la filiera ancora non è pronta. Parlo per quanto riguarda Anas che gestisce direttamente circa 25.000 chilometri di strade e che presto diventeranno 30.000: è ancora difficile reperire e poter utilizzare senza problemi materiali riciclati su una rete così ampia. Relativamente ai costi ci sono già filiere garantite, ora andrebbe standardizzato tutto il settore.” E le aziende come stanno reagendo a questa tendenza normativa che spinge per un maggiore riutilizzo dei rifiuti inerti? “La gran parte delle imprese di costruzioni con cui Anas lavora vorrebbe normative più precise e chiede di testare i loro nuovi prodotti, per avere una certificazione di idoneità sui materiali da recupero. Parliamo spesso di ex imprese di cave che hanno reindirizzato il loro campo d’azione. Da questo punto di vista un trend molto incoraggiante.” Esistono già esempi concreti di materiali di recupero utilizzati nei cantieri Anas? “Certo, da tempo riutilizziamo il fresato per il risanamento della fondazione stradale, miscelandolo con bitume schiumato e cemento. Per esempio, sull’A3, l’Autostrada del Mediterraneo, in tutto il terzo macrolotto la costruzione ex novo dello strato di fondazione è avvenuto con il riutilizzo del fresato. Mentre lungo la strada statale Jonica il processo di stabilizzazione a calce ha permesso di riutilizzare materiali provenienti dagli scavi delle gallerie. Per capirci meglio, il processo di stabilizzazione consiste nel miscelare le terre argillose con calce di apporto al fine di renderle idonee, resistenti e stabili.” Avete rapporti con altri enti per coordinare uno sviluppo sostenibile di tutto il settore? “Stiamo cercando di creare un consorzio che evidenzi i principali obiettivi e le relative strategie unitamente a tutti gli stakeholder. In questo senso con l’Università La Sapienza di Roma lavoriamo per dare vita un circolo virtuoso in cui coinvolgere dagli enti di controllo alle imprese di costruzioni.”
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Focus edilizia
Perché è un modello di Guglielmo Carra
La ricerca Circular Business Models for the Built Environment è disponibile online: http://publications.arup. com/publications/c/ circular_business_ models_for_the_built_ environment
DA SEGUIRE
Quantità enormi di materie e risorse consumate e di rifiuti prodotti: il modello adottato dall’industria edile è insostenibile e inefficiente. Una ricerca di Arup e Royal BAM mostra le opportunità e i benefici – economici, sociali e ambientali – offerti dal business circolare. Non è possibile implementare dei modelli di business circolare (Circular Business Models, CBMs) nell’ambito delle costruzioni senza un intervento deciso. Infatti a oggi ci sono numerosi esempi in cui è considerato più economico e conveniente convertire in discarica le risorse dopo il loro primo utilizzo piuttosto che riutilizzarle. Invece, attraverso l’analisi sistemica dell’intero ciclo di vita degli “asset” immobiliari così come dei sistemi e dei componenti utilizzati nelle costruzioni
e con il supporto delle nuove tecnologie e applicando approcci avanzati alla progettazione, si potrebbe creare ulteriore valore. Questo valore dovrà dimostrare un caso di business in cui è conveniente, sotto un profilo economico, adottare i CBMs. Tutti gli attori tradizionali del processo costruttivo sono importanti per favorire questa transizione, dal modello lineare a quello circolare. Finanziatori, proprietari e fruitori degli immobili saranno
FATTORI ABILITANTI
Grafico: Per massimizzare il valore derivato dall’economia circolare saranno necessari diversi fattori abilitanti. Generalmente questi rientrano in tre categorie funzionali: progettazione, informazione e collaborazione. Come risultato atteso vi sarà la creazione di ulteriore valore attraverso il processo, con vantaggi sull’aumento di valore dei beni e la diminuzione della produzione di rifiuti. ©Arup&BAM
INFORMAZIONE PROGETTAZIONE Decostruzione Riassemblaggio Incremento flessibilità futura
Costo/condizione Produttività delle risorse Dati sul ciclo di vita Proprietà Garanzia Tracciabilità
COLLABORAZIONE Aumento della condivisione Trasparenza Innovazione e nascita di nuovi prodotti Modelli di business a lungo termine anziché a breve termine
RISULTATI ATTESI OPERAZIONI
BENI
Maggiore attenzione alle prestazioni di un bene piuttosto che al modello di proprietà
Mantenimento al massimo valore di materiali e prodotti più a lungo
Migliore utilizzo
Certezza della manutenzione e della sostituzione
Maggiore scelta per i consumatori
Vantaggi sul costo complessivo
RIFIUTI Sicurezza dei materiali Riduzione della creazione di rifiuti nel ciclo di vita utile Soluzioni a cicli aperti e chiusi
Case Studies Guglielmo Carra, Materials Consulting Lead Europe, Arup.
Grafico in basso: Un edificio progettato in maniera circolare sarà abitato in maniera molto diversa rispetto a un equivalente edificio progettato secondo criteri tradizionali. Per questo sarà importante valutare gli aspetti consequenziali, come per esempio, quali impatti saranno generati sui contratti di affitto. Per fare ciò andranno tenuti in considerazione gli input di affittuari, agenti immobiliari e proprietari degli edifici. ©Arup&BAM
La digitalizzazione delle informazioni e il passaggio a un ufficio che non utilizza la carta ridurranno il bisogno di spazio di archiviazione degli uffici
fondamentali per arrivare a un “ambiente costruito circolare”. Questo dovrà accadere scegliendo idonee strategie di sviluppo e modelli operativi alternativi. In quest’ottica architetti, progettisti, ingegneri, fornitori, appaltatori e gestori avranno un ruolo fondamentale nella creazione di soluzioni circolari per facilitare un passaggio ai CBMs. Economia circolare: un’opportunità per l’industria delle costruzioni L’industria delle costruzioni è la maggiore utilizzatrice di risorse e materie prime tra tutti i settori produttivi, a livello globale. Nel Regno Unito il settore edile consuma circa il 60% dei materiali, mentre in Europa i rifiuti da costruzione e demolizione rappresentano circa il 25-30% del totale dei rifiuti prodotti. Per invertire questa tendenza è necessario modificare il modo in cui la catena di valore delle costruzioni è stata vista storicamente. Diversi elementi come la capacità di progettare per il lungo termine, il ruolo della tecnologia e dell’innovazione,
ATTUALE
l’adozione di nuovi modelli di produzione e consumo e l’importanza della collaborazione lungo tutta la catena di valore e il ciclo di vita di un bene costruito, hanno un ruolo significativo per aiutare a ridurre l’utilizzo di materie prime e ottimizzare la gestione dei rifiuti. Adottando l’economia circolare, il punto focale si sposterà verso la sostenibilità delle risorse, il mantenimento del valore dei materiali per tutto il ciclo di vita e il minor sfruttamento dei materiali non rinnovabili. È atteso che questo porti all’ottenimento di vantaggi finanziari, sociali e ambientali. Secondo il dipartimento di economia della Banca ING, il mercato disponibile per un’economia circolare è in aumento e si stima che nei prossimi dieci anni l’economia circolare contribuirà allo sviluppo globale con una crescita fino al 4%. Attualmente ci sono chiare inefficienze nei modelli di business nel settore delle costruzioni, che impattano sul ciclo di sviluppo di un edificio
L’hot desking (sistema di postazioni mobili), il lavoro flessibile e la tecnologia mobile ridurranno il numero di scrivanie necessarie
FUTURO
La modifica dei modelli di lavoro e la crescente pressione sui terreni per l’edilizia abitativa può significare che gli edifici commerciali saranno molto differenti in futuro e dovranno adattarsi flessibilmente alla domanda. Gli edifici commerciali saranno in grado di fornire spazio per altri utenti, per esempio a fini abitativi o di cura, quindi facendo affluire nuovi tipi di “affittuari” a secondo del cambiamento della cultura del lavoro e delle necessità
Invece di un’area ufficio, gli affittuari prenderanno in affitto uno spazio di lavoro, in modo che lo sfruttamento degli arredi pensili possa adeguarsi facilmente ai cambiamenti di esigenze del business Utenti diversi utilizzeranno lo stesso spazio in momenti diversi della giornata, sfruttandone appieno le potenzialità
Spazio per uffici in affitto
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materiarinnovabile 18. 2017 con maggiori costi in tutte le fasi del suo ciclo di vita. Da un punto di vista produttivo l’economia globale sta consumando il 30% in più di risorse naturali rispetto a quanto può effettivamente permettersi. Durante il loro ciclo di vita gli edifici e i beni che compongono l’ambiente costruito non sono sfruttati al massimo delle loro potenzialità: per esempio si stima che gli edifici adibiti a uffici vengano sfruttati, da un punto di vista degli spazi disponibili e nella migliore delle ipotesi, al 65%. Il valore reale di questi beni non viene sempre preso in considerazione perché i costi della manutenzione degli impianti, dei sistemi, delle finiture di interni, degli arredi ecc. spesso non sono sostenuti degli stessi soggetti. Poter migliorare lo stato attuale rappresenta una sfida e un’opportunità per l’industria delle costruzioni per comprendere il valore reale di un prodotto in relazione a un modello di business circolare. L’economia circolare quando applicata al ciclo di sviluppo di un edificio dovrà affrontare queste inefficienze. Il valore sarà creato facendo crescere la capacità dei beni di rispondere flessibilmente alle condizioni del mercato, incrementando il loro tasso di utilizzo, diversificando i flussi di reddito e massimizzando il valore residuo dei materiali che
Grafico in basso: L’attuale ciclo di sviluppo di un edificio genera perdita di valore ed effetti collaterali in ogni fase. Per raggiungere un suo miglioramento, ogni soggetto coinvolto nella catena di valore deve analizzare il proprio ruolo e i prodotti o servizi che fornisce per valutare come questi potrebbero generare ulteriore valore e ridurre gli scarti e le inefficienze. ©Arup&BAM Spesso la progettazione non è in grado di considerare i cambiamenti delle richieste degli utenti dell’edificio I rifiuti vengono originariamente e inconsapevolmente creati da una progettazione poco attenta alle fasi di sviluppo dell’edificio
compongono l’edificio. Le sfide e le opportunità che ne derivano riguardano il sostenimento dei costi iniziali di ricerca e sviluppo, il finanziamento della transizione tra i modelli di business lineare a quelli circolari e la promozione di una sufficiente collaborazione tra gli attori della filiera al fine di ottenere e condividere i potenziali vantaggi sistemici. Modelli di business circolare Mentre i modelli di business tradizionali spesso non favoriscono la collaborazione lungo l’intera catena di valore, l’economia circolare propone nuovi modelli che incentivano i soggetti coinvolti a contribuire a un risultato che garantisca il miglior risultato possibile per tutte le parti interessate, per esempio utilizzando componenti che mantengano il loro massimo valore per tutto il ciclo di vita e minimizzano le perdite di valore complessivo. L’innovazione (sotto forma di piattaforme digitali, passaporto dei prodotti, stampanti 3D e sensori di vario tipo) avrà un ruolo fondamentale permettendo l’applicazione dei CBMs. Verranno creati database dei materiali per immagazzinare le informazioni richieste e facilitarne l’utilizzo e la fruizione e per mostrarne il valore residuo
I componenti vengono modellati e assemblati in loco, creando rifiuti
Costruzione Ditta costruttrice
I componenti utilizzati nella costruzione spesso non possono essere completamente disassemblati
I produttori garantiscono le prestazioni solo nel caso di vendita dei loro prodotti (sistemi o componenti)
Fabbricazione Produttori
Progettazione Architetti Ingegneri
Solitamente vengono utilizzati materiali vergini invece di materiali ad alto contenuto di materie riciclate
Linee guida Cliente Logistica Fornitori I clienti raramente considerano il valore residuo dell’edificio
Attualmente è impensabile di poter restituire i materiali ai produttori
Le aziende logistiche non tengono traccia della collocazione in cui i loro prodotti vengono installati
Case Studies nel corso del tempo così come alla fine del ciclo di vita di un edificio. Inoltre, piattaforme come Building Information Modeling (BIM) diventeranno fondamentali per connettere insieme all’interno della stessa piattaforma i diversi soggetti del processo e le tecnologie utilizzate al fine di garantire una maggiore efficienza del processo e migliorare le prestazioni degli edifici. Tutto quanto detto dovrà necessariamente essere affiancato da un nuovo modello di governance e da chiare regolamentazioni in materia che permettono l’implementazione di tali modelli e alla contestuale riduzione di fattori di rischio che potrebbero frenare gli investimenti necessari per sostenere i CBMs. Per supportare la transizione all’economia circolare, sia le istituzioni finanziarie sia i governi saranno di vitale importanza. Come aspetto di maggior rilievo i modelli di business circolare dovrebbero permettere la conservazione di un bene al massimo del suo valore nel tempo e favorire il miglioramento del capitale naturale. Per tale ragione saranno necessari diversi CBMs in relazione alle diverse fasi del ciclo di vita – progettazione, utilizzo e recupero – di un bene. Questi potranno funzionare in modo indipendente o in modo collaborativo.
Le informazioni su come l’edificio è costruito non sono incluse in un formato condivisibile con gli altri soggetti coinvolti, in particolare considerando le fasi di manutenzione e di fine vita
Il successo nell’implementazione di questi modelli di business richiederà l’azione di progettisti, produttori, fornitori, appaltatori e aziende che si occupano della fine del ciclo di vita attraverso la condivisione di materiali, sistemi, energia, e anche informazioni e servizi. Nuovi modelli di business permetteranno un maggiore controllo dei flussi di risorse lungo la catena di valore in modo che il valore aggiunto possa essere identificato e sfruttato. In più permetteranno l’innovazione lungo la catena del valore, in modo che possano essere create nuove opportunità commerciali per esempio nell’ambito della gestione separata e selettiva dei rifiuti delle costruzioni, dei nuovi processi atti alla riprogettazione e alla riproduzione dei componenti e sistemi o alla logistica inversa, per permettere il deflusso di materiali dal cantiere verso i nuovi impianti di trattamento dei rifiuti materici. Porteranno un miglioramento della collaborazione all’interno della catena di valore fra tutti gli attori e permetteranno la creazione di servizi che sfruttino i prodotti come risorse preziose. Una catena di valore circolare In un ambiente costruito basato sull’economia circolare nessuna azienda lavorerà isolata
L’alto valore dei materiali viene perso in fase di demolizione perché i componenti non possono essere disassemblati
Demolizione Ditte specializzate nella demolizione
I materiali di scarto sono spesso difficili da separare I materiali vengono solitamente declassati, con una riduzione del loro valore
Smaltimento / riciclo Impianti di riciclo
I proprietari dei beni non hanno sufficienti informazioni per riutilizzare o convertire l’uso dei loro beni in maniera efficace
Utilizzo Locatari Proprietari Costruttori Gestori Investitori
Gli edifici sono spesso sottoutilizzati. I contratti di affitto non sono sufficientemente flessibili per garantire un migliore sfruttamento degli spazi nel corso del tempo
L’edificio non è adattabile a usi differenti
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materiarinnovabile 18. 2017 e vi saranno opportunità di ampliare i servizi offerti o di collaborare per massimizzare il valore di prodotti o servizi. I modelli di business tradizionali spesso non favoriscono la collaborazione lungo la catena di valore in quanto agiscono indipendentemente gli uni dagli altri, e raramente prendono in considerazione gli obiettivi degli altri soggetti che compongono la filiera. Una catena di valore complessa come quella del settore delle costruzioni ha generalmente un approccio frammentato in cui i prodotti e i servizi sono venduti da un’azienda e acquistati da un’altra. Nell’economia circolare invece i punti di forza e i rischi di un’azienda dovrebbero essere visti complessivamente all’interno della catena di valore a cui appartiene.
Per esempio, un’azienda che basa il proprio modello di business circolare sul rinnovamento e la manutenzione dei propri prodotti potrebbe aver bisogno di collaborare con un fornitore di sistemi di tracciamento in modo da poter monitorare e mantenere traccia dei luoghi in cui i propri prodotti sono stati installati. Oltre a questo potrebbe essere necessario collaborare con un’azienda che si occupa di logistica per assicurare che i prodotti non più utilizzati vengano riportati al produttore originario. Al fine di conservare i dati sui materiali “immobilizzati” all’interno degli edifici si potranno usare piattaforme di condivisione dati quali per esempio il BIM. Ogni fase del ciclo di vita comporta opportunità e sfide che devono essere gestite dai diversi soggetti interessati attraverso un meccanismo
Grafico in basso: Questo diagramma dimostra che i modelli di business circolare possono essere raggruppabili in tre categorie a seconda delle fasi del ciclo di vita in cui intervengono: progettazione, uso e recupero. ©Arup&BAM SISTEMA DI TRACCIAMENTO PROGETTAZIONE CIRCOLARE
UTILIZZO CIRCOLARE
RECUPERO CIRCOLARE
Questo modello punta a fornire servizi per facilitare il tracciamento di materiali, componenti e parti di un sistema in modo che possano essere scambiati nei mercati secondari di materie prime
PROGETTAZIONE DI PRODOTTO E DI PROCESSO Questo modello di business riguarda la progettazione di componenti, sistemi e dell’intero edificio con il fine ultimo di incrementare la sua vita utile. Questo include la definizione di soluzioni specifiche per migliorare le strategie di manutenzione, di riparazione e di miglioramento
SOSTENTAMENTO DEL CICLO DI VITA Parti soggette a usura, parti di ricambio e aggiuntive dovranno essere fornite per sostenere il ciclo di vita dei prodotti a lunga durata
Una pianificazione strategica del processo attraverso la catena del valore è necessaria al fine di aumentare il potenziale per il riuso e il riciclo di prodotti, prodotti secondari e dei flussi dei rifiuti
Progettazione
Fornitura di materiali
Produzione
Forniture circolari
Logistica
Riproduzione I materiali riciclati come risorse
FORNITURE CIRCOLARI Questi modelli di business si focalizzano sullo sviluppo di nuovi materiali per migliorare i materiali prodotti con energie rinnovabili, tecnologie biobased, a minor contenuto di risorse primarie o completamente riciclabili
FORNITORI DI MATERIALI RECUPERATI Materiali, componenti e parti di un sistema recuperati vengono venduti per essere utilizzati al posto dei materiali vergini o riciclati. Un esempio potrebbe riguardare la sostituzione del cemento nel calcestruzzo
IMPIANTI DI RICICLO Questo modello si concentra sulla trasformazione dei rifiuti in materie prime. Sarà possibile generare un flusso di cassa attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie di riciclo
Case Studies di collaborazione. Lo sviluppo di catene di valore integrate potrebbe garantire alle aziende un vantaggio competitivo nel prossimo futuro. Azioni future La complessità del settore delle costruzioni lavora tuttora a vantaggio dell’attuale modello di business lineare. Per superare le possibili difficoltà future la filiera deve tenere in considerazione quanto segue. Visione di lungo periodo L’industria delle costruzioni lavora a compartimenti stagni, in cui ogni soggetto coinvolto persegue il proprio interesse. Per esempio, in uno scenario edilizio speculativo, lo sviluppatore tende a puntare alla vendita
ESTENSIONE DEL CICLO DI VITA In questo caso lo scopo è di prolungare il periodo di vita utile di prodotti, componenti e sistemi attraverso soluzioni ingegneristiche che includono il loro disassemblaggio e il futuro riassemblaggio, la riparazione, la manutenzione e la loro nova funzionalizzazione VENDITA E NUOVO ACQUISTO In questo caso un prodotto viene fornito considerando che verrà riacquistato dopo un certo periodo di tempo
degli edifici nel minor tempo possibile, il che può costituire un deterrente per investimenti su materiali di alta qualità e per una progettazione che consideri le prestazioni a lungo termine. Se, invece, lo sviluppatore mantenesse la proprietà dei materiali che compongono l’edificio, si creerebbe un maggiore incentivo a valutare adeguate strategie per il lungo termine. Per poter ottenere questo sono necessarie nuove forme di contratti e di partnership. Progettare per il disassemblaggio (futuro) Il settore delle costruzioni deve ripensare il modo di progettare considerando il potenziale di riuso di un bene. Insieme alla progettazione mirata alla decostruzione, deve essere tenuto in considerazione il valore sociale di un bene già dai primi stadi della progettazione.
PRODOTTI COME SERVIZIO Questo modello di business mira a fornire e a garantire le prestazioni attraverso un servizio piuttosto che un prodotto. Per permetterlo la proprietà di sistemi e componenti rimane del produttore (fornitore del servizio). Commercialmente il flusso primario di cassa deriverà dal pagamento della prestazione fornita. Questo si applica in maniera molto efficace agli impianti meccanici, di illuminazione e alle attrezzature, ma può potenzialmente essere esteso ad altre parti di un edificio o di una infrastruttura
PIATTAFORME DI CONDIVISIONE
Manutenzione e miglioramento
Questo modello di business genera un maggiore tasso di utilizzo dei prodotti o dei sistemi permettendo la condivisione di utilizzo o di accesso fino alla condivisione della proprietà. Nello stesso tempo mira ad implementare l’uso di impianti per la produzione collaborativa
Nuova vendita
Condivisione
Vendita e collocamento sul mercato
Utilizzo Smaltimento in discarica a fine vita
Logistica inversa
RINNOVAMENTO E MANUTENZIONE Le parti e i componenti già usati vengono rinnovati e manutenuti per poter essere successivamente venduti
FORNITORI DI SERVIZIO DI RECUPERO Fornisce sistemi di riacquisto e servizi di raccolta per recuperare risorse utili da prodotti o sottoprodotti altrimenti convertiti in discarica
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Innovare Soluzioni sempre più adatte e accurate si svilupperanno all’interno della catena di valore solo quanto l’approccio basato sull’economia circolare sarà a regime. I contratti e i metodi di procacciamento dovranno variare a supporto di questa transizione. Con l’aumento della richiesta da parte di governi e clienti di requisiti circolari, sarà necessario che si sviluppi maggiore innovazione all’interno del processo costruttivo. Questo rappresenta uno scoglio di non poco conto per un settore che storicamente ha preferito l’uso di tecniche sperimentate e testate, invece di utilizzare nuove tecnologie. La realizzazione di progetti pilota potrà contribuire a superare il potenziale scetticismo e a fornire nuova comprensione per sviluppare ulteriormente i modelli di business. Flessibilità e durabilità Anche se i materiali vecchi possono essere riusati o riciclati in una progettazione flessibile, il lavoro di manutenzione necessario e i processi della logistica implicano l’uso di energia e risorse. Questo pone un dilemma tra la flessibilità di un edificio e la sua durabilità. Gli edifici durevoli sono costruiti per rimanere nel tempo al contrario in un’economia circolare gli edifici dovrebbero permettere il disassemblaggio e il riuso delle sue parti in termini relativamente corti da consentire
un effettivo ritorno per le aziende coinvolte nella gestione dei materiali. Sarà fondamentale trovare un equilibrio tra questi due aspetti. Utilizzare nuovi modelli di produzione e consumo Idealmente dovrà essere utilizzato il minimo indispensabile di materiali per mantenere al minimo l’estrazione di risorse e l’inquinamento associato. In realtà analizzando il processo attuale di costruzione una grande quantità di materiale va sprecato durante le fasi di realizzazione. Questo spreco di materiale potrebbe essere evitato prendendo in considerazione la prefabbricazione. Un’economia circolare richiede cambiamenti lungo tutte le fasi della catena del valore, dalla progettazione dei prodotti a nuovi modelli di business, da nuovi modi per trasformare gli scarti in risorse a nuovi modelli di comportamento dei consumatori. Collaborare La condivisione delle informazioni e la collaborazione durante tutto il ciclo di vita di uno bene saranno la chiave per lo sviluppo di approcci innovativi al design, alla costruzione e alla manutenzione. Questo sarà possibile solo con una cooperazione lungo tutta la catena di valore che permetta ai CBMs di prosperare nell’ambiente costruito, facendo aumentare il valore dei beni.
Grafico: Diagramma che mostra la struttura di una filiera circolare nel settore delle costruzioni. ©Arup&BAM
Fornitori e produttori hanno l’opportunità di recuperare materiali alla fine della vita di un edificio, questo consente di avere una seconda fonte di guadagno, mediante la rivendita o la conversione. Il mantenimento della proprietà da parte del produttore garantisce un ritorno economico a lungo termine così come una protezione dall’aumento dei prezzi dei beni e dalla scarsità di materiali. Come ulteriore beneficio si potrà creare un meccanismo di fidelizzazione con i clienti Produttori / fornitori
I progettisti dovranno lavorare a stretto contatto con i produttori e i fornitori per garantire che la progettazione dell’edificio sia ottimizzata per il suo disassemblaggio e per l’adattabilità futura
Appaltatori
Progettisti
Estrazione dei materiali Riciclatori / banche del riuso
Le aziende di demolizione avranno un’opportunità per cambiare i loro modelli di business diventando fornitori di materiali riutilizzati, attraverso attività congiunte con i produttori, al fine di assicurare una fornitura costante di materiali
Utente finale / manager di aziende di servizi
Gli appaltatori dovranno assicurare che gli utilizzatori, i gestori dei beni e gli sviluppatori implementino le soluzioni circolari nel corso del ciclo di vita dell’edificio
I CAVALLI preferiscono la gomma Realizzato in Umbria il primo campo di lavoro equestre dove al posto della sabbia sono stati usati 30.000 chilogrammi di granuli di gomma ottenuta da pneumatici fuori uso. Con vantaggi per l’ambiente e la salute degli animali. di D. Z.
Dalle ruote delle automobili agli zoccoli dei cavalli, il passo è più breve di quanto si possa immaginare. Ad avvicinarli oggi un progetto che – grazie a un’innovativa applicazione della gomma riciclata degli pneumatici fuori uso (Pfu) – riesce a fondere l’economia circolare al benessere animale. Il centro ippico di Orvieto
Un piano ambizioso che ha un duplice obiettivo: ridurre l’insorgenza di patologie articolari e respiratorie nei cavalli e stimolare nuovi ambiti di applicazione della gomma riciclata nel settore equestre.
A Orvieto, nel cuore verde dell’Umbria, la partnership tra Ecopneus – tra i principali responsabili della gestione degli pneumatici fuori uso in Italia – e Uisp (Unione italiana sport per tutti) ha dato vita al primo campo di lavoro per cavalli interamente realizzato in gomma riciclata. Un piano ambizioso che ha un duplice obiettivo: ridurre l’insorgenza di patologie articolari e respiratorie nei cavalli e stimolare nuovi ambiti di applicazione della gomma riciclata nel settore equestre. Le tradizionali pavimentazioni normalmente utilizzate in questi contesti, infatti, sottopongono le articolazioni degli animali a eccessive sollecitazioni e affaticamento muscolare. Inoltre l’installazione di piastre
in gomma all’interno dei box e dei camminamenti riduce il rischio di pericolosi scivolamenti. Non solo: con questa soluzione i materiali da lettiera vengono quasi totalmente eliminati, facilitando le operazioni di pulizia e aumentando l’igiene e la salubrità degli ambienti. Un vantaggio significativo, visto che una delle patologie respiratorie più frequenti negli equini e negli addetti ai lavori è legata alla silicosi, dovuta all’inspirazione delle micro-polveri di sabbia che si sollevano durante l’attività nei campi all’aperto. Grazie al progetto Ecopneus-Uisp, nel campo di lavoro esterno del centro ippico “Happy Horse” di Orvieto la sabbia è stata sostituita con oltre 30.000 kg di granulo di gomma riciclata “nobilitato”, ovvero rivestito da resine poliuretaniche colorate, in questo caso di colore marrone: un processo che impedisce l’eccessivo riscaldamento del materiale, lo preserva dagli agenti atmosferici e conferisce al prodotto un aspetto estetico più naturale. Sotto lo strato di granuli è stato realizzato anche un sottofondo di circa 2.500 piastre in granuli di gomma stampata, che hanno portato il totale di gomma riciclata impiegata nel centro a oltre 80.000 kg: un peso equivalente a quello di circa 9.000
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pneumatici utilizzati sulle nostre autovetture. La gomma riciclata è stata fornita da due aziende partner di Ecopneus per la frantumazione dei Pfu, la Steca di Fermo e la Tritogom di Cherasco (Cuneo), mentre il campo è stato realizzato dall’azienda Promix di Bonate Sotto (Bergamo). Dalla Francia all’Italia L’idea di utilizzare i prodotti in gomma per le aree esterne dei centri equestri è stata presa dal nord ovest della Francia, in un maneggio di Nantes. Ecopneus e Uisp hanno deciso non solo di importare la soluzione, ma di adattarla al contesto italiano, aggiungendo la “nobilitazione” del granulo di gomma e rendendolo ancora più adatto all’uso finale. Ora un’equipe di ricercatori del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Perugia, guidati da Francesco Porciello, condurrà a Orvieto un progetto di ricerca con l’obiettivo di confermare i vantaggi già emersi in un analogo studio condotto a Nantes. In ogni caso, le prime impressioni raccolte fra gli addetti ai lavori sono più che incoraggianti: grazie all’utilizzo del granulo di gomma, le dispersioni di polveri
nell’aria sono diminuite a punto che il campo non necessita di essere bagnato prima dell’utilizzo, mentre sembra evidente come i cavalli riescano a muoversi in maniera più confortevole sulle piastre in gomma che sui tradizionali pavimenti rigidi in calcestruzzo. Fabrizio Rueca, responsabile degli studi sulle problematiche respiratorie dell’Ateneo umbro, spiega come la collaborazione con Ecopneus e Uisp si muova in due direzioni: “Lo studio prevede campionamenti ambientali effettuati dall’Istituto di medicina del lavoro, attraverso rilevatori di polveri posti sugli istruttori, sui cavalieri e nell’ambiente. La parte veterinaria, invece, prevede l’esecuzione di endoscopie dell’apparato respiratorio con lavaggio bronchiolo-alveolare per la ricerca di segni di infiammazione cronica; i cristalli di silicio presenti nella sabbia possono, infatti, dare luogo a patologie respiratorie croniche, le silicosi, che sono state descritte sia nell’uomo sia nel cavallo”. I primi risultati della ricerca saranno illustrati da Ecopneus e Uisp a Fieracavalli di Verona dal 26 al 29 ottobre, uno dei principali appuntamenti internazionali per il mondo equestre, dove, inoltre, circa venti box e camminamenti saranno
Case Studies pavimentati con piastre prefabbricate in gomma e dove verrà anche installato un campo di lavoro interamente realizzato in gomma riciclata su cui si svolgeranno tornei e attività. Alla ricerca di nuove applicazioni
Ogni anno Ecopneus gestisce circa 250.000 tonnellate di pneumatici fuori uso, l’equivalente in peso di 27 milioni di pneumatici da autovettura: una mole enorme di prodotti a fine vita che viene poi avviata a recupero di materiale o di energia.
Ogni anno Ecopneus gestisce circa 250.000 tonnellate di pneumatici fuori uso, l’equivalente in peso di 27 milioni di pneumatici da autovettura: una mole enorme di prodotti a fine vita che viene poi avviata a recupero di materiale o di energia. Anche se, avendo un potere calorifico superiore a quello del carbone, i Pfu vengono utilizzati per alimentare centrali elettriche e cementifici, l’ambito più interessante – peraltro espressamente incentivato dalla normativa comunitaria – è decisamente quello del recupero di materiale, grazie al quale gli pneumatici tornano a nuova vita e vengono trasformati in nuovi prodotti. “L’intervento di Orvieto – sottolinea il Direttore generale di Ecopneus, Giovanni Corbetta – sintetizza il nostro approccio allo sviluppo dei mercati delle applicazioni della gomma riciclata da Pfu. Siamo partiti dalle analisi di esperienze internazionali, abbiamo studiato le ricerche scientifiche condotte sul campo, le abbiamo adattate alla realtà del mercato italiano, migliorandone inoltre anche alcuni aspetti e le abbiamo poi realizzate mettendo insieme le migliori competenze nei rispettivi settori: medicina veterinaria, enti di promozione sportiva ed aziende dell’economia circolare italiana. Il nostro obiettivo è quello di consolidare quelle applicazioni in cui la gomma riciclata può
rappresentare un vero e proprio elemento di svolta rispetto altri materiali analoghi. È il caso del settore equestre, dove il beneficio è mettere a disposizione un materiale pregiato che in questo contesto genera notevoli vantaggi”. Attualmente il settore dello sport nel suo insieme assorbe oltre il 40% della gomma riciclata della filiera Ecopneus: campi da calcio in erba sintetica di ultima generazione, superfici sportive indoor e outdoor per basket, volley e pallamano, playground e campi di lavoro per l’equitazione, già beneficiano delle sue proprietà elastiche, ammortizzanti, antitrauma e di resistenza. Rispetto al recupero energetico, il recupero di materia resta la via maestra da seguire; non solo per le indicazioni che arrivano da Bruxelles, ma perché la gomma riciclata può concretamente fare la differenza rispetto altri materiali analoghi in termini di costi, di impatti occupazionali e di sostenibilità ambientale. Ma, al di là del settore sportivo, ci sono anche altre applicazioni della gomma riciclata – dagli asfalti modificati agli isolanti acustici, fino a elementi di arredo urbano come dossi, rallentatori e attraversamenti – che rispondono ai requisiti richiesti dal Green public procurement (Gpp), gli acquisti verdi della pubblica amministrazione. Non a caso da tempo Ecopneus sta lavorando con i ministeri competenti per definire i Criteri ambientali minimi (Cam) che possano incoraggiare le amministrazioni ad acquisti verdi di tali materiali; la spinta decisiva al consolidamento del mercato dei prodotti in gomma da riciclo passa inevitabilmente anche da qui: solo in questo modo sarà possibile avvicinarsi alla soglia del 100% di recupero di materia.
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MEGLIO RICICLARE
che estrarre
Dall’estrazione di materiali grezzi alla produzione di metalli preziosi ottenuti dal riciclo di rifiuti elettronici e industriali. La storia di un’azienda belga che è riuscita a trasformare i rifiuti in oro. di Antonella Ilaria Totaro
Con circa 10.000 dipendenti e un fatturato di 11,1 miliardi di euro nel 2016 Umicore è un’azienda belga quotata in Borsa. Con sede a Bruxelles e alle spalle una storia di oltre due secoli, è oggi tra le aziende più esperte nel riciclo di materiali complessi (residui industriali e rifiuti elettronici) contenenti metalli preziosi: riesce a recuperare 17 metalli preziosi da oltre 200 flussi complessi di ingresso provenienti da tutto il globo. Oltre all’attività nel settore del riciclo, Umicore è uno dei tre leader globali nella produzione di catalizzatori di controllo delle emissioni per veicoli leggeri e pesanti e per tutti i tipi di carburanti, ed è il principale fornitore dei materiali catodici per le batterie ricaricabili usate in apparecchi elettronici portatili e nelle automobili ibride ed elettriche.
Case Studies 1. Umicore ha, tra le altre in corso, una partnership con Fairphone, azienda olandese produttrice del primo smartphone circolare (vedi A. Totaro “Quando lo smartphone è fair”, Materia Rinnovabile n. 17; www.materiarinnovabile. it/art/344/Quando_lo_ smartphone_e_fair).
Se estrarre metalli più e meno preziosi da vecchi apparecchi elettronici e cellulari1 è fondamentale, tuttavia quel che più è interessante di Umicore è il cambiamento radicale di modello di business che l’azienda ha messo in campo negli ultimi due decenni, riuscendo – da impresa impegnata nell’estrazione di metalli (in primis rame e zinco) a diventare un’azienda specializzata nella tecnologia dei materiali e nel riciclo di metalli. In pratica Umicore ha abbandonato totalmente l’estrazione: riciclano i nostri rifiuti da cui estraggono metalli che diventano le cosiddette materie prime seconde. Tutto ha inizio nel 1906 con la costituzione dell’Union Minière du Haut Katanga (Umhk), che ha operato nel Katanga, provincia dell’attuale Repubblica Democratica del Congo. L’attività estrattiva dell’Umhk, soprattutto riguardante il rame, ha contribuito allo sviluppo economico del Belgio; negli anni l’Union Minière è arrivata a controllare l’esportazione nel mondo di cobalto (nel 1950 ne controllava il 75% della produzione), ma anche di stagno, uranio e zinco. Nel 1989 dalla fusione dell’Union Minière con Vielle Montagne, azienda produttrice di zinco nata nel 1805, Metallurgie Hoboken-Overpelt, azienda metallurgica, e Mechim, azienda di ingegneria, nasce Umicore. La crisi economica di metà anni ’90 colpisce i profitti dell’azienda e spinge a un più ampio programma di ristrutturazione. Nel 1995 Umicore ricava il 90% del proprio reddito dalle merci e dall’attività di estrazione e solo il 10% da materiali avanzati come cobalto e germanio.
Nello stesso anno inizia il passaggio dal settore estrattivo e dei metalli alle tecnologie pulite e alle sostanze chimiche speciali. L’azienda decide di cambiare direzione, avviando una lunga fase di transizione che ha richiesto tempo, risorse finanziarie, visione e costanza. Il piano industriale ha previsto investimenti per 650 milioni nel riciclo e nei materiali avanzati e disinvestimenti nel settore estrattivo. Nella prima fase di passaggio, corrispondente agli ultimi anni ’90, è stato aperto un nuovo centro di ricerca e sviluppo a Olen, vicino Anversa; si è iniziato a esplorare il settore dei materiali per le batterie in Corea; sono stati avviati nuovi processi produttivi a Hoboken, sede belga di uno storico stabilimento dell’azienda, e sono stati fatti primi investimenti in Cina. Il radicale cambiamento nel posizionamento dell’azienda ha comportato due decenni di investimenti e contrattazioni, acquisizioni e cessioni utili per uscire definitivamente dal mercato dello zinco e del rame. Oltre a parecchio tempo sono stati necessari molti soldi: 5 miliardi di euro di capex (CAPital EXpenditure ovvero spese per capitale), ricerca e sviluppo e investimenti ambientali. Gli investimenti ambientali sono serviti anche per affrontare l’eredità lasciata dalle precedenti attività di Umicore. Nel 1990 per fronteggiare l’inquinamento storico dei siti di produzione di Umicore è stato avviato un processo di bonifica, poi incrementato tra il 2002 e il 2003 e tra il 2006 e il 2008. L’amministratore delegato dell’epoca Thomas Leysen (che nel 2008 ha ceduto il posto a Marc Grynberg) si è impegnato ad affrontare
Antonella Ilaria Totaro è esperta di economia circolare e sostenibilità, di cui si occupa da diversi anni tra Olanda e Italia. Si interessa di startups e nuovi business models, energia rinnovabile, mobilità e sistemi alimentari sostenibili. Pianta alberi con la Land Life Company, di cui è la responsabile in Italia.
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materiarinnovabile 18. 2017 2. Il 90% della forza lavoro dell’Union Minière era distribuito tra Francia e Belgio. Oggi il 46% dei lavoratori di Umicore si trova fuori dall’Europa.
ogni problema di eredità ambientale legato agli asset venduti. Le attività di bonifica sono state un problema soprattutto in Francia e Belgio.2
Umicore ha avuto diverse discussioni con le autorità delle Fiandre per raggiungere un accordo collettivo e arrivare a firmare un patto nel 2004, che ha previsto investimenti per oltre 150 milioni di euro in programmi di bonifica per rispondere agli storici problemi di inquinamento. A distanza di oltre due decenni, i risultati danno ragione all’azienda belga. Se allora il 90% dell’Union Minière era concentrato in merci ed estrazione, oggi il 60% di Umicore è basato su riciclo e mobilità pulita. L’azienda di Bruxelles genera la maggior parte dei propri ricavi e dedica la maggior parte dei propri sforzi nelle attività di ricerca e sviluppo relative alle Di recente Karmenu Vella, tecnologie pulite, come i catalizzatori commissario Ue all’Ambiente, di controllo delle agli Affari Marittimi e alla Pesca, emissioni, i materiali ha definito Umicore come un per le batterie “grande esempio di azienda che ricaricabili e il riciclo.
ha completamente reinventato se stessa per far fronte alle sfide del ventunesimo secolo”.
Il nuovo corso di Umicore ha senso anche economicamente. Se prima della trasformazione il rendimento del capitale investito (Roce – Return on capital employed) era al -2%, oggi è al +15-20%. La scommessa di puntare su riciclo e tecnologia pulita ha permesso a Umicore di dar vita a un modello di business a ciclo chiuso che rappresenta oggi il suo vantaggio competitivo. Si tratta di investimenti strategici che hanno ampliato Umicore anche territorialmente con nuove attività produttive e tecnologiche in Polonia, Corea del Sud
e Thailandia. Attualmente – e nei prossimi anni – 300 milioni sono e saranno investiti nell’espansione in Cina e Corea del Sud per triplicare la capacità dei materiali catodici entro la fine del 2018. Parallelamente, 100 milioni di euro andranno ad ampliare del 40% lo stabilimento di Hoboken, portando da 350.000 a 500.000 tonnellate annue la capacità di riciclaggio dei materiali di questo impianto. Con una base di clienti e attività in tutto il mondo, Umicore costruisce quotidianamente la propria ricchezza sfruttando tre trend oggi di evidente importanza: la scarsità delle risorse, la riduzione dell’inquinamento atmosferico e l’elettrificazione dei trasporti. Umicore è riuscita a cogliere le occasioni offerte da ognuno di questi tre ambiti e a inserirsi nei relativi mercati. Al tema della scarsità di risorse ha risposto con una capacità di riciclaggio che consente di recuperare più di 20 elementi tra cui molti metalli preziosi. Negli sforzi mondiali verso norme più severe in materia di emissioni ha visto opportunità globali di crescita nei catalizzatori automobilistici, sia per veicoli leggeri sia pesanti. Infine, nel mercato in crescita delle batterie agli ioni di litio, l’azienda è riuscita a guadagnarsi una posizione leader nei materiali catodici per le batterie ricaricabili. Da questo periodo di trasformazione e di passaggio al riciclo e alla mobilità pulita, Umicore è uscita con significativi risultati economici, ambientali e sociali e avendo raggiunto una posizione di mercato che la vede leader mondiale anche in termini di sostenibilità. L’attività di Umicore risponde, non a caso, al dodicesimo obiettivo degli Sdg (Sustainable Development Goals) dell’Onu, vale a dire “garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo”. La conoscenza acquisita nei materiali, nelle tecnologie e nel settore del riciclo dei materiali permette quotidianamente a Umicore di trasformare i rifiuti in oro.
Case Studies Intervista
di A. I. T.
Tecnologia e collaborazione alla base della transizione Tim Weekes, direttore Comunicazione del Gruppo Umicore
Info www.umicore.com
Qual è stata la ragione principale della trasformazione da un’azienda estrattiva in una che si occupa di riciclo? “È stata un’azione finalizzata a uscire da una produzione di commodity molto ciclica, imprevedibile in termini di profitto e che richiedeva notevoli investimenti di capitali. Seppur non in declino, il settore estrattivo sicuramente non rappresentava il posto più interessante in cui trovarsi da un punto di vista di sviluppo di mercato. Noi abbiamo deciso di investire di più nello sviluppo di prodotti a valle e nel riciclo dei materiali che prima producevamo. La ragione principale è stata di permettere a Umicore di avvantaggiarsi di alcune delle nuove opportunità nei materiali, come per esempio quelli utilizzati per le batterie ricaricabili o per il fotovoltaico. Per fare ciò abbiamo dovuto ri-orientare completamente il nostro mercato e i nostri investimenti.” Qual è stata la sfida principale in questo passaggio? “All’inizio una delle sfide principali è stata trovare il modo di separare e vendere con profitto le attività che erano più cicliche e commoditizzate (ovvero senza nessuna differenza qualitativa sul mercato). È stata una sfida riguardante la gestione del portafoglio: bisognava essere sicuri di vendere l’asset giusto e investire nel giusto progetto nel momento adatto. Per esempio, abbiamo dovuto aspettare il 2003 per fare una grande acquisizione che ci ha permesso di entrare nel settore dei catalizzatori per autoveicoli. Certo occorre anche avere un po’ di fortuna, non sono affari e occasioni che capitano tutti i giorni.” Quanto è stata importante la comunità degli investitori? Cosa hanno pensato di questo passaggio? “Abbiamo avuto comprensione dagli investitori, anche se all’inizio ci sono state alcune difficoltà. Alcuni investitori per esempio erano in Umicore semplicemente perché rappresentavamo un modo interessante di guadagnare sul prezzo delle merci: il prezzo di zinco e rame era alto e quindi il prezzo delle azioni di Umicore sarebbe stato alto. Con loro è stato difficile perché non volevano più investire in Umicore. Dal 2000 al 2007, però, sono entrati alcuni nuovi investitori che veramente credevano che il potenziale dell’azienda fosse sottostimato e che eravamo un’azienda in una fase di transizione, il cui valore sarebbe stato presto evidente sul mercato. Per esempio, vendendo gli asset nello zinco e nel rame, nel 2003 ci siamo spostati in alcune nuove attività come quella dei prodotti di metalli preziosi. Questi investitori hanno capito che si trattava
di un investimento di lungo termine in una buona azienda che guardava lontano.” Scarsità delle risorse: quale sarà l’elemento chiave? “Credo che la tecnologia sarà fondamentale. Umicore ha sviluppato un modello di business molto competitivo, centrato su un approccio circolare e sul ciclo chiuso. Le risorse e la loro scarsità crescente saranno sempre più un fattore trainante non solo per Umicore, ma per l’economia in generale. Per esempio una delle aree maggiormente in crescita per Umicore è quella dei materiali per le batterie ricaricabili. Noi abbiamo già sviluppato un sistema per il fine vita delle batterie al litio. Quando i veicoli elettrici che stanno via via entrando nel mercato arriveranno a fine vita e bisognerà riciclarli, noi abbiamo la tecnologia per farlo. Ciò permetterà di alleviare i problemi legati alla disponibilità dei materiali grezzi come cobalto, nichel o litio. Servono tecnologie in grado di riciclare. É richiesta molta innovazione e tanti sforzi, ma ne vale la pena.” Quale suggerimento dareste a chi lavora in settori tradizionali – per esempio quello chimico e delle costruzioni – e sta pensando di avviare la transizione? “È difficile dare consigli. I metalli sono molto indicati per l’economia circolare: rappresentano una sorta di elementi protetti e hanno precise proprietà fisiche. I metalli che escono alla fine del processo di riciclo sono nello stesso stato in cui sono entrati, possono essere riciclati all’infinito. Siamo fortunati in questo. Tuttavia in questi anni abbiamo imparato che serve collaborazione lungo tutta la value chain, per esempio partendo dai fornitori per capire le operazioni che avvengono e conoscere la loro l’impronta ambientale. La collaborazione è importante in tutti i passaggi: anche con le industrie che usano i tuoi prodotti e con i consumatori finali. Soltanto collaborando con tutti questi soggetti si può trovare il modo di riportare i materiali indietro nel cerchio del riciclo. Avere una completa comprensione dell’intera value chain e della vita del prodotto ha un’importanza crescente. Nel settore delle batterie o dell’elettronica per esempio bisogna lavorare con i produttori per essere certi che i prodotti siano facili da disassemblare. È necessario risalire al design, a quali materiali sono stati utilizzati, in che proporzione, da dove arrivano per essere sicuri che l’impronta ambientale lasciata sia la più bassa possibile. Credo che in tutti i settori industriali la collaborazione sia l’elemento chiave per attivare una corretta transizione.”
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Far circolare e
IDEE KNOW-HOW Rifiuti chimici, elettrici ed elettronici, ma anche batterie e imballaggi. Su questi flussi di rifiuti – e non solo – oggi Landbell Group è attivo in oltre 30 paesi.
di Carlo Pesso
La storia di Landbell Group inizia nel 1995 con l’avvento delle cosiddette politiche di take-back (recupero): le misure che hanno via via introdotto l’obbligo per i produttori di beni di consumo di riciclare i materiali usati per il packaging dei loro prodotti. Potrebbe sembrare strano oggi, ma fino a che la Germania non ha emesso la sua normativa sul packaging nel 1991, solo pochissimi materiali – come i materiali ferrosi – venivano riciclati abitualmente. Fino ad allora, in tutto il mondo, sia gli imballaggi dei beni di consumo sia i prodotti elettronici in fin di vita finivano nelle discariche. Oggi gli obblighi di recupero e le pratiche volontarie si sono diffusi
in molti paesi e riguardano la maggior parte dei flussi di materiali di scarto. Allorché, in modo molto più significativo, i consumatori hanno adottato nuovi comportamenti, mentre sono emerse filiere industriali e servizi di consulenza del tutto innovativi vieppiù contribuendo all’avvento di un’economia circolare economicamente ed ecologicamente praticabile. Mentre la Germania si poneva all’avanguardia nell’adozione di misure ambientali, stabilendo le condizioni per lo sviluppo dell’industria del recupero e del riciclo dei materiali, alcuni paesi dell’Ue hanno cominciato a mettere a punto i loro sistemi, spinti da motivazioni ambientali,
Case Studies 1. Il concetto di co-opetition (co-opetizione ossia cooperazionecompetizione) è stato sviluppato da Adam M. Brandenburger della Harvard Business School e Barry J. Nalebuff della Yale School of Management in un libro pubblicato con lo stesso titolo.
economiche e strategiche. Essi puntavano a un duplice risultato: da una parte miravano a soddisfare l’esigenza crescente dei cittadini per un ambiente migliore, e d’altra parte, volevano dare il via allo sviluppo dei propri sistemi industriali di riciclo. Date le dimensioni del problema, la soluzione ovvia è stata quella di affidare alla Commissione europea il compito di trovare un compromesso ragionevole, nella speranza che avrebbe soddisfatto tutti i paesi membri e i vari soggetti coinvolti. Ne sono risultate una serie di direttive dell’Ue che stabilivano gli obiettivi quantitativi del riciclo e i requisiti qualitativi per diversi flussi di rifiuti tra i quali gli imballaggi e i prodotti elettronici. Nello stesso tempo, tali direttive lasciavano ai paesi membri la responsabilità di approntare e gestire i loro sistemi di gestione dei rifiuti. Sebbene l’intenzione della direttiva fosse di garantire un contesto equo per il commercio all’interno dei confini europei, in pratica la maggior parte delle aziende hanno dovuto confrontarsi con altrettanti sistemi di riciclo quanti erano materiali e paesi con cui e nei quali operavano. Perciò, sono state proprio le stesse aziende a sviluppare un approccio che avrebbe reso più facile l’accesso all’insieme dei mercati. Per esempio, la piattaforma europea per il riciclo European Recycling Platform (Erp) fu creata nel 2002 dalle aziende di prodotti elettronici quali HP, Electrolux, Sony insieme a Procter&Gamble per garantire un sistema coerente di recupero in tutto il continente. Nel 2003, Landbell, allora conosciuta come Landbell AG, si è affermata come uno dei soggetti più importanti nei sistemi per la raccolte di rifiuti domestici e commerciali rompendo, dapprima
a livello regionale e poi a livello nazionale, il monopolio prevalente all’epoca. In questo modo, ha promosso lo sviluppo di altri sette sistemi privati di recupero e riciclo. In termini pratici, l’azienda si è presto trovata a competere e a cooperare con il più rinomato sistema statale, Duales System Deutschland (Dsd). In Germania questa forma di “co-opetizione”1 è una caratteristica del rapporto tra Stato centrale e Länder, da un lato, e imprese, dall’altro. Questo permette alle aziende di competere su prezzi e servizi e, contemporaneamente, di cooperare per garantire che il flusso operativo curato dal Dsd potesse realizzarsi senza intoppi. Naturalmente, la fase di sviluppo e aggiustamento del sistema non è stata priva di conflitti e battaglie, ma il consolidamento di una vera e propria cultura della co-opetizione ha nutrito gli sviluppi più recenti di Landbell, garantendone la capacità di avere una visione ampia che è sbocciata nell’adozione di una strategia di sviluppo dell’economia circolare. Nel 2012, dopo aver ampiamente consolidato la propria competenza nella gestione dei rifiuti, e forte di oltre 200 dipendenti, Landbell ha cominciato a guardare al di là dei confini tedeschi e austriaci. Si trattava di allargare sia il proprio giro di clienti, che di fare uso del proprio know-how per gestire nuovi flussi di materiali per avviarli al recupero. Di conseguenza, tra il 2012 e il 2016, l’azienda ha creato, oppure investito, acquisito, o si è fusa con altre aziende che più si confacevano alle sue ambizioni. Tra queste Terracycle (un sistema di recupero di materiali collegato a un distributore online di prodotti riciclati); Green Alley (un’azienda che seleziona e promuove start-up), Erp (gli specialisti all’avanguardia nel recupero di batterie, imballaggi e rifiuti elettronici
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Carlo Pesso, esperto di politiche ambientali e di sostenibilità, svolge attività di coaching rivolta a singoli, start-up, aziende e autorità locali che desiderano diventare attori dell’economia circolare.
in oltre 30 paesi); Prodigentia (una software house per la gestione di flussi di rifiuti, con sede in Portogallo; vedi box); e H2 Compliance (l’azienda internazionale di consulenza specializzata nell’adeguamento alle norme ambientali e chimiche). Così è nato il Landbell Group. Il Gruppo Landbell oggi combina know-how normativo, procedurale, tecnico e logistico in provenienza da oltre 30 paesi e ha arricchito la gamma dei servizi offerti per includere il settore della gestione delle sostanze chimiche oltre a quello dei flussi di rifiuti elettrici ed elettronici, delle batterie, dei moduli fotovoltaici, come anche degli imballaggi. L’obiettivo del Gruppo è di offrire soluzioni su misura per assolvere gli obblighi di
recupero dei clienti riguardo a qualsiasi flusso di materiali in Europa e oltre. Come sostiene Jan Patrick Schulz, il CEO di Landbell, parlando di Click&Comply, uno dei prodotti più innovativi dell’azienda: “Il nostro scopo è assicurare che i nostri clienti adempiano tutti i loro doveri inerenti il recupero, in qualsiasi paese operino, con un semplice click del mouse”. Click &Comply è un’evoluzione di EASy-Shop che, inizialmente in Germania e in Austria, è stato sviluppato per gli imballaggi. Click&Comply è uno strumento per i produttori che operano in molti paesi con pochi obblighi. Li assiste nella gestione e nel versamento dei contributi dovuti rapidamente e online. In un contesto in cui il commercio diretto si svolge sempre
Le pietre miliari del Gruppo Landbell
Fondazione di
Fondazione di Landbell a Mainz, Germania
Partnership strategica con
Acquisizione di Primi a introdurre nel mercato un contratto online
Acquisizione di Landbell, mettendo fine al monopolio, inaugura il secondo sistema di raccolta di packaging in Germania
Fondata nel 2002 da Sony, HP, P&G ed Electrolux
Acquisizione di
Case Studies L’unità di soluzioni digitali di Landbell: Prodigentia Mentre il Landbell Group combina competenze lungo tutto il flusso di materiali – con lo scopo di chiudere efficacemente il ciclo dei flussi circolari di materia – è il settore software del gruppo, Prodigentia, che mette a disposizione gli strumenti che facilitano la coordinazione generale di questi flussi. “Mettendo insieme la nostra conoscenza specifica per ogni flusso di materie seconde, sia in termini logistici sia in termini economici, offriamo ai nostri clienti uno strumento di gestione molto completo. Proponendosi come uno dei principali driver della trasformazione digitale nell’economia circolare, la nostra tecnologia è in grado di inserire le attività dei nostri clienti all’interno di un più ampio scenario globale,” dice Christophe Pautrat che dirige il settore. Egli spiega poi dove la sua azienda sta facendo la differenza proiettando il know-how circolare europeo ben oltre l’Ue. Oggi, infatti, Prodigentia sta fornendo un pacchetto software completo per la gestione del primo compliance scheme in Brasile e supporta le operazioni di organizzazione amministrativa di un prodotto già esistente in America settentrionale. Un consorzio di produttori e importatori brasiliani ha approntato un sistema per la raccolta di lampadine scartate. Per espletare le loro operazioni, hanno scelto il software sviluppato da Prodigentia. Il software include la black box dei membri, cioè il sistema che raccoglie le informazioni sensibili sui fornitori e i partner, tra cui i dati commerciali e finanziari relativi al volume di produzione e alla logistica inversa. Un grande vantaggio del sistema è che offre una riservatezza inviolabile, fornendo contemporaneamente ai membri informazioni affidabili e tempestive riguardo ai requisiti di conformità. Inoltre, per assicurare l’affidabilità dei dati raccolti, un’azienda indipendente verifica i dati e le procedure adottate nel funzionamento del sistema. Un altro punto di forza è rappresentato dal collegamento stabilito tra il sistema e la piattaforma di logistica inversa, che assicura che le informazioni che riguardano il flusso di recupero di materiali siano pienamente integrate. Infine, un’interfaccia di facile utilizzo permette ai diversi soggetti interessati di accedere a informazioni altamente specifiche. Vale anche la pena di sottolineare che i moduli sono integrati Operatori dei rifiuti all’interno di una rinomata soluzione di pianificazione delle risorse delle imprese (Erp) che supporta la contabilità e i processi HR (gestione delle risorse umane). Per raggiungere questo importante traguardo, Prodigentia ha dispiegato le sue risorse localmente per assicurarsi di comprendere appieno le necessità e le aspettative dei clienti e si è costruita una conoscenza molto accurata dei requisiti
di conformità alle normative del paese. Come risultato, il rapporto con i clienti che hanno dato l’avvio al piano di conformità si è evoluto notevolmente: in termini pratici, il ruolo di Prodigentia è passato da quello di fornitore strategico a quello di partner in una continua ricerca di innovazione e di valore aggiunto. Prodigentia potrebbe anche migliorare l’efficienza di un’organizzazione esistente e aiutarla a evolversi per affrontare nuove circostanze migliorandone al contempo le prestazioni. Questo è successo nel caso di un’importante organizzazione nordamericana, che gestisce un sistema di raccolta dei prodotti dismessi che ha dovuto affrontare il difficile compito di riunire diversi sistemi approvati da governi regionali. Ogni sistema aveva implementato il proprio sistema IT, e i risultati erano a dire poco difformi. Così, nel 2012, Prodigentia è stata reclutata per revisionare e standardizzare i processi, gli strumenti software e le interfacce utente in tutte le regioni coinvolte. Il risultato è stato un unico strumento di Green Enterprise Resource Planning (Erp) che ha decisamente migliorato le prestazioni e la soddisfazione dei clienti. L’aggiunta del modulo di Prodigentia per la logistica inversa al nuovo strumento di Erp ha portato ulteriori miglioramenti, che hanno rafforzato la capacità del sistema di continuare ad avere un ruolo centrale nell’economia circolare nordamericana. www.prodigentia.com
Cloud Platform di Prodigentia
Registrazione e rimozione
Municipalità
Schema di conformità
Piattaforma cloud
Produttori
Rivenditori al dettaglio
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materiarinnovabile 18. 2017 più attraverso internet, la richiesta di un servizio di questo genere sta esplodendo e coinvolge clienti provenienti da tutto il mondo. Click&Comply è stato recentemente inaugurato per la Germania e verrà progressivamente esteso ad altri paesi. Green Alley Award, green-alley-award.com
Info www.landbell-group.com
All’inizio del 2017, il Gruppo ha dato inizio a una partnership con DHL Supply Chain, chiudendo così globalmente il ciclo di fornitura di un “servizio materiale circolare” per tutti i suoi clienti. Rivolgendosi a un solo fornitore sia per la gestione della supply chain sia per far garantire la compliance sulla responsabilità dei produttori, il nuovo modello di fornitura del servizio offre ai clienti l’opportunità di ottimizzare le operazioni riguardanti la logistica e velocizzare le operazioni. Questa combinazione aiuta anche le aziende a raggiungere i loro obiettivi di sostenibilità ambientale, rafforzando al contempo la capacità di Landbell di supportare e ottimizzare le operazioni interne dei suoi clienti.
“Questa è una caratteristica fondamentale del nostro modello di business” – conferma Jan Patrick Schulz – “i nostri clienti non devono preoccuparsi del rispetto delle normative. Inoltre, il Landbell Group fornisce loro le informazioni necessarie per migliorare il loro business.” Questo approccio è radicato nei principi di co-opetizione che sono parte del dna di Landbell e che hanno guidato il suo sviluppo. L’azienda è cresciuta diventando una multinazionale molto particolare: una multinazionale che è si è sviluppata aggiungendo “strati” di know-how. Una tale competenza ha origine in diversi paesi e circola all’interno del Gruppo per servire al meglio i propri clienti. Con questa priorità, Landbell sta preparando per i flussi circolari di materiali una serie report con diversi livelli di confidenzialità: da report specifici per settori altamente riservati, ad analisi dedicate a un singolo paese.
Il software di gestione dei materiali di Prodigentia fornisce la struttura che permette alle aziende clienti di ottimizzare i flussi interni dei materiali e l’allocazione degli stessi tenendo conto dei loro reali flussi in ingresso e in uscita. Christophe Pautrat, che dirige il settore IT Solutions del Landbell Group, sottolinea la capacità di Landbell di mantenere una visione globale dei flussi di materiali collegandola alla generazione locale dei materiali: “I nostri clienti mantengono la tracciabilità dei loro flussi interni di materiali e il software di Landbell collega questi flussi a quello che succede al di fuori della loro azienda”.
Questa particolare combinazione di nazionalità, capacità ed esperienza che costituisce il valore aggiunto di Landbell Group è in gran parte basata sulla grande attenzione riservata, continuamente, agli sviluppi innovativi. Questo obiettivo è visibile nell’iniziativa Green Alley che, dal 2013 sostiene lo sviluppo di start-up nell’ambito dell’economia circolare sia investendo in modelli di business innovativi sia presentando ogni anno il Green Alley Award che mette in evidenza le iniziative più promettenti. “Dopo tutto – insiste Jan Patrick Schulz – l’economia circolare può prosperare solo se circolano le idee!”
Case Studies
Focus qualità del riciclo
RIFIUTI ECCELLENTI
Un viaggio nello scenario italiano della materia riciclata, cardine dell’economia circolare. Gli obiettivi raggiunti e i nodi da risolvere per rimanere al passo con le innovazioni industriali. di Sergio Ferraris
S. Faccioli, “Curare il verde con il Gpp”, Materia Rinnovabile n. 12, settembre-ottobre 2016; www.materiarinnovabile. it/art/255/Curare_il_ verde_con_il_Gpp
Economia circolare 2.0. Potremmo definire così la nuova fase dell’economia sostenibile dove si analizzano le dinamiche delle filiere industriali che producono rifiuti, quelle dei processi che possono riutilizzarli come materie prime seconde “inventandone” gli stadi intermedi. Il tutto condito da un’estrema attenzione verso i bilanciamenti economici dei processi che devono consentire di stare “sul mercato”, pena il non utilizzo delle metodologie messe a punto appositamente. Si tratta di un lavoro da certosino, alla continua ricerca di quell’equilibrio che, fino a qualche anno fa, sembrava impossibile mantenere. La qualità del riciclo è un punto cardine dell’economia circolare dal quale dipende in gran parte il suo sviluppo. Il suo miglioramento sarà frutto d’innovazioni tecnologiche, ma anche e soprattutto sociali nel breve periodo, perché nei prossimi anni ci si aspetta un’impennata nella richiesta di materia riciclata. In Italia, l’aggiornamento del Codice degli Appalti impone, all’interno delle forniture legate agli appalti pubblici, una sempre maggior percentuale di materiale riciclato. Novità nata dalla formulazione più puntuale del Green public procurement (Gpp), come volano dell’economia circolare. Riconoscere la qualità In questo nostro viaggio alla scoperta della qualità del riciclo partiamo dalla fine dei processi. Ossia
dall’etichetta ambientale, messa punto da ReMade in Italy con la quale si certifica la percentuale di materia proveniente dal riciclo che si trova all’interno di un “ri-prodotto”. “Il tema della qualità del riciclo e dei ri-prodotti è strettamente legato a quello della tracciabilità: nelle raccolte, nelle gestioni a livello di filiera, nella produzione di MPS e di ri-prodotti. E non finisce nemmeno qui” ci dice Simona Faccioli, direttrice di ReMade in Italy. “Oggi si è in una nuova fase, nella quale l’utilizzo di materiale da riciclo è un valore qualificante per il prodotto, mentre fino a qualche anno fa le aziende nascondevano l’impiego di materiale da riciclo perché lo consideravano un fattore non premiante in termini di mercato.” Tracciare i processi permette di far risaltare ed evidenziare le eccellenze: “In Italia abbiamo dei casi eclatanti in questo senso: oltre agli ottimi e noti risultati degli imballaggi, abbiamo aziende che innovano davvero, come nel settore della rigenerazione degli oli esausti: questo rifiuto, tra i più inquinanti, diventa nuovo prodotto con pari se non migliore performance invece di essere smaltito con impatti devastanti per l’ambiente. Oppure pensiamo al settore dei materiali da costruzione, al recupero, con processi innovativi, delle scorie e delle ceneri, all’utilizzo di materiali che arrivano degli pneumatici, dai Raee”. È una questione di tracce, di tenere memoria del flusso dei materiali e della loro gestione. Il fatto che alla base di tutto ciò ci sia la normativa sui
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materiarinnovabile 18. 2017 rifiuti che impone una complessa serie di obblighi facilita il processo di certificazione poiché si tratta di mettere tutto in ordine, secondo lo schema di tracciabilità ReMade in Italy. “Una volta acquisite le informazioni sulla provenienza dei rifiuti e sul processo, con i bilanci sui flussi e il bilancio di massa finale si può affermare in maniera incontrovertibile che un dato prodotto contiene quella esatta percentuale di materiale da riciclo, nonché da dove arriva e quale percorso ha fatto” – conclude Faccioli. E che a dirlo sia un ente di certificazione terzo, indipendente e accreditato, rende questa certificazione uno strumento richiesto nelle “gare Gpp”. Un trend in crescita e che lo sarà ancora di più quando il GPP sarà arrivato a una diffusione capillare nelle pubbliche amministrazioni. Ci si augura in tempi brevi. Filiere d’eccellenza Dopo l’etichetta vediamo in concreto cosa succede sul campo. Per farlo andiamo in Veneto, e per la precisione dal Gruppo Veritas, la maggiore multiutility del settore che si occupa della gestione dei rifiuti e delle risorse idriche. Il Gruppo può vantare punte d’eccellenza nella raccolta differenziata: i primi cinque comuni, tra i 45 serviti dalla multiutility sul fronte dei rifiuti, oscillano su percentuali di raccolta comprese tra l’87,03% di Fossalta di Piave all’80,43% di Scorzè. Questo in un territorio – la provincia di Venezia – dove a fronte di 900.000 abitanti si registrano ben 42 milioni i turisti (circa i 2/3 di quelli che complessivamente visitano la regione), in costante crescita negli ultimi 10 anni. Tale sviluppo ha un forte impatto in molti settori e anche nella gestione della raccolta differenziata che comunque nella provincia di Venezia ha raggiunto il 61,5% nel 2014, il 63% nel 2015 e il 64,52 % nel 2016. Da qualche tempo, il Gruppo si è posto il problema della qualità della materia rigenerata dal riciclo ed è stato tra i primi a porsi quello della certificazione della filiera/piattaforma cosa. Il che, se da un lato ha consentito una maggiore certezza sul materiale in uscita, dall’altro ha permesso di “tarare” al meglio il processo di riciclo. È ciò che sta succedendo per il secco la cui tracciabilità è, secondo la multiutility, fondamentale. “Tutto il nostro secco non va in discarica, ma viene trasformato in Css (Combustibile solido secondario)” dice Giuliana Da Villa, responsabile della qualità e ambiente di Veritas. “Abbiamo tracciato i flussi di materia del rifiuto indifferenziato dai quali emerge chiaramente quante siano le sostanze ulteriormente recuperabili e che pertanto possono essere reintrodotte nel circuito del riciclo”. Tracciare questo ciclo, per Veritas, significa migliorare le prestazioni ambientali del riciclo in generale recuperando materia utile e non solo. Lo studio è servito per determinare quanto c’è di recuperabile nel rifiuto secco e, attraverso una serie di dettagliate analisi merceologiche, si è arrivati a capire quanto materiale utile sarebbe possibile recuperare se tutti i cittadini fossero corretti e virtuosi nel conferimento dei rifiuti nella
Case Studies
Sergio Ferraris, giornalista ambientale e scientifico, è direttore responsabile di QualEnergia.it.
raccolta differenziata. Un sistema che consente di avere delle certezze sul fronte degli obiettivi e di darsi precise prospettive industriali. La produzione di rifiuti in generale sta diminuendo e sta scendendo anche quella del secco. La utility sta quindi rivedendo la sua dotazione impiantistica puntando a selezionare in maniera ancora più precisa e accurata il rifiuto prima che diventi Css e depotenziandone così la produzione. “La chiusura di questo cerchio per noi è che il Css ottenuto si utilizza per la produzione di energia elettrica non in un impianto dedicato, ma in co-combustione nella confinante centrale termoelettrica dell’Enel, sostituendolo ad una quota di carbone – prosegue Da Villa – dove in una fase sperimentale prima e, successivamente con il funzionamento a regime, si è provato che si riescono addirittura a migliorare le prestazioni ambientali della centrale relativamente alle emissioni. Si tratta della valorizzazione di un rifiuto che dopo essere stato spremuto al massimo, sul fronte del riciclo, diventa, come ultima istanza, energia immessa in rete”. Non ci sono opposizioni sociali e le decisioni sul cambiamento e il potenziamento degli impianti, sono state accettate all’unanimità dai 45 Comuni. Ma non è tutto qui, Veritas sta sviluppando anche il rapporto diretto con le imprese utilizzatrici della materia prima/seconda in uscita. E se c’è già un rapporto avviato per ciò che riguarda il vetro, sul fronte del legno la tracciabilità ha consentito di destinare il materiale derivato dalla raccolta differenziata ai processi produttivi dell’azienda Fantoni, che non si limiterà a riutilizzarlo ma potrà anche certificare la percentuale di materia prima non derivante da risorse primarie. Risultato? Chiudere il cerchio della filiera. La tracciabilità, essenziale per ottimizzare i processi industriali del riciclo e per raggiungere gli obiettivi normativi ambientali in materia di effettivo riciclo, ha anche
un altro vantaggio. Quello di restituire informazioni a ogni Comune sulle disattenzioni dei cittadini nel conferimento delle varie categorie della raccolta differenziata e del secco, trasformando questa inefficienza in un dato ambientale e in uno di costo economico. Questa è una leva potente per migliorare la fase della raccolta perché consente ai sindaci di comunicare quante risorse si potrebbero risparmiare aumentando e migliorando la raccolta differenziata. E come al contempo migliorerebbero le performance ambientali. Alcuni sindaci hanno infatti utilizzato questi dati per stimolare i cittadini a incrementare ulteriormente la qualità della differenziata e per decidere come utilizzare i fondi risparmiati. E a proposito di tracciabilità, anche quest’ultima attività viene messa sotto la lente. Veritas, infatti, sta predisponendo la verifica della corrispondenza tra la comunicazione e l’aumento della qualità della differenziata. E dopo il Veneto, la Toscana, dove Sienambiente opera sulla fase intermedia del ciclo dei rifiuti dopo la raccolta differenziata e si focalizza sugli impianti e sul loro ammodernamento, attuato seguendo due differenti logiche. La prima finalizzata a soddisfare richieste specifiche degli enti altri enti coinvolti nella gestione del ciclo di gestione rifiuti, mentre la seconda è relativa agli aggiornamenti impiantistici decisi dall’azienda stessa. “In ogni caso stiamo molto attenti ad adottare soluzioni migliorative e innovative, applicando criteri che ci mantengano allineati alla normativa vigente ma anche alle direttive di settore e alle Bat (migliori tecnologie disponibili)”, ci dice il direttore tecnico di Sienambiente, Fabio Menghetti. Il denominatore comune è il recupero, in primo luogo di materia ma anche d’energia a tutto campo non solo dalla raccolta differenziata ma anche dai flussi residuali.
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Chi butta nella raccolta differenziata la scarpa da tennis, il tubo di gomma o il pallone da calcio difficilmente è consapevole del danno che produce alla differenziata.
Altro aspetto che Sienambiente cura con attenzione è quello della protezione del contesto ambientale, assicurata mettendo in atto nei propri impianti le opere di salvaguardia più evolute ed efficienti per la riduzione al minimo dell’impatto ambientale e usando le tecnologie più adatte per ridurre emissioni potenzialmente inquinanti, ma anche rumori, odori ecc. Analoga filosofia è applicata al concetto di recupero di materia dove i miglioramenti ottenuti grazie al costante adeguamento degli impianti sono sia di carattere quantitativo sia qualitativo, permettendo di ottenere materiali collocabili nel mercato al valore più alto possibile. “Oggi, per ottenere il massimo sotto il profilo del valore – spiega Menghetti – è necessario spingere molto sull’aspetto qualitativo. La nostra attenzione costante è quindi quella di mantenere un equilibrio tra quantità e qualità della materia in uscita, stando attenti a privilegiare quest’ultima. Allo stesso tempo è importante mantenere bassa la percentuale di scarto per ridurre al minimo la componente più costosa sotto il profilo industriale”. Allo stato attuale la qualità del materiale in ingresso proveniente dai cicli di raccolta differenziata non è omogenea anche perché derivante da metodi di raccolta, non effettuata da Sienambiente, eterogenei. “Con le tecnologie oggi disponibili per le lavorazioni della raccolta differenziata, rimane un legame molto stretto tra la qualità del flusso in ingresso agli impianti e la qualità e la quantità della materia in uscita, per cui è necessario intervenire in modo importante sul fronte della raccolta differenziata” ci dice Menghetti. “Con una bassa qualità della raccolta differenziata aumentano i costi del trattamento e la percentuale degli scarti oltre a diminuire la qualità del materiale ottenuto. La nostra sfida è di aggiornare i processi di lavorazione e i macchinari in modo da essere sempre meno legati alla qualità della raccolta”.
L’obiettivo finale di Sienambiente è gestire impianti in grado di ottenere del materiale utilizzabile anche con materia non selezionata a monte, compensando così anche eventuali problemi nella fase della raccolta differenziata. E la scommessa è farlo adottando soluzioni che, in virtù della loro efficienza ed efficacia, ripaghino gli investimenti senza pesare sulle tariffe. L’evoluzione continua delle tecnologie con nuovi sistemi ottici e balistici, per esempio, aiuterà Sienambiente in questa sfida, ma nel frattempo aiuterebbe di sicuro a migliorare la raccolta differenziata, in particolare dell’organico. Sienambiente ha chiuso il 2016 con un utile di 2,11 milioni di euro, a fronte di 1,6 milioni d’investimenti con la crescita, come avvenuto negli ultimi tre anni, del margine operativo. Alessandro Fabbrini, presidente di Sienambiente, così descrive il modello operativo della società: “Sienambiente, opera nel settore nella gestione dei rifiuti e poi del riciclo dal 1988 e ha garantito alla provincia di Siena l’autosufficienza impiantistica, evitando totalmente l’esportazione di rifiuti. La dotazione strutturale è di un impianto di selezione, valorizzazione e compostaggio. Da quest’ultimo, otteniamo un ottimo compost certificato per l’agricoltura biologica e identificato dal marchio: ‘Terra di Siena’”. “In questa ottica” continua Fabbrini, “gli impianti sono l’elemento essenziale per l’economia circolare legata al riciclo dei rifiuti, per ridare vita ai materiali provenienti dalla raccolta differenziata. per avviare filiere di prossimità che portino altri vantaggi, oltre a quelli ambientali. Si tratta di rispondere con soluzioni locali a tematiche di carattere globale, gestendo anche la parte di materiali non riciclabili o riutilizzabili nel nostro termovalorizzatore, e la parte residuale, in costante diminuzione, in discarica. Pensiamo di aver costruito un sistema efficiente ed efficace sul fronte della gestione dei rifiuti”. “Le prospettive di miglioramento sono legate all’efficientamento della filiera del riciclo, come nel caso dell’impianto di selezione dove di recente abbiamo installato un nuovo sistema di raffinazione del compost che consente una notevole riduzione degli scarti di lavorazione. Altro obiettivo è l’abbattimento dell’emissione di gas serra, per esempio con il fotovoltaico, dalla frazione biodegradabile dei rifiuti e con la termovalorizzazione della frazione non riciclabile. Ciò significa produrre il 70% dell’energia che utilizziamo da fonti rinnovabili con un taglio di 26.700 tonnellate di CO2 nel 2016, un risultato migliore per circa 1.000 tonnellate rispetto al 2015”. Sfidare la complessità Rimaniamo in Toscana per occuparci di plastica. Nello stabilimento Revet, a Pontedera in provincia di Pisa, ricavano il granulo di plasmix dalle plastiche eterogenee che sono circa il 55% del peso degli imballaggi. Evitandone l’incenerimento. Con questa tecnologia avanzata si ottiene
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un prodotto finale di qualità, uguale al materiale vergine. Qualsiasi oggetto di plastica, stampato a iniezione, può utilizzare il plasmix da riciclo composto in gran parte da polimeri compatibili tra di loro, PE a bassa e alta densità e PP in proporzione variabile. Il problema non sono quindi le tecnologie di riciclo, ma la quantità di materiale scartato a causa della qualità scadente della raccolta differenziata. “Oggi abbiamo una quantità troppo alta di scarti che devono essere smaltiti perché non sono riciclabili” ci dice Diego Barsotti, responsabile comunicazione di Revet. “Si tratta d’imballaggi che non sono inseriti correttamente nei contenitori. Così il costo diventa più elevato e diminuisce la percentuale di materiale riciclato in uscita”. Conta molto anche l’approccio culturale al problema del riciclo: da troppo tempo ci si concentra solo sulle percentuali della raccolta. Alla Revet si osservano percentuali di scarto comprese tra il 10 e il 15%, ma ci sono
casi anche peggiori. Inoltre, stupisce che negli ultimi anni l’azienda veda un peggioramento nella qualità delle raccolte differenziate, mentre ne è aumentata la quantità. Questo accade per tutti i materiali trattati in Revet, non solo per la plastica. Secondo l’azienda c’è un problema di qualità delle campagne di sensibilizzazione sulla differenziata, dove servirebbe una comunicazione più dettagliata. Revet può fare degli esempi concreti: “Chi butta nella raccolta differenziata la scarpa da tennis, il tubo di gomma o il pallone da calcio difficilmente è consapevole del danno che produce alla differenziata, ma si tratta di un gesto che con ogni probabilità è guidato da un ragionamento per analogia del tipo: ‘dopotutto la gomma assomiglia alla plastica, per cui può essere riciclata’”, prosegue Barsotti. Se da un punto di vista è chiaro che non si possono pretendere dai cittadini analisi merceologiche sulle caratteristiche dei rifiuti, dall’altro emerge l’esigenza di un’informazione
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S. Ferraris, “Il cartone vince sul degrado”, Materia Rinnovabile n. 5, agosto 2015; www. materiarinnovabile.it/ art/116/Il_cartone_vince_ sul_degrado
specifica sulle differenze tra imballaggi e rifiuti di varia natura da inserire nel flusso della differenziata. Perciò, Revet sta lavorando su nuovi impianti di selezione e sulle filiere. Nel caso del vetro ha acquisito uno stabilimento a Empoli, dove si produce il “pronto forno”, un semilavorato che deriva dai rottami di vetro che vanno direttamente in vetreria. È questa la nuova frontiera dell’innovazione: allargare il proprio intervento ad altri pezzi della filiera per “produrre” efficienza nel riciclo e quindi valore. I pezzi forti del riciclo La fibra ha sette vite. Parliamo di quella della cellulosa con la quale si produce la carta, cosa che ha decretato negli anni il successo del riciclo di questo materiale e il consolidamento della filiera. Oggi l’evoluzione del processo di riciclo si concentra sulla raccolta con Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica) che sta investendo risorse da anni per incrementare la raccolta di carta e cartone nelle aree dove si incontrano più difficoltà: quelle del meridione. “I risultati del 2016 sono molto positivi per due motivi” ci dice Carlo Montalbetti, direttore generale di Comieco. “Il primo perché l’incremento della raccolta a livello nazionale supera il 3% dando il segnale sia della ripresa dei consumi sia dell’estensione dell’area di raccolta. Si tratta di 100.000 tonnellate in più, delle quali il 50% nel meridione che registra una crescita del 9%”.
Il Sud Italia così conferma d’aver ingranato la marcia della raccolta differenziata di carta e cartone. “È il risultato di una strategia messa a punto da tempo e che sta dando i suoi frutti”, prosegue Montalbetti. “Il processo di modernizzazione della gestione dei rifiuti di carta e cartone passa attraverso l’allineamento del meridione ai tassi di raccolta che possiedono sia il nord sia il centro. Il meridione deve ancora fare della strada per arrivare a quest’obiettivo, ma sta andando in questa direzione”. Il gap è intorno ai 20 kg pro capite. Il sud è a quota 30, mentre
Case Studies la media nazionale è superiore ai 50. Ma il sud presenta una situazione poco uniforme. Sicilia e Calabria, per esempio, sono più indietro di Puglia e Campania che stanno rapidamente risalendo la china. Eclatante il caso di Napoli che ha segnato in anno un più 20%. Gli ingredienti di questo exploit sono stati la determinazione dell’amministrazione pubblica, la capacità del management nella gestione della raccolta e, puntualizza Montalbetti, “il ruolo di Comieco, che ha stanziato sette milioni di euro nel 2015 da destinare ai piani industriali nel meridione, investendo su mezzi e attrezzature”. Un aspetto essenziale è la capacità del cittadino di conferire il materiale in modo corretto. Per quanto riguarda l’innovazione nel processo, una dozzina di cartiere hanno introdotto dei sistemi per monitorare sia l’umidità sia la presenza di materiale improprio come la plastica, nella carta e nel cartone proveniente dalla differenziata. I margini di miglioramento ci sono. Sono ancora 600 mila le tonnellate, prevalentemente al sud, di carta da macero che finisce in discarica che potrebbe essere intercettata e riciclata valorizzandola. Stanno per aprire due grandi impianti industriali per la produzione del cartone che avranno una domanda di carta da macero importante. Avremo così un periodo di sviluppo del sistema di raccolta di carta e cartone. E veniamo ora a un materiale che per le sue qualità intrinseche è quasi perfetto: l’alluminio. Riciclabile all’infinito, con un dispendio minimo d’energia rispetto al materiale vergine, l’alluminio è il materiale il cui riciclo è, se condotto secondo
le regole, è il più efficiente. Partiamo dalla raccolta che può essere di due tipi: la multimateriale leggera e quella pesante. Con la prima si raccolgono acciaio, alluminio e plastiche, mentre con la seconda a questi materiali s’aggiunge il vetro. Si tratta di due sistemi che si dividono al 50% il totale delle metodologie di raccolta e che per la separazione dei materiali metallici lavorano in maniera analoga. Il materiale ferroso viene selezionato tramite dei magneti, mentre l’alluminio tramite un sistema di separazione a correnti indotte (Eddy current separator, Ecs) viene respinto anziché attratto come nel caso dell’acciaio. In pratica la lattina salta nell’apposito contenitore, quasi come se fosse animata da una volontà autonoma, verso il riciclo. Ma non sempre tutto va bene. A seconda dell’efficienza del processo, qualcosa che non è alluminio “salta” nel contenitore sbagliato. Si tratta di un fenomeno che dipende sia dagli impianti, sia dalla composizione stessa del rifiuto in entrata. Il livello medio di impurità riscontrato per l’alluminio è del 4%, un dato molto positivo, visto che la soglia oltre al quale il materiale deve ripassare la selezione è il 5%. Una volta arrivato in fonderia il metallo viene analizzato, pretrattato con un passaggio a circa 500 °C che elimina le sostanze aderenti all’imballaggio, come le vernici, e poi passa alla fusione vera e propria alla temperatura di 800 °C, producendo così
Il livello medio di impurità riscontrato per l’alluminio è del 4%, un dato molto positivo, visto che la soglia oltre al quale il materiale deve ripassare la selezione è il 5%.
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È necessario sviluppare la raccolta con un mix di comunicazione, investimenti e mezzi, per aiutare i Comuni che devono essere disposti a investire.
i lingotti di qualità pari al vergine. “Un problema potrebbe essere quello delle leghe d’alluminio” ci dice Stefano Stellini, responsabile comunicazione di Cial, il Consorzio imballaggi in alluminio. “I rottami d’allumino sono composti da leghe diverse che sono miscelate durante la fusione per ottenere l’alluminio della qualità desiderata. Si tratta di una pratica consolidata anche perché le fonderie si specializzano per segmenti di mercato, come per esempio il settore automobilistico sanno come miscelare le varie qualità”. Altra caratteristica dell’alluminio è rappresentata dal fatto che a contatto con altri rifiuti non subisce delle modifiche chimiche o fisiche. E infatti l’alluminio può essere recuperato anche dagli impianti Tmb (Trattamento meccanico biologico) che separano il secco dall’umido e addirittura dalle scorie post combustione degli inceneritori”. Per l’alluminio la questione principale risiede negli extra costi dovuti al passaggio aggiuntivo nel processo di selezione causato dall’impurità del materiale in entrata. Eccoci a un altro metallo, quello che ha fatto un pezzo di storia: l’acciaio. Sul fronte del recupero di materia la filiera dell’acciaio è in pole position
con il 70% del materiale prodotto che deriva dal recuperato. Anche sotto il profilo della qualità della raccolta differenziata non crea problemi nelle fasi successive, con il 90% circa di materiale che viene avviato a riciclo. La situazione cambia per la frazione che proviene dal rifiuto indifferenziato. In questo caso il deferrizzatore trascina con il materiale ferroso tutto ciò che ci si attacca. Pertanto la componente estranea è più elevata e il processo, per arrivare a una buona qualità è più complesso. Altro flusso dell’acciaio è quello del ferro combusto, estratto dalle ceneri provenienti dagli inceneritori; in questo caso c’è una quota d’impurità che deriva dalle ceneri che rimangono sulla superficie metallica e va anche considerata l’incidenza dell’ossidazione che rende il materiale meno appetibile sul mercato. Sul fronte della quantità, per quanto riguarda la raccolta nazionale pro-capite annuale la situazione è mediamente buona. Al nord, dove la raccolta supera i 3 kg a persona, si è ad un ottimo livello; al centro sud si oscilla tra la fascia superiore e quella tra 1 e 3 kg, ma restano due regioni agli antipodi, Sicilia e Valle d’Aosta, dove si raccoglie meno di 1 kg a testa.
“È necessario sviluppare la raccolta con un mix di comunicazione, investimenti e mezzi, per aiutare i Comuni che devono essere disposti a investire” ci dice Rocco Andrea Iascone, responsabile comunicazione e relazioni esterne del consorzio Ricrea. “E poi si possono impiegare anche nuove iniziative, come lo sviluppo del riciclo circolare a chilometri zero, con il quale vogliamo accorciare le distanze della filiera del riciclo”. In questo caso c’è anche una maggiore facilità da parte dei cittadini nell’utilizzo corretto della differenziata, poiché conoscono la destinazione del materiale e hanno ben chiaro qual è il ciclo. “In Sicilia siamo riusciti a lasciare il materiale sul territorio realizzando un ciclo quasi a chilometri zero” ci dice Luca Mattoni, responsabile dell’area tecnica di Ricrea. “Il valore aggiunto, oltretutto, l’ha messo l’impianto presente sul territorio che si è dotato di macchinari per ottenere un prodotto adatto all’acciaieria locale permettendo una raccolta mirata sul territorio”. Il risultato è stato un buon sistema di riciclo che fa percorrere meno chilometri possibili. Il problema fondamentale rimane quello della certezza della qualità, qualunque essa sia, anche perché nelle acciaierie è possibile cambiare il livello qualitativo del prodotto secondo la sua destinazione finale. Le nuove tecnologie invece, visto l’assestarsi delle filiere del riciclo, possono essere messe a punto e adottate con buoni risultati. Tra queste vi è la frantumazione degli imballaggi con piccoli mulini che sono più adatti di quelli di grandi dimensioni. Il vantaggio di avere dimensioni inferiori è quello di poter lavorare con la calibrazione esatta, rispetto al materiale in entrata. Si tratta di impianti che si stanno diffondendo sul territorio. È un segnale che gli operatori sono sempre più attenti alla frazione di materiale proveniente dalla raccolta differenziata. Sembra che si stiano scoprendo le miniere urbane. Dalla raccolta al nuovo prodotto: come all’origine, meglio che all’origine Proseguiamo il nostro viaggio nella qualità del riciclo incontrando il successivo attore della filiera, ossia chi riceve il prodotto della raccolta e lo riporta a nuova vita traendone un prodotto di qualità pari o superiore a quella di partenza. L’olio lubrificante, per esempio. Viscolube è uno dei soggetti maggiormente attivi nella rigenerazione degli oli lubrificanti e lavora nel settore da decenni, certificando tutta la filiera e immettendo sul mercato un prodotto che ha l’etichetta ambientale. “Oggi la qualità dell’olio in ingresso ha un impatto molto importante sulla qualità del prodotto in uscita perché con l’aumentare degli inquinanti presenti nell’olio usato, in teoria, si potrebbe ottenere una qualità minore della base lubrificante in uscita” ci dice Marco Codognola, direttore generale della divisione Ambiente di Viscolube. “Qui interviene il ruolo della tecnologia, nel senso che quanto in teoria ipotizzabile, ossia l’abbassamento della qualità del prodotto in uscita, è compensato da una serie di tecnologie mirate
che permettono, a fronte del variare della qualità del rifiuto in ingresso, di correggere questi squilibri e arrivare a un prodotto finale che mantiene le caratteristiche concordate con i clienti fornendo loro un prodotto finale rigenerato con caratteristiche identiche a quelle del prodotto vergine. E questo è il nostro benchmark di riferimento”. Tecnologie e know-how accumulato negli anni che ora diventano essenziali all’interno dei processi. Ancora una volta, il nodo è centrale perché sulla qualità del prodotto in uscita e sul mantenimento della catena del valore si giocano le prospettive di sviluppo dell’economia circolare. E vediamo i dettagli. Un esempio: per eliminare le sostanze più volatili bisogna agire sulle colonne di distillazione, per avere un lubrificante che sia in linea con le aspettative del mercato. Un altro elemento importante è l’indice di saponificazione, ossia la quantità di grassi presente nella materia in ingresso, fattore che incide negativamente sulle prestazioni del lubrificante. Per eliminare queste sostanze si utilizzano una serie di trattamenti chimici, come la centrifugazione e la filtrazione che devono essere tarati in base alla quantità di inquinante in ingresso. Questi e altri processi, come i catalizzatori di idrofinitura, sono stati sviluppati per ridurre la quantità dell’olio usato non utilizzabile che è un rifiuto pericoloso e ha come unico destino la combustione. E qui si apre un tema che è sia normativo, sia legato alla raccolta. Il fatto che l’olio usato, infatti, sia considerato un rifiuto pericoloso è un vantaggio circa l’attenzione e la tutela che deve essere riposta nella prima parte della filiera: quella della raccolta. I parametri di legge che contraddistinguono gli oli usati rigenerabili, infatti, sono stringenti, ma consentono alla maggior parte dell’olio esausto raccolto di poter essere rigenerato e grazie al lavoro capillare del Coou (Consorzio obbligatorio degli oli usati) le società di raccolta fanno operazioni di selezione e raccolta accurate, con il risultato che la maggior parte degli oli raccolti rientrano nei parametri di legge che è necessario siano rispettati per poter
Un sistema perfetto quindi? Non esattamente perché nonostante gli ottimi risultati raggiunti ci sono ancora margini di miglioramento.
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Info www.remadeinitaly.it www.gruppoveritas.it www.sienambiente.it www.revet.com www.comieco.org www.cial.it www.consorzioricrea.org viscolube.it/it www.coou.it www.favini.com
essere rigenerati. Il legislatore nel settore degli oli usati ha voluto fissare dei limiti sul fronte delle impurità non tanto per motivi tecnici, ma per prevenire l’utilizzo “improprio” della filiera della rigenerazione. L’intenzione del legislatore è stata quella di tracciare una linea netta di confine tra ciò che può alimentare la filiera e ciò che deve rimanere un rifiuto. Così il prodotto in uscita è praticamente identico a quello delle raffinerie che trattano prodotti fossili vergini. Un sistema perfetto quindi? Non esattamente perché nonostante gli ottimi risultati raggiunti ci sono ancora margini di miglioramento. Sotto al profilo della raccolta se il processo a monte fosse ancora più selettivo, con una maggiore attenzione alla segregazione presso i produttori iniziali, di sicuro il processo a valle avrebbe una qualità ancora superiore. “Ciò si tradurrebbe in un minor costo di rigenerazione, mentre il livello qualitativo rimarrebbe identico a quello di oggi. Ossia ottimo” prosegue Codognola. “Il mantenimento di un elevato livello in uscita è possibile perché abbiamo ovviato a ciò con la tecnologia”. Quindi anche in un settore professionale come quello degli oli usati è possibile fare di più e non bisogna farsi distrarre dall’elevata qualità in uscita. Alzare i ritorni dell’attività industriale in settori legati all’economia circolare, infatti, significa consentire alle imprese di investire in ricerca e sviluppo e mettere a punto pratiche e tecnologie innovative in grado di allargare le basi stesse dell’economia circolare, rendendo ancora più competitivo il prodotto finale, in questo caso rispetto alle basi lubrificanti vergini d’origine fossile. Ma si può intervenire anche sulle procedure, per migliorare la filiera senza eccessivi costi. Nel caso degli oli motore oggi c’è già una buona segregazione, a partire dalle autofficine che separano gli oli in maniera accurata, mentre
nel caso degli oli industriali a volte capita che le aziende nel loro stoccaggio dei rifiuti miscelino anche delle emulsioni, delle acque di lavaggio e degli stream tecnici che vengono miscelati con i lubrificanti usati. Siamo alla fine del viaggio. Alla tappa nella quale si assiste a una mutazione, ossia quella della trasformazione della materia da rifiuto in qualcosa di diverso e che ha più valore. Entriamo nel campo dell’upcycling e lo facciamo con un materiale dove il riciclo è un’eccellenza: la carta. La carta realizzata a Bassano del Grappa, presso la storica cartiera Favini, dove oltre a utilizzare fibra di cellulosa riciclate, impiegano anche residui, o meglio sottoprodotti, provenienti da filiere radicalmente diverse. “La prima cosa da fare è quella di considerare questi residui come se fossero una materia prima acquistata normalmente” ci dice Achille Monegato, direttore ricerca e sviluppo di Favini. “Questi materiali quindi devono possedere un capitolato, affinché siano determinate e precise le caratteristiche della fornitura”. E qui arriviamo a un punto cruciale del nostro percorso, quello dove i sottoprodotti di scarto delle lavorazioni si elevano al livello della materia prima. In questo quadro il controllo della qualità della materia prima in ingresso diventa fondamentale. “È necessario analizzare tutte le caratteristiche, verificare quelle che sono critiche e stabilire un intervallo di accettabilità” prosegue Monegato. “Tutto per avere una determinata qualità del prodotto in uscita. Per quanto ci riguarda parametri come il colore, la granulometria, il contenuto d’umidità, la parte solubile in acqua e altre caratteristiche devono essere costanti”. Bisogna fare delle scelte, come nel caso del cuoio che ha Favini utilizzano per la carta Remake. Gli sfridi di cuoio non sono tutti uguali e dipendono dal tipo di concia. Quelle al cromo, con i tannini o quella wet withe producono sfridi che hanno caratteristiche differenti e quindi la scelta deve essere compiuta identificando il sottoprodotto in base alla filiera di provenienza. “Per fare upcycling ma soprattutto per trovare strade nuove serve la conoscenza” prosegue Monegato. “Conoscenza, conoscenza e conoscenza: questo è ciò che serve. Ma non in un unico settore manifatturiero, ma in più campi, in diverse filiere”. Esistono però dei problemi che potremmo chiamare intrinseci sotto il profilo della fornitura, anche perché stiamo parlando di sottoprodotti che presentano delle variabili per natura, come nel caso dei sottoprodotti della lavorazione degli agrumi, il cui colore non è costante. I frutti raccolti a novembre hanno un colore diverso da quelli colti a marzo, a causa della diversa concentrazione di betacarotene. E questo è un problema nel momento in cui il pastazzo di agrumi ossia il residuo della lavorazione viene utilizzato per fare della carta oppure dei tessuti. Per ovviare a ciò è necessario utilizzare il residuo che contiene un’esatta percentuale di betacarotene già determinata
La qualità del riciclo che abbiamo visto sotto molte angolazioni è – e sarà – una tra le questioni centrali nello sviluppo dell’economia circolare.
nel capitolato. Diventa essenziale quindi l’utilizzo di una materia proveniente da un raccolto effettuato in un determinato periodo e ciò implica che da entrambe le parti, fornitore e utilizzatore del sottoprodotto, ci sia una consapevolezza circa tutto ciò. E la conoscenza incrociata delle filiere introduce un altro problema: quello della difesa del know-how industriale. Se da un lato, infatti, si pone la legittima questione della protezione del know-how derivato dagli investimenti in ricerca e sviluppo, sotto un’altra angolazione c’è la questione dello sviluppo e della diffusione di queste pratiche che potrebbero fare da volano per l’economia circolare. Oggi siamo ancora all’inizio di questi processi, ma in un futuro ormai prossimo sarà necessario trovare dei punti di equilibrio tra le diverse esigenze. Ma torniamo all’incrocio tra le filiere e le specifiche dei sottoprodotti, con un altro esempio tratto dall’esperienza di Favini. “Il residuo dell’uva, (utilizzato dall’azienda per realizzare la carta della scatola della linea di champagne bio di Veuve Clicquot, ndr) per esempio, può avere quattro differenti destinazioni” conclude Monegato. “Nel primo caso non viene nemmeno essiccato ed è
utilizzato come fertilizzante, mentre nel secondo caso – cioè essiccandolo – ha tre destinazioni aggiuntive. La prima è quella del recupero energetico tramite la combustione, la seconda quella dell’utilizzo come integratore per i mangimi animali e la terza quella dell’impiego per la realizzazione della carta”. Ecco che aggiungendo una fase di lavorazione, l’essiccazione, a un sottoprodotto in uscita se ne espandono le possibilità d’utilizzo, e anche di mercato. L’adeguamento della fornitura dei sottoprodotti diventa così una leva di mercato. La qualità del riciclo che abbiamo visto sotto molte angolazioni è – e sarà – una tra le questioni centrali nello sviluppo dell’economia circolare. L’approccio dovrà essere lo stesso utilizzato nell’impiego delle risorse non rinnovabili, per due buone ragioni: la necessità di inserire elementi d’economia circolare nelle filiere produttive esistenti, e la necessità di limitare al massimo gli extracosti che potrebbero derivare dall’uso di materiali da riciclo. Sottovalutare tali aspetti potrebbe creare seri ostacoli all’insediarsi di una vera economia circolare.
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Giacimenti tessili
IN CERCA D’AUTORE Entro il 2030 i rifiuti generati dal settore moda saranno aumentati del 63%. Come il design può contribuire a trasformare questi scarti in nuovi prodotti con un più alto valore aggiunto. di Irene Ivoi
1. Gfa creerà anche una toolbox con consigli di esperti e case study per supportare le aziende a mantenere l’impegno in collaborazione con I:Collect con istruzioni utili per raccogliere, riutilizzare e progettare per la riciclabilità.
Investire in strategie di progettazione per la riciclabilità; aumentare il volume di indumenti usati raccolti e indumenti usati rivenduti e il volume di quelli realizzati con fibre riciclate: è questo il recentissimo invito di Global Fashion Agenda (Gfa),1 al quale hanno aderito nomi blasonati dell’universo moda con l’obiettivo di realizzarne gli obiettivi entro il 2020. Ma questa è solo una delle possibili occasioni utili per entrare a far parte di un circuito di aziende attente alla sostenibilità che interessa da qualche anno il mondo del fashion. Già nel 2011, infatti, Greenpeace aveva lanciato il programma Detox che aveva raccolto l’adesione di tanti brand super famosi.
Il settore della moda, infatti, si caratterizza per diverse criticità ambientali da fronteggiare. Genera consistenti scarti di processo e presenta diversi fattori di rischio. Secondo il rapporto di Boston Consulting Group Pulse of the fashion industry del 2017, dal 2015 al 2030 la produzione di rifiuti del settore aumenterà del 63% (rifiuti ed emissioni di CO2 sono i due fattori per i quali si prevedono i maggiori incrementi). A ciò si aggiunge il fatto che solo una piccola quota di rifiuti tessili viene recuperata a fine vita: le azioni di intercettazione degli abiti usati (come rifiuti urbani) sono purtroppo insufficienti e non sempre trasparenti. Tanto che la ricerca di soluzioni – soprattutto industriali – per dare sbocchi agli scarti di processo da ridurre e/o avviare a riciclo è oggetto di numerosi progetti anche finanziati dalla Ue.
Case Studies Irene Ivoi si occupa di ricerca, attuazione e comunicazione di politiche di prodotto e strategie di prevenzione impatti ambientali per consorzi di filiera, enti pubblici e imprese. Laureata in industrial design, crede in un ruolo del designer più attento a (eco) processi e servizi.
Anche in questo caso il contributo del design e della ricerca può fare la differenza poiché – non raramente – la qualità dei materiali considerati rifiuti da scartare è alta. Per questa ragione il loro recupero rappresenta un’utile opportunità subordinata tuttavia ad alcuni obiettivi: facilitare il processo di riciclo tessile, perfezionare la separazione (automatica) dei rifiuti tessili postconsumo, mettere a punto tecnologie per estrarre coloranti e finiture o in grado di separare il mix di fibre componenti i tessuti, senza danneggiarle. Il caso danese In questa direzione si sta muovendo Really, società danese che ha dato vita a una applicazione molto innovativa. Fondata nel 2011 da Wickie Meier, Klaus Samsøe e Ole Smedegaard, Really propone di riciclare prodotti tessili creando con essi un materiale utilizzato per produrre un pannello, il Solid Textile Board by Really, presentato all’ultimo Salone del Mobile di Milano.
2. Azienda che produce tessuti e prodotti tessili di alta qualità – www.kvadrat.dk
Tutto prende avvio da un flusso di rifiuti immediatamente disponibile – in questo caso prodotti tessili provenienti dalle industrie tessili e della moda, da lavanderie, famiglie, ma anche i cascami di Kvadrat2 – di cui si ridefinisce l’uso, trasformandoli in una nuova materia grazie al contributo di designer che sono riusciti a dar vita a prodotti con un più alto valore aggiunto.
Nella sua composizione il Solid Textile Board riflette la disponibilità dei flussi di rifiuti tessili e costituisce un’alternativa a una serie di materiali esistenti, grazie al fatto di essere altamente flessibile nelle sue applicazioni. La regia dell’operazione è di Christien Meindertsma (artista e designer olandese, ndr) che, dopo aver studiato i contorni del fenomeno, ha confezionato anche un elegante e tecnicamente accurato progetto di comunicazione che descrive il modo in cui i resti di strofinacci, canovacci e lenzuola vengono trasformati nel nuovo materiale. Nel 2015 Christien Meindertsma aveva dato vita a un’altra pubblicazione con l’editore Thomas Eyck: Bottom Ash Observatory, nella quale – grazie alle foto di Mathijs Labadie – mostrava le variazioni cromatiche ed espressive delle ceneri di combustione di un inceneritore che diventavano così opere di grande evocazione visiva. In entrambi i casi mostrando come sia possibile comunicare con efficacia e qualità estetica anche temi di emergenza ambientale considerati spesso solo espressione di bruttezza. In quest’operazione Really ha coinvolto anche il designer Max Lamb affinché con le sue invenzioni dimostrasse le possibilità di impiego del Solid Textile Board. La sua serie di 12 panchine da un lato costituisce un suo personale percorso di esplorazione, ma dall’altro mostra il potenziale
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materiarinnovabile 18. 2017 3. Il pannello standard è di 3 metri di lunghezza per 1,1 metri di altezza e spessore 7,8 mm.
del Solid Textile Board e come si rapporta rispetto ad altri materiali impiegati per realizzare pannelli.3 Il Solid Textile Board è un materiale ad alta tecnologia e qualità, ricavato al 70% dai flussi sopra descritti. La sua fabbricazione non comporta l’uso di coloranti, acqua o sostanze chimiche tossiche e genera solo rifiuti riciclabili: alla fine il materiale usato può essere ri-granulato e trasformato in nuovi pannelli. Paladina della progettazione circolare, Really incoraggia così concetti innovativi destinati ad allungare la durata del ciclo di vita delle risorse tessili visto, con l’obiettivo di arrivare a una soluzione a rifiuti zero. Se nei tradizionali processi di riciclo, infatti i materiali si degradano, in questo caso – perfettamente circolare – si punta a riciclarli in modo che mantengano il loro pieno valore. I pannelli di Solid Textile Board sono principalmente costituiti da cotone e lana, l’anima è in cotone bianco proveniente da lavanderie industriali, mentre gli strati esterni sono disponibili in quattro colori: bianco cotone, blu cotone, lana ardesia e lana naturale. Grazie alle sue proprietà meccaniche i pannelli possono essere utilizzati come sostituto del legno e di compositi vari usati nell’arredamento e nell’architettura. La sua tattilità ed estetica, alquanto unica, lo rendono un’alternativa anche decorativa a materiali quali la pietra, il legno, il cartongesso e la muratura. Un’alleanza tra Really e Kvadrat Questi processi produttivi non nascono dall’oggi al domani: Really ha impiegato diversi anni a sviluppare il processo di produzione brevettato del Solid Textile Board. Tale processo di fabbricazione del tessuto non-tessuto include, tra le altre cose, lo sminuzzamento dei tessuti usati in piccole fibre e la loro miscelazione con un legante speciale che non degenera con il riutilizzo. Con questo materiale Really ci lancia una suggestione: molti settori possono essere stimolati a ripensare il loro utilizzo delle risorse. La proprietà di Really è attualmente al 52% di Kvadrat, leader in Europa nella produzione di tessuti di design di alta qualità e di prodotti associati ai tessuti per spazi privati e pubblici. Kvadrat ha un approccio responsabile alla produzione e ai processi che è quindi parte essenziale della propria filosofia aziendale e del proprio design. Che cosa portiamo a casa da questa case history Dall’esperienza di Really emerge che c’è sempre un modo efficace e intelligente, magari anche più originale di altri, per fare – e comunicare – un viaggio verso la sostenibilità. E che quindi limiti non vi sono alla capacità
Case Studies
Copenhagen Fashion Summit, www.copenhagenfashion summit.com I:Co, www.ico-spirit.com/en Report Pulse of the fashion industry, tinyurl.com/ycrsxva3 Really, www.reallycph.com Bottom Ash Observatory, tinyurl.com/y9xzgc2m Max Lamb, www.maxlamb.org Trash-2-Cash, trash2cashproject.eu Life M3P, www.lifem3p.eu
dei materiali dismessi di diventare attrattivi e ritornare attraenti. La pubblicazione Bottom Ash Observatory fa scuola, anzi deve farlo. Chi ha l’ambizione oggi di inventare nuovi materiali processando i vecchi, oltre alla tecnologia necessaria, deve ricorrere al contributo del design, anche se talvolta può non bastare. Ma affinché un designer tiri fuori da un’informale e ingenerosa materia qualcosa di vibrante serve anche una direzione artistica adeguata, serve indirizzarlo a immaginare scenari che vanno aldilà del prodotto. I prodotti talvolta possono essere in sé anche esercizi di stile, ma perché funzionino (e quindi siano desiderabili e vengano acquistati) è necessario immaginare gli scenari in cui si collocano e saperli – parallelamente – raccontare e renderli evocativi. Si chiama marketing, si chiama story telling: a seconda dei periodi questa cornice cambia nome, ma resta importante quanto il prodotto.
Se chi si occupa di comunicazione questo lo sa bene, chi parte da un’esperienza aziendale pura può non saperlo o non averlo mai praticato. Really e Kvadrat ci insegnano che combinando saperi e sforzi provenienti da direzioni diverse si può davvero arrivare a risultati molto suggestivi e ricchi di futuro. E questo futuro è anche l’Europa che ce lo sta ridisegnando perché in tale direzione vanno tanti finanziamenti, in particolare rivolti al tessile, nel quale sono in corso un paio di promettenti progetti. Il primo è Trash-2-Cash, finanziato da Horizon 2020, che vede 19 partner internazionali impegnati nell’obiettivo di utilizzare rifiuti tessili e fibre di cellulosa non più recuperabili (zero-value) per creare prodotti di alta qualità grazie a nuove tecnologie orientate al design. L’altro è Life M3P progetto teso a valorizzare e promuovere nuove applicazioni di rifiuti industriali (anche tessili) ricorrendo al contributo di designer e allo scambio di best practice tra più paesi coinvolti.
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La SECONDA VITA dell’Expo di Gloria Zavatta
Gloria Zavatta esperta di sostenibilità e corporate social responsibility, è stata Sustainabilty Manager di Expo 2015. Oggi ricopre il ruolo di Amministratore Unico di Amat, l’Agenzia Mobilità, Ambiente e Territorio della città di Milano.
Arredi, installazioni, cucine, piante, gadget. Oggetti di rappresentanza assieme a cestini per la raccolta differenziata. Migliaia di beni da ricollocare. Ecco come è stato gestito il più grande progetto pubblico di riuso in Italia. Strano a dirsi ma il ciclo di vita dell’Expo 2015 non si è ancora concluso. Certo non riguarda più le centinaia di partecipanti (paesi, società civile e partner) e i milioni di visitatori, bensì “gli oggetti” che hanno permesso di vivere al semestre espositivo e che continueranno a farlo in altri contesti e per altre finalità. Dalla fine dell’evento, Expo 2015 SpA, società oggi in liquidazione, ha infatti avviato il progetto Riuso con l’obiettivo di valorizzare tutti gli asset materiali ancora nelle sue disponibilità promuovendo i principi dell’economia circolare, uno dei messaggi chiave legato alla sostenibilità, quale importante legacy immateriale della stessa esposizione. Dal punto di vista legislativo, l’attività è stata di raccolta e smistamento di “beni non rifiuto” messi a disposizione per il loro riutilizzo, così come definito dall’articolo 183 comma 1, lettera r) del Dlgs 152 “riutilizzo: qualsiasi operazione attraverso la quale i prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per cui erano concepiti”. Come tale non ha avuto necessità di autorizzazione ai sensi dell’art. 208 del Dlgs 152/06, né è fattispecie regolata dal Dm 8 aprile 2008. Arredi interni ed esterni, installazioni e attrezzature, cucine per la ristorazione collettiva,
piante in vaso, strumentazione di uffici incluso materiale IT, patrimonio vegetale, cestini per raccolta differenziata, oggetti di rappresentanza e gadget, divise di volontari o operatori, sono le principali tipologie di beni inclusi nel progetto Riuso. Alla fine di Expo Milano 2015, sono state oltre 300 le richieste per un utilizzo a scopo sociale di tali beni inviate da vari soggetti: per esempio enti che avevano prestato gratuitamente il loro servizio durante il periodo dell’evento, parrocchie, comuni e numerosissime organizzazioni del terzo settore. E anche singoli cittadini volontari di associazioni di Milano e non solo. Per gestire l’operazione, la Società ha definito alcune regole per consentire la “seconda vita” di tali beni di sua proprietà, con l’obiettivo di svolgere con il minor impatto economico possibile le operazioni di conservazione e di cessione a terzi, evitare la formazione di rifiuti da destinare a smaltimento e privilegiando gli accordi intercorsi con Arexpo per il riutilizzo dei beni direttamente sul sito espositivo anche nell’ambito delle prime iniziative di riuso degli spazi nell’estate 2016. La procedura ha previsto per prima cosa la verifica della “storia” delle diverse tipologie di beni: dal costo di acquisto all’uso effettuato, dallo stato
Case Studies 1. a) Enti pubblici, intendendosi per tali le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2 del Dlgs n. 165/2001. Tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e amministrazioni dello Stato a ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. b) Enti senza scopo di lucro, intendendosi per tali: fondazioni; associazioni riconosciute e non riconosciute; comitati, Organizzazioni non Governative di Cooperazione allo Sviluppo; enti aventi qualifica di organizzazioni non lucrative di utilità sociale; imprese sociali; cooperative sociali; enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
di conservazione ai costi di imballaggio, stoccaggio e trasporto nonché ai costi delle eventuali attività necessarie a rendere i beni in questione pronti per la cessione a terzi. Per esempio il ripristino funzionale quali la pulizia delle cucine, la bonifica dei computer, l’espianto di piante a terra o il cambio delle infografiche dei contenitori dei rifiuti. Inoltre, sono stati analizzati i vincoli normativi/contrattuali riguardanti i beni oggetto di sponsorizzazioni, l’interesse del mercato per l’acquisto del bene specifico, attivando procedure di vendita oppure di cessione a titolo gratuito. Le manifestazioni di interesse ricevute, pur non attribuendo alcun diritto di prelazione ai fini della cessione gratuita o onerosa, hanno sicuramente aiutato a identificare i bisogni, le disponibilità a sostenere i costi prevedibili e le diverse opzioni di cessione. Per i beni mobili più appetibili per il mercato sono state attivate procedure di cessione, sia tramite aste pubbliche, sia sulla base delle manifestazioni d’interesse provenienti dagli enti pubblici e dai soci, e – qualora fattibile alla fine delle procedure pubbliche – attraverso trattative private. L’obiettivo è stato chiaro fin da subito: la trasparenza delle procedure e la possibilità di recuperare entrate per il bilancio societario (circa 1.000.000 euro Iva esclusa), nel quadro della normativa del Codice degli Appalti. Parallelamente, a fine 2015, Expo 2015 e Fondazione Triulza hanno sottoscritto un protocollo finalizzato alla gestione dell’attività di cessione a titolo gratuito di quei beni identificati come privi di valore economico (per esempio le cucine dei cluster, le divise dei Field Operators e dei volontari, tablet, gadget e materiale promozionale con loghi di prestigio). Questi sono stati destinati a particolari soggetti beneficiari, quali enti pubblici ed enti senza scopo di lucro, da identificare attraverso una procedura pubblica e trasparente. Per la gestione condivisa della procedura, e in particolare della definizione dei soggetti beneficiari ammissibili1 e dei criteri per le assegnazioni, è stato istituito un comitato guida
composto dai rappresentanti della Fondazione Triulza, di Expo 2015 e dei soci della stessa. Per esempio il comitato guida ha ritenuto opportuno formulare dei lotti che fossero di dimensioni sufficienti (in termini di numero di pezzi per ciascuna categoria merceologica) a formare una “massa critica” per garantire una copertura sufficiente in caso di riutilizzo diretto o di vendita benefica per raccogliere fondi a scopi sociali. Nel caso dei tablet destinati alle scuole il numero minimo indicato è stato di 20 unità a istituto affinché fosse possibile l’uso in una classe e di 10 unità per le classi operanti presso le sezioni pediatriche ospedaliere. Inoltre, ha inteso bilanciare le assegnazioni, prevedendo un maggior numero di lotti da assegnare agli enti con sede entro un raggio di 350 chilometri dal sito Expo al fine di contenere le movimentazioni su lunghe distanze ed i relativi costi. Nell’ambito di questa procedura di cessione a titolo gratuito, tra fine luglio e fine settembre 2016, sono state ricevute 3.501 domande che sono state analizzate per la verifica dell’ammissibilità dei richiedenti (ai quali è stata data assistenza puntuale per dubbi e difficoltà), e successivamente estratti i beneficiari per i gruppi di beni suddivisi in lotti, alla presenza di un notaio, in base ai criteri definiti dal comitato guida. Inoltre la Fondazione Triulza ha provveduto alla preparazione degli oltre 230 lotti e alla relativa consegna ai beneficiari, in collaborazione con Expo 2015. Un lavoro “mostruoso” ma ampiamente ripagato dai risultati e dalla soddisfazione dei beneficiari. Il 35% delle domande pervenute era interessato alle cucine, il 28% ai tablet e il restante 37% a gadget, abbigliamento e accessori vari. I riusi previsti, ovvero “la seconda vita” di questi beni ha messo a frutto la creatività e la capacità di leggere i bisogni da parte delle organizzazioni della società civile che, da nord a sud, hanno attivato iniziative di moltiplicazione del valore di tali beni. Dall’utilizzo dei banchi frigo e degli scaffali presso
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materiarinnovabile 18. 2017 2. Il progetto Riuso del Comitato Olimpico di Londra 2012 ha consentito, grazie all’approccio strategico preventivo e alla condivisione degli obiettivi con tutte le funzioni aziendali, il riuso di quasi tutti i beni e le attrezzature. Materiale IT, apparecchiature e attrezzi per lo sport, memorabilia, abbigliamento, sono stati venduti per il 40%, donati per il 40%, utilizzati attraverso altri accordi per il10%) e, infine le rimanenze (10%) destinate allo smaltimento.
l’emporio della solidarietà di Napoli da parte della Onlus Goccia di Rugiada; all’uso delle borse in tela trasformate in cartelle per le comunità dell’ associazione Archè Onlus che ha destinato gli shopper di cotone ai bambini di un villaggio in Zambia per essere utilizzati come zainetti per la scuola al posto dei sacchetti di plastica. E ancora le Associazioni volontari della Protezione Civile di Rozzano, di Pero e di Fano che con le cucine potranno preparare pasti in situazioni di emergenza, oppure le divise dei Field Operators riutilizzate dai giovani lavoratori della Comunità di San Patrignano. Altre iniziative a scopo solidaristico hanno riguardato, per esempio, la cessione alla Regione Lombardia di tre moduli abitativi ubicati nell’area del campo base logistico di Expo 2015, richiesti per devolverli al Comune di Acquaviva Picena (AP) in aiuto alle popolazioni colpite dal sisma; e ancora la cessione gratuita, a fronte dei notevoli
costi di gestione e logistica rimasti a carico del destinatario, dell’installazione Agorà al Comune di Monza e della Vertical Farm a Enea. Un ultimo lotto di attrezzature IT per le quali non è stato trovato acquirente nonostante il bando di gara, sarà ceduto a scuole ed altri soggetti del terzo settore attraverso Fondazione Triulza e Banco Informatico, destinandole ad usi sociali. Il progetto Riuso di Expo 2015 può rappresentare – unico per dimensioni in Italia e, probabilmente in Europa,2 in base alle quantità di beni coinvolti, alla loro tipologia e alla complessità procedurale – un buon esempio per incentivare il riuso da parte delle pubbliche amministrazioni e società partecipate, al fine di rispondere alle sfide ambientali e sociali di lotta allo spreco e di preservazione delle risorse che si stanno affrontando, in maniera trasparente, efficiente, creativa, inclusiva e solidale.
Stato di avanzamento del progetto Riuso-cessioni a titolo oneroso
Info www.expo2015.org/ rivivi-expo
CESSIONI A TITOLO ONEROSO – PROCEDURE DI VENDITA
SOGGETTI
Arredi interni, arredo urbano, attrezzature IT e safety e altri beni da utilizzare sul Sito espositivo
Arexpo
Bandiere di Expo Milano 2015 Statue “Il popolo del cibo di Ferretti” Installazioni “Mercati di Ferretti” Soggetti privati Costumi di parata di Foody Microfoni utilizzati negli Infopoint Moduli abitativi Campo Base Apparecchiature informatiche Arredi e infrastrutture tecnologiche presenti nella sede di via Rovello 2 Arredi e infrastrutture tecnologiche presenti nella sede di via Drago Arredi uffici via Viserba
Soggetti pubblici
Alberi da frutta e 6 piante ornamentali Costumi foody, arredi ed attrezzature Contenitori dei rifiuti per esterno Gadget e materiali promozionali
Dipendenti Expo
La circolarità viaggia su DUE RUOTE di Emanuela Rosio*
Per il secondo anno Ride Green ha reso il Giro d’Italia più sostenibile. Comunicando – tappa dopo tappa – una nuova cultura ambientale che permette di rinnovare i materiali. E premiando i Comuni che hanno fatto meglio la raccolta differenziata. Emanuela Rosio, giornalista ed esperta di comunicazione ambientale, dirige Erica Soc. Coop. È presidente di Aica (Associazione internazionale per la comunicazione ambientale che ha contribuito a fondare nel 2003) e direttore responsabile di Envi.info, rivista di comunicazione ambientale.
*Con il contributo di Luigi Bosio – responsabile Ufficio Tecnico, Erica Soc. Coop.; Roberto Cavallo – AD di Erica Soc. Coop. e Andrea Pavan – project manager Ride Green per Erica Soc. Coop.
È ormai da 100 anni che il Giro d’Italia percorre le strade del nostro paese raccontando, con immagini uniche e con più efficacia di tante parole scritte, gli italiani e l’Italia di oggi. Ancora oggi quando passa il Giro d’Italia si attivano Comuni, volontari, comitati, aziende, squadre sportive. Migliaia di persone si incontrano lungo il suo percorso, mentre milioni sono quelle che da ogni parte del mondo vedono il nostro paese grazie alle dirette televisive, al prezioso lavoro dei social network e ai media di Rcs Sport, organizzatore dell’evento. Il Giro d’Italia, dall’edizione del 2016, ha iniziato a raccontare una storia nuova: quella di un’Italia sostenibile e attenta all’ambiente, in grado – anche in occasione di grandi eventi – di non sprecare e di avviare al riciclo i rifiuti prodotti. Soprattutto una storia che vuole comunicare una nuova cultura ambientale, dove i materiali si rinnovano e aumentano di valore. Una storia di oggetti nuovi realizzati dal materiale raccolto e riciclato, come per esempio la storia delle stesse
biciclette in alluminio prodotte con le lattine recuperate. A partire dal 2016 Rcs Sport ha scelto un partner – la cooperativa Erica, acronimo che sta per Educazione, Ricerca, Informazione, Comunicazione ambientale – per il progetto Ride Green, volto ad aiutare gli organizzatori del Giro d’Italia a rendere le tappe più leggere e sostenibili, partendo dalla scelta dei materiali utilizzati e dall’organizzazione delle raccolte differenziate lungo tutto il percorso, in particolare nelle aree partenze e arrivi. A fine maggio 2017, a Milano, non solo si è conclusa l’edizione numero 100 del Giro, ma anche una “competizione” tra i comuni che hanno ospitato il Giro e che si sono sfidati sul tema delle raccolte differenziate. Una piccola gara che ha visto i tecnici di Erica pesare tutti i giorni i materiali – tappa per tappa, comune per comune, dalla Sardegna alla Lombardia – e conteggiare la quantità di raccolta differenziata fatta in occasione del passaggio del Giro. La storia di Ride Green è fatta anche di piccoli gesti compiuti ogni giorno dai tifosi, dagli stessi ciclisti e dagli organizzatori.
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materiarinnovabile 18. 2017 Le parole chiave di Ride Green L’idea L’idea di partenza del progetto è stata semplice: i rifiuti devono stare al centro delle aree dove ci sono i ciclisti, gli sponsor, le autorità. Le eco-isole con i contenitori per la raccolta differenziata devono essere visibili: anche nelle foto, in tv, perché non contengono rifiuti, ma materiali da avviare a nuova vita. Quindi più sono visibili e facili da utilizzare, più il servizio è efficace. Se all’inizio questa proposta ha sollevato un certo stupore, alla fine i responsabili della logistica, lavorando sulle piantine delle aree hospitality e degli open village, sono riusciti a posizionare
I Comuni premiati nell’evento finale a luglio 2017 Partenze Terzo: Tortolì con l’83% di raccolta differenziata. Secondo: Castrovillari con l’84% di raccolta differenziata. Primo: Forlì con il 90% di raccolta differenziata. Arrivi Secondo: Tortona 90% di raccolta differenziata. Primo: Canazei con il 93% di raccolta differenziata. Sono inoltre state assegnate alcune menzioni speciali ai Comuni che si sono impegnati in modo particolare a supporto di Ride Green: •• Il Comune con più volontari: Reggio Calabria. •• Il Comune con il miglior progetto di integrazione sociale: Reggio Emilia (per la partecipazione dei rifugiati come volontari grazie al coinvolgimento di una cooperativa sociale che li accoglie). •• Il Comune con il maggior coinvolgimento della società di gestione: Milano con Amsa.
i contenitori anche nelle aree più esclusive. Inoltre, grazie anche alla progettazione dei partner tecnici, sono stati prodotti contenitori di varie dimensioni, adatti al contesto e con il logo di Ride Green, in grado di favorire la riconoscibilità della tipologia di materiali raccolti. Lo staff di Erica si è occupato dell’allestimento in ogni tappa, in ogni villaggio di arrivo e in ogni area partenza. Il resto lo hanno fatto i volontari coinvolti in ogni città dai Comitati Tappa e dalle amministrazioni, disponibili a aiutare chi aveva un dubbio su dove mettere un materiale. Le persone Fondamentale è stata la collaborazione dei Comuni e delle aziende che gestiscono il servizio di igiene urbana, che hanno garantito l’avvio al riciclo dei materiali raccolti durante l’evento. Il confronto con i partner locali è iniziato prima, spiegando loro il progetto e comprendendo come erano organizzate le raccolte differenziate in ogni comune, quindi definendo il posizionamento dei contenitori per renderli sì visibili, ma senza creare intralcio al passaggio dei mezzi. Non è stato difficile, con l’aiuto dei Comitati di Tappa e dei Comuni stessi, coinvolgere volontari che spiegavano come fare una corretta raccolta differenziata agli appassionati di ciclismo che affollavano gli spazi delle partenze e degli arrivi, rimanendo a fianco delle eco-isole per l’intero evento. Il progetto Il servizio è stato studiato dai tecnici di Erica in base alle analisi degli input (tipologie di sampling distribuiti dagli sponsor e dalla carovana, prodotti usa e getta utilizzati per il catering ecc.) e dei servizi di raccolta differenziate attivi nei comuni toccati dalla manifestazione. I due elementi hanno determinato la scelta del tipo di contenitori, la loro numerosità e distribuzione, finalizzando la raccolta ad un effettivo avvio al riciclo dei materiali. I contenitori scelti (realizzati da Eurosintex appositamente per l’evento Giro d’Italia numero 100) sono stati poi accorpati in eco-isole nelle aree dell’open village e dell’hospitality e dotati di informazioni in più lingue – sulla tipologia di materiali conferibili in ciascuno. Inoltre un operatore della cooperativa o un volontario si occupavano della sostituzione dei sacchi una volta pieni e il loro trasferimento al luogo di stoccaggio concordato con il Comune. Per il catering, grazie all’accordo e al sostegno di Novamont S.p.A. che ha supportato il progetto per il secondo anno consecutivo, sono state utilizzate stoviglie biodegradabili e compostabili in Mater-Bi, conferibili nella raccolta differenziata dell’organico e dunque avviate al compostaggio insieme agli scarti organici stessi. I materiali plastici sono invece stati avviati al riciclo anche grazie al sostegno di Corepla alla manifestazione, così come tutti gli altri materiali differenziati. La comunicazione La comunicazione del progetto Ride Green è stata studiata utilizzando varie tipologie di media e new media. Il progetto è partito con
Case Studies 100% Campania, ha realizzato in cartone totalmente riciclato i pannelli informativi per le eco-isole del village, sottolineando così il messaggio che quanto viene correttamente raccolto può avere una seconda vita. Ciò vale tanto più per la carta che è il materiale più prodotto nel corso di eventi come questo: chiudere la filiera con supporti in cartone riciclato consente di dare un messaggio importante sull’effettivo riciclo. Infine, ma non ultimo, la raccolta differenziata è diventata un gioco che ha occupato spazi nelle fasi di animazione in attesa delle partenze e degli arrivi dei ciclisti, coinvolgendo il pubblico in un gioco in cui si doveva dimostrare di saper fare correttamente la raccolta differenziata.
Info www.giroditalia.it/it/ ridegreen www.cooperica.it
una conferenza stampa per il lancio e la presentazione dei partner a Milano e si è concluso con la premiazione dei tre migliori Comuni in termini di risultati di raccolta differenziata, nella categoria partenze e arrivo di tappa e con tre menzioni speciali. Durante il Giro d’Italia la comunicazione si è focalizzata soprattutto sui social fornendo ogni giorno i dati di Ride Green (quantitativi di raccolta differenziata tappa per tappa) nel comunicato stampa “Buongiorno Giro” con le notizie più significative della giornata precedente. I social sono inoltre stati popolati da notizie più pop come le immagini dei personaggi che sono stati testimonial del progetto nelle aree esclusive. Un grande contributo nella comunicazione è stato dato da Ricicla tv che ha seguito il progetto diffondendo reportage realizzati durante l’evento e un video finale con le interviste ai principali protagonisti della corsa. La società Sabox, uno dei partner del progetto
I risultati Durante le 21 tappe del 100° Giro d’Italia, sia in partenza che in arrivo, lo staff di Erica composto da sette persone insieme ai volontari ha pesato i materiali raccolti, fornendo per ogni tappa i dati dei quantitativi di organico, carta e cartone, plastica, vetro e rifiuto non riciclabile. In tabella il risultato finale della raccolta differenziata durante tutta la manifestazione, con il dettaglio sulla quantità di rifiuto e la percentuale per ogni frazione. Il futuro Se nel 2016 il progetto Ride Green è stato una scommessa, nel 2017 è diventato una conferma, con risultati in crescita e un gruppo affiatato che ha portato avanti l’iniziativa giorno per giorno. Ma per aumentare la sostenibilità di un evento come il Giro d’Italia si possono fare ancora molte cose, lavorando sulla riciclabilità degli input, sulla riduzione dei rifiuti, sul risparmio energetico e la mobilità sostenibile. E soprattutto molto può ancora essere fatto per utilizzare il Giro come veicolo per messaggi ambientali, come lo stesso Ministero dell’Ambiente che ha patrocinato Ride Green, ha suggerito. La promozione delle buone pratiche ambientali e il coinvolgimento del territorio resteranno, dunque, le parole d’ordine anche per l’edizione 2018 di Ride Green.
100° Giro d’Italia: i numeri della raccolta
Fonte: Erica Soc. Coop.
RIFIUTO
QUANTITATIVO (kg)
% RD
Organico
7.046,00
8%
Carta e cartone
64.275,40
76%
Plastica
2.487,54
3%
Vetro
1.730,16
2%
Secco residuo
9.338,34
11%
Totale
84.877,43
89%
Totale eco punti allestiti e computati
105
Totale persone coinvolte (staff + volontari)
281
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dai nostri partner
Nuove declinazioni
Economia circolare e parchi eco-industriali: alcuni casi pratici
di Elettra Agliardi, Marino Cavallo e Daniele Cencioni
Elettra Agliardi è professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Scienze economiche all’Università di Bologna. Marino Cavallo è responsabile degli uffici Ricerca, Innovazione e Gestione dei progetti europei nella Città Metropolitana di Bologna. Daniele Cencioni è communication manager presso la Città Metropolitana di Bologna.
L’attuale crisi finanziaria ha inevitabilmente messo in difficoltà i vecchi modelli economici. Da un lato i fallimenti dei meccanismi di mercato hanno rafforzato l’area dell’economia keynesiana associata a una forte critica sulle disuguaglianze distributive; dall’altro hanno aperto le porte a nuove riflessioni sulla scarsità delle risorse, la difesa degli ecosistemi naturali e le energie rinnovabili (vedi Agliardi e Spanjers, 2016) per fornire soluzioni potenziali alle attuali sfide ambientali. Una delle strategie più in voga per risolvere alcuni fallimenti cruciali del mercato è l’economia circolare. I casi presentati sono sviluppati all’interno di Cesme, un progetto europeo sull’economia circolare nelle piccole e medie imprese, e analizzati, in tale contesto, grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Scienze economiche dell’Università degli Studi di Bologna. La ricerca si è focalizzata sulle piccole e medie imprese: da questa esperienza sta nascendo un e-book che approfondisce i casi e le esperienze di seguito illustrati. Si tratta di un tentativo nuovo di mettere assieme competenze universitarie, esperienze di imprese e visione europea sull’economia circolare. A livello di processi industriali uno degli strumenti per l’attuazione dell’economia circolare è rappresentato dalla simbiosi industriale e dai parchi eco-industriali, probabilmente una delle direzioni di lavoro più promettenti nei prossimi anni. Tre casi studio*
*I casi studio sono stati elaborati da Sara Nicosia, Federico Pinato e Barbara Zancarli, Master in Resource Economics and Sustainable Development, Università di Bologna.
LOWaste (mercato dei rifiuti locali per i prodotti di seconda vita) Nel Comune di Ferrara, la produzione di rifiuti urbani dal 2010 al 2015 è diminuita da 102.233 tonnellate a 92.678 tonnellate. Nello stesso periodo la raccolta differenziata è passata dal 48,2% (49.305 tonnellate) al 54,35% (50.370 tonnellate), mentre la produzione annuale di rifiuti urbani pro-capite è diminuita da 755 kg /ab/ a 696 kg/ab/. Il LIFE+ LOWaste rappresenta un modello di economia circolare basata sulla prevenzione, il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti attraverso il partenariato privato-pubblico. È stato implementato nel Comune di Ferrara insieme alla cooperazione del Gruppo Hera, Impronta Etica, La Città Verde, RREUSE e co-finanziato dalla Commissione europea attraverso il fondo LIFE +. Il progetto è durato dall’11 settembre 2011 al 30 giugno 2014. Il bilancio complessivo è stato di 1.109.000 euro, con 554.500 euro finanziati con il cofinanziamento Ue. Gli obiettivi di LOWaste erano:
•• riduzione dei rifiuti urbani attraverso lo sviluppo di un mercato locale di materiali riciclati o riutilizzabili, promuovendo un ciclo chiuso di gestione locale dei rifiuti incentrato sul lato dell’offerta; •• sviluppo degli attuali sistemi di appalti pubblici verdi presso le amministrazioni locali con un approccio “da culla a culla”, che collega le procedure di acquisto all’ecodesign di beni e prodotti; •• promozione della prevenzione sui rifiuti, incoraggiamento al loro recupero e utilizzo di materiali recuperati al fine di preservare le risorse naturali, con particolare attenzione al ciclo di vita, alla progettazione ecologica e allo sviluppo dei mercati del riciclaggio; •• sviluppo di un sistema per la creazione di un mercato dei rifiuti locali per prodotti secondari che possono essere utilizzati in altri contesti locali; •• diffondere la conoscenza dei prodotti riutilizzati/ riciclati, tra i consumatori, ma anche tra i rivenditori, i produttori e le pubbliche autorità; •• aumentare la consapevolezza dei consumatori, dei rivenditori, dei produttori e degli enti locali sulla possibilità di ridurre i rifiuti attraverso il riutilizzo o l’acquisto di prodotti riciclati. SQUARe027 SQUARe027 è un marchio di moda di lusso innovativo che, secondo i suoi principi etici, progetta e produce una linea ecologica e vegan. Tra i suoi punti di forza, la produzione fatta a mano Made in Italy. L’obiettivo principale di questa startup è quello di fornire nuovi prodotti in grado di soddisfare le esigenze delle persone interessate al benessere animale e alla sostenibilità. Per ottenere questo risultato, il designer Marco Zanuccoli ha presentato un paio di scarpe che soddisfano questi requisiti offrendo allo stesso tempo un prodotto di alta qualità e alla moda. L’azienda, fondata nel 2016 a San Mauro Pascoli (Forlì-Cesena, Emilia Romagna), dichiara come sua missione di “essere in grado di adattarsi all’ambiente e di creare qualcosa che abbia un impatto positivo su tutto l’ecosistema”. Troppe volte l’ambiente in cui viviamo è stato svuotato di risorse: dunque, come si dice, oggi “una ditta di successo dovrebbe agire rispettando le esigenze del nostro pianeta”. Per essere un’azienda del genere, SQUARe027 applica alcuni principi dell’economia circolare. In primo luogo, l’economia circolare richiede di modificare il concetto di spreco: quello che una volta veniva visto come qualcosa da gettare via, dovrebbe ora essere considerato come un insieme di componenti biologici, chimici e materiali da recuperare. Ogni unità di materia ha un valore intrinseco che non scompare al termine della vita.
dai nostri partner **Caso sviluppato da Felipe Bastarrica e Carlo Cerruti, Master in Resource Economics and Sustainable Development, Università di Bologna.
Info www.square027.com www.lowaste.it www.ecopneus.it www.interregeurope.eu/ CESME
Ecopneus Ecopneus è una società senza scopo di lucro per la tracciabilità, la raccolta, il trattamento e il recupero degli pneumatici fuori uso (Pfu), formata dai principali produttori di pneumatici operanti in Italia. Si basa sull’articolo 228 del Dlgs 152/2006 che obbliga i produttori di pneumatici e gli importatori a gestire una quantità di Pfu uguale a quanti pneumatici hanno immesso sul mercato l’anno precedente. Ecopneus è nata dalla collaborazione dei produttori e degli importatori di pneumatici più importanti per affrontare la giusta gestione dei Pfu su tutto il nostro territorio nazionale, garantendo la loro raccolta, trattamento e recupero. I fondatori di Ecopneus sono aziende molto importanti, come Bridgestone, Continental, Goodyear-Dunlop, Marangoni, Michelin e Pirelli. La procedura per la partecipazione alle iniziative di questa società sarebbe stata allargata anche ad altri soggetti importanti nella produzione e nell’importazione di pneumatici. Negli ultimi anni, Ecopneus ha raccolto una quantità di Pfu superiore a quella definita dalla legge. In tabella sono disponibili alcuni dati. In Italia, la produzione di Pfu ammonta a 350.000 tonnellate all’anno (corrispondenti a 38 milioni di pneumatici) e fino a ora circa il 20% di essi è stato raccolto e inviato a impianti specifici per il recupero dei materiali. Circa il 50% viene destinato al recupero di energia, mentre il 25% a circuiti non controllati che escono dalla rete elettrica nazionale.
Tonnellate di Pfu raccolte (2011-2016) 2011
2012
2013
2014
2015
2016
+6.015
+12.462
+19.982
+32.864
+18.371
+15.000
Bibliografia •• Agliardi E. e W. Spanjers, Rethinking the Social Market Economy - A Basic Outline, 2016, RCEA Series 16-01, pp. 1-21. •• Boons F., Janssen M., “The Myth of Kalundborg: Social Dilemmas in Stimulating Eco industrial Parks”, Van Den Bergh J. e Janssen M. eds. Economics of Industrial Ecology Materials, Structural Change, and Spatial Scales, 2004, MIT Press, Cambridge, pp. 235-247. •• Chertow M.R., “Industrial symbiosis: literature and taxonomy”, Annual Review of Energy and Environment
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Parchi eco-industriali: una soluzione promettente, ma serve una buona chimica** L’idea di un parco eco-industriale è sostanzialmente semplice, in quanto coinvolge le imprese in una regione che collaborano per produrre sinergie tra le proprie operazioni e fanno corrispondere gli input e gli output al fine di ridurre i costi, l’utilizzo delle risorse, gli sprechi e gli impatti sulle emissioni. Questa forma di “simbiosi industriale” è spesso paragonata ad un ecosistema in cui diverse specie di imprese condividono le sostanze nutritive o le abbandonano lungo la catena alimentare. Anche se questa è un’immagine avvincente, forse è necessaria un’altra analogia per catturare la complessità di questa organizzazione industriale. Quando due o più imprese interagiscono si comportano in modo simile ad una reazione chimica: combinano i reagenti per creare un prodotto (per esempio rilasciare energia o, nel caso delle imprese, generare entrate) ma anche alcuni residui sotto forma di rifiuti e emissioni. Una reazione richiede una certa quantità di energia di attivazione e, perché ne valga la pena, dovrebbe essere esoergonica, cioè dovrebbe rilasciare più energia di quella utilizzata per avviarla. Il ragionamento sui parchi eco-industriali è quello di trovare reagenti fortemente reattivi l’uno rispetto all’altro, cioè individuare le imprese con ingressi, uscite e procedure compatibili che consentano loro di operare congiuntamente per generare più prodotti (soprattutto ricavi ma potenzialmente anche conoscenze, posizioni di lavoro e altri beni socioeconomici) rispetto a ciò che potrebbero fare separatamente, nonché di ridurre le esternalità negative (leggi: impatti negativi) sull’ambiente e sulle comunità locali. Vorremmo esplorare le principali caratteristiche della simbiosi industriale e dei parchi eco-industriali in particolare, delineando i vantaggi promessi dalle loro formazioni e la loro gamma di applicazioni.
•• Lowe E., “Creating by-product resource exchanges: Strategies for eco-industrial parks”, Journal of Cleaner Production (1), 1997, pp. 57-65. •• Mirata M., “Experiences from early stages of a national industrial symbiosis programme in the UK: determinants and coordination challenges”, Journal of Cleaner Production (12), 2004, pp. 967-983. •• Perman R. Et al., Natural Resource and Environmental Economics, 3. ed., 2003, Pearson Education
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materiarinnovabile 18. 2017
Rubriche Circular by law
A Bruxelles battaglia sull’efficienza Francesco Petrucci*, giurista ambientale, membro della Redazione normativa di Edizioni Ambiente.
*In collaborazione con Rivista “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” e Osservatorio di normativa ambientale su www.reteambiente.it
Gli uragani che questa estate hanno devastato i Caraibi e la parte meridionale degli Stati Uniti hanno riportato all’attenzione dei media il cambiamento climatico, protagonista in autunno della Conferenza Onu sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change o Unfccc): dal 6 al 17 novembre 2017 la Conferenza delle Parti n. 23 si terrà a Bonn sotto la presidenza delle Isole Fiji. La COP23 proseguirà il lavoro tecnico di attuazione dell’Accordo di Parigi del 2015 (COP21) secondo l’impegno assunto dalle parti durante la COP22 di Marrakech dell’anno successivo. A oggi 160 su 197 Stati partecipanti hanno ratificato l’Accordo di Parigi. Il Parlamento europeo spinge per avere un ruolo attivo durante le riunioni di coordinamento. E proprio dal Parlamento è arrivato un importante segnale “politico” di invito a dare concretezza alle azioni contro il cambiamento climatico. La Commissione Ambiente il 7 settembre 2017 ha alzato gli impegni sull’efficienza energetica previsti dalla proposta di direttiva in materia che modificherà quella attuale (2012/27/Ue); la Commissione Ue aveva proposto il 30% al 2030, ma i parlamentari vogliono il 40% vincolante. Il testo ora dovrà arrivare all’assemblea plenaria, e probabilmente occorrerà un nuovo confronto con il Consiglio Ue che il 26 giugno scorso aveva approvato un “timido” 30% non vincolante. E il 13 settembre dal Parlamento Ue è arrivato il via libera alla proposta di regolamento che obbligherà gli Stati membri a compensare al 2030 le emissioni di CO2 derivanti dall’attività di deforestazione con la capacità di assorbimento delle foreste. Si aprono ora le trattative col Consiglio Ue per arrivare a un testo condiviso. Nel frattempo il 17 luglio 2017 è arrivata la ratifica da parte dell’Unione europea dell’emendamento del Protocollo di Goteborg del 1999 sugli inquinanti atmosferici. Impegni più rigorosi per ridurre le emissioni di zolfo, ossidi di azoto, composti organici volatili (Cov) diversi dal metano e dall’ammoniaca. Dal 2020 si applicheranno i limiti di emissione, fissati per singolo Paese e per tipo di inquinante. Si aggiunge inoltre l’adozione da parte del Consiglio Ue (decisione 17 luglio 2017, n. 2017/1541/Ue) dell’emendamento Kigali al Protocollo di Montreal del 1987 che condurrà alla progressiva eliminazione degli idrofluorocarburi (Hfc), un potente gas a effetto serra impiegato, per esempio, nei frigoriferi, condizionatori, spray aerosol. La Ue già dal 2014 spinge sulla riduzione degli Hfc (regolamento 517/2014/Ue).
A questo proposito, sono state riviste dalla Commissione (decisione 10 agosto 2017, n. 2017/1471/Ue) le assegnazioni annuali di emissioni di gas a effetto serra di tutti gli Stati membri per il periodo 2017-2020. La revisione influirà sulle politiche e misure di contenimento degli Stati. Una novità importante riguarda i gestori dei grandi impianti di combustione sopra i 50 MW di potenza termica nominale. La Commissione europea con decisione 31 luglio 2017, n. 2017/1442/Ue, ha adottato le conclusioni sulle Bat (Best Available Techniques) punto di riferimento per le prescrizioni contenute nelle autorizzazioni ambientali rilasciate agli impianti. Dal 2 agosto 2017 il regolamento Ue n. 2017/1262/ Ue consente di usare come combustibile negli impianti termici fino a 50 MW di potenza il letame di qualsiasi animale di allevamento (prima si poteva autorizzare solo il letame del pollame). Continua l’aggiornamento dei criteri ecologici che le aziende devono rispettare per poter chiedere e usare il marchio di qualità ecologica europeo Ecolabel. La Commissione Ue ha aggiornato i criteri Ecolabel per i prodotti tessili (saranno validi fino al 2024) e ha prorogato al 31 dicembre 2020 i criteri ecologici esistenti per i prodotti di carta trasformata (buste, sporte, prodotti di cartoleria). Infine con sei diverse decisioni sono stati aggiornati i criteri Ecolabel per detergenti e detersivi (saranno in vigore sino al 2023). Due novità per le imprese che aderiscono a Emas (Sistema europeo di gestione ambientale). La prima è l’allineamento del regolamento Emas 1221/2009/Ce alla norma internazionale Iso 14001:2015 visto che la disciplina si riferiva ancora alla precedente Iso 14001 del 2004. L’implementazione è avvenuta con regolamento 2017/1505/Ue. La seconda è l’approvazione delle buone pratiche ambientali da adottare ai fini Emas per il settore alimenti e bevande (regolamento 28 agosto 2017, n. 2017/1508/Ue). Per concludere una notizia che interessa tutti i soggetti che trattano sostanze chimiche. La Commissione Ue ha modificato il regolamento 1907/2006/Ce su autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche (“Reach”) “recependo” le ultime modifiche del regolamento “Clp” 1272/2008 sulla classificazione di sostanze e miscele che ha introdotto nuove sostanze chimiche classificate come cancerogene, mutagene o tossiche per la riproduzione (Cmr). Le novità di applicano dal 1° marzo 2018.
Rubriche
Il circolo mediatico
Micro e macro Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.
Lo sappiamo, sempre più spesso il cinema si occupa di ambiente. Perché le questioni ambientali sono al centro delle cronache e dell’attualità; perché evocano scenari futuri per lo più oscuri e inquietanti. Ma la verità è che – sperando che se ne rendano conto più presto possibile anche quei pochi che non se ne sono ancora accorti – il 21° secolo è letteralmente il secolo dell’ambiente. E sulla base di questo la cultura e l’arte che per definizione “vedono prima” degli altri le tendenze della società e del pensiero, leggono e interpretano la realtà in cui viviamo. Questa premessa per parlare di due film recentemente presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, che – direttamente o indirettamente – trattano proprio di ambiente e sostenibilità. Cominciamo con Madre! (Mother!), il nuovo film del visionario regista Darren Aronofsky (Il Cigno Nero, Noah) interpretato da Jennifer Lawrence, Javier Bardem, Michelle Pfeiffer ed Ed Harris. Un film certamente imperfetto, che scatena disagio e forti reazioni in chi lo guarda, che può piacer molto o non piacere affatto. La storia racconta di una famiglia: Javier Bardem è uno scrittore in cerca di ispirazione, Jennifer Lawrence è sua moglie. Vivono in una casa isolata e pian piano iniziano a ricevere visite di sconosciuti, sempre più spesso. Ma mentre Javier li tollera, sua moglie li considera invasori, li percepisce come aggressivi, pieni di difetti. Lawrence, la “madre”, è il principio generativo, identificata con la casa stessa (che si decompone mentre lei soffre), pronta ad accogliere la vita, ma anche la vittima ultima delle sofferenze causate dagli altri. E in un certo senso, la madre e la sua casa è anche la nostra Terra, il punto di vista con cui ci immedesimiamo, con la sua evoluzione e distruzione a opera dell’intervento umano. Aronofsky – fortemente impegnato a difesa dell’ambiente – parlando di Mother! ha detto che “sappiamo tutti che quello che accade in Asia influenza gli Stati Uniti o l’Europa. Le catastrofi ecologiche sono spesso opera umana. Tutto è ridotto a una casa, questa è la nostra casa. Butti una cosa, anche piccola, e non sai dove finirà. Questo è anche un film sull’ambiente che ci circonda, cosa facciamo, come lo trattiamo e il rapporto che abbiamo con esso”. E sempre a Venezia anche un altro importante film ha trattato – sia pure con un registro più leggero, ma sempre sottilmente angosciante – il tema della sostenibilità.
Parliamo di Downsizing, l’ultimo lavoro del regista Alexander Payne (Sideways, Nebraska), interpretato da Matt Damon, Kristen Wiig e Christoph Waltz. L’idea di partenza della storia – decisamente bizzarra ma geniale – è che in un immediato futuro l’invenzione di una rivoluzionaria tecnologia – ideata per fronteggiare quella che evidentemente è una crescita non sostenibile della popolazione terrestre e un eccessivo utilizzo di risorse non rinnovabili – permetta di ridurre a dimensioni minuscole le cellule viventi di persone, piante e animali. Una scoperta che apre la strada alla possibilità di “diventare piccoli”, alti 13 centimetri, e dunque decidere di vivere in un universo in miniatura speciale e protetto. Per tante ragioni: per alcuni, la motivazione è ecologica e “nobile”, cioè ridurre drasticamente il proprio personale impatto sull’ambiente. Per altri, invece, è economica ed esistenziale: scegliendo di miniaturizzarsi, la ricchezza personale accumulata nel mondo “grande” si moltiplica in modo esponenziale, permettendo così di vivere da nababbi. Questa – evidente metafora del graduale impoverimento e intristimento della una volta fiorente middle class americana – è la ragione per cui i due protagonisti del film scelgono il downsizing. Andando a vivere nella “micro-comunità” di Leisure Land, i 150.000 dollari accumulati in una esistenza di sacrifici diventano 12 milioni. Va da sé, senza spoilerare il film, che la meravigliosa vita di opulenza “minuscola” rivelerà una serie di inquietanti lati oscuri, che metteranno a dura prova i due inconsapevoli protagonisti, che nel loro villaggio utopico – che assomiglia molto all’angoscioso suburbio di The Truman Show – presto scopriranno che – sia pure a una scala differente – i problemi e la natura umana non cambiano poi troppo. Un film divertente, che ci parla nel profondo e ci apre squarci di comprensione del difficile mondo in cui viviamo. Un mondo in cui a tutti è evidente che “così non si può continuare”; che il benessere – vero o fittizio che sia – cui siamo abituati prima o poi (forse più prima che poi) finirà con un disastro generale. E dunque, per noi che viviamo in una realtà in cui la miniaturizzazione non è possibile, sarà bene fare i conti con questa realtà prima che si verifichino conseguenze più gravi di quelle che già abbiamo sotto gli occhi.
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