Materia Rinnovabile #20

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE

Euro 16,00 – www.materiarinnovabile.it – Poste Italiane S.P.A. – Spedizione in abbonamento postale – 70% LOM/MI/00670_Tassa Pagata/Taxe Perçue/Postamail Internazionale

20 | febbraio-marzo 2018 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

Kęstutis Sadauskas: Europa circolare •• Tilman Santarius: il lato oscuro della digitalizzazione •• Fotoreportage: Tehuacán, il rio color blue-jeans

Focus obsolescenza programmata •• Inchiesta: prodotto a scadenza •• Leyla Acaroglu: Disruptive Design •• Quando un Party allunga la vita •• Riparate gente, riparate

Dossier bioeconomia/Brasile: il Paese a bioetanolo •• Patagonia, la seconda vita dei vestiti •• L’upcycling degli edifici •• Barcellona, Fab City •• La via indiana verso rifiuti zero

Stora Enso, un caso da manuale •• Tomra Sorting Recycling: occorre cambiare ottica



Remake è un’esclusiva carta ecologica con forte personalità e inaspettatamente liscia al tatto. La qualità tattile e l’aspetto naturale della carta sono il risultato di un processo di riuso creativo di sottoprodotti del cuoio che sostituiscono 25% di cellulosa FSC. Le fibre del cuoio sono visibili in modo variabile creando effetti unici sulla superficie dell’intera tavolozza dei colori.

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Riapriamo VecchiE FABBRICHE con una nuova chiave: La bioeconomia. Siamo l’azienda leader a livello internazionale nel settore delle bioplastiche e nello sviluppo di bioprodotti, ottenuti grazie all’integrazione di chimica, ambiente e agricoltura. Uno dei nostri principali traguardi è la rigenerazione del territorio. Obiettivo che perseguiamo trasformando siti industriali e di ricerca non più competitivi o dismessi in vere e proprie infrastrutture della bioeconomia, generando nuovo valore e posti di lavoro.

Impianto Mater-Biotech per la produzione di biobutandiolo, risultato della riconversione di un sito industriale dismesso ad Adria (RO).



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Stampato da Geca Industrie Grafiche con inchiostri a base vegetale privi di oli minerali. Il sistema produttivo di Geca non produce scarichi e ogni sfrido delle nostre lavorazioni è immesso in un processo di raccolta e riciclo. www.gecaonline.it

Stampato su Crush, carte ecologiche di Favini realizzate con sottoprodotti di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero: copertina Crush Mais 250 g/m2, interno Crush Mais 120 g/m2. www.favini.com


Editoriale

Una nuova MATERIA RINNOVABILE di Emanuele Bompan

Guardare all’economia circolare, alla bioeconomia e in generale a un modello di sviluppo a prova di futuro e rispettoso dei confini planetari e sociali, richiede uno sguardo di scala globale, allenato alla complessità, attento alle differenze e necessariamente acuto. Materia Rinnovabile ha quest’obiettivo connaturato nella sua indole: fornire un punto di vista unico sull’economia e su come l’uomo può gestire la sua casa naturale, il pianeta Terra. “Economia”, infatti, significa oikosnomos (οἶκοςνόμος) la gestione della casa, delle sue risorse (limitate), in sinergia tra tutti gli attori e a livello globale, olistico, senza fermarsi ai confini degli stati nazione o alle perniciose divisioni imposte dalla territorializzazione. Significa analizzarne ogni sua componente, mai presa separatamente, ma sempre come un intero organico. Significa analizzare tutti gli attori e capire come essi interagiscono e si cross-fertilizzano. Stare attenti alle differenze significa comprendere lo sviluppo culturale delle diverse economie, evidenziandone le peculiarità senza mai creare classi. Significa essere sul territorio, per conoscere e toccare con mano cosa sta succedendo. Significa formazione, ricerca, approfondimento, pluralità, diversità. Insomma, occorre fare un giornalismo davvero circolare. La missione di Materia Rinnovabile è bellissima e complessa, richiede accuratezza e onestà da parte del suo staff e dei suoi collaboratori, al fine di restituire un’immagine chiara e precisa di quanto sta accadendo nella trasformazione dell’economia lineare classica fondata sulle fonti fossili. Capire quali sono gli ostacoli, individuare gli attori virtuosi, disaminare le politiche, raccontare anche quegli angoli del pianeta che a volte sono dimenticati dal giornalismo. Questo è un vero magazine internazionale, che potrebbe avere sede a New York, come Kuala Lumpur, Lagos, Dubai o Lima (per il momento rimaniamo a Milano). Raccoglie informazioni da ogni angolo del pianeta, ingaggia discussioni con tutti gli attori interessati, porta il suo sapere in eventi e incontri ovunque sia possibile, finalmente anche con un’edizione digitale su app, presto disponibile.

È un agglutinatore e un nodo della rete d’imprese, enti di ricerca, università, pubbliche amministrazioni, organizzazioni internazionali e governi che lavorano sui temi dell’economia circolare, bioeconomia e future-proof economy. Non vogliamo fare informazione mono direzionale: da questo numero, avremo una community manager che interagirà attraverso social, eventi e contatti diretti per mantenere uno scambio costante, reticolare, multi-scalare di informazioni. Il percorso è appena iniziato: nei prossimi numeri vedremo questa nuova politica editoriale crescere, insieme a tutti voi lettori, sponsor e networking partner. Crediamo che sia il momento di poterci espandere in Nord America, Asia e Medio Oriente, rafforzando la nostra presenza in Europa, e lavorando per una copertura totale nel prossimo futuro. Aumenteremo le collaborazioni giornalistiche da tutto il mondo, punteremo a essere presenti in tutti i grandi eventi sul tema, dalla Conferenza sull’Economia circolare di Washington DC, al World Circular Economy Forum di Tokyo, passando per Ecomondo in Italia, la Stakeholder Conference di Brussels, il World Bieconomy Summit. Pubblicheremo nuove infografiche e reportage, dando spazio alla qualità estetica, da sempre marchio di fabbrica di Materia Rinnovabile, per informarvi meglio e con più stile. Ma soprattutto sarà un lavoro da fare insieme a voi e per voi. Con il vostro sostegno, Materia Rinnovabile e tutti i temi di cui si fa alfiere arriveranno veramente lontano. Grazie a tutta la squadra che fino a oggi ha reso Materia Rinnovabile un’eccellenza nel panorama editoriale.



Il mondo è circolare SOLO AL 9% di Harald Friedl

Harald Friedl, CEO di Circle Economy.

Mentre il 90% delle materie prime utilizzate globalmente non viene reimmesso nell’economia, lasciamo che il nostro pianeta subisca una massiccia pressione sulle sue risorse naturali e sul clima che deve essere alleviata al più presto. Quello che ci ha portati dove siamo oggi, in tutti i sensi, è l’economia lineare. Nel corso di decenni, persino di secoli, dal boom della Rivoluzione Industriale, essa ha portato altissimi standard di vita, ricchezza e vite agiate ad alcune persone, in alcune parti del mondo, e in certi tempi. Lo ha fatto, però, a un costo elevato. Questo costo continua a essere addebitato al pianeta e a molte delle persone che lo abitano, con una modalità per cui né i guadagni né le sofferenze vengono distribuiti equamente. Profondamente incorporato nella tradizione “prendi-produci-getta” dell’economia lineare si trova un cocktail tossico di conseguenze negative, che vanno dalla diseguaglianza sociale, all’esaurimento delle risorse naturali, all’inquinamento ambientale e al peggioramento dei rischi e degli effetti dei cambiamenti climatici. L’economia mondiale è circolare solo al 9,1%, il che lascia un’enorme “lacuna di circolarità”

Circle Economy, www.circle-economy.com “Circularity Gap Report”, www.circularity-gap.world

Questa allarmante statistica è stata il principale risultato del primo “Circularity Gap Report”, nel quale noi, di Circle Economy, abbiamo inaugurato un’unità di misura per lo stato della circolarità del pianeta. Il “Circularity Gap Report” fornisce un quadro fattuale per misurare e monitorare i progressi nel colmare la lacuna, anno dopo anno. Essere in grado di tenere traccia e fissare degli obiettivi di performance attraverso la Global Circularity Metric ci aiuterà a impegnarci nello stabilire obiettivi uniformi e guiderà le azioni future in modo che abbiano la massima efficacia. Il rapporto presenta una dettagliata visuale sul metabolismo che mostra come i principali gruppi di risorse soddisfino i bisogni fondamentali della società, come alloggi, mobilità e alimentazione. Mostra anche le lacune nel sistema con una panoramica su ciò che succede alle risorse dopo essere state usate nell’economia. In verità, si sta già creando uno slancio verso l’adozione di modelli economici circolari. Stiamo assistendo all’incorporazione nel business e all’adozione nelle politiche governative di strategie per l’economia circolare. A livello globale, due recenti esempi di collaborazione internazionale, in particolare, hanno accelerato l’agenda mainstream della politica e del business: l’Accordo di Parigi

e gli United Nations Sustainable Development Goals (SDG). Misurare la sostenibilità economica solo da un punto di vista ambientale, è mancare il punto e fraintendere lo scopo. Per definizione, gestire un’economia è l’arte e la scienza di “come mandiamo avanti la nostra dimora globale”. Un’economia dovrebbe essere progettata e gestita secondo i bisogni dei residenti della dimora, dare stabilità, tenere insieme le società e gestire la casa pensando alle generazioni future. In breve, qualsiasi modello economico di successo deve soddisfare i bisogni della società di cui è al servizio, non semplicemente gestire responsabilmente le risorse naturali che usa: è una questione di persone e di condizioni del pianeta, insieme. L’economia circolare è quindi un’agenda delle azioni con una struttura di impatto misurabile che va oltre l’ambito della semplice efficienza nell’uso delle risorse. Essendo un modello multi-stakeholder, il suo approccio sistemico rafforza la capacità e la possibilità di servire i bisogni sociali, abbracciando e promuovendo il meglio che l’umanità ha da offrire: il potere dell’imprenditorialità, l’innovazione e la collaborazione. L’odierno modello economico “prendi-producigetta” non funziona per questo scopo. Incorporato in questa tradizione dell’economia lineare si trova un cocktail tossico di conseguenze negative. Noi possiamo fare appello al business e ai governi ora perché assumano la leadership e agiscano: 1) creando una coalizione globale per l’azione; 2) sviluppando un’agenda globale degli obiettivi e delle azioni; 3) traducendo gli obiettivi globali in percorsi locali per il cambiamento circolare; 4) migliorando la nostra comprensione di come differenti leve per il cambiamento circolare influenzino aspetti come il risparmio di materiali, la conservazione del valore e la mitigazione dei cambiamenti climatici. Colmare le lacune nella circolarità ridurrà le diseguaglianze nel reddito e migliorerà l’accesso a ciò che serve per soddisfare i bisogni fondamentali e alle opportunità. In altre parole, perseguire l’economia circolare è un modo per creare un’economia che funziona per tutti. L’economia circolare è una struttura positiva, dinamica e interconnessa basata sulle soluzioni: stimola qualità umane di primaria importanza, come creatività, collaborazione e imprenditorialità; e rappresenta una roadmap verso il raggiungimento degli SDG e un potente strumento nella battaglia contro i cambiamenti climatici di origine antropica.


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M R

20|febbraio-marzo 2018 Sommario

MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE www.materiarinnovabile.it ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Emanuele Bompan Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Leyla Acaroglu, Diana Bagnoli, Mario Bonaccorso, Rudi Bressa, Sergio Ferraris, Laura Filios, Harald Friedl, Roberto Giovannini, Federico Pedrocchi, Francesco Petrucci, Antonella Ilaria Totaro, Veronica Ulivieri, Silvia Zamboni Caporedattore Maria Pia Terrosi Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Paola Cristina Fraschini, Diego Tavazzi

Emanuele Bompan

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Una nuova materia rinnovabile

Harald Friedl

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Il mondo è circolare solo al 9%

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NEWS

Emanuele Bompan

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Europa circolare Intervista a Kęstutis Sadauskas

Silvia Zamboni

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Il lato oscuro della digitalizzazione Intervista a Tilman Santarius

a cura della redazione

Think Thank

Policy Sergio Ferraris

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Focus obsolescenza programmata Prodotto a scadenza

Veronica Ulivieri

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Focus obsolescenza programmata Quando un Party allunga la vita

Silvia Zamboni

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Focus obsolescenza programmata Riparate gente, riparate

Leyla Acaroglu

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Focus obsolescenza programmata Disruptive Design

Mario Bonaccorso

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Dossier Brasile Una bioeconomia che va a bioetanolo

Rudi Bressa

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Barcellona, Fab City

Emanuele Bompan

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Amsterdam, la città circolare Intervista a Eveline Jonkhoff

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La contaminazione ha il colore dei blue-jeans

Design & Art Direction Mauro Panzeri Impaginazione e infografiche Michela Lazzaroni Community manager Antonella Ilaria Totaro Traduzioni Francesco Bassetti, Erminio Cella, Laura Coppo, Franco Lombini, Mario Tadiello

In Depth Laura Filios, Diana Bagnoli


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Coordinamento generale Anna Re

Michela Lazzaroni, Antonella Ilaria Totaro

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L’aspettativa di vita (delle cose)

World

Responsabile relazioni esterne Anna Re Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it

Sergio Ferraris

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Un caso da manuale

Emanuele Bompan

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Effetto Lazzaro: la seconda vita dei vestiti Intervista a Mihela Hladin Wolfe

Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.materiarinnovabile.it/moduloabbonamento

Rudi Bressa

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Occorre cambiare ottica

Rudi Bressa

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La discarica, modello di economia partecipata

Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers

La via indiana verso Rifiuti Zero

Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi)

Antonella Ilaria Totaro

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Copyright ©Edizioni Ambiente 2018 Tutti i diritti riservati

Antonella Ilaria Totaro

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Sovraciclare gli edifici

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Stuffstr, un’app per far circolare ciò che non si usa più Vegea: pelle dal vino RiceHouse: architettura dagli scarti del riso Cuffie circolari con Gerrard Street

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Circular by law Emissioni, energia e circolarità: buone notizie dalla Ue

Startup Antonella Ilaria Totaro

Rubriche Francesco Petrucci

Roberto Giovannini

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Il circolo mediatico Se la natura è sospesa tra enigma e sogno

Federico Pedrocchi

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Pillole di innovazione Errori del presente, orrori del passato

In copertina Illustrazione di Rafael Fernandez, WikiMedia Commons CC0, elaborazione grafica di Panma Bolec


materiarinnovabile 20. 2018

NEWS

a cura della redazione

Supermercato senza plastica

Helsinki Fashion Week/Jere Viinikainen

Ha aperto ad Amsterdam, all’interno del supermercato biologico Ekoplaza, il primo reparto al mondo completamente plastic-free con 680 prodotti in offerta. L’esperimento è destinato a coinvolgere presto anche gli altri 74 market della catena olandese. Carne, riso, salse, latticini, frutta e verdura sono confezionati in imballaggi biodegradabili, in vetro, metallo o carta. E senza costi extra per i consumatori. Circular Fashion Week In Finlandia – dal 20 al 25 luglio – si terrà la Helsinki Fashion Week, la prima settimana della moda 100% circular e sostenibile, a partire dal concept dell’ecovillaggio fino agli eventi fashion. Secondo la fondatrice Evelyn Mora “in scena ci saranno 30 brand – ovviamente green – con i loro capi provenienti da materiali L’auto bioeconomica Largo a Lina, la vettura dotata di motore elettrico e scocca ottenuta dalle barbabietole da zucchero e ricoperta da fogli di lino coltivato. Il prototipo arriva direttamente dall’Olanda, frutto dell’esperimento TUEcomotive portato avanti dai

riciclati o realizzati con fibre naturali e riusabili”. Ma non è tutto: oltre a diventare una piattaforma globale per i trendsetter della moda eco, l’evento si svolgerà in un’area in cui tutto sarà sostenibile, con un approccio “zero rifiuti”, l’uso di energie rinnovabili e di tecnologie green più avanzate. Neomateriali per l’edilizia

laboratori dell’Eindhoven University of Tecnology. Di fatto è la prima auto realizzata con elementi biodegradabili, interamente alimentata da un propulsore elettrico e in grado di arrivare fino a 80 km/h. Pesa 310 chilogrammi. Obbiettivo? Car-sharing bioeconomico, naturalmente.

tuecomotive.nl

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Calcestruzzo permeabile? Questo il risultato ottenuto da un gruppo di ricercatori della Washington State University di Seattle, che sono riusciti a migliorare le proprietà meccaniche del calcestruzzo drenante – utilizzabile per esempio nelle pavimentazioni esterne – rinforzandolo con materiale composito in fibra di carbonio riciclata. In questo modo il nuovo materiale avrà maggior durata e resistenza rispetto ai prodotti oggi in commercio. Un neomateriale che, visto lo sviluppo di tecnologie del riciclo del carbonio sempre meno costose, potrebbe presto venire prodotto a larga scala.

Walter Stahel alla Design Week Il mondo del design scopre l’economia circolare. Durante la prossima Design Week di Milano, il prossimo 18 aprile Walter Stahel incontrerà il pubblico internazionale. L’architetto svizzero, uno dei grandi teorici dell’economia circolare, affronterà il tema del prodotto come servizio. L’evento sarà parte di una serie di incontri che si terranno presso Super Studio, uno dei templi del design italiano all’interno della mostra-evento “Smart City: Materials, Technologies & People” organizzata da Material ConneXion.


News La forma dell’acqua Il gestore del servizio idrico della Città Metropolitana di Milano, Gruppo Cap ha presentato PerFORM WATER 2030, la prima piattaforma diffusa di ricerca, sviluppo e implementazione di tecnologie e strumenti decisionali volti a garantire

Megapneumatici: arriva il tritagomme

www.gruppocap.it

Otto Wilhelm Thomé, Flora von Deutschland, 1885/commons.wikimedia

Malta: obiettivo riciclo al 60% Malta accelera il processo di riciclo dei rifiuti: un nuovo progetto di legge renderà obbligatorio riciclare la frazione dell’umido e dei materiali come plastica e carta. Il ministro dell’Ambiente Jose Herrera lo scorso febbraio ha annunciato che entro il 2023 realizzerà a Maghtab il primo inceneritore di grandi dimensioni. Ma questo impianto potrà gestire al massimo il 40% del totale dei rifiuti dell’isola, il restante 60% dovrà essere necessariamente riciclato. Previste multe salatissime per i cittadini che violeranno la legge.

Fare il pieno d’erba Biocarburanti dall’erba? Una nuova ricerca della Colorado State University ha dimostrato come sia possibile ottenere benzina verde da una pianta facilmente coltivabile, non edibile e molto comune nelle praterie americane, nota in italiano come panico verga (Panicum virgatum). Secondo lo studio l’impiego di carburante ottenuto da questa pianta produrrebbe in termini di emissioni solo 11 grammi di CO2 per megajoule contro i quasi 80 di un carburante normale. Non solo: il panico verga contribuisce a stoccare CO2 nelle radici lasciate nel suolo.

una sempre più efficace gestione del servizio idrico integrato. L’obiettivo è creare un network di realtà industriali e centri di ricerca che, con un approccio multidisciplinare, per rendere circular il settore di gestione acque, risparmiandola e recuperando energia e risorse materiali.

di Rovereto con il primo robot al mondo progettato per lavorare direttamente sul posto i mega-pneumatici, in modo tale da renderne più facile e vantaggioso il trasporto verso gli impianti di riciclo. Un tempo queste gomme venivano abbandonate a cielo aperto o direttamente bruciate in situ.

Finalmente un sistema per recuperare i pneumatici dai camion di miniera, colossi di 4 metri di diametro per 1,80 metri di larghezza e 5,7 tonnellate di peso. A lanciare la tecnologia MT-REX è l’azienda italiana Salvadori

Il Dragone diventa verde La Cina annuncerà un nuovo framework legale per proteggere l’ambiente, scrive il China Daily. Saranno infatti presentati sei nuovi disegni legge riguardanti la protezione ambientale, l’inquinamento atmosferico, l’inquinamento idrico, rifiuti, una nuova tassa ambientale e

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la protezione delle specie animali. Una particolare attenzione alla rigenerazione del suolo: “Entro il 2020 la Cina rigenererà circa il 90% dei terreni agricoli contaminati” ha affermato Mr Zhang Yesui, portavoce del National People’s Congress (NPC).



Think Tank

Europa circolare Pacchetto economia circolare, una strategia europea a lungo termine Intervista a Kęstutis Sadauskas di Emanuele Bompan, da Bruxelles

Kęstutis Sadauskas ha un Master in Relazioni Internazionali e un Master in Geografia. Tra il 1993 e il 2006 ha ricoperto diverse posizioni nel ministero per gli Affari Esteri in Lituania. Capo di Gabinetto del Commissario europeo per la fiscalità e l’unione doganale, gli audit, la lotta antifrode e le statistiche nel 2010, nel 2014 Sadauskas è diventato Direttore della Green Economy nella Direzione Generale Ambiente.

Che tipo di impatto avrà sull’Europa il Pacchetto economia circolare (CEP, Circular Economy Package)? Questo è attualmente il fondamentale interrogativo di cui si discute tra gli addetti ai lavori, ma a Bruxelles sembra esserci ottimismo su questo test finale. L’approvazione della normativa studiata per incrementare il riciclo, ridurre i rifiuti e promuovere l’economia circolare in Europa risale al 23 febbraio, più di due mesi dopo il raggiungimento dell’accordo sul CEP tra Parlamento europeo, Commissione europea e Consiglio europeo. Una volta ratificato il CEP stabilirà obiettivi giuridicamente vincolanti con scadenze chiare per il riciclaggio dei rifiuti e la riduzione dei quantitativi di rifiuti che sarà possibile smaltire in discarica. Questi obiettivi incrementeranno la percentuale di rifiuti urbani e di imballaggi riciclati, con obiettivi specifici per quanto riguarda il riciclaggio dei materiali utilizzati negli imballaggi. La normativa comprende anche obiettivi per ridurre la quantità di rifiuti urbani smaltita nelle discariche. Gli Stati europei dovranno raggiungere una percentuale di riciclo dei rifiuti urbani pari al 55% entro il 2025, al 65% entro il 2035. Sono previsti anche obiettivi specifici per tutti gli imballaggi (70%), la plastica (55%), il legno (30%), i metalli ferrosi

(80%), l’alluminio (60%), il vetro (75%), la carta e cartone (85%). Altre misure comprenderanno la raccolta differenziata dei rifiuti tessili e dei rifiuti pericolosi, la raccolta differenziata o il riciclaggio alla fonte dei rifiuti organici. Tutto ciò dovrebbe dare anche un impulso ad altre strategie di economia circolare quali il prodotto come servizio e le pratiche di riparazione e riutilizzo. Durante il Circular Economy Stakeholder Forum a Bruxelles, Materia Rinnovabile ha intervistato Kęstutis Sadauskas, Direttore del DG Ambiente della Commissione europea, che ha seguito molto da vicino i negoziati sul Pacchetto. Quali sono le principali caratteristiche di questo nuovo Pacchetto per l’economia circolare? “Si tratta di una revisione della legislazione sui rifiuti. E anche se i rifiuti rappresentano solo una parte dell’economia circolare, senza soluzioni dirette non può esserci economia circolare. Il pacchetto è ottimo, lungimirante, ha obiettivi ambiziosi ma anche più limitati specifici, sulla gestione dei rifiuti. Per esempio, rivede la metodologia sul calcolo del riciclaggio: la semplifica e l’armonizza. In questo modo è possibile capire con sicurezza che cosa viene

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Investire nell’economia circolare è un’ottima scelta, perché comporta soluzioni di lungo termine che possono creare posti di lavoro, far crescere l’economia, rendere tutto più sostenibile e aumentare la competitività europea.

riciclato, e in quale quantità. Prima del CEP c’erano quattro metodi di calcolo in 12 diverse combinazioni, cosa che rendeva impossibile fare paragoni fra un Paese e l’altro. Stiamo poi rafforzando uno degli strumenti di mercato di maggior successo per l’economia circolare: la responsabilità estesa del produttore. È provato che si tratta di uno strumento potente, ma deve essere migliorato. Cosa abbiamo proposto nel nostro progetto di legge? Che è necessario incrementare la trasparenza, la responsabilità e la verificabilità, e collegarle alla circolarità. Questi sono i requisiti generali che abbiamo proposto di inserire nella legge, e poi dipenderà dagli stati membri come declinarla o applicarla a seconda della loro realtà specifica, ma i principi generali devono essere rispettati. I produttori che partecipano pagano una quota, e hanno il diritto di sapere dove vanno i loro soldi e che questi vengono usati in modo appropriato: è proprio quello che stiamo cercando di fare attraverso la responsabilità estesa del produttore. La raccolta dei rifiuti organici è un altro elemento fondamentale che è stato trascurato a lungo ed è molto problematico, perché questi rifiuti rilasciano CO2 e altre sostanze gassose simili. È una perdita di materiali preziosi, che possono essere compostati o usati come fertilizzanti, se ne possono fare molti usi positivi.” Avremo più “materia rinnovabile” a disposizione per produrre nuovi materiali o energia? “Generalmente i materiali hanno molto meno valore dell’energia, che è come l’ultima goccia che strizziamo da un limone, ma quello che noi vogliamo è il succo, le vitamine, la fibra. Quindi ci saranno molte cose lungimiranti che ci semplificheranno la vita, ma allo stesso tempo bisognerà orientarsi verso una maggiore circolarità. Ciò creerà più benefici per gli operatori economici, che godranno di maggiori certezza negli investimenti: sapranno che in Europa si riciclerà di più e si useranno meno le discariche, e quindi ci saranno nuovi materiali sul mercato.” Ci saranno anche più fondi messi a disposizione dall’Europa per le imprese circolari? “Ci sono già: gli Stati membri, le regioni e gli operatori possono scegliere di utilizzare i fondi già disponibili, che si tratti di fondi di coesione, o internazionali, o di sostegno: sono tutti utilizzabili. La questione è se gli Stati membri e tutti coloro che hanno diritto a fare richiesta di fondi vogliono cercare di ottenerli e utilizzarli nel campo dell’economia circolare piuttosto che per qualcos’altro. Dipende da loro, i fondi ci sono. Secondo me investire nell’economia circolare è un’ottima scelta, perché comporta soluzioni di lungo termine che possono creare posti di lavoro, far crescere l’economia, rendere tutto più sostenibile e aumentare la competitività europea.

L’economia circolare può proteggere la base industriale in Europa e favorire specialmente le regioni più in difficoltà che hanno una forza lavoro poco specializzata, aiutandole a mettersi in gioco e creare qualcosa di nuovo. Quindi offre davvero una serie di vantaggi, è un ottimo investimento. Spero che chi riesce a ottenere i fondi abbia la saggezza di investire veramente in soluzioni intelligenti.” Il CEP ha sollevato interesse negli Stati Uniti o in Cina? “Assolutamente sì. Posso confermare che c’è un grande interesse a livello internazionale, sicuramente in Cina, in molti paesi dell’Asia, in Nord America, Canada, Africa e America Latina. La Commissione europea organizza missioni per l’economia circolare in tutto il mondo. Le aziende europee incontrano autorità di diversi Paesi come Cile, Iran, Sud Africa, Cina, Colombia, Indonesia, India e Messico. Paesi che vogliono adottare queste soluzioni. In questo modo noi offriamo soluzioni e allo stesso tempo apriamo mercati per i produttori europei.” Che aspetti sono carenti nel pacchetto, che altro bisognerebbe fare? “Il piano d’azione attuale deve essere completato, e c’è molto da fare sulle politiche sul prodotto. Abbiamo un nuovo piano di lavoro per l’ecodesign, che dobbiamo sviluppare. Dobbiamo usarlo molto responsabilmente, ma ha molto potenziale. La nuova legislazione sui rifiuti e lo schema di Responsabilità estesa del produttore incentiverà una migliore progettazione per la circolarità, ossia per la prevenzione dei rifiuti, e ciò avrà un impatto sui prodotti. Anche l’attuazione della normativa sulle sostanze chimiche avrà un suo impatto sulla progettazione e sui prodotti, sui metodi di produzione e sui materiali scelti. Quindi abbiamo già abbastanza carne al fuoco, abbiamo strumenti sufficienti. Quello che ci ripromettiamo di fare è di considerare questi strumenti nel loro insieme per renderli più coerenti e vedere se è possibile raggiungere risultati ancora migliori. Se ci sono delle lacune e se ci sono altre cose che occorre fare.” Durante la conferenza degli stakeholder si è discusso molto della questione della plastica. Perché è così importante e quali passi intraprenderà la Commissione in futuro? “Questa problematica è affrontata nella Strategia UE per la plastica, un documento complesso che ha stabilito importanti obiettivi. Entro il 2030 tutti gli imballaggi in plastica che entreranno sul mercato europeo dovranno essere riutilizzabili, o riciclabili in modo efficace rispetto ai costi. Noi la vediamo così: la plastica è un materiale indispensabile, non possiamo vivere senza, e ha reso la nostra vita più semplice e comoda. La plastica è un


Think Tank materiale facile e conveniente. Sfortunatamente non è biodegradabile e questo costituisce un enorme problema ambientale. Dobbiamo assicurarci che venga raccolta e riciclata, evitando che l’ambiente subisca danni, controllando le microplastiche. Dobbiamo anche rivolgerci alla bioeconomia per il problema della plastica. Ci sono grosse opportunità, ma dobbiamo stare attenti a non prendere decisioni di cui potremmo pentirci in seguito.” Dobbiamo passare ad altri materiali e cercare di sostituirla quanto possibile? “Dipende dal tipo di plastica. Ci sono plastiche contaminate da metalli pesanti che non erano proibite quando sono state prodotte, ma adesso lo sono. In questo caso è necessario smaltirle in sicurezza e sostituirle con qualcosa di più sicuro e migliore. Gli altri tipi di plastica devono essere recuperati e raccolti nel modo giusto, e re-immessi nell’economia. Penso che riducendo la propria dipendenza dalla plastica l’Europa vedrebbe diminuire la propria dipendenza dall’importazione di combustibili fossili e materie prime.” Data la crescente complessità del mercato in questione, e grazie anche al CEP, è necessario pensare a una sorta di passaporto per i materiali per assicurarsi delle loro origini? “Idealmente si, è necessario conoscere la provenienza dei materiali. Dobbiamo essere assolutamente certi che ci stiamo rifornendo da aziende responsabili, che non stiamo importando legname ricavato deforestando la giungla, o che i materiali non sono stati prodotti attraverso lo sfruttamento del lavoro minorile. Il problema è però come sia possibile farlo. L’aspetto fondamentale consiste soprattutto nel monitorare le sostanze chimiche, sapere da dove provengono, quante sono, quali sono i loro effetti. Se avete dei rifiuti contaminati da sostanze chimiche tossiche, nessuna azienda che si occupa di riciclaggio vorrà prenderli in carico, perché poi non potrà rivenderli una volta riciclati. Bisogna assicurarsi che sia possibile conoscere la composizione dei rifiuti: si deve poter risalire alla fonte. Le misure tecniche sono molto, molto complesse: come si possono identificare e tracciare migliaia di flussi in milioni di diverse catene di valore? Dobbiamo trovare una soluzione che sia smart ed economicamente fattibile. Per esempio la tecnologia digitale potrebbe essere uno degli strumenti per riuscirci. Ma è fondamentale costruire un mercato per le materie prime riciclate, con la certezza che si tratti di materiali di qualità che possono essere utilizzati per produrre beni di consumo che siano sicuri, di buona qualità, prodotti in modo continuativo e convenienti, così che possano essere competitivi sotto tutti i punti di vista.”

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IL LATO OSCURO della digitalizzazione Intervista a Tilman Santarius Perché non è così scontato che le tecnologie digitali contribuiscano alla sostenibilità. di Silvia Zamboni

Tilman Santarius dirige un gruppo di ricerca sulle tecnologie digitali e la trasformazione eco-sociale al Politecnico di Berlino e all’Istituto di ricerca economica per l’ecologia (IÖW). È stato capo progetto all’Istituto Wuppertal per il clima, l’Ambiente e l’energia e ha diretto l’Istituto per la politica climatica ed energetica internazionale presso la Fondazione Heinrich Boell die Gruenen.

Secondo un rapporto della Global e-Sustainability Iniziative, le soluzioni digitali possono ridurre del 16,5% le emissioni di gas climalteranti entro il 2020, risultato che andrebbe molto al di là degli obiettivi fissati dagli accordi sul clima di Parigi del 2015. Ma è davvero tutto oro la digitalizzazione che luccica? In che modo e in quale misura i processi di digitalizzazione che stanno alla base della sharing economy contribuiscono alla sostenibilità ambientale? “Per prima cosa va messo in conto che la realizzazione dei sistemi infrastrutturali e dei dispositivi digitali comporta di per sé il consumo di ingenti quantitativi di risorse materiali e di energia: nel caso di un i-phone, per esempio, 3/4 del consumo di energia di un intero ciclo di vita se ne vanno nella produzione dello smartphone, e solo il restante 25% nella fase di utilizzazione”, puntualizza Tilman Santarius, eco-analista che dirige una ricerca sulle tecnologie digitali al Politecnico di Berlino e all’Istituto di ricerca economica per l’ecologia (IÖW). “Da questo punto di vista la digitalizzazione non appare sostenibile. Ma c’è un’altra domanda da porsi: gli strumenti digitali possono ridurre il consumo di energia e di risorse in altri ambiti? Nel caso delle piattaforme digitali che permettono di condividere beni e servizi la risposta è affermativa, perché grazie ai sistemi di condivisione se ne producono e se ne acquistano di meno.” Fermiamoci sulle risorse materiali di cui sono fatti i supporti digitali: quali sono le principali criticità nel corso dell’intero ciclo di vita? “Come ho detto, la produzione di un tablet, di un lettore di e-book, di uno smartphone copre gran parte dell’intero bilancio energetico. In questa fase contano anche le materie prime impiegate:

di quali materiali si tratta, dove vengono estratti e in quali condizioni? Molti sono metalli rari che provengono da regioni dilaniate da enormi conflitti. Pensiamo solo al palladio o al cobalto che sono estratti nella Repubblica Democratica del Congo in miniere dove lo sfruttamento umano, in particolare dei bambini-minatori, è pazzesco, gli standard di tutela ambientale sono ai minimi termini e i proventi alimentano la guerriglia. L’altra gamma di problemi l’abbiamo a fine vita, quando questi apparecchi finiscono tra i rifiuti, spesso prematuramente a causa sia della obsolescenza programmata che ne accorcia di proposito il ciclo di vita, sia di una sorta di obsolescenza psicologica che spinge i consumatori a desiderare l’ultimo modello sul mercato, quello più performante, fino a disfarsi di apparecchi che funzionano ancora egregiamente. Questo fa sì che la massa dei rifiuti elettronici sia in continuo aumento: nel 2015 si sono raggiunte 42 milioni di tonnellate, una montagna paragonabile a quella che formerebbero tutte le auto in circolazione in Germania ammassate una sull’altra. Questi rifiuti in buona parte finiscono in Cina o in Africa occidentale o nella penisola indocinese, dove ne viene riciclata solo una minima parte in condizioni ambientali e lavorative disastrose, mentre il resto è abbandonato per lo più in discariche selvagge. Nell’analisi della sostenibilità del mondo digitale il problema dei rifiuti elettronici è cruciale.” Della stampante in 3D cosa pensa in termini di uso responsabile delle risorse? “Da un lato le stampanti in 3D hanno il vantaggio di poter impiegare anche materiali poveri di varia natura e di risulta, per cui potrebbero ridurre il consumo di materie prime e sostituire l’uso di metalli pregiati rari. Ma dall’altro lato c’è un quesito economico a cui bisogna rispondere: chi può


Think Tank permettersi davvero stampanti in grado di produrre beni tipo le auto? Chi ha il potere e il know-how per gestire apparecchi di queste dimensioni? Se andiamo a vedere cosa producono nel mondo, troviamo, per fare l’esempio più buffo, migliaia di dinosauri-giocattolo di plastica di tutti i colori, che la gente si diverte a vedere come sono realizzati. Escludo che questo abbia a che fare con l’ecologia. Per cui c’è ancora molto da fare perché queste tecnologie diano un reale contributo alla tutela dell’ambiente e delle risorse naturali.”

Istituto di ricerca economica per l’ecologia, www.ioew.de/en

Silvia Zamboni, giornalista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.

Prendiamo Industria 4.0: al momento prevale la discussione sulle ricadute dell’automazione sull’occupazione. Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, l’automazione dei processi produttivi può portare benefici in termini di risparmio di risorse ed energia? “C’è un aspetto che non va trascurato in questa discussione: dobbiamo chiederci se a causa del rebound effect, l’effetto rimbalzo, l’automazione non finisca in realtà per incrementare la produzione di merci e di conseguenza l’impiego complessivo di risorse ed energia. Mi spiego: l’aumento dell’efficienza spinge a produrre quantitativi maggiori di merci, dal momento che i processi produttivi risultano più efficienti e pertanto risparmiano materiali ed energia per realizzare ogni singolo prodotto; l’effetto finale, però, è che nell’insieme si consumano più risorse proprio a causa dell’ampliamento della quantità di prodotti realizzati. In altre parole, quello che l’efficienza fa guadagnare sul singolo prodotto, lo si perde a causa dell’aumento della quantità di prodotti. Lo stesso avviene a livello dei consumi: grazie all’efficienza energetica e all’uso efficiente delle risorse resi possibili dall’automazione, le industrie sono in grado di immettere sul mercato una quantità maggiore di merci a un prezzo più conveniente. Ma così si stimola l’aumento dei consumi, visto che ci sono più merci a disposizione a un prezzo più abbordabile. Se davvero vogliamo sfruttare l’efficienza energetica di Industria 4.0 per risparmiare risorse ed energia, bisogna accompagnare questo incremento della produttività con misure politiche come, per esempio, l’aumento del costo dell’energia e delle materie prime in rapporto all’incremento dell’efficienza che si è raggiunto nel loro impiego.” Nell’uso quotidiano che facciamo delle piattaforme di sharing economy quali sono gli esempi positivi in termini di contributo alla sostenibilità ambientale e quali quelli che vanno in tutt’altra direzione? “Esempi positivi a mio parere sono i sistemi locali che consentono di condividere e scambiare strumenti e attrezzi di lavoro, auto, capi d’abbigliamento, e così via: in questo ambito lo sharing porta davvero a una riduzione dei consumi. E c’è anche un aspetto sociale apprezzabile, perché si costruiscono reti e rapporti di vicinato e amicali che possono rinsaldare e dare nuova linfa alle comunità. Come esempi negativi citerei

quelle forme di sharing economy che portano non a rinunciare alla proprietà individuale di un bene, bensì a un aumento delle opzioni a disposizione delle consumatrici/dei consumatori. A questa sfera appartengono, a mio parere, i sistemi di car sharing free floating, che non sono usati da chi rinuncia alla proprietà dell’auto, bensì da chi ha un’auto parcheggiata a casa e usa il car sharing in città come opzione aggiuntiva. Un risultato davvero poco ecologico che fa aumentare il traffico automobilistico sulle strade. Un altro aspetto critico della sharing economy riguarda poi i player che la controllano.” Può approfondire questo punto? “Distinguerei due tipologie di piattaforme digitali: da un lato quelle di stampo capitalistico, come Uber e Airbnb che hanno raggiunto le dimensioni di una rete pressoché mondiale e controllano in senso puramente affaristico settori come quello residenziale-abitativo e quello del trasporto individuale. Dall’altro lato abbiamo le piattaforme ispirate a un modello cooperativo, di scambio.” Couch surfing, la piattaforma utilizzata per offrire ospitalità gratuita in cambio di altra ospitalità, quindi senza passaggio di denaro, rientra in questa seconda categoria di cooperativa, giusto? “Certamente, e non è l’unica. Ci sono anche cooperative di tassisti. Passando allo shopping online, c’è Fairmondo.de, una comunità ambientalmente e socialmente responsabile che sta prendendo piede in Germania e che come filosofia sta agli antipodi di Amazon.” Si discute anche della privacy messa a rischio dai Big Data, come anche Lei ha sottolineato intervenendo ai Colloqui di Dobbiaco 2017. È possibile tutelarla nella frequentazione delle piattaforme di sharing economy? “È bene essere consapevoli che le informazioni che transitano su WhatsApp, Twitter, Facebook non sono protette. Online sono però disponibili anche soggetti concorrenti come Threema, per esempio, un servizio alternativo a WhatsApp che garantisce la privacy perché le informazioni sono criptate e accessibili solo a coloro che se le scambiano, senza possibilità nemmeno per il gestore di accedervi. Si tratta di un’app ancora di nicchia: basterebbe utilizzarla almeno nell’ambito della propria famiglia e nella cerchia dei propri amici. Non mancano alternative anche a Google: DuckDuckGo è un motore di ricerca privato che ha sede a Paoli, in Pennsylvania, che nella propria mission prevede la tutela dei dati degli utilizzatori delle piattaforme. Tuttavia non possiamo scaricare tutta la responsabilità su questi ultimi: anche la politica deve fare la propria parte. Ci sono già delle regole per la protezione della privacy che osservano polizia, pubblici ufficiali e i servizi segreti. Vanno estese anche all’ambito dei soggetti economici privati, stabilendo chi è autorizzato a elaborare e conservare i dati e a venderli eventualmente a soggetti terzi, per esempio all’industria della pubblicità. Sono disposizioni che vanno fissate per legge.”

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Focus obsolescenza programmata

Prodotto a scadenza Cambiamo uno smartphone ogni 2,7 anni, una t-shirt ogni 2 anni e mezzo, un pc ogni 4. Eppure il 30% degli oggetti che buttiamo via sono ancora funzionanti, lo è il 60% di quelli elettronici. È difficile valutare il confine tra obsolescenza programmata e psicologica, tra ricerca di maggiore efficienza ed errori di progettazione. di Sergio Ferraris

Sergio Ferraris è direttore di QualEnergia.

I mercati cercano il valore, come gli utenti. Il problema è che si tratta di tipologie di valore diverse e contrapposte. Per i mercati il valore è quello economico, mentre gli utenti di un bene puntano a massimizzare la spesa con il valore d’uso. L’utilizzo nel tempo. Ai primordi dell’era industriale la dialettica tra produttore e consumatore era: il primo forniva un bene durevole nel tempo in cambio del valore. Il meccanismo s’inceppò con l’industrializzazione di massa che saturò all’inizio del Novecento i mercati, più ricchi e interessanti per l’economia. In alcuni settori, all’epoca, s’arrivò a quello che gli economisti chiamano mercato di saturazione, nel quale l’offerta di un bene è maggiore della domanda. Cosa che porta all’appiattimento della curva della crescita economica. Ecco allora apparire il mercato di sostituzione, nel quale non si acquista un bene perché utile oppure perché in precedenza non lo si possedeva, ma per sostituirlo a uno analogo. Chiaro quindi che in questo quadro la sostituzione vada stimolata. Nei primi anni del Novecento le aziende verificarono la saturazione del mercato di alcuni prodotti come per esempio le lampadine che nel giro di pochi decenni erano entrate in tutte le abitazioni del mondo occidentale. Nel 1924 le imprese che producevano lampadine crearono il Cartello Phobos che se da un lato standardizzò attacchi, potenza e luminosità delle stesse, fissò anche la durata ideale, per le imprese, delle lampadine: 1.000 ore. Meno della metà della

durata alla quale si poteva arrivare all’epoca: 2.500 ore. Successivamente emersero altri casi come quello della Dupont che fece svolgere ricerche ai propri ricercatori affinché il nylon, la fibra da loro inventata, fosse indebolita, visto che l’eccessiva durata danneggiava il mercato. E alcuni all’epoca teorizzarono che l’obsolescenza programmata fosse imposta per legge. Per uscire dalla crisi del ’29. Oggi il dibattito sull’obsolescenza programmata è diverso e verte su due punti cardine. Il primo è quello della salvaguardia delle risorse, materia ed energia in primis, mentre il secondo, che è un poco più sottotraccia e controverso, riguarda il versante economico della questione. Il dogma del Pil, come crescita esponenziale, infatti, nonostante sia in discussione da mezzo secolo, è tuttora un caposaldo sia dell’economia sia della politica. E le poche crepe che si notano nei consessi internazionali sono solo dei segnali. Il Presidente francese, Emmanuel Macron, per esempio, il 24 febbraio 2018 a Davos, ha lanciato alcune timide critiche verso la globalizzazione e la crescita che puntano solo verso gli sbilanciamenti della redistribuzione del reddito e la sua polarizzazione verso i ceti più abbienti. E Macron è il Presidente della Francia, una nazione che possiede una legge sull’obsolescenza programmata e un ministero per la Transizione ecologica e solidale, il quale ha finanziato nel 2017 all’Unep (il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) uno studio – “The long view” – sull’estensione del ciclo di vita dei prodotti.

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Report “The long view”, tinyurl.com/y9vvt6qj Nina Tröger, Harald Wieser, Renate Hübner, “Smartphones are replaced more frequently than t-shirts”, tinyurl.com/y7orls66

E l’approccio di questa ricerca circa il ciclo di vita degli oggetti parte anche e soprattutto da una visione a 360°, nella quale si tenta anche di fare il punto sull’obsolescenza energetica. Ossia quando sia il caso di cambiare un oggetto perché ne sono stati introdotti di più efficienti sotto al profilo dei consumi d’energia. Le categorie analizzate sono lavatrici, frigoriferi, televisioni, smartphone, computer, vestiti e aspirapolveri. Ebbene lavatrici e frigoriferi sotto il profilo energetico devono essere usati per almeno dieci anni prima che possano essere rimpiazzati con modelli più efficienti, mentre per le televisioni ne devono passare anche di più. Oggi ha senso tenere quelle vecchie a led, visto che quelle nuove 4K ad altissima risoluzione sono energeticamente meno efficienti. Tutti gli altri prodotti analizzati, invece, sono rimpiazzati per motivi diversi del “pareggio energetico”. E qui si apre la voragine dell’obsolescenza programmata psicologica. Ossia di quando si viene convinti che un oggetto non possa più soddisfare le proprie esigenze che spesso sono indotte. Ma si tratta di una questione difficile da definire in maniera scientifica. Il Comitato economico e sociale europeo, per esempio, che ha sposato da tempo la battaglia contro l’obsolescenza programmata ha trovato solo dei casi isolati nei quali si può parlare di “modelli di consumo accelerato” ben definiti. Una recente ricerca (Troeger, Hübner e Wieser, 2017) ha tentato di approcciare il fenomeno sotto il profilo sociologico. In pratica, relativamente al consumo di smartphone in Austria e osservando il tempo trascorso tra il loro primo e ultimo utilizzo, ha evidenziato come l’accelerazione della società influisca sui comportamenti dei consumatori,

orientandoli dai tempi legati al ciclo di vita a quelli dell’utilizzo. In precedenza uno studio empirico (Cooper, 2004) aveva dimostrato come il 30% degli oggetti eliminati sia ancora funzionante, percentuale che sale al 60% per quelli elettronici. Si tratta una problematica che ha una complessità d’analisi non banale. Sotto il profilo della resistenza fisica degli oggetti, è complesso, infatti, determinare se la durata inferiore di quelli più recenti sia dovuta all’obsolescenza programmata o alla progettazione computerizzata che consente di dosare in maniera “nanometrica” le quantità dei materiali, mentre in precedenza si ragionava per “ridondanza”. C’è quindi volontà d’obsolescenza, oppure efficienza industriale – e anche ambientale – nel risparmio delle quantità di materiali? Un caso è quello delle auto. La maggiore efficienza dei veicoli è dovuta, in gran parte, a un alleggerimento complessivo che ha ridotto consumi e inquinamento, ma ha ridotto la resistenza all’usura, mentre saldatura e verniciatura robotizzate delle scocche, unite a un grande utilizzo delle plastiche, hanno reso la ruggine un lontano ricordo. Ma torniamo agli smartphone austriaci. Dall’analisi emerge che il tempo medio d’utilizzo degli smartphone è di 2,7 anni, poco di più di una t-shirt (2,5) e dei sandali (2,2). Stampanti e computer stanno a 4 e 4,1 anni, la fotocamera a 5,3 e l’automobile a 7,5 anni, mentre l’oggetto più longevo è il piano cottura con 10,8 anni. Per quanto riguarda i motivi dell’abbandono dello smartphone il 31% degli intervistati adduce problemi tecnici che però sono reali solo nel 10% dei casi, per gli altri si tratta di decadimento funzionale, come quello legato alla memoria esaurita


Policy che non impedirebbe l’utilizzo. E di questo 10% residuo il 4% è dovuto alla batteria difettosa che sempre più spesso non si può cambiare. E solo un utente su tre prova a riparare il telefono. “Abbiamo scelto la prospettiva dei consumatori intervistando le famiglie e somministrando un questionario a un migliaio di persone” ci dice Harald Wieser, dell’Università di Manchester, che ha partecipato alla ricerca. “Così abbiamo scoperto che la durata non è un grande problema

per i consumatori e che sono molti i telefoni che vengono sostituiti prima che si rompano.” Il problema dell’obsolescenza a questo punto non si sa se programmata o desiderata dai consumatori, quindi, si fa più complesso, visto che diventa anche una questione sociologica e soprattutto psicologica. E passiamo all’aspetto tecnologico. Una ricerca per la messa a punto di una metodologia utile al fine di

Informazione sul ciclo di vita in etichetta

Solo un utente su tre prova a riparare il telefono.

Mettere le informazioni sul ciclo di vita in etichetta. Basta modificare l’etichetta energetica (Winzer/Schriddle/Kreiss, 2013) indicando la durata prevista e il tasso di riparabilità, degli oggetti per dare degli strumenti ai cittadini e aumentare la vita media degli oggetti. La proposta è anche presente in una risoluzione del Parlamento europeo del luglio 2017 ed era stata proposta come “informazione supplementare” e quindi volontaria, nella riforma dell’etichetta energetica che fu rafforzata dall’eurodeputato M5S Dario Tamburrano, su manutenzione, ciclo di vita, connettività e passò in commissione ITRE, sempre sotto forma di adesione volontaria. Il tutto è stato smontato nella negoziazione con gli Stati membri e il testo finale ha un riferimento solo circa la durabilità e le prestazioni ambientali. Tutto il resto si è perso. “La normativa europea – spiega Tamburrano – esiste ed è troppo tempo che non viene adattata.

Mancano gli standard per definire i criteri di riparabilità, durabilità e quant’altro, ma la realtà industriale premia chi innova e mi auguro che i fabbricanti più attenti si diano da fare e facciano da traino. La Commissione europea si deve far carico di quest’evoluzione che non deve sfociare in aumento del prezzo per il cittadino e deve trovare l’equilibrio tra molti aspetti. La fine dell’obsolescenza programmata sta all’economia circolare come la fine dei sussidi ai fossili sta alla transizione energetica rinnovabile”. E se non ci sono progetti concreti, per ora, da parte della Commissione europea, qualcosa si sta muovendo. Nel piano di lavoro sull’ecodesign 2016-2019 la Commissione spinge se stessa a esplorare la possibilità di inserire criteri orizzontali su durabilità, riparabilità e disassemblaggio. Elementi che devono essere affrontati nel design dei prodotti e comunicati in etichetta ai cittadini.

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Poter affermarne che esista un disegno sistemico per l’obsolescenza programmata è, sotto il profilo scientifico, una questione ancora dubbia.

misurare la durata delle lavatrici è stata realizzata da un gruppo di ricercatori europei (Stamminger, Tecchio, Aedente, Matheiux, Niestrath, 2017). “Abbiamo realizzato questa ricerca per cercare degli indizi circa il fatto che i costruttori programmino intenzionalmente la rottura dei prodotti dopo un certo numero di anni” ci dice Rainer Stamminger, ricercatore dell’Università di Bonn. “La risposta è: sì e no. Sì perché ogni produttore durante la progettazione di un prodotto usa dei requisiti circa la durata e la resistenza allo stress. Si tratta di una pratica di progettazione, comune e consolidata, perché non si può iniziare nulla senza definire questo aspetto.” E se da un lato c’è questa consapevolezza sotto il profilo della progettazione, sul versante dell’inchiesta relativo all’obsolescenza programmata Stamminger è chiaro: “Non abbiamo trovato alcuna prova circa il fatto che un prodotto sia deliberatamente progettato per rompersi, ma ciò che abbiamo riscontrato è il fatto che ci possono essere degli errori di progettazione, che però potrebbero esempi di un cattivo design”. E a questo proposito Stamminger cita il noto esempio della lampadina della durata di 1.000 ore. “Non è un segreto il fatto che usando un filamento più spesso si ottengono

più ore di funzionamento” conclude Stamminger. “Ma usando un filamento più spesso serve più corrente elettrica per ottenere lo stesso calore e la stessa quantità di luce. Quindi è necessario arrivare a un compromesso tra durata e consumo. Gli ingegneri devono tenere conto delle condizioni di contorno, in questo caso il consumo energetico, durante la progettazione.” E se non ci sono certezze su questo fronte i ricercatori hanno notato che a fronte di una vita media, dichiarata dai costruttori, delle lavatrici di 12 anni, molte di quelle presenti sul mercato durano meno di cinque anni. Appare chiaro, quindi, che nonostante alcuni esempi plateali d’obsolescenza programmata come le lampadine negli anni ’20, il nylon e le cartucce delle stampanti più recentemente, poter affermarne che esista un disegno sistemico per l’obsolescenza programmata è, sotto il profilo scientifico, una questione ancora dubbia. Ci sono però degli indizi. In primo luogo i progettisti hanno delle conoscenze sui materiali e della possibilità predittive, dovute all’enorme potenza di calcolo, che li mettono in grado di programmare la durata degli oggetti (Kreiss, 2014). Poi bisogna considerare le dinamiche di mercato. L’abbassamento della qualità dei materiali offre un vantaggio immediato sul prezzo e sui costi di produzione, mentre la durata dà un vantaggio competitivo di brand sul lungo periodo. È chiaro che in un mercato competitivo, e di breve orizzonte, le aziende si adeguino al ribasso, quindi diminuzione della durata degli oggetti. E in questa maniera, oltretutto, si inserisce nel consumatore il concetto di durata media di un oggetto che è minima e decisa dalle aziende. Tradotto: tutte le lampadine durano 1.000 ore, tutte le calze si rompono, tutte le cartucce delle stampanti si esauriscono esattamente alla millesima copia e tutte le auto durano 150.000 km. In questa maniera si riducono i rischi d’immagine che un brand diventi sinonimo di bassa qualità (Reischauser, 2011). E il consumatore è impossibilitato a fare scelte consapevoli su tutto ciò, visto che le informazioni sulla vita media, sulla riparabilità, su disponibilità e prezzo dei ricambi nel tempo e sui costi per utilizzo, le aziende li possiedono ma non le rendono disponibili.


Quando un

Foto a di Heather Agyepong per The Restart Project Foto a sinistra di The Restart Project

Foto di Brendan Foster per The Restart Project

Foto di Heather Agyepong per The Restart Project

Focus obsolescenza programmata

Party allunga la vita

Stampanti impossibili da riparare, apparecchi difficili da smontare, scarse informazioni per le riparazioni e pezzi di ricambio non disponibili. Strategie aziendali e stili di vita improntati a un consumo esasperato spingono su prodotti progettati a termine. Ma proprio designer e consumatori possono invertire la rotta. E già in molti ci stanno provando. di Veronica Ulivieri

Foto in alto, da sinistra a destra: Partecipanti soddisfatti dopo un restart party in un negozio di eleettronica Selfridges, in Uk Riparazioni durante il Fixfest 2017 Restart party a Havering, Londra Un Restart Party a Kentish Town, Nordovest di Londra, Uk

Nel 1924 l’espressione “obsolescenza programmata” non esisteva ancora, ma il fenomeno era già lì. In quell’anno, infatti, una serie di aziende produttrici di lampadine firmano un patto di non belligeranza: niente concorrenza tra loro e prodotti in commercio con la medesima ridotta aspettativa di vita. Decenni dopo il cosiddetto “cartello Phoebus”, gli esempi di prodotti ad elevata mortalità si sono moltiplicati. Dalle stampanti impossibili da aggiustare ai primi iPod Apple, con una batteria che si degradava facilmente e risultava allo stesso tempo molto costosa da sostituire tanto che per gli utenti era più conveniente acquistare un nuovo lettore mp3. Se questi rimangono tra i casi più eclatanti, l’invecchiamento precoce riguarda tutti i tipi di apparecchi e la maggior parte delle aziende. Secondo i dati citati in un rapporto sul tema realizzato da Onu Ambiente a fine 2017, tra il 2000 e il 2005 nei Paesi Bassi la vita media di un computer portatile è diminuita del 5% e quella dei piccoli dispositivi elettronici di consumo addirittura del 20%. In Germania, gran parte degli

elettrodomestici viene sostituito a meno di cinque anni dall’acquisto. “Prima, il design dei prodotti veniva studiato in modo da ottimizzare la fase di produzione con la resa in fase di utilizzo, con varie ripercussioni in ambito di economie di scala, qualità e durabilità. Innumerevoli prodotti che fino a pochi anni fa erano semplici assemblaggi di plastiche e metallo, sono oggi diventati dei concentrati di hardware e software racchiusi in una scocca accattivante, che messi a sistema, catturano le necessità e le attenzioni del potenziale cliente”, spiegano Damon Berry e Matteo Zallio, ricercatori del Dublin Institute of Technology. Se questa evoluzione è il frutto di un nuovo modo di progettare gli oggetti per rispondere a un’utenza “che ha sempre più forza nel far sentire i propri bisogni”, i risvolti sul fronte ambientale non sono sempre positivi. Quando infatti aumentano a dismisura le componenti elettroniche, cresce anche la probabilità di guasti, e dove c’è un software, se il produttore sospende gli aggiornamenti il prodotto invecchia istantaneamente diventando rifiuto.


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materiarinnovabile 20. 2018 In molti casi agli stessi designer viene chiesto di progettare prodotti con un orizzonte di vita predefinito, sia per strategie commerciali delle aziende, sia anche perché negli ultimi decenni gli stili di vita sono più orientati a un consumo frequente di elettronica, come dimostrano anche i dati olandesi e tedeschi.

Veronica Ulivieri, giornalista, si occupa soprattutto di economia e inchieste su temi ambientali. Scrive, tra gli altri, per Repubblica Affari&Finanza, La Stampa e Il Fatto quotidiano.it. Nel 2015 ha vinto il premio Ugis – Unione giornalisti italiani scientifici.

Ma se i designer e i consumatori sono una parte del problema, essi possono essere anche promotori attivi della soluzione. In base a uno scenario che già si intravede all’orizzonte: “Bisogna puntare sulla progettazione di apparecchi adattabili e flessibili, modulari, semplici da aggiustare e aggiornare, passando da un design del prodotto a un design dei servizi”, spiegano i due ricercatori, secondo i quali in questo processo di evoluzione del mercato, un ruolo fondamentale lo giocheranno i consumatori: “Oggi sono gli utenti che hanno il potere nelle loro mani, hanno la possibilità di esprimere i loro concetti e le loro necessità in maniera molto più incisiva rispetto al secolo scorso. Il design si evolverà come si evolveranno le persone perché il design è ancora fatto dagli esseri umani e risponde alla domanda che arriva dal mercato”. Per risolvere il problema dell’obsolescenza programmata, insomma, una delle cose più intelligenti da fare è partire dalle persone. È anche l’approccio su cui si basano le migliori iniziative a livello globale per arrestare la mortalità giovanile degli apparecchi elettronici. Con il risultato che, rimettendo a posto tostapane, ferri da stiro e smartphone si rimodulano anche le relazioni delle persone con gli oggetti, oltre a promuovere un modello di consumo più compatibile con le risorse limitate del nostro pianeta.

Restart Project, therestartproject.org Open Repair Alliance, openrepair.org iFixit, it.ifixit.com

Una delle esperienze che sta riscuotendo maggiore successo è Restart Project, un’associazione creata a Londra nel 2012 da Janet Gunter e Ugo Vallauri. Lei antropologa e attivista con esperienze dal Brasile a Timor Est, lui ricercatore ed esperto di cooperazione internazionale, sono partiti con l’idea di fare qualcosa contro la proliferazione di rifiuti elettronici che in molti casi finiscono smaltiti nei Paesi del Sud del mondo, tra mille criticità ambientali. “Eravamo molto frustrati per la grossa quantità di apparecchi elettronici che si buttavano in Europa e negli Stati Uniti. Allora abbiamo iniziato a organizzare a Londra dei restart parties, eventi in cui le persone portano i loro apparecchi rotti e li riparano con l’aiuto di volontari”, racconta Ugo. L’iniziativa ha avuto successo e si è espansa in mezzo mondo, con gruppi affiliati che organizzano party in Usa, Canada, Israele, Tunisia, Spagna, Italia, Argentina. I primi 200 party organizzati hanno coinvolto quasi 8.000 partecipanti, per oltre 6.200 apparecchi, di cui solo un migliaio sono risultati impossibili da riparare. Il resto è tornato a funzionare, o ci tornerà presto, evitando così la produzione di oltre 8.500 chili di rifiuti e di una quantità di emissioni pari a quella necessaria per produrre 26 auto: “Non vogliamo sostituirci

all’economia della riparazione, ma fare soprattutto formazione e aiutare le persone a condividere e scambiarsi conoscenze”. Una ricerca effettuata da Restart Project in collaborazione con l’università di Nottingham Trent, ha messo in evidenza come il 48% dei partecipanti alle feste di Restart abbia poca o nessuna fiducia nelle riparazioni casalinghe e il 45% non riesca a indicare neanche un riparatore. Risposte da cui il fenomeno dell’obsolescenza programmata emerge in tutta la sua complessità: “Non è solo una questione di aziende che progettano i prodotti per durare un tempo stabilito. C’è anche il fatto che molti apparecchi sono molto difficili da smontare e riparare, che molte aziende non mettono a disposizione liberamente degli utenti le informazioni di riparazione e che i pezzi di ricambio non sempre sono facilmente accessibili a tutti”. Tutti fronti su cui bisogna agire, riportando nelle persone la voglia di provare a sporcarsi le mani prima di optare per la soluzione più semplice di andare a comprare un nuovo apparecchio. Nell’autunno scorso Restart Project ha lanciato la prima edizione dell’International Repair Day e organizzato il primo FixFest. È nata anche la Open Repair Alliance, un gruppo di organizzazioni che punta a costruire uno standard internazionale per scambiare informazioni sulle riparazioni a livello globale. Servirà sia a rendere più facile aggiustare gli oggetti, sia a progettare apparecchi più durevoli e più semplici da rimettere a posto. Dell’alleanza fa parte anche iFixit, un progetto nato nel 2003 in California, anche in questo caso da una frustrazione: Luke Soules e Kyle Wiens studiavano Ingegneria all’università politecnica e volevano aggiustare un vecchio iBook, ma da nessuna parte c’erano istruzioni su come farlo. “Armeggiarono, trafficarono, ruppero dei tasti e persero delle viti, ma alla fine lo ripararono. Provarono a riparare altri computer portatili ma non riuscivano a trovare i pezzi. Così comprarono un computer vecchio su eBay e recuperarono le componenti da lì”, racconta oggi Kay-Kay Clapp dall’headquarter di San Luis Obispo. Da lì nacque l’idea di iFixit, allo stesso tempo piattaforma di e-commerce che vende pezzi di ricambio e community dove persone di ogni parte del mondo si scambiano gratuitamente manuali di riparazione e rispondono alle domande di altri utenti. “Oggi iFixit ha più di 35.000 manuali di riparazione online gratis e accessibili a tutti. L’anno scorso ha aiutato oltre 100 milioni di persone a riparare le loro cose”. Il motto del progetto è “if you can’t open it, you don’t own it”: per ogni apparecchio, iFixit attribuisce un punteggio da 1 a 10 in base al livello di riparabilità, sia per la semplicità di aggiustare le componenti, sia per l’accessibilità delle informazioni di riparazione. A volte, aggiunge Kay-Kay, “le aziende tecnologiche protestano per il punteggio che gli diamo, ma alcuni adesso lavorano con noi durante i processi di design per avere consigli su come progettare prodotti più facilmente riparabili”. Il cambiamento è già iniziato.


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Focus obsolescenza programmata

Riparate gente, riparate Nata ad Amsterdam l’esperienza dei Repair Café è ormai diffusa nel mondo. Luoghi accoglienti dove portare gli oggetti rotti più disparati – dalla bici, al frullatore, al telefonino, a un vecchio indumento – riuscendo a recuperarli 7 volte su 10. E dove re-imparare l’arte della riparazione. di Silvia Zamboni

Avete un maglione a cui tenete molto, ma che è piaciuto anche alle tarme che hanno lasciato una traccia visibile del loro passaggio? I vostri figli hanno rotto il trenino ricevuto in regalo a Natale? O dovete registrare i freni della bici? Ma anche se fossero un piccolo elettrodomestico o un apparecchio digitale che necessitano di una riparazione, niente paura: al Repair Café c’è chi vi aiuta. E lo fa gratis, secondo la filosofia che ispira questi incontri di self-help in direzione ostinata e contraria rispetto al consueto usarompi-getta. Per di più in un’atmosfera amicale che favorisce la socializzazione. Per questo i Repair Café hanno sede di solito in locali accoglienti dove si conservano gli attrezzi messi a disposizione dai volontari esperti nelle varie branche della riparazione, e in cui è piacevole trovarsi per un tè, un caffè, una fetta di torta. L’idea-modello dei Repair Café è nata ad

Amsterdam, da Martine Postma, una giornalista che, dopo aver scritto per anni articoli sulla riduzione e la prevenzione della formazione dei rifiuti domestici, nel 2009 ha deciso di passare all’azione. “Riflettendo sul perché se ne creassero tanti, ho concluso che dipendeva anche dall’aver perso l’abitudine di riparare gli oggetti rotti” racconta a Materia Rinnovabile. “Per riportare in auge l’arte della riparazione sapevo di poter contare su persone capaci, disponibili a fare da insegnanti volontari. Andava però studiata una cornice accattivante e facilmente accessibile come lo sono i negozi dietro l’angolo in cui si comprano nuovi oggetti in sostituzione di quelli rotti.” Detto, fatto. Con un comunicato stampa ripreso da giornali, radio e tv Postma ha lanciato il primo incontro che è andato alla grande: “Sono venute più di 80 persone, una risposta straordinaria al di là delle mie aspettative”. Di successo in successo

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Repair Café, repaircafe.org/en

oggi Martine Postma presiede l’International Repair Café Foundation che, grazie anche ad un kit di istruzioni per l’uso disponibile online, accompagna la diffusione di iniziative analoghe. A fine 2017 nel mondo si contavano già 1.450 Repair Café, 300 in più rispetto al 2016. Vuol dire che sotto la guida di centinaia di volontari, migliaia di cittadini hanno ridato una seconda vita ad una montagna di oggetti che altrimenti sarebbero finiti tra i rifiuti. “Stando alle stime dell’ultimo rapporto annuale, nel 2016 sono stati portati nei Repair Café 357.000 oggetti, il 70% dei quali – ossia 250.000 – sono stati riparati con successo” puntualizza Postma. “Tradotto in emissioni di anidride carbonica risparmiate, secondo i nostri esperti ciò ha equivalso a 250.000 kg di CO2 in meno emessi in atmosfera”. E non è tutto: il 6 ottobre scorso a Londra si è tenuta la prima edizione di Fixfest, una tre-giorni internazionale di incontri, laboratori e scambi di buone pratiche, a cui hanno partecipato oltre 200 riparatori/riparatrici, amministratori pubblici, imprese, persone provenienti da tutto il mondo. E sempre in ottobre, precisamente il terzo sabato del mese, ricorre l’annuale International Repair Day. Per consolidare la comunità mondiale, in occasione del Fixfest l’International Repair Café Foundation ha lanciato l’Open Repair Alliance insieme a The Restart Project (UK), Fixit Clinic (Usa), Anstiftung Foundation (Germania) e iFixit (Usa), associazioni che diffondono la cultura


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della riparabilità e illustrano anche online le varie tecniche della riparazione. “Le nostre organizzazioni hanno un ruolo importante da svolgere nella promozione del movimento pro-riparazione” dichiara Ugo Vallauri di The Restart Project. “Possiamo condividere i casi che risolviamo, i danni più ricorrenti e le difficoltà per ripararli, in modo da pretendere un più elevato livello di riparabilità delle merci”. Inoltre, aggiunge Potsma “unendoci cresce il nostro potere nei confronti di fabbricanti, designer, politici e consumatori”. Ma come si svolge un incontro-tipo in un Repair Café? “In genere i nostri eventi si articolano in 4-5 desk. C’è un banco per la riparazione degli elettrodomestici, uno per i lavori di sartoria, uno per le biciclette, uno per falegnameria e restauro di mobili, e presto ne avvieremo uno dedicato agli apparecchi elettronici”, racconta Raffaele Timpano, economista presso Aifo (Amici Italiani di Raoul Follereau), una Ong che si occupa di cooperazione internazionale e presidente di Rusko, il Repair Café di Bologna. Il nome, che sta per “Riparo Uso Scambio Comunitario”, fa simpaticamente eco al termine dialettale bolognese “rusco” usato per indicare i rifiuti di casa. Rusko, ancora senza sede per mancanza di fondi, in forza di questa necessità ha introdotto un innovativo modello itinerante nei vari quartieri

cittadini. “Non chiediamo soldi. Il nostro obiettivo è insegnare a riparare per aumentare la capacità di resilienza della collettività, recuperando quelle abilità manuali che si sono perse con il consumismo. Quante volte ci sentiamo dire dagli artigiani stessi che non vale la pena riparare perché costa meno comprare un oggetto nuovo. Così, però – osserva Timpano – si deresponsabilizzano le persone rispetto ai consumi, tutto si misura in funzione solo del prezzo e si perde anche la connessione emozionale con gli oggetti posseduti”. Per quanto riguarda il profilo-medio dei frequentatori di Rusko “nei quartieri più periferici di Bologna ci sono capitate persone in stato di necessità economica e donne immigrate da Siria ed Egitto, felici di ritrovare la pratica del riparare come usa nei loro paesi” snocciola Timpano. In centro città sono venute persone che credono nel valore ecologico dell’iniziativa e nel contrasto anche culturale allo spreco. I più entusiasti sono i bambini che abbiamo incontrato nel corso di iniziative nelle scuole elementari, orgogliosissimi di riparare giocattoli e bici”. Secondo Postma “il più grande successo che si registra ovunque è il cambiamento di mentalità nelle persone che si rivolgono ai Repair Café: imparano che le cose rotte si possono riparare e che è anche divertente farlo”. Una via dal basso, autogestita e solidale, all’economia circolare. Che funziona anche per il bilancio di casa.

“Non chiediamo soldi. Il nostro obiettivo è insegnare a riparare per aumentare la capacità di resilienza della collettività, recuperando quelle abilità manuali che si sono perse con il consumismo.”

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Focus obsolescenza programmata

Disruptive Design di Leyla Acaroglu, da New York

La più grande sfida dei nostri tempi non consiste nel creare un’app più efficiente per il parcheggio, ma nel progettare un futuro che funzioni meglio per tutti noi.

Il solo riciclo non basta a risolvere i problemi di una produzione “usa e getta”. Serve un metodo progettuale nuovo che soddisfi i bisogni ma al tempo stesso realizzi un sistema rigenerativo che metta insieme componenti fisici, implicazioni cognitive, sociali e ambientali. È diventato sempre più normale per il business sfornare prodotti specificamente progettati per perdere valore nel tempo, in alcuni casi a livelli drammatici, con l’intento di manipolare i consumatori e spingerli nel vortice dell’acquisto continuo. A parte gli aspetti etici di questo comportamento, uno degli effetti collaterali della progettazione di beni “usa e getta” è una forte pressione sulla catena di rifornimento affinché produca in serie nuovi oggetti. Questo a sua volta pone un’enorme pressione sulle risorse naturali e si traduce in molti degli sviluppi negativi dal punto di vista ambientale e sociale ai quali assistiamo oggi. Il riciclo viene spesso presentato come la soluzione agli effetti collaterali creati da questa situazione, tuttavia il riciclo sostanzia la produzione di rifiuti e incentiva il perpetrarsi

dell’economia lineare. Le tecniche per renderla circolare che cominciamo a implementare oggi non possono occuparsi solo della gestione del fine vita dei prodotti che vanno riusati, rilavorati e riciclati, ma invece devono partire da una visione sistemica dei prodotti lungo l’arco della loro intera vita al fine di generare un cambiamento nei sistemi. Dal mio punto di vista di designer sostenibile, vedo continuamente progettisti in tutti i settori dell’industria investire le loro incredibili capacità creative nello sviluppo di “roba problematica”, progetti agghindati dei fronzoli della novità per mascherare il fatto che non danno alcun contributo positivo. Per essere chiari, la più grande sfida dei nostri tempi non consiste nel creare un’app più efficiente per il parcheggio, ma nel progettare un futuro che funzioni meglio per tutti noi. E questo richiede lo sviluppo di una visione


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Sociologa e imprenditrce, Leyla Acaroglu sfida le persone a pensare in modo differente riguardo al funzionamento del mondo. Insignita come progettista del premio Champion of the Earth dell’UNEP, ha sviluppato il Disruptive Design Method.

del mondo più multidimensionale, che tenga in considerazione le infinite possibilità dell’universo insieme alle limitate realtà biologiche del mondo in cui viviamo. A questo scopo, durante diversi anni di lavoro all’avanguardia nell’uso della progettazione come catalizzatore di un cambiamento positivo, ho sviluppato il “Disruptive Design Method”. Il DDM è un processo articolato in tre parti – estrazione,

progettazione del contesto e costruzione – che adotta un approccio basato sui sistemi, sulla scienza della sostenibilità e sulla progettazione per l’esplorazione e la soluzione di problemi complessi e l’evoluzione in questo campo. Quando si guarda dal punto di vista del ciclo di vita è facile vedere che tutti i materiali hanno un impatto di qualche tipo. Il punto non è quali materiali usiamo, è quello che facciamo con loro a determinare il grado di impatto planetario

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materiarinnovabile 20. 2018 MLB DisruptiveDesign/credit: EmmaSegal

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e sociale. Ecco perché la progettazione di prodotti che non solo soddisfino i nostri bisogni ma contribuiscano anche a un sistema più rigenerativo deve considerare i componenti fisici insieme alle implicazioni cognitive, sociali e ambientali. Nel DDM, il primo stadio dell’“estrazione” consiste nel comprendere i componenti che formano il sistema. Esploriamo l’ambito di un problema senza giudicare, dato che il pensiero sistemico non biasima un sistema interconnesso (e tutto è interconnesso!). Esaminiamo quali elementi e componenti creano quel tipo di problema liberandoci dal bisogno di risolverlo, il che permette la raccolta di intuizioni sulle relazioni tra gli elementi del sistema e di identificare il

substrato nel quale quel tipo di problema è radicato. Dopo di che prendiamo queste nuove intuizioni e le mettiamo insieme nella fase di “progettazione del contesto” per sviluppare un’immagine più accurata della complessità intrinseca all’ambito del sistema in cui stiamo lavorando. Con una visione dall’alto, possiamo allora identificare le aree di intervento all’interno del nostro raggio di azione, concentrandoci sui punti su cui fare leva, spesso piccoli e passati precedentemente inosservati, che permettono un cambiamento a livello sistemico dello status quo. Questo naturalmente continua nella fase ideativa della “costruzione”, in cui sviluppiamo velocemente gli interventi potenziali progettati che si adattano al problema in modi diversi, eseguiamo dei test, creiamo prototipi e progrediamo. L’intero processo viene ripetuto ciclicamente secondo un metodo interattivo e orientato all’azione: cercare nuove intuizioni nello stadio di estrazione che si prende a cuore il problema, identificare le aree di intervento nello stadio basato sul pensiero sistemico della progettazione del contesto, e poi generare approcci divergenti per fare evolvere istantaneamente la situazione attuale in una nuova durante la fase di costruzione. Se si volesse applicare questa struttura al processo di sviluppo dei prodotti, si utilizzerebbe la fase di estrazione per esplorare la funzione principale del sistema, per definire lo status quo dello svolgimento di quella funzione, per identificare le cose che funzionano e che non funzionano e poi metterle insieme per definire l’attuale contesto operativo, e infine costruire un modello alternativo che renda obsoleto quello precedente da un punto di vista sistemico. Prendiamo, per esempio, il frigorifero. La progettazione del funzionamento di questo elettrodomestico non è cambiata molto nel corso di 65 anni: una scatola con due parti principali, ripiani, e un contenitore interno per le verdure. La funzione fondamentale di un frigorifero è di mantenere il cibo fresco, malgrado non lo faccia


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Prendiamo, per esempio, il frigorifero. La progettazione del funzionamento di questo elettrodomestico non è cambiata molto nel corso di 65 anni.

così bene per molti alimenti deperibili composti da cellule come le verdure. Questo è principalmente dovuto alla scadente progettazione del cassetto per le verdure, che accelera la disidratazione delle cellule vegetali poiché non è un ambiente isolato, e questo si traduce in verdure flosce e mollicce. Usare il DDM per analizzare i vari punti permetterebbe una visione d’insieme del sistema riguardo a questo problema. Poi, nel passaggio alla fase di progettazione (costruzione), i creativi avrebbero gli strumenti per agire riprogettando dal livello funzionale in su, grazie alla comprensione, “estratta” nella prima fase, del fatto che il frigorifero è tanto uno status symbol culturale quanto un’unità funzionale per conservare il cibo. Quindi il compito di conservare il cibo può essere svolto in molti modi diversi che massimizzano il servizio ma minimizzano il consumo di energia e il deterioramento del prodotto. Partendo da una prospettiva sistemica della progettazione e della produzione si tiene conto degli impatti delle nostre azioni lungo l’intero

ciclo di vita, si progetta affinché il valore aumenti e si considerano gli impatti sociali, ambientali ed economici non solo sugli esseri umani, ma sull’intera biosfera. Sono molti i passi che un produttore creativo può compiere per cambiare drasticamente lo status quo degli ambiti che creano problemi complessi. Non si tratta di boicottare o protestare; si tratta di capire e di motivarsi per poter prendere decisioni di progettazione più informate sulla base di una più ampia e profonda visione sostenibile del mondo. Il DDM consente un approccio alla progettazione più tridimensionale, nel quale le nostre scelte vengono fatte con l’obiettivo di generare intenzionalmente cambiamenti positivi. Da qui possiamo esaminare e creare quello di cui c’è veramente bisogno. Più ci saranno menti creative che investono le loro capacità nelle sfide allo status quo (invece di rendere possibili le sue parti disfunzionali), e più rapidamente progetteremo un futuro che sia rigenerativo, non incidentalmente distruttivo.

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Dossier

BRASILE

Il cielo sopra Rio de Janeiro il 15 novembre 1889, giorno della Dichiarazione della Repubblica 1. Procione 2. Cane Maggiore 3. Canopo 4. Spica 5. Idra 6. Croce del Sud 7. Octantis 8. Triangolo Australe 9. Scorpione

Un patrimonio eccellente in termini di biodiversità, grande disponibilità di biomassa, presenza di un’industria chimica e biotecnologica innovativa. Queste le caratteristiche della bioeconomia in Brasile che rendono il paese uno dei principali attori nel settore a livello globale. Anche se ancora manca una strategia integrata e una visione di lungo periodo.


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Una bioeconomia che va a bioetanolo

700 milioni di tonnellate di canna da zucchero trattate in un anno; 30,23 miliardi di litri di bioetanolo prodotti nel 2015-2016. Utilizzato non solo come biocarburante ma anche nell’industria, leader a livello globale nella produzione di biopolimeri e biochemicals. di Mario Bonaccorso

Abbondanza di biomassa non alimentare e di terra e risorse naturali disponibili, una biodiversità che ha pochi uguali nel mondo e un’industria chimica e biotecnologica che punta sull’innovazione, con il settore dei biocarburanti a rappresentare una vera e propria punta di diamante. Sono queste le caratteristiche principali della bioeconomia in Brasile, che fanno del paese sudamericano uno dei principali attori a livello globale in questo metasettore. Nonostante l’assenza di una strategia integrata sulla bioeconomia, dai primi anni settanta, quando fu necessario rispondere allo shock petrolifero, ad oggi il Brasile ha introdotto una serie di politiche che hanno promosso l’avvento del bioetanolo e, più recentemente, la conservazione e l’uso sostenibile della sua biodiversità a fini economici. Il ruolo del bioetanolo

Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista.

Il Brasile ha più di 400 fabbriche di canna da zucchero in grado di processare circa 700 milioni di tonnellate all’anno. Con l’istituzione nel 2011 del programma Paiss da parte della Banca di sviluppo brasiliana, il paese è balzato alla ribalta della produzione di etanolo cellulosico, con due impianti commerciali e un impianto pilota con una capacità produttiva di quasi 140 milioni di litri all’anno, ed è secondo solo agli Stati Uniti. Altri dieci impianti commerciali sono in cantiere per il prossimo decennio e forniranno capacità produttive vicine a 10 miliardi di litri all’anno di etanolo di seconda generazione. Già oggi, il Brasile è stato capace di sostituire quasi il 42% del fabbisogno di benzina con l’etanolo da zucchero di canna, rendendo la benzina il combustibile alternativo nel paese. Nel 2015-2016, la produzione brasiliana di bioetanolo ha raggiunto 30,23 miliardi di litri (8 miliardi di galloni). La maggior parte di questa produzione viene

assorbita dal mercato interno dove viene venduta come puro combustibile a etanolo o miscelata con benzina. Tutta la benzina venduta in Brasile include una miscela di etanolo dal 18 al 27,5%. Nove su dieci delle nuove auto vendute nel paese latino-americano sono flessibili nell’impiego di biocarburante, perché la maggior parte degli automobilisti brasiliani preferisce l’etanolo da canna da zucchero per il suo prezzo e i benefici ambientali. Questi veicoli oggi rappresentano circa il 70% dell’intera flotta di veicoli leggeri del paese. Dal 2003, la combinazione di veicoli a base di etanolo e benzina ha ridotto le emissioni di biossido di carbonio di oltre 350 milioni di tonnellate. Ciò – dicono gli esperti – è positivo per l’ambiente al pari di piantare e mantenere 2,5 miliardi di alberi per 20 anni. Allo stato attuale l’etanolo di canna da zucchero è ottenuto dal saccarosio presente nel succo di canna da zucchero e nella melassa, un processo che attinge solo un terzo dell’energia che la canna da zucchero può offrire. Gli altri due terzi rimangono bloccati nella fibra di canna avanzata (chiamata bagassa) e nella paglia. Mentre parte di quest’energia è convertita in bioelettricità, dal materiale vegetale rimasto si può produrre etanolo cellulosico, grazie a un processo che coinvolge tecnologie di idrolisi e gassificazione per scomporre la lignocellulosa nello zucchero. Se da un lato l’etanolo cellulosico può essere prodotto da materie prime abbondanti e diverse, dall’altro la sua produzione richiede una maggiore quantità di elaborazione rispetto all’etanolo di canna da zucchero tradizionale ed è quindi più costosa. Il mercato si sta comunque espandendo e al momento ci sono due impianti commerciali che producono etanolo cellulosico in Brasile: uno appartiene al gruppo GranBio e l’altro alla Raizen. La loro capacità produttiva è, rispettivamente, di 82 e 40 milioni di litri.

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materiarinnovabile 20. 2018 L’iniziativa RenovaBio

BioFuture Platform, biofutureplatform.org World Business Council for Sustainable Development, www.wbcsd.org GranBio, www.granbio. com.br/en/conteudos/ executive-leadership

A dare nuovo impulso al settore del bioetanolo è arrivato a fine dicembre la firma del presidente del Brasile, Michel Temer, alla legge che definisce la politica nazionale dei biocarburanti (RenovaBio), favorendo la produzione di etanolo e biodiesel e stabilendo obiettivi annuali di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. La legge fa parte degli impegni sottoscritti dal Brasile nell’accordo globale sul clima di Parigi, che prevedono la riduzione del 43% delle emissioni di gas serra, considerando come base l’anno 2005. Il programma dovrebbe favorire l’aumento della produzione di biocarburanti nel paese con un regolamento che prevede l’acquisto di titoli di “decarbonizzazione” (Cbio) emessi da produttori e importatori. Analisti e specialisti stimano che, stabilizzando un settore fortemente indebitato e che ha registrato la chiusura di diverse unità produttive negli ultimi anni, RenovaBio potrebbe attirare nuovi investimenti nel settore industriale, favorendo anche un movimento di fusioni e acquisizioni. Il provvedimento potrebbe inoltre favorire la quotazione in borsa di nuove fabbriche di lavorazione di canna da zucchero in un settore che conta già la presenza sul mercato azionario di società come Cosan, Biosev e Sao Martinho. “Il programma crea una politica chiara e a lungo termine per i biocarburanti, gettando le basi per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 in modo da contenere il riscaldamento globale e contribuire alla fornitura di carburante del nostro paese”, ha dichiarato alla stampa brasiliana Luis Roberto Pogetti, Presidente del Consiglio di Amministrazione di Copersucar, leader mondiale nel commercio di zucchero ed etanolo. “Siamo sostenitori di RenovaBio e siamo impegnati nella sua regolamentazione in quanto le questioni ambientali e di approvvigionamento richiedono decisioni politiche urgenti”, ha aggiunto Pogetti. L’obiettivo della nuova legge è il raddoppio del consumo di etanolo in Brasile. Tuttavia, non sono state ancora definiti obiettivi vincolanti per stimare l’impatto complessivo del programma. La piattaforma BioFuture L’importanza strategica del bioetanolo è testimoniata anche dall’iniziativa BioFuture Platform. Nel 2016, in occasione della Cop22 di Marrakech, il Brasile ha lanciato insieme ad altri paesi – tra cui Italia, Finlandia, Stati Uniti, Cina e Argentina – questa piattaforma con l’obiettivo di accelerare lo sviluppo e la commercializzazione di combustibili a basso tenore di carbonio, le tecniche per la loro produzione e per la valorizzazione dei sottoprodotti. Il progetto cerca di contribuire a suo modo agli impegni stabiliti, non solo con l’Accordo di Parigi, ma anche con Rio +20 e con la formulazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibili delle Nazioni unite. Uno dei pilastri della piattaforma è rappresentato

dai biocarburanti avanzati, o più precisamente quelli ottenuti dalla biomassa legnosa. Lo scorso ottobre San Paolo ha ospitato la prima conferenza della piattaforma, la quale ha prodotto un Vision Statement volto a far entrare la bioeconomia sostenibile a basse emissioni di carbonio nell’agenda globale come soluzione urgente per combattere il cambiamento climatico e fornire un forte segnale ai mercati e agli investitori sul ruolo atteso per il settore nei prossimi decenni. “La piattaforma Biofuture è una parte fondamentale di uno sforzo necessario per rimettere la bioenergia nell’agenda globale”, ha dichiarato Rasmus Valanko, del World Business Council for Sustainable Development (Wbcsd). “È un meccanismo in cui i governi, il settore privato e il mondo accademico sono in grado di cooperare in modo molto dinamico.” La grande industria Con il bioetanolo faro della bioeconomia brasiliana, non può che essere questo il business principale della grande industria attiva in Brasile: Raízen, Braskem e GranBio sono i maggiori attori del settore, con un ruolo di leadership a livello globale. Frutto di una joint venture tra Cosan e Shell, Raízen è una delle cinque più grandi aziende del Brasile in termini di entrate e il terzo distributore di carburanti del paese sudamericano. È anche il principale produttore brasiliano di canna da zucchero e di etanolo e il più grande esportatore mondiale di zucchero di canna. Raízen Combustíveis, il ramo che distribuisce il carburante della società, gestisce una rete di distribuzione nazionale di oltre 6.000 stazioni di servizio Shell, 960 negozi e 67 terminali di distribuzione, così come il servizio di distribuzione di carburanti per aviazione in 64 aeroporti. Raízen Energia produce annualmente oltre 4,1 milioni di tonnellate di zucchero e 2,1 miliardi di litri di etanolo sia per il mercato interno sia per quello di esportazione. I suoi impianti hanno una capacità di generazione di 940 MW di energia dalla bagassa di canna da zucchero. Nel campo dell’etanolo è attiva anche Braskem, la più grande azienda petrolchimica delle Americhe e il principale produttore mondiale di biopolimeri. Braskem – oltre a produrre resine di polietilene (Pe), polipropilene (Pp) e polivinilcloruro (Pvc), nonché prodotti petrolchimici di base come etilene, propilene, butadiene, cloro, benzene, toluene ecc. – ricava dalla canna da zucchero anche biocarburanti e una bioplastica nota come “I’m Green”. Si tratta di un polietilene da fonti rinnovabili prodotto dal 2010, che ha consentito alla società brasiliana di essere leader mondiale nel settore delle bioplastiche. L’innovazione prodotta da Braskem si basa sull’attività svolta in due moderni centri di tecnologia: il primo situato a Triunfo, in Brasile, considerato il centro di ricerca più grande e moderno in America Latina; il secondo a Pittsburgh, in Pennsylvania, negli Stati Uniti. Inoltre, dal 2010 la società brasiliana ha una propria struttura per la ricerca in biotecnologie e prodotti rinnovabili


Laboratorio di Campinas

Laboratorio di Campinas

Policy a Campinas. Gli otto centri pilota consentono lo studio dei processi di polimerizzazione e la produzione di monomeri rinnovabili. Nel 2008, l’impresa ha firmato un accordo di cooperazione con l’Università statale di Campinas (Unicamp) e la Fondazione per il sostegno alla ricerca dello Stato di San Paolo (Fapesp) per lo sviluppo di ricerche per percorsi di produzione di biopolimeri o polimeri da fonti rinnovabili. Nel 2009 ha siglato un accordo di cooperazione tecnologica con la società biotecnologica danese Novozymes, leader mondiale nella produzione di enzimi industriali, per sviluppare un nuovo percorso competitivo per il polipropilene verde, che Braskem aveva già ottenuto su scala di laboratorio nel 2008. E nel 2012 ha avviato una partnership con WR Grace & Co., leader mondiale nei catalizzatori, per sviluppare nuove tecnologie di processi e soluzioni di catalizzatori per l’ottenimento di prodotti chimici da fonti rinnovabili. Al fianco dei colossi petrolchimici si trova una società puramente biotech, la GranBio, che sviluppa soluzioni per trasformare la biomassa in prodotti rinnovabili come biocarburanti, biochemicals, nanomateriali e sostanze nutritive. Costituita nel giugno del 2011 da Bernardo Gradin, GranBio gestisce in Brasile il primo impianto commerciale dell’emisfero meridionale per l’etanolo di seconda generazione (2G). La fabbrica, denominata Bioflex 1, è operativa da settembre 2014, ad Alagoas. La produzione di biocarburanti dalla paglia di canna da zucchero e dalla bagassa, la materia prima che fino ad allora era stata scartata o bruciata sul campo, colloca l’azienda tra le più sostenibili del pianeta nel suo settore. Scelta nel 2013 come una delle aziende più innovative in Sud America dalla rivista americana Fast Company, GranBio ha un centro di ricerca sulla biologia sintetica e una stazione sperimentale per lo sviluppo di nuove fonti di biomassa. Dal 2013, ha anche una partecipazione nella società americana di tecnologie pulite, American Process Inc., API. Nel settore delle sostanze biochimiche, è partner di Rhodia – una società del gruppo Solvay – in un progetto pioneristico a livello mondiale per la produzione di bio n-butanolo, utilizzato nella produzione di vernici e solventi. GranBio è controllata da GranInvestimentos S.A., una holding della famiglia Gradin, e ha BNDES Par, braccio di investimento della Banca di sviluppo brasiliana, come partecipante di minoranza, con il 15% del capitale totale. Il ruolo della Banca di sviluppo brasiliana Il grande sviluppo che ha caratterizzato l’industria dei biocarburanti in Brasile deve molto al ruolo di spinta svolto dalla Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale (Bndes). Nel 2014, Bndes e il Fondo di finanziamento per l’innovazione e la ricerca (Finep) hanno annunciato un nuovo programma per incoraggiare l’innovazione agricola per l’industria brasiliana della canna da zucchero. L’obiettivo è di stimolare l’innovazione e la ricerca

che sono in grado di incrementare la produttività riducendo al contempo i costi di produzione, come ad esempio lo sviluppo di nuove tecnologie per i macchinari agricoli e il miglioramento genetico delle piante. Il nuovo piano integra il Paiss lanciato da Bndes e Finep nel 2011. Dal 2004 al 2013 la Banca brasiliana ha investito ben 23 miliardi di dollari americani per sostenere l’industria dei biocarburanti nazionale. Secondo l’economista Elizabeth Farina, presidente dell’Associazione brasiliana dell’industria della canna da zucchero (Unica), il 60% dei costi di produzione di etanolo e zucchero si trova nella produzione agricola. “I costi agricoli sono già alti e sono in ascesa, a differenza dei costi della lavorazione industriale della canna da zucchero, che è stata oggetto di ricerca e investimenti che hanno portato a costi inferiori”, ha spiegato Farina. I dati dell’Unica mostrano che durante gli anni del boom dell’industria della canna da zucchero, tra il 2002 e il 2010, il costo della produzione agricola ammontava a 15 dollari per tonnellata mentre oggi è raddoppiato a quasi 30 dollari per tonnellata. Una strategia per la bioeconomia Oltre a Paiss, il Brasile ha messo in campo negli ultimi anni numerosi progetti per sostenere lo sviluppo dell’industria dei biocarburanti avanzati, della chimica verde e della biotecnologia. Nell’ambito della Strategia nazionale sulla Scienza, Tecnologia e Innovazione 2016-2022 molto spazio è riservato a sostenere tutte quelle attività economiche basate sull’uso di risorse biologiche rinnovabili al posto delle materie prime fossili per la produzione di alimenti, mangimi, materiali, prodotti chimici, combustibili ed energia, salute e benessere della società. Il Brasile mira dunque in modo deciso all’uso sostenibile delle risorse. L’obiettivo specifico del governo del paese sudamericano, che a fatica sta uscendo da un periodo di forte recessione e dove anche per il 2018 il tasso di disoccupazione dovrebbe essere superiore al 10% secondo le stime degli analisti, è di favorire lo sviluppo della bioeconomia circolare partendo dalla ricerca scientifica, mettendo in campo una serie di azioni integrate che coinvolgano il settore agro-alimentare, quello dell’acqua e l’industria. Tra le misure indicate dal ministero della Scienza, Tecnologia, Innovazione e Comunicazione rientra anche l’istituzione di un Osservatorio nazionale sulla Bioeconomia, che prende spunto dal modello europeo. “Molte aree della bioeconomia sono regolate e hanno politiche mirate”, ci dice Bernardo Silva, presidente di Abbi (l’Associazione brasiliana delle biotecnologie industriali). “Manca però – aggiunge – un quadro coerente, una visione di lungo periodo e obiettivi che possano considerarsi una strategia. Senza una chiara comprensione di dove siamo, dove vogliamo andare e di cosa abbiamo bisogno per arrivarci, ovvero senza una governance che implementi, monitori e valuti una strategia, la bioeconomia difficilmente andrà avanti.”

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materiarinnovabile 20. 2018 Intervista

di M. B.

La sostenibilità è nel dna della nostra azienda Henri Colens, manager degli Affari pubblici europei di Braskem Europe

“Braskem ha incorporato la sostenibilità nello scopo esistenziale dell’azienda, che è quello di migliorare la vita delle persone creando e sviluppando sostanze chimiche e plastiche sostenibili.” Henri Colens, manager degli Affari pubblici europei di Braskem Europe e vicepresidente di European Bioplastics parla con Materia Rinnovabile. In questa lunga intervista spiega cos’è la bioeconomia dal punto di vista dei maggiori produttori petrochimici nelle Americhe e quali sono i punti di forza e le debolezze della bioeconomia brasiliana.

Braskem Europe, www.braskem.com.br/ europe European Bioplastics, www.europeanbioplastics.org

Braskem è la maggiore azienda petrochimica delle Americhe e la principale produttrice di biopolimeri al mondo. Cos’è la bioeconomia per voi? “La bioeconomia oltre a essere un concetto è anche una realtà tangibile. Per Braskem l’idea di sfruttare la forza dell’agricoltura e sostituire le materie prime convenzionali a base fossile con le biomasse è un punto chiave della propria strategia. Siamo riusciti a guadagnarci un ruolo fondamentale nel campo degli intermedi chimici e delle plastiche rinnovabili grazie al nostro patrimonio di conoscenze come brasiliani, ma stiamo cominciando a guardare al di là dei nostri confini. Per esempio, l’anno scorso abbiamo annunciato l’apertura di un impianto dimostrativo per lo sviluppo di un metodo all’avanguardia per la produzione di glicole monoetilenico (MEG) dallo zucchero: stiamo collaborando con la Haldor Topsoe in Danimarca, dove sarà ubicato l’impianto. La nostra visione sulla bioeconomia è fondata sull’innovazione. Dobbiamo cogliere le opportunità negli ambiti in cui il biobased è migliore nella funzionalità e nella performance ambientale. E siamo in fibrillazione per lo sviluppo di nuove idee e tecnologie che scaturiscono dai nostri biolaboratori di Campinas. Abbiamo investito milioni in questi impianti che stanno cercando di trasformare la bioeconomia da una semplice idea a qualcosa di reale.” Quali sono i principali progetti della sua azienda in tema di bioeconomia? “Ho appena menzionato il bio-MEG, un componente essenziale della resina Pet, la principale materia prima man-made utilizzata dall’industria tessile e dal packaging e molto usata anche per produrre bottiglie. La nostra partnership sta sviluppando una nuova tecnologia che ci permetterà di portare la chimica rinnovabile a un livello totalmente nuovo. Dopo I’m green (un bio-polietilene), questo è un altro grande passo avanti nella nostra visione di utilizzare i polimeri rinnovabili come strumento per il sequestro di carbonio. Rimanendo nell’ambito del nostro impegno nel settore delle sostanze chimiche rinnovabili, Braskem ha siglato un accordo di cooperazione

tecnologica con l’azienda statunitense di prodotti rinnovabili Amyris e la produttrice di pneumatici francese Michelin per sviluppare una tecnologia in grado di ottenere isoprene biobased, una materia prima sintetica impiegata dall’industria degli pneumatici e per produrre altri tipi di gomme. Questa tecnologia è stata sviluppata partendo da zuccheri vegetali, come quello presente nella canna da zucchero e dalle materie prime cellulosiche. In collaborazione con Genomatica stiamo facendo progressi anche nello sviluppo congiunto di una nuova tecnologia per la produzione di butadiene biobased. Naturalmente questo deve essere sostenuto dagli sviluppi commerciali: siamo orgogliosi che il nostro elenco di clienti sia in crescita, come anche il numero e la qualità delle applicazioni che impiegano il nostro materiale. Sapeva che il nuovo pallone che sarà utilizzato nei campionati mondiali di calcio 2018 contiene materiali rinnovabili forniti da Braskem? La gomma Epdm biobased Keltan Eco prodotta da Arlanxeo, uno dei principali produttori mondiali di gomma sintetica, è la base dello strato di gomma spugnosa che si trova appena sotto la copertura esterna del pallone ‘Telstar 18’. Serve come ammortizzatore modellabile per la palla e possiede ottime caratteristiche di rimbalzo durante il gioco. Braskem fornisce l’etilene biobased usato per produrlo. E grazie alla nostra partnership con Made in Space per sviluppare stampanti 3D biobased sull’International Space Station, ora abbiamo sviluppato una macchina che permette agli astronauti di riciclare anche la plastica. È rappresentativa dell’impegno di Braskem nel chiudere i cicli tecnici e del carbonio, e nel creare le condizioni per un’economia davvero circolare.” Come può riassumere i cardini della strategia per la sostenibilità di Braskem? “Lo sviluppo sostenibile è stato definito dalla Commissione Brundtland (conosciuta come Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo, 1983, ndr) come la soddisfazione dei bisogni attuali senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro. Questa è una domanda che si pongono molte aziende come la nostra, e di cui è consapevole una sempre maggior parte della popolazione. Braskem ha incorporato la sostenibilità nello scopo esistenziale dell’azienda che è quello di migliorare la vita delle persone creando e sviluppando sostanze chimiche e plastiche sostenibili. L’azienda stessa si sta ponendo dei traguardi per migliorare l’uso delle risorse e dei metodi di produzione sostenibili, e anche per creare prodotti migliori. Stiamo collegando tutto questo con i Sustainable Development Goals (SDG) delle Nazioni Unite, e stiamo


Policy facendo della lotta ai cambiamenti climatici un punto fondamentale nel percorso che intendiamo seguire. È difficile per un’azienda compiere grandi passi avanti verso le rinnovabili, specialmente con il prezzo del petrolio che rimane basso. Ma offriamo ai nostri clienti un gamma senza pari di resine polietileniche rinnovabili e riciclabili. Siamo i leader nella produzione di biopolimeri e ci teniamo a mantenere questa posizione. Come membri di associazioni come Associação Brasileira de Biotecnologia Industrial (ABBI), Plastics Europe ed European Bioplastics, speriamo di far crescere il riconoscimento e l’accettazione delle plastiche biobased in tutto il mondo. In Brasile, Braskem ha anche avviato Wecycle, una piattaforma per le resine riciclate, dove aiutiamo i nostri clienti a capire le loro necessità riguardo ai materiali di scarto. Con questo strumento possiamo inserirli nella catena di riciclo più adatta a loro, garantendo un prodotto rilavorato tracciabile e di qualità.” A suo avviso quali sono i punti di forza e quelli di debolezza della bioeconomia brasiliana? “La bioeconomia brasiliana ha molti fattori che giocano a suo favore. La dimensione del paese, la sua geografia e il clima tropicale, fanno sì che esso abbia un potenziale bioeconomico quasi ineguagliabile. Pabulo Henrique Rampelotto (un biologo molecolare che attualmente sta portando avanti la sua ricerca alla Federal University di Rio Grande do Sul, ndr) lo ha riassunto bene nel suo articolo del 2016 per Industrial Biotechnology, dicendo: ‘Una tale straordinaria ricchezza naturale e varietà di risorse rappresenta un bene unico, sebbene inesplorato, in termini di potenziale per lo sviluppo di cibo, energia e medicinali sostenibili, biodiversificati ed ecologici’. Il Brasile ha già fatto grandi passi avanti nel rendere verde la sua produzione di energia visto che circa il 45% dell’energia del paese viene da fonti rinnovabili. Con oltre 400 bioraffinerie e una capacità e un portfolio in espansione in ambito di intermedi da rinnovabili, il Brasile ha già un ruolo primario nell’agribusiness. Negli ultimi 50 anni il Brasile ha accumulato conoscenza e ricchezza in questo settore ed è diventato un soggetto all’avanguardia nella ricerca, sviluppo, gestione dell’innovazione e in scienza e tecnologia. Nonostante questo, ci sono varie sfide da vincere. Il Brasile, a mio avviso, deve fare di più prima di poter davvero sfruttare il potenziale ad alto valore delle materie prime di seconda e terza generazione. Diverse aziende stanno cercando di sviluppare bioetanolo 2G e 3G (il bioetanolo 2G non utilizza colture alimentari ma solo quelle dedicate; il 3G impiega scarti di produzione e sottoprodotti, ndr), ma vale la pena di dire che la grande maggioranza degli impianti per lo zucchero di canna funziona producendo una quantità di rifiuti bassissima o nulla, utilizzando la bagassa per produrre energia e destinando la vinaccia all’estrazione di principi nutritivi e al riciclo dell’acqua.” Quali sono le principali differenze tra il Brasile e l’Unione europea riguardo alle politiche pubbliche di sostegno alla bioeconomia? “L’Ue è un’entità composta di 28 (presto 27) Stati membri e, al passaggio di secolo, le sue azioni

principali riguardo alla bioeconomia sono state la definizione di alcuni standard e l’allocazione di fondi. L’intenzione primaria era di creare un contesto equo e stimolare l’innovazione. Più recentemente, lo sviluppo di Horizon 2020 ha avuto un impatto positivo, ma molti tuttora pensano che l’Europa sia in ritardo rispetto a Stati Uniti e Cina per quanto riguarda il supporto alla bioeconomia. Molti Stati membri europei sono stati lenti nel destinare investimenti, e alcuni non hanno una strategia definita riguardo alla bioeconomia. Neanche il Brasile ha una strategia bioeconomica definita, eppure i brasiliani hanno da tempo riconosciuto il potenziale del loro settore agricolo e negli anni ’70 hanno deciso di stimolarlo con sussidi crescenti e meccanismi di supporto. La richiesta di produrre etanolo (come anche zucchero) alla fine ha portato a uno dei programmi di trasporto ecologico più avanzati del mondo: le auto flex-fuel. I governi successivi hanno introdotto ulteriori misure per supportare l’industria della canna da zucchero. Per esempio, nel 2015, sono terminati i sussidi al fossile, principalmente nel tentativo di alleggerire la pressione sui produttori di etanolo. Credo ci siano anche molte similitudini tra Brasile ed Europa ed entrambi potrebbero imparare molto reciprocamente. Sia il Brasile sia l’Europa possono essere accusati di non aver sfruttato pienamente le opportunità a loro disposizione, a causa della mancanza di una visione o della tendenza a complicare troppo le cose. Ci sono diverse ragioni, decisamente troppe per analizzarle ora, ma ho la sensazione che la burocrazia abbia spesso un peso. La collaborazione e il trasferimento di conoscenze sono aree in cui è necessario progredire, migliorando l’IP, l’Intellectual Property. Inoltre, un approccio più aperto (meno protezionista) potrebbe portare benefici a medio e lungo termine. Aspettiamo l’esito dei colloqui commerciali Ue-Mercosur per vedere se ci saranno progressi.” Qual è la percezione della bioeconomia da parte dell’opinione pubblica brasiliana? Esistono piani per l’istruzione e la formazione? “Alcuni colleghi brasiliani mi assicurano che la percezione è molto positiva, persino fonte di orgoglio. Il motivo è che la bioeconomia ha un impatto molto concreto sulla vita di tutti i giorni delle persone. Nonostante ciò, nel recente passato, alcune ricerche hanno evidenziato che la popolazione brasiliana sente che il paese non sta cogliendo le opportunità offerte dalla sua bioeconomia. È difficile stabilire se i consumatori brasiliani stiano acquisendo una mentalità più ambientalista, la recessione ha reso la gente piuttosto pessimista sull’economia nazionale e il prezzo determina tuttora le scelte negli acquisti. Ma persino in questo clima difficile i marchi stanno offrendo più alternative sostenibili, ottenendo una reazione positiva dalla maggior parte dei consumatori a prodotti etichettati come ecologici. Ne è un esempio Natura, che è uno tra un crescente numero di marchi che offrono prodotti ricavati responsabilmente che riducono le emissioni di CO2 e minimizzano i rifiuti.”

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Barcellona,

Fab City

di Rudi Bressa, da Barcellona

Rudi Bressa, giornalista freelance e naturalista, scrive di ambiente, scienza, energie rinnovabili ed economia circolare per varie testate nazionali.

Space10, space10.io

Nel quartiere Poblenou della città catalana si è tenuto uno dei primi esperimenti di Fab City: un nuovo modello urbano pensato per città autosufficienti. Qui il cibo, i materiali, i prodotti non vengono più realizzati a migliaia di chilometri di distanza, ma ideati, progettati e persino coltivati dentro i confini urbani.

C’è una nuova idea di società che si sta diffondendo in molte città, da Parigi a Boston, da Amsterdam a Barcellona. Anzi, si tratta più di un movimento, che affonda le radici nell’idea stessa di economia circolare. Sono le Fab City, veri e propri ecosistemi urbani che stanno sorgendo a immagine e modello dei fabrication laboratory, sparsi oramai in tutto il mondo. I Fab Lab sono luoghi fisici dove spazi, tecnologie, software, strumenti e maestranze vengono condivisi per giungere alla rapida prototipazione di nuovi prodotti, spesso legati alla digitalizzazione e alla sostenibilità. La Fab City nasce proprio in quest’ottica: un nuovo modello urbano pensato per città autosufficienti capaci di produrre localmente ciò di cui necessitano, ma connesse globalmente. Cibo, materiali e processi sono collegati tra loro in un sistema ecologico capace di ridurre drasticamente il bisogno di materie prime e di energia, riutilizzando risorse e materiali locali. È su queste basi che lo studio di design danese Space10, in collaborazione con il Fab City Research Laboratory dello Iaac (Institut d’arquitectura avançada de Catalunya) e Ikea, hanno creato il primo prototipo di Fab City a Barcellona. Un concorso di idee ha visto partecipare architetti, designer Ikea, biologi,

produttori locali e artigiani, in un progetto che è andato oltre al concetto di riciclo e upcycle. L’esperimento Poblenou a Barcellona Poblenou, “villaggio nuovo” in catalano, è un quartiere della città spagnola che negli anni ha subito profonde trasformazioni: da villaggio industriale si è evoluto in quartiere dedicato all’arte, al design e soprattutto all’Ict (Information and communications technology). Ed è qui che Space10 ha partecipato, nel 2016, al Made Again Challenge: un distretto di un chilometro quadrato trasformato in Fab City, dove testare attivamente il modello circolare di economia. Una decina di Fab Lab connessi tra loro hanno aperto letteralmente le porte anche ai cittadini mettendo a disposizione fresatrici, stampanti 3D, macchine per il taglio laser. Qui si è testato un nuovo concetto di produzione, diverso da come l’abbiamo sempre vissuto. Non più materiali e prodotti realizzati a migliaia di chilometri di distanza, inviati e venduti a consumatori passivi, ma un sistema produttivo capace di impiegare risorse locali per esigenze locali. Gli stessi abitanti del quartiere sono stati coinvolti nel progetto. Hanno raccolto spazzatura, plastica, legno, metallo e si son fatti ispirare da


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Produzione circolare (industria avanzata pulita)

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Effetti delle risorse limitate sull’ambiente

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Tresdenou 3D Shop Mercato BCN Transfolab

Orto collettivo Hort Indignant Ristorante Sopa e Mercato bio

Medio Design

Isola ecologica di quartiere Punt Vert

Ristorante Open Source Leka limite di produzione In questa scala iperlocale, la produzione si basa sui bisogni locali. La produzione dipende dalla domanda, non dalle scorte. Il quartiere produce quello di cui ha bisogno.

Orto collettivo Connecthort

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Fab City Research Laboratory, iaac.net/ research-departments/ fab-city-researchlaboratory

Il movimento Fab City Lanciato a Lima nel 2011, alla conferenza internazionale Fab7 dall’Institut d’arquitectura avançada de Catalunya, dal Mit Center for Bits and Atoms, dalla Fab Foundation e dalla municipalità di Barcellona, il movimento Fab City è presto cresciuto in tutto il mondo. L’impegno assunto dalla città di Barcellona è quello di diventare una città autosufficiente almeno per il 50% entro il 2054. Ovvero produrre tutto ciò che la città consuma, fare da sorgente per progetti open source pensati per smart city e riciclare la maggior parte dei materiali. Nel 2014 l’appello viene lanciato a livello globale e l’anno successivo sono almeno 12 le grandi città, tra cui Amsterdam, Parigi e Boston aderiscono al progetto oltre a 2 nazioni (Bhutan e Georgia), facendo così crescere il movimento in tutto il mondo.

tessuti come Ecoalf, prodotto con fibre realizzate a partire dalla plastica raccolta sulle coste spagnole. O dai pannelli realizzati in materiali riciclati da Smile Plastics. O ancora da Piñatex, eco pelle prodotta a partire dalle foglie d’ananas. Ne son nati così oggetti totalmente nuovi, complementi d’arredo originali, certamente sui generis, ma che andavano al di là del puro esercizio di stile o dell’atto di riciclare. Perché l’idea è quella di creare un rete all’interno della città, capace di comunicare, produrre, condividere. E di ridurre. Ridurre i consumi, lo spreco di materiali, i rifiuti e di conseguenza anche le emissioni legate alle attività produttive e industriali. Ma l’esperimento è andato anche oltre: un gruppo di biologi, di esperti di funghi e designer hanno creato un “laboratorio biologico”. Una sorta di compostatore biologico indoor, dove coltivare organismi viventi in grado, da una parte di digerire alcuni materiali organici che finirebbero altrimenti in discarica, dall’altra di fornire materiali da costruzione biobased, a partire dal micelio. L’apparato vegetativo del fungo può essere infatti impiegato per l’isolamento degli edifici al posto delle schiume poliuretaniche. In teoria ogni quartiere potrebbe avere il proprio laboratorio biologico, dove coltivare funghi o alghe. Certo passare da un paradigma a un altro non sarà semplice, neppure potrà accadere nel breve termine. Ma l’idea stessa di una città circolare può dare un forte impulso alla collaborazione e alla creazione di nuove opportunità, che potrebbero riequilibrare l’impatto che la nostra società ha sul pianeta.


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AMSTERDAM, la città circolare

Intervista a Eveline Jonkhoff di Emanuele Bompan

www.freepik.com

Biologa con specializzazioni in Ambiente e Società, tossicologia e legislazione ambientale, Eveline Jonkhoff ha lavorato per la città di Amsterdam nel campo della trasformazione dei rifiuti in energia e in quello dello sviluppo sostenibile come projectleader, consigliera e manager del marketing. Ora è responsabile del programma di Amsterdam sull’economia circolare.

Per la municipalità olandese il settore edilizio e quello alimentare rappresentano due preziose catene di valore. Migliorare le strategie di riuso dei materiali da costruzione potrebbe creare 85 milioni di euro all’anno e ben 150 milioni di euro potrebbero venire da una gestione più efficiente dei rifiuti organici. La città di Amsterdam ha compiuto un importante passo nella transizione per diventare una delle prime città circolari al mondo. L’obiettivo? Minimizzare i rifiuti, innovare il business dei prodotti come servizio, generare nuovi business, incrementare il proprio benessere e le proprie entrate.

soluzioni sostenibili. Chiamato Circle City Scan, il piano è stato implementato da un ufficio dedicato a questo scopo nella municipalità e da Circle Economy, un’impresa sociale organizzata come una cooperativa, il cui scopo è accelerare la transizione alla circolarità attraverso soluzioni pratiche e scalabili.

Commissionato dalla città, il piano partì dalla mappatura e identificazione di aree in cui potessero essere applicati i modelli di business circolare evidenziando al contempo strategie per realizzare l’implementazione pratica di queste

La città di Amsterdam punta a riprogettare venti catene di prodotti o materiali. L’implementazione delle strategie di riuso del materiale ha il potenziale per creare 85 milioni di euro all’anno nel settore delle costruzioni

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Circle City Scan, amsterdamsmartcity. com/projects/circle-scanamsterdam Circle Economy, www.circle-economy.com Eurocities, www.eurocities.eu/ eurocities/home

e di 150 milioni di euro all’anno con flussi più efficienti di scarti organici. Il risparmio di materiale potrebbe ammontare a 900.000 tonnellate all’anno, una quantità rilevante se confrontata all’attuale importazione annuale di 3,9 milioni di tonnellate attualmente utilizzate nella regione. In termini di occupazione? L’aumento dei livelli di produttività può aggiungere i 700 posti di lavoro nel settore edilizio e 1.200 nell’industria agricola e alimentare. Non male per una città di 800.000 abitanti.

“Naturalmente abbiamo dei finanziamenti, ma la nostra filosofia è ‘imparare facendo’, quindi quello che facciamo come governo locale è stimolare l’avvio del mercato con numerosi esperimenti pilota, lavorando contemporaneamente con le università per fare ricerca su questi progetti. Penso che attualmente siano in corso circa 60 progetti. Sono molto orgogliosa di come stanno rispondendo le aziende della città e le istituzioni culturali.”

Abbiamo discusso il piano di implementazione con Eveline Jonkhoff, Presidente della Circular Economy Taskforce per Eurocities e consigliere strategico sull’economia circolare della città di Amsterdam, durante un workshop tenutosi a Helsinki.

In termini di istruzione, quanto è importante informare ed educare i cittadini? “La consapevolezza è tutto, perché l’economia circolare non è qualcosa di esclusivo per i manager aziendali e gli urbanisti. Essa opera ovunque, nelle nostre case, a scuola, al parco. È molto importante insegnare ai bambini cosa si può fare con i rifiuti, con gli scarti, come possono usare e riusare i capi di abbigliamento, o la plastica. Nell’economia circolare i programmi educativi sono fondamentali anche per i cittadini più anziani e i piccoli business.”

Perché la città di Amsterdam ha adottato la strategia di rafforzare l’economia circolare a livello locale? “Da tanto tempo lavoriamo sodo sulla sostenibilità ad Amsterdam, quindi abbiamo una tradizione piuttosto lunga. Sviluppare un politica fondata sull’economia circolare era una cosa naturale da fare e noi abbiamo avuto un’opportunità grazie a uno slancio politico: avevamo un nuovo governo locale ed era stato eletto un nuovo sindaco. L’economia circolare era parte di questa agenda politica: ciò ha contribuito a dare il via all’intero processo.” Quali sono i pilastri di City Circle Scan e cosa sta facendo la municipalità per implementarlo? “Siamo partiti da un’approfondita ricerca su Amsterdam. Abbiamo scoperto che ci sono due settori molto preziosi: la catena di valore del settore edilizio (materiali e costruzioni) e quello alimentare. Riteniamo che questi siano i due pilastri dell’economia circolare sui quali dobbiamo concentrarci. Dopo di che abbiamo avviato collaborazioni con attori privati per esperimenti pilota, stimando nello stesso tempo il valore aggiunto di queste due catene di valore.” Quali strumenti finanziari state utilizzando con i partner privati: fondi, donazioni, premi?

Da un punto di vista normativo le aziende private o altre associazioni richiedono modifiche al regolamento municipale al fine di usare materiali rinnovabili o adottano nuovi tipi di strategie per l’economia circolare, come start-up dedicate alla riparazione, garanzie estese a tutto il ciclo di vita utile ecc.? “Credo, alla fine, che le normative siano molto importanti per l’innovazione, ma vanno ponderate molto bene. Perché se si è frettolosi si rischia di avvantaggiare qualcuno e danneggiare qualcun altro. Un esempio di cui ci hanno parlato è quello dell’imponente mercato di capi di abbigliamento di seconda mano, provenienti principalmente da donazioni della Gran Bretagna, che, sollecitato dalle leggi del governo keniota, ha causato la distruzione dell’industria della moda di questo paese. Quindi è chiaramente positivo che la Gran Bretagna si liberi dell’abbigliamento di seconda mano, ma per l’economia del settore tessile keniota è terribile. Bisogna stare molto attenti con le normative, in termini


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di stimolazione e accelerazione, è molto importante.”

Ad Amsterdam abbiamo un’interessante economia legata alla stampa 3D. Grazie a queste macchine possiamo creare localmente nuovi prodotti con materiali riciclati.

Ci sono normative specifiche o regolamenti prodotti dalla municipalità? “Non abbiamo leggi specifiche sugli edifici circolari, utilizziamo uno standard sui criteri di efficienza energetica. Stiamo attualmente sviluppando insieme al settore privato un nuovo standard per gli edifici circolari. La può definire una normativa, ma è anche uno stimolo. Crediamo che, invece di punire chi non si sta attivando, si debba sostenere chi è sulla strada per la circolarità.” C’è un esempio di partnership molto innovativa in corso nella vostra città? “Collaboriamo con molte start-up e aziende: per esempio nel porto di Amsterdam, la Harbour area, un hub innovativo per la transizione energetica, l’economia circolare e quella biobased creerà occupazione, nuovi prodotti e benefici economici. Attualmente affitta spazi a Orgaworld, un’azienda produttrice di biodiesel, e a due altre aziende che producono bioplastiche: Plantics e Avantium. In futuro, il porto potrebbe addirittura essere interessato a sviluppare progetti propri, come una centrale elettrica a biomassa. L’obiettivo in questo caso è di raccogliere vari materiali organici e restituirli alle industrie chimiche (The Harbour ospita anche Prodock, un centro di sviluppo avviato dal porto di Amsterdam e situato al suo interno che offre una produzione dinamica, spazi per uffici ed eventi in cui i business in crescita e le aziende affermate possano co-creare soluzioni per i porti di domani, nda). Un altro esempio è l’uso di calcestruzzo riciclato nel settore edilizio: ora il nostro standard è del 100% di riutilizzo del calcestruzzo da spazi pubblici. Ultima cosa ma non meno importante: ad Amsterdam abbiamo un’interessante economia legata alla stampa 3D. Grazie a queste macchine possiamo creare localmente nuovi prodotti con materiali riciclati.” In che modo l’economia circolare influenza il settore alimentare?

“Ad Amsterdam abbiamo una fiorente realtà alimentare, molti ristoranti, hotel, ospedali, aziende, supermercati, che insieme producono una grande quantità di avanzi. Quello che facciamo è ridurre lo spreco usando gli avanzi e gli scarti come cibo per nuovi pasti. Abbiamo persino ristoranti che preparano pasti con gli avanzi del supermercato di fianco. Questo è solo un esempio di come vogliamo intervenire su questa catena alimentare.” La municipalità si è data degli obiettivi riguardo all’economia circolare? “Come le ho detto, stiamo lavorando a 60 progetti e produrremo una valutazione alla fine di quest’anno e avvieremo nuove politiche per il nuovo anno, quando avremo un nuovo governo locale. Speriamo di imparare parecchio da questi esperimenti pilota. Poi potremmo dover investire di più in conoscenza o risorse, forse dovremo condurre più esperimenti pilota per avere più dimostrazioni di quello che può succedere, forse dovremo cambiare politiche totalmente o redigere nuove normative, tutto è possibile. Impariamo facendo.” La condivisione è parte dell’economia circolare: che tipo di sharing business è presente ad Amsterdam? “Il car-sharing è molto popolare. E anche la condivisione di attrezzature e strumenti per la riparazione di auto o case.” Qual è il futuro delle città circolari? “Penso che per quanto riguarda Amsterdam e altre città, ci si aspetti un’innovazione dallo sviluppo urbano: quartieri totalmente nuovi funzioneranno adottando una filosofia basata sull’economia circolare. Fognature, materiali da costruzione, gestione dei rifiuti, mobilità, transizione energetica, tutto in un concetto olistico in aree nuove o rigenerate. Non si tratta di una sola casa o azienda o di un singolo progetto, dobbiamo pensare a progetti in cui siano coinvolte 50.000 case, interi quartieri. E dobbiamo creare queste aree in modo che siano circolari.”

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La contaminazione ha il dei blue-jeans

COLORE di Laura Filios foto di Diana Bagnoli, da Tehuacán

Acque inquinate al punto di non poter coltivare frutta e verdura; lavoratori che si ammalano a causa dello stretto contatto con sostanze chimiche. Succede a Tehuacán, in Messico, dove la lavorazione dei blue-jeans continua a mettere a dura prova ambiente e salute.

“Detox my fashion”, www.greenpeace.org/ archive-international/en/ campaigns/detox/fashion

A Tehuacán si contano più di un centinaio di lavanderie industriali, tra legali e clandestine. Da più di trent’anni, la città nello stato di Puebla è un polo dell’industria tessile. E il Messico, in questo settore, è secondo solo alla Cina. Famosa un tempo per la purezza delle acque, oggi la sua notorietà Tehuacán la deve al colore delle stesse. Azzurro. O meglio blue-jeans. “Agua azules”, le chiamano. Ruscelli e canali d’irrigazione a una certa ora del giorno si tingono di blu. È l’ora in cui le lavatrici finiscono il loro ciclo e scaricano i residui del processo di sandblasting (sabbiatura) nei canali di scolo, perché è così che oggi i jeans vanno di moda, “slavati”. A causa delle acque contaminate, ai contadini di

“Campagna Abiti puliti”, www.abitipuliti.org

Immagine in alto: Negozio di jeans a Tehuacán

interi paesi è stato proibito di coltivare le verdure, di tenere un proprio orto. L’unica coltura che si può piantare è il mais. Il rischio è una multa salata, specialmente se poi queste persone, per campare, vanno a vendere i loro prodotti ai mercati cittadini. Alcune, addirittura, hanno confessato di essere state minacciate di finire in carcere. Nonostante nel 2011 Greenpeace abbia lanciato la campagna “Detox my fashion”, per sensibilizzare il mondo della moda sulle tematiche ambientali e, nel 2012, abbia pubblicato il report “Hilos Toxicos”, proprio sulla contaminazione dei fiumi da parte delle industrie tessili in Messico, a Tehuacán in questi anni nulla è cambiato. Le lavanderie, collegate ai grandi marchi, Levi’s in primis, continuano a scaricare


In Depth

le acque residue della lavorazione nei canali e ancora non è stato costruito un depuratore. Oltre all’ambiente, a soffrire sono anche le operaie e gli operai. Prima di essere lavati, i pantaloni vengono, infatti, trattati con agenti chimici. Lucia Ortega Rodriguéz, che lavora da 35 anni per un’impresa che vanta anche un certificato di “responsabilità sociale”, è malata. Nel 2015 le hanno diagnosticato la pneumopatia interstiziale, malattia polmonare cronica. Per questo l’impresa dovrebbe dotarla di mascherina apposita, “ma – rivela – le norme di sicurezza vengono applicate solo quei due o tre giorni all’anno in cui ci sono i controlli, per tutto il resto del tempo lavoriamo senza mascherina e senza guanti”.

Lo scorso 9 gennaio, 70.000 persone hanno chiesto, tra gli altri, ad Armani e Primark di rendere trasparente il proprio processo di produzione. La loro voce si è fatta sentire grazie alla “Clean Clothes Campaing” (in Italia “Campagna Abiti puliti”), la più grande alleanza di sindacati e organizzazioni non governative che mira al miglioramento delle condizioni lavorative nel settore dell’abbigliamento. Tra le varie campagne lanciate dall’associazione, c’è proprio anche quella contro la sabbiatura dei jeans, che però sembra essere rimasta ferma al 2013, mentre la qualità della vita delle persone coinvolte continua ad esserne inficiata, proprio come sta succedendo a Tehuacán.

Immagine in alto: Scarico d’acqua di una delle lavanderie di San Lorenzo Teotipilco nello stato di Puebla, Messico

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materiarinnovabile 20. 2018 Laura Filios, giornalista e videoreporter. Emiliana di origine, emigrata prima a Milano poi a Napoli. Laureata in filosofia e studi arabo-islamici, ha vissuto per alcuni anni in Medio Oriente. I suoi interessi ruotano attorno a diritti umani, mondo arabo, immigrazione e terzo settore. Diana Bagnoli, fotografa freelance, nata a Torino ha studiato a Barcellona. Si occupa di ritratti e reportage per magazine internazionali. Nel 2017 ha vinto il Grand-prize Rangefinder’s Contest, Feature Shoot Emerging Photography Award e un PDN award.

Sopra: Pila di jeans in una delle imprese a Tehuacán Immagine in alto: Dettaglio della terra adiacente alla lavanderia Lavasport, una delle grandi imprese che confezionano jeans per conto di terzi e forniscono alcuni grandi marchi

A destra: Lavatrice di jeans in una delle maggiori lavanderie di San Lorenzo Teotipilco, stato di Puebla, Messico


In Depth In basso, prima immagine: Figlia di contadini a San Diego Chalma prova a catturare un tacchino nel suo cortile dopo scuola. Gli animali sono diventati la loro unica forma di sostentamento perchè le coltivazioni sono considerate tossiche

In basso, seconda immagine: Canale di scolo in San Diego Chalma, stato di Puebla. A una certa ora del giorno il fiume diventa una schiuma bianca e poi blu. È l’ora in cui le lavatrici finiscono il loro ciclo e scaricano i residui, senza filtri, nelle acque del fiume Valsequillo

A destra: Un contadino posa nei suoi terreni coltivati di mais che vengono attraversati e irrigati da un fiume contaminato di colore blu. San Diego Chalma, stato di Puebla

A sinistra: Una delle imprese clandestine di jeans a Tehuacán

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materiarinnovabile 20. 2018 A sinistra: Martin Barrios, attivista ambientale, guarda il canale di scolo blu chimico della lavanderia Lavasport, una delle grandi imprese che contaminano le acque di Tehuacán e dintorni

A destra: Fiume blu a San Diego Chalma, il paese più compromesso che conta oltre 3.000 abitanti

Sopra: Martin Barrios, riflesso nelle acque blu che sgorgano dai confini della lavanderia Lavasport Pagina a destra, in alto: Lucia lavora da 35 anni per una grande impresa di jeans a Tehuacán. Da due anni ha problemi respiratori e le hanno diagnosticato una malattia cronica ai polmoni

A sinistra: Mani tinte di blu di una lavoratrice dopo il suo turno di lavoro


In Depth

Sopra: A San Lorenzo Teotipilco, paese confinante con Tehuacán, si concentra il maggior numero di lavanderie industriali

A destra: Dettaglio della terra adiacente alla lavanderia Lavasport

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In Depth

infografica di Michela Lazzaroni, testi di Antonella Ilaria Totaro

L’aspettativa di vita (delle cose) Il grafico mostra l’aspettativa di vita degli oggetti da parte dei consumatori del Regno Unito (Cox, et al., 2013). Se scaldabagni e mobili, insieme a frigoriferi e televisori, sono acquistati pensando a un uso prolungato che varia dai 7 agli oltre 10 anni, spazzolini elettrici, vestiti e cellulari non superano nelle aspettative i due anni di vita. Mentre i primi sono scartati solo se rotti, i secondi – insieme a computer e riproduttori musicali – con un’aspettativa di vita che si aggira sui 3-4 anni, vengono spesso sostituiti prima della loro rottura per fare spazio a tecnologie più recenti. A metà tra i due estremi utensili elettrici, aspirapolvere e lavatrici, da cui ci si aspetta una durata di 5-6 anni.

0-2 ANNI

Spazzolino da denti elettrico Vestiario Telefono cellulare Scarpe

3-4 ANNI

Riproduttore di Mp3 Bollitore elettrico Abito Cuscino Tostapane Computer

5-6 ANNI

Macchina fotografica Lampada Aspirapolvere Lavatrice Forno a microonde Tende Telefono fisso Utensili elettrici

7-10 ANNI

Televisore Fornello Frigorifero/Congelatore Tappeto Sofà Letto

10+ ANNI

Scaldabagno Mobili componibili da cucina Guardaroba

Fonte dei dati: The Long View, UN Environment, 2017.


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Un caso da manuale

Dalla carta ai biomateriali. La storia esemplare di una azienda svedese-finlandese che ha puntato su innovazione e sostenibilità per svilupparsi e crescere.

di Sergio Ferraris

Analizzare processi industriali interni e trovare le chiavi per renderli sostenibili. È questa una delle sfide più interessanti dell’economia circolare e anche una delle più difficili perché la sostenibilità se non salvaguarda la catena del valore delle imprese ha poche possibilità di svilupparsi. Figuriamoci, poi, quando la sostenibilità ambisce ad aumentarla la catena del valore, sviluppando così nuovi mercati. Sembra il libro dei sogni e invece è una sfida che si è data una delle più grandi e antiche aziende del settore del legno, Stora Enso, gruppo svedesefinlandese che nel 2016 ha fatturato 9,8 miliardi di euro, con 25 mila dipendenti in 35 paesi e che ha deciso di trasformarsi in un’azienda che utilizza materie prime rinnovabili di seconda generazione. Ossia non in competizione con l’agricoltura destinata all’alimentazione umana. “Il nostro business è e rimane nelle foreste” ci dice Andreas Birmoser, vicepresidente, per il business e le strategie del settore biomateriali di Stora

Enso. “Siamo convinti che già oggi sia possibile fare con gli alberi tutto ciò che facciamo con il petrolio.” Dal 2012 l’azienda ha creato la divisione dei biomateriali innovativi e da allora ha intrapreso un percorso per “cambiare pelle”. “Oltre due terzi della nostra attività undici anni fa erano legati alla carta” prosegue Birmoser, illustrandoci presso il laboratorio di ricerca sui biomateriali di Stoccolma, la nuova strategia industriale. “Oggi poco meno di un terzo. E i biomateriali innovativi ora rappresentano il 14% della nostra attività.” L’approccio dell’azienda ai biomateriali ruota attorno a una delle questioni centrali della sua produzione: utilizzare meglio gli scarti. Il processo di estrazione della polpa di cellulosa, infatti, utilizza meno del 50% degli alberi, con un 35-45% di cellulosa, che provengono al 100% da filiere tracciate e certificati, mentre il restante 50% è rappresentato da un 20-30% di lignina e un 25-35% di emicellulosa, sostanze il cui destino è solitamente l’incenerimento a scopi energetici.

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“Siamo convinti che già oggi sia possibile fare con gli alberi tutto ciò che facciamo con il petrolio.”

Stora Enso, www.storaenso.com

E qui entra in gioco l’innovazione tecnologica che serve a Stora Enso per migliorare l’estrazione della lignina, dell’emicellulosa e degli zuccheri affinché possano essere utilizzati come base per nuovi materiali. Un caso quasi da manuale di upcycling, nel quale un rifiuto diventa una risorsa, nello specifico addirittura di una nuova filiera, creando valore sia per l’azienda sia per l’ambiente. Per l’azienda il valore arriva dall’utilizzo dei biomateriali ex di scarto come materia prima, cosa che consente un recupero economico legato al mancato acquisto di materia prima dall’esterno e dallo sviluppo di nuovi mercati; mentre sul fronte ambientale si sviluppano filiere su materiali innovativi caratterizzate dalla neutralità d’emissioni climalteranti.

L’idea di fondo è puntare a realizzare una bioraffineria che abbia le stesse funzionalità delle raffinerie di petrolio e che sia vicina al luogo di “estrazione” delle risorse: le biomasse. E non è un concetto inedito visto che negli ultimi decenni nel settore del fossile è successo esattamente questo. Le raffinerie che si occupano della chimica di base fossile, infatti, si sono spostate nei pressi dei giacimenti perché i paesi produttori di petrolio hanno capito che è molto più conveniente vendere gli intermedi rispetto al petrolio grezzo. Ma si può fare di più. Oggi con lo sviluppo e l’innovazione tecnologica dei processi di filiera è possibile usare le infrastrutture esistenti, modificandole, per le nuove produzioni, anche e soprattutto basate sui biomateriali. “Siamo attenti alla tecnologia”


World prosegue Birmoser. “E siamo convinti che l’inserimento delle nuove filiere nelle strutture esistenti sia anche un elemento per abbassare il rischio degli investimenti.” E un esempio di ciò è l’impianto di Sunila in Finlandia dove Stora Enso produce 50.000 tonnellate di lignina all’anno dal 2015, attraverso il processo kraft, utilizzato normalmente per la conversione del legno in polpa di legno. Con questa innovazione di filiera Stora Enso è diventata il più grande produttore di lignina al mondo e ha lanciato, di recente, un nuovo prodotto, chiamato Lineo. Oltre a essere molto versatile sul fronte industriale del prodotto in questione si stanno studiando altre applicazioni che vadano oltre a quella originale, ossia la sostituzione del fenolo di origine fossile. Per raggiungere questo risultato Stora Enso ha messo in piedi una serie di progetti pilota cominciati con l’acquisizione di una startup statunitense nel 2014 e con una serie di test nei propri stabilimenti, ma fondamentale è stato lo sviluppo della ricerca interna all’azienda. Da poco tempo, infatti, l’impresa ha completato la realizzazione di un centro di ricerca a Stoccolma dedicato ai biomateriali: 4.900 metri quadrati dei quali 1.600 sono di laboratori dove lavorano oltre 70 ricercatori, che sono quasi il 50% degli addetti alla ricerca e sviluppo di Stora Enso, a livello mondiale. Una delle linee di prodotto che sia sta studiando ora, per esempio, è quella relativa alle possibili metodologie di fabbricazione per la fibra di carbonio partendo alla combinazione tra la lignina e la cellulosa. Smentendo così la falsa credenza, ancora molto diffusa, secondo cui dai biomateriali non è possibile ottenere prodotti d’alto livello qualitativo, vista la loro origine organica. E proprio la lignina potrebbe essere una materia pervasiva all’interno di diverse filiere visto che è un sostituto rinnovabile per i materiali fenolici a base di petrolio che vengono utilizzati nelle resine per il compensato, per i pannelli a scaglie orientati (OSB), il legno laminato multistrato (LVL), la laminazione di carta e il materiale isolante. La lignina – rispetto al fenolo – oltre ad avere un impatto ambientale molto minore è più facile da lavorare e da conservare, visto che è essiccata. Ma possiede anche un’altra caratteristica che è stata sottolineata, durante l’annuncio del nuovo prodotto, da Markus Mannström, vicepresidente esecutivo della divisione per i biomateriali di Stora Enso: la stabilità del prezzo. I biomateriali infatti non risentono delle crisi geopolitiche che affliggono il mondo dell’energia fossile da oltre mezzo secolo e la loro stabilità di quotazione nel tempo consente una programmazione industriale più accurata ed efficace. Tutte caratteristiche, queste, che la rendono più economica del fenolo, a parità di prestazioni.

Un caso quasi da manuale di upcycling, nel quale un rifiuto diventa una risorsa.

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Effetto Lazzaro:

la seconda vita dei vestiti

Intervista a Mihela Hladin Wolfe di Emanuele Bompan, da Denver

Mihela Hladin Wolf è responsabile delle iniziative e dei progetti sostenibili di Patagonia dal 2015: gestisce inoltre il programma di sovvenzioni ambientali dell’azienda in Europa e si occupa dei progetti di riduzione dell’impronta ambientale. In precedenza Mihela ha fondato Greennovate – una società di consulenza e senza fini di lucro con un focus sulle iniziative di educazione ambientale nelle scuole e nelle università cinesi.

Imparare a riparare i propri vestiti, permutarli con qualcosa di diverso, riciclarli a fine vita: la filosofia del progetto Worn Wear del brand californiano Patagonia è un esempio concreto di circolarità. Che insegna anche a essere responsabili di ciò che compriamo. Molti parlano del prolungamento della vita dei prodotti come pilastro dell’economia circolare, ma pochi passano poi dalle parole ai fatti. Le cose stanno diversamente per Patagonia, la famosa marca di moda outdoor di Ventura, in California. Patagonia ha infatti investito massicciamente nella riparazione e nell’upgrading dei propri prodotti grazie al progetto Worn Wear Project, che spazia


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dalla realizzazione di guide sulla cura e riparazione dei prodotti, al cosiddetto trade-in for repair. Ossia compra, usa, restituisci e ottieni un credito per comprare poi un altro indumento usato. Questa la filosofia di Patagonia alla base di Worn Wear. Il progetto utilizza il fondo di investimento $20 Million&Change per sostenere nuovi modelli commerciali che si propongono di estendere la durata degli oggetti che possediamo. Per esempio attraverso la società di recommerce Yerdle di cui è partner, Patagonia aiuta le persone a sbarazzarsi delle cose che non usano più, offrendo loro qualcosa di utile in cambio. Oppure vende propri capi usati nel negozio di Portland attraverso un innovativo programma di permuta. Patagonia ha anche organizzato l’iniziativa 50-Stops, un tour in 50 tappe in cinque paesi europei con l’obiettivo di incoraggiare le persone a far durare i vestiti una vita intera, indipendentemente dalla marca. Durante ciascuna tappa del tour il team di Patagonia offre riparazione gratis di cerniere, strappi, parti usurate, bottoni e danni vari, anche insegnando come riparare il proprio abbigliamento da sci. Ma visto che nulla dura in eterno, Patagonia mette a disposizione sistemi semplici per riciclare i propri prodotti (che sono produzione propria al 100%), quando i pantaloni o le felpe arrivano al termine della propria esistenza utile e non possono più essere riparati.

Worn Wear Project, wornwear.patagonia.com

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materiarinnovabile 20. 2018 Per comprendere meglio come funziona l’iniziativa Worn Wear ne abbiamo parlato con Mihela Hladin Wolfe, direttrice del programma di iniziative socioambientali di Patagonia. Qual è la ragione che ha spinto Patagonia a lanciare l’iniziativa e il tour Worn Wear? “Nell’insieme le azioni che costituiscono Worn Wear – ossia investire in prodotti di qualità, ripararli e riutilizzarli – danno vita a un programma ambientale che aiuta a ridurre l’impronta ecologica dei prodotti di Patagonia e al tempo stesso incoraggia i consumatori a cambiare la propria relazione con gli oggetti. Questo è importante, perché non c’è niente che possiamo cambiare nella produzione dei capi di abbigliamento che possa avere un impatto positivo quanto semplicemente il produrne di meno. Una ricerca del Waste and Resources Action Programme (WRAP) mostra, infatti, che un utilizzo extra di un capo di soli 9 mesi permette di risparmiare dal 20 al 30% di carbonio, acqua e rifiuti. Detto in parole povere, Worn Wear aiuta le persone a sfruttare di più i prodotti di Patagonia facendoli durare più a lungo grazie alle riparazioni, oppure passandoli a un nuovo proprietario.”

Voi sostenete che Repair sia un’azione radicale. In che modo ciò rende Patagonia differente dalle altre marche di abbigliamento outdoor? “Viviamo in una cultura in cui possiamo facilmente sostituire la maggior parte delle cose che compriamo. Abitualmente aggiustiamo le cose più costose – come le auto o le lavatrici – ma spesso è più facile e conveniente comprare nuovi oggetti. Ci sono anche altri motivi che ci spingono a non riparare le cose, tra cui l’avvertimento che se ripariamo da soli un prodotto la sua garanzia non sarà più valida, oppure la mancanza di informazioni e di parti necessarie a riparare le cose autonomamente. Noi di Patagonia invitiamo e aiutiamo le persone a essere responsabili dei propri acquisti, attraverso l’appropriata pulizia, la riparazione, il riutilizzo e la condivisione.” Come riuscite a rendere redditizia la riparazione di vecchi vestiti danneggiati? “Organizziamo in tutto il mondo i tour Worn Wear nei quali ripariamo non solo i capi di Patagonia, ma anche di altre marche. Lo facciamo per incoraggiare le persone a utilizzare i propri abiti

Un utilizzo extra di un capo di soli 9 mesi permette di risparmiare dal 20 al 30% di carbonio, acqua e rifiuti.


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più a lungo e ripararli quando necessario, invece di buttarli via. Negli Stati Uniti abbiamo fatto un passo in più e abbiamo un negozio online che vende i vestiti usati di Patagonia. Accettiamo capi perfettamente funzionanti e in buone condizioni. I clienti possono portare i loro abiti usati in uno dei nostri negozi, e noi diamo loro un credito merce – Worn Wear Merchandise Credit – di un importo pari al 50% della cifra alla quale noi li venderemo. Puliamo tutti i capi prima di rivenderli, di solito con una tecnologia con CO2 che non utilizza acqua. Accettiamo la maggior parte dei capi di Patagonia, per uomo, donna, bambino e neonato, sia sportivi sia tecnici. E anche zaini e altre borse da viaggio.” In che modo coinvolgete i clienti nella restituzione degli abiti vecchi? “Li abbiamo coinvolti nelle nostre iniziative di restituzione fin dall’inizio. Tutti i nostri articoli sono coperti dalla garanzia Ironclad Guarantee: ovvero se il cliente non è soddisfatto di uno dei nostri prodotti quando lo riceve – o se non è soddisfatto dalla sua performance – può riportarlo al negozio dove lo ha comprato o mandarlo a Patagonia, per farlo riparare, sostituire o per farsi rimborsare. Ripariamo a prezzi ragionevoli anche i danni causati dall’usura o in maniera accidentale. Quindi per noi non si tratta di una novità. Il passo successivo l’abbiamo fatto quando abbiamo

intrapreso la Common Threads Initiative, per incoraggiare i clienti a restituire i vestiti ai nostri negozi affinché potessero essere riparati e riciclati; questa iniziativa si è evoluta in Worn Wear, dove continuiamo a chiedere ai clienti di non comprare quello di cui non hanno bisogno e di riparare quello che hanno, offrendo loro gli strumenti necessari online e offline. I prodotti Worn Wear sono articoli di Patagonia che provengono soprattutto da armadi e garage. Alcuni sono già usati, mentre altri erano fermi a impolverarsi nel nostro centro di distribuzione. Sono tutti in buone condizioni, anche se possono avere qualche piccolo difetto estetico.” Perché insegnate ai clienti ad aggiustarsi i vestiti da soli? “Noi, naturalmente, vogliamo che i clienti possano sfruttare al massimo la propria attrezzatura. Se ci pensate, riparare è un’abilità che non abbiamo più, quindi dobbiamo re-impararla. Offriamo guide in lingue diverse per insegnare alle persone a riparare le proprie cose a livello locale, così non occorre che tutto sia spedito nei nostri centri per essere aggiustato.” Come pensate di incrementare questo programma? “Abbiamo appena lanciato il sito WornWear.com e stiamo studiando i prossimi passi da compiere a livello internazionale.”

Vogliamo che i clienti possano sfruttare al massimo la propria attrezzatura. Se ci pensate, riparare è un’abilità che non abbiamo più, quindi dobbiamo re-impararla.

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Occorre cambiare

OTTICA

www.publicdomainpictures.net

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In Europa la mancata raccolta di rifiuti plastici rappresenta una perdita economica che può arrivare fino a 105 miliardi di euro l’anno. Grazie alle nuove tecnologie a sensori ottici in grado di riconoscere tutti i polimeri, aziende come la norvegese Tomra Sorting Recycling stanno cambiando il modo di riciclare la plastica, aumentandone il valore. Puntando a riciclarla tutta. di Rudi Bressa

“Tutta la plastica da imballaggio dovrà essere riciclabile entro il 2030.” È questo l’appello lanciato da Bruxelles nei primi giorni dell’anno. Una strategia che mira a ridurre drasticamente i rifiuti di plastica e allo stesso tempo generare un nuovo mercato capace di mantenere l’industria competitiva e di accompagnarla nella transizione verso un’economia circolare. Lo scorso anno in Europa sono state prodotte 25 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica. Di queste solo il 30% viene raccolto e avviato al riciclo. Il resto? Diventa rifiuto, finisce in discarica o peggio in mare, entrando nella catena alimentare di molte specie, compresa la nostra. Ma non si tratta solo di una questione puramente ambientale, seppur di estrema importanza a causa dell’impatto prodotto dalla plastica sugli ecosistemi. Quel materiale che oggi non riusciamo ancora ad intercettare rappresenta anche una perdita economica: secondo le stime fornite dalla Commissione europea, solo il 5% del valore del materiale da imballaggio rimane nel ciclo economico, il che significa perdite che oscillano tra i 70 e 105 miliardi di euro. Ma per ridurre quel conto

salatissimo, il riciclo dovrà diventare redditizio per le imprese e coinvolgere tutta la filiera, dai produttori di materia prima, ai progettisti, fino ai riciclatori. La domanda di plastica riciclata dovrà essere implementata, se non incentivata, rendendo la materia prima-seconda competitiva sul mercato. Economicamente e qualitativamente. Aumentando certo la quota di plastica riciclata, ma migliorando e potenziando gli impianti di riciclo grazie a innovazione e tecnologia. Rifiuti diversi, stessa ottica È questo il settore in cui opera Tomra Sorting Recycling, azienda di Asker, Norvegia, che progetta e realizza tecnologie per la selezione e il controllo di processo per le industrie del riciclo della plastica. Presente oggi in 50 Paesi nel mondo con oltre 4.900 sistemi installati, il gruppo realizza macchinari a sensori in grado di recuperare le diverse frazioni dal flusso dei rifiuti, migliorandone la purezza e di conseguenza la resa del processo di selezione. Responsabile dello sviluppo del primo sensore a infrarossi al mondo per applicazioni nel settore dei rifiuti, l’azienda norvegese è oggi un punto di riferimento nell’ambito del riciclo della plastica.


World Come avviene alla Montello Spa, in provincia di Bergamo, uno dei più grandi centri di selezione e smistamento di rifiuti in Italia. Qui operano 40 macchine selezionatrici Autosort di Tomra Sorting, dotate di sensori NIR (Near-infrared) e VIS (sensori di visibilità). I primi operano nello spettro “vicino all’infrarosso” e sono in grado di riconoscere i materiali in base alla riflessione della luce, i secondi invece riconoscono tutti i colori dello spettro visibile: la plastica viene così suddivisa in base al polimero e al colore, alla velocità di 3 m/s. Dal ciclo di selezione ne esce la materia prima-seconda, suddivisa in scaglie in Pet, in granuli Hdpe e Ldpee in granuli composti da poliolefinici misti, provenienti da sacchetti e imballaggi filmosi. Tradotto in numeri parliamo di 150.000 tonnellate di imballaggi in plastica post-consumo recuperate e riciclate ogni anno.

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È proprio l’evoluzione tecnologica a trainare il settore del riciclo. Lo dimostra il caso dell’isola di Maiorca, che deve, nel corso dell’anno, gestire flussi molto variabili di rifiuti. Durante la stagione estiva, infatti, cambiano considerevolmente in qualità e quantità. Tirme, il Parco di Tecnologie ambientali dell’isola, responsabile del trattamento dei rifiuti solidi urbani, ha così deciso di investire in quattro nuove macchine Autosort, capaci di selezionare le bottiglie in Pet, i contenitori di succhi e latte e i sacchetti di plastica. Macchine più versatili rispetto alle precedenti, capaci di essere configurate a seconda delle necessità e della diversità dei materiali in entrata nello stabilimento. Una scelta che ha portato a una selezione più efficiente certo e ha potuto aumentare notevolmente le tonnellate di rifiuti raccolti e avviati al riciclo.

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1 Alimentazione del materiale non selezionato 2 NIR 3 Laser 4 Sensore elettromagnetico (su richiesta) 5 Camera di separazione

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materiarinnovabile 20. 2018 Intervista

di R. B.

“Il segreto? Investire in Ricerca e Sviluppo” Fabrizio Radice, Global Sales & Marketing Director di Tomra Sorting Recycling

Negli anni quantità e qualità del riciclo hanno fatto enormi passi avanti. E le vostre innovazioni hanno dato un contributo decisivo. Come è avvenuto questo processo? “Negli ultimi 50 anni Tomra ha sviluppato nuovi sensori e tecnologie che hanno cambiato il modo in cui gestiamo i rifiuti. La ‘rivoluzione delle risorse’ consiste nel trasformare il modo in cui otteniamo, usiamo e riutilizziamo le materie prime per raggiungere una crescita economica sostenibile e una migliore qualità della vita per tutti. Per fare questo, Tomra investe ogni anno dall’8 al 10% delle sue entrate in Ricerca e Sviluppo per aiutare tutti i nostri clienti, i partner e gli integratori di sistema a raggiungere le loro promesse nello smistamento della plastica in modo migliore ed efficiente. Con i nuovi sensori siamo in grado di riconoscere tutti i tipi di polimeri.”

Tomra, www.tomra.com/it-it

Come si è evoluta nel tempo la tecnologia e quali sono le sfide future da superare? “Il mondo intero, guidato dalla Comunità europea e dal Nord America, vorrebbe riciclare e ridurre gli scarti non differenziati di più rispetto al passato, l’economia del riciclaggio si sta muovendo molto più rapidamente di prima. Il vantaggio di Tomra è che è il nostro team R&S ad aver sviluppato la tecnologia di sensori. Inoltre sviluppiamo i software e la gestione dei dati, i sensori

e abbiamo più di 80 brevetti registrati applicati alle nostre macchine già lanciate sul mercato. Il 20% dei nostri dipendenti lavorano in R&S e intensificheremo la collaborazione con i centri universitari, incrementeremo il rapporto con i nostri clienti e con gli integratori, per fornire feedback sulle loro esigenze e aumentare la collaborazione, progettando nuovi prodotti.” Siete presenti in molti Paesi su scala globale. Quali sono le nazioni e le comunità più preparate nella gestione e nel riciclo dei rifiuti? Quali invece hanno ancora strada da fare? “Le nazioni europee sono le più mature e preparate nel riciclo, guidate dall’atteggiamento rispettoso dell’ambiente e dagli obiettivi dell’Unione europea. Nei Paesi meno maturi dell’Europa orientale, sono i fondi europei a migliorare le politiche, mentre nei mercati emergenti come Mea (Medio Oriente e Africa), Sud America e Sud Est Asia cerchiamo di guidarli attraverso un approccio consultivo e di insegnare alle comunità attraverso studi di fattibilità l’importanza di un nuovo mondo etico guidato da un’economia circolare e spiegare in maniera decisa l’importanza di preservare il nostro pianeta. Un pianeta con una migliore gestione dei rifiuti e dove la plastica sia riciclata, è un pianeta migliore per i nostri figli e per tutti.”


La discarica, modello di economia

PARTECIPATA

Un caso forse unico quello di Belvedere Spa, società pubblico privata che si occupa della gestione dei rifiuti e del loro smaltimento nel Comune di Peccioli, in provincia di Pisa. Ricavandone biogas con cui produce energia elettrica e termica. E tra i suoi azionisti ci sono anche i cittadini. di Rudi Bressa

È una storia che inizia nel secolo scorso, quella di Belvedere Spa. Fondata nel 1997, da vent’anni gestisce l’impianto di smaltimento dei rifiuti del Comune di Peccioli, in provincia di Pisa. Una discarica sui generis, che da un lato raccoglie i rifiuti provenienti dalle province di Pisa, Firenze, Prato e Massa Carrara, dall’altro crea valore economico con ricadute positive su tutto il territorio. La prima discarica viene aperta nel 1978 e ampliata per la prima volta nel 1988. Nel 1997, dopo il risanamento e la messa a norma del sito,

si vengono a creare le condizioni per la nascita della Belvedere Spa. Oggi questa società gestisce l’intero sito, in località Legoli, dove sono conferiti i rifiuti non pericolosi, un impianto di trattamento meccanico biologico (Tmb) e alcuni servizi legati all’igiene ambientale, come la raccolta dei rifiuti ingombranti o lo spazzamento delle aree pubbliche scoperte. L’impianto di smaltimento interessa un’area di 25 ettari, caratterizzata da terreno argilloso. Tra i gradoni alti 10 metri, si cela un volume di


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materiarinnovabile 20. 2018 stoccaggio di 3 milioni di metri cubi, il che significa poter ricevere circa 4 milioni di tonnellate di rifiuti. Attualmente sono gestite fino a 1.000 tonnellate al giorno, circa 300.000 l’anno. L’impianto, individuato dalla Regione Toscana come “di interesse regionale”, ha una vita utile che varia dai 10 ai 20 anni; secondo il piano regionale di razionalizzazione delle discariche rimarrà uno dei 3 siti operativi rispetto ai 20 attuali.

Belvedere Spa, belvedere.peccioli.net

Energia elettrica dal biogas fin dagli anni ’90 Il biogas naturalmente prodotto dai rifiuti viene intercettato attraverso una fitta rete di tubazioni microfessurate e da pozzi di aspirazione distribuiti su tutta l’area. Il gas, composto per almeno la metà da metano, viene poi inviato in un impianto di cogenerazione per la produzione di elettricità e di calore: 13.000 MW di energia elettrica disponibili. Un ciclo energetico chiuso: il gas del percolato alimenta l’intera discarica. Oggi il sito è l’ultimo anello del ciclo di gestione degli Rsu: qui arriva la frazione non differenziabile. Secondo l’Ispra (Rapporto Rifiuti 2017) la raccolta differenziata in Toscana si attesa al 51,5%, con un incremento di 5 punti percentuali rispetto all’anno precedente, a fronte di un aumento nella produzione di rifiuti dell’1,4% (616 kg procapite), mentre la Regione stessa viene citata come esempio virtuoso per le quantità di rifiuti organici gestite attraverso il compostaggio domestico, cresciute nel 2016 del 4% rispetto al 2015. Per migliorare la qualità del rifiuto conferito, riducendo lo smaltimento in discarica della frazione biodegradabile (direttiva 99/31/CE), nel 2015 Belvedere ha realizzato un impianto di trattamento meccanico biologico. Qui gli Rsu conferiti subiscono una selezione meccanica, tramite trituramento del materiale che viene poi vagliato in base alla pezzatura e suddiviso in

La timeline delle iniziative 2007: Il pianista Charles Rosen festeggia i 10 anni della società suonando un’opera di Chopin nell’aria di ampliamento della discarica. 2008: Organizzazione di un convegno sul corretto utilizzo delle risorse del pianeta, con la partecipazione del teologo brasiliano Leonardo Boff. 2010: Sfilata “Fashion Tour 2010”. 2011: Simone Stefanelli, fotografo professionista, realizza un reportage fotografico confondendosi tra i dipendenti. 2011: Lectio magistralis tenuta da Dale Mortensen (premio Nobel 2010 per l’economia) dal titolo “Cosa può fare la politica per incrementare l’occupazione”. 2016: Sergio Staino, insieme al figlio Michele, realizza presso l’impianto di trattamento meccanico e biologico il grande affresco “All’altezza delle margherite”.

sopravaglio e sottovaglio. Il passaggio successivo è quello di recuperare i materiali metallici ferrosi ancora presenti e avviarli a recupero, mentre il sottovaglio viene stabilizzato aerobicamente, subendo in un arco di tempo che va dalle tre alle quattro settimane un naturale processo di fermentazione che lo porta a essere igienizzato e pronto per il conferimento finale in discarica. Le ricadute economiche sul territorio Ma ciò che fa di Belvedere Spa il cosiddetto “modello Peccioli”, è il sistema societario, che la vede nascere come una public company comunitaria. È infatti composta da un azionariato diffuso (la compagine sociale è composta da 900 cittadini, di cui 500 residenti a Peccioli), che gestisce circa il 36% del capitale sociale partecipando attivamente alla conduzione dell’azienda, oltre chiaramente all’attribuzione degli utili. Il restante 64% è, invece, detenuto dal Comune. In un territorio di 5.000 abitanti ciò significa una riduzione delle tariffe, delle tasse e un miglioramento dei servizi offerti alla comunità, ottenuto lasciando le risorse economiche all’interno del territorio. Belvedere Spa – che ha un valore stimato in 60 milioni di euro, con un patrimonio netto di 40 milioni di euro – solo nel 2016 ha prodotto un impatto diretto sul territorio che ammonta a 20,2 milioni di euro, pari al 60% del volume d’affari generato durante l’anno. Di questi 13,7 milioni sono andati alla casse del Comune, 3,6 milioni alle imprese sparse sul territorio e 2,8 milioni ai cittadini, tra dividendi, interessi sulle obbligazioni e stipendi dei dipendenti. Nell’arco temporale che va dal 2004 al 2016, l’impatto diretto di Belvedere è stato di 174,7 milioni di euro. La società negli anni si è configurata dunque come uno strumento di valorizzazione locale, con ricadute tangibili su tutto il tessuto sociale. In questo modo il Valore Aggiunto Globale Lordo, indicatore economico che integra le ricadute prodotte dalla gestione di Belvedere, ovvero la generazione di ricchezza diretta, ammonta a 15,4 milioni di euro nel 2016. Cifre importanti, che hanno contribuito alla realizzazione di opere infrastrutturali come l’asilo nido, la scuola, il parcheggio multipiano, alcuni musei e gli impianti sportivi. Senza contare i numerosissimi eventi culturali organizzati negli anni sul territorio, alcuni dei quali estremamente originali, perché ospitati proprio nello stesso sito di smaltimento. In 20 anni il Comune di Peccioli e Belvedere Spa sono riusciti a creare un perfetto esempio di economia partecipata, dove il “problema” rifiuti è stato trasformato in opportunità. Nato certamente da una volontà politica, ma cresciuto grazie anche a lungimiranza e una visione d’insieme che ha messo la comunità ai primi posti. La società è stata capace di creare valore sul territorio e creare quel benessere condiviso che rende il “modello Peccioli” un modello replicabile in molte realtà nazionali e non solo.


World Intervista

di R. B.

“Ecco perché Belvedere è un modello che funziona” Renzo Macelloni, sindaco di Peccioli

Il sindaco Renzo Macelloni, già presidente di Belvedere Spa, è una delle menti dietro la realizzazione del “modello Peccioli”. Qui spiega come si è arrivati a questo traguardo. La storia di Belvedere Spa inizia anni or sono. Come è evoluto il concetto di discarica nel tempo e quali sono state le sfide più complesse da risolvere? “Il concetto di discarica è cambiato radicalmente negli anni. Quando abbiamo iniziato nella discarica veniva smaltito il rifiuto tal quale, oggi – invece – è conferito il rifiuto trattato e tutti i rifiuti speciali di provenienza da trattamento di rifiuti solidi urbani. Quindi vi arriva un prodotto più selezionato e meglio trattato; di conseguenza anche la gestione diventa più facile. Le sfide più importanti che abbiamo dovuto affrontare sono state senza dubbio il rapporto con i cittadini e l’attenzione alla gestione ambientale dell’impianto.” Dietro il successo di Belvedere c’è una precisa idea politica. Quella secondo cui anche i cittadini sono parte attiva nelle decisioni e nella gestione di un tema così importante come lo smaltimento dei rifiuti. Qual è il segreto di questo successo? “Sicuramente oltre all’attenzione alla gestione ambientale un fattore di successo decisivo è stato il coinvolgimento dei cittadini nella gestione di Belvedere Spa attraverso la partecipazione azionaria. In questo modo abbiamo voluto stabilire un rapporto strettissimo

tra responsabilità diretta nella gestione, sensibilità ambientale e partecipazione economica.” La discarica di Peccioli è l’anello finale nel ciclo di gestione dei rifiuti. Qui arriva solo il materiale non ulteriormente differenziabile o riciclabile. Qual è la sua idea nei confronti del concetto di discarica zero? Quale sarà il futuro di questo sito di stoccaggio? “La discarica è un impianto residuale e strategico al tempo stesso. Residuale perché vanno in discarica i residui di una lavorazione non più utilizzabili; strategico perché la mancanza di questi impianti non chiude il ciclo integrato dei rifiuti e crea emergenza. Rifiuti zero suona come un’aspirazione, la realtà oggi è diversa. Il futuro di questo sito è per prima cosa il mantenimento della discarica per le funzioni per cui è stata ampliata e il perfezionamento del sistema di Trattamento meccanico biologico. Inoltre stiamo lavorando ad investimenti importanti per dotarci di impiantistica in sintonia con l’esigenza di rafforzamento della raccolta differenziata. Se gestita correttamente la discarica si configura come uno stoccaggio provvisorio, una vera e propria miniera da recuperare in futuro.” Il modello Peccioli e quello di Belvedere Spa è – secondo lei – replicabile anche in altre realtà italiane ed internazionali? “Tutto è replicabile: in questo caso ci vogliono alcune condizioni che non sempre è facile trovare in una sola realtà.”

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La via indiana verso

RIFIUTI ZERO

di Antonella Ilaria Totaro, da Bangalore

Da Bangalore, capitale tecnologica dell’India, arriva il modello Saahas Zero Waste che punta su partnership con grandi aziende, responsabilità estesa dei produttori e riciclo per formalizzare la gestione di rifiuti nelle metropoli indiane e assicurare ai lavoratori del settore migliori condizioni lavorative.

30 tonnellate di scarti trattati ogni giorno, con l’obiettivo di arrivare a gestirne 300 nel 2021. È uno dei risultati del modello decentralizzato “end-to-end” di raccolta e separazione dei rifiuti messo a punto da un’azienda di Bangalore.

Saahas Zero Waste, saahaszerowaste.com

Una città che vede la sua popolazione raddoppiare in poco più di 15 anni ha inevitabilmente un problema di gestione di rifiuti. Il problema è ancor più difficile da gestire se questa crescita avviene in maniera incontrollata in una città non pensata per accogliere così tante persone in arrivo dai paesi e delle campagne circostanti. È quello che è successo e sta succedendo a Bangalore, ufficialmente Bengaluru, capitale dello stato indiano del Karnataka, nota anche come la Silicon Valley dell’India. Dove la popolazione è esplosa dai 6.769.000 abitanti del 2005 ai quasi 11 milioni del 2017. Oggi Bangalore è un cantiere aperto, nuovi grattacieli sono costruiti quotidianamente, i lavori per l’ampliamento della metropolitana vanno avanti incessanti giorno e notte e l’adozione di stili di vita occidentali si sta lentamente facendo strada con le immagini degli ultimi modelli di smartphone e dei luccicanti sari indossati da modelle che si susseguono sui manifesti giganti che costellano la città. Proprio qui a Bangalore, nel 2001, nasce, come organizzazione no profit, Saahas da un’idea della fondatrice Wilma Rodriguez, ex guida

turistica costernata di fronte al problema crescente dell’errato smaltimento dei rifiuti, che costellano gli angoli e le periferie e deturpano i paesaggi indiani. L’anno non è casuale. Nell’anno precedente, nel 2000, per la prima volta l’India si è dotata di una politica nazionale riguardante i rifiuti. La legge sui rifiuti approvata è la miccia che accende l’idea della Rodriguez di creare un’associazione che si occupi di incrementare la consapevolezza della popolazione sui problemi di inquinamento e di realizzare progetti pilota su corporate social responsibility ed educazione ambientale. Nel 2013 accanto all’associazione no profit nasce l’impresa sociale Saahas Zero Waste. Da allora Saahas Zero Waste si è concentrata sulla raccolta dei rifiuti nel settore privato. Ha sviluppato il proprio modello di business stringendo accordi e offrendo soluzioni ‘a domicilio’ alle aziende private, in particolare ai grandi generatori di rifiuti come i complessi di uffici e le aziende tecnologiche. Per poter operare Saahas ha bisogno di un’autorizzazione a offrire il servizio da parte del comune di Bangalore. Dopo di che, là dove si producono enormi quantitativi di rifiuti, nel retro degli uffici di aziende quali Microsoft, General Electric, Shell Saahas Zero Waste dà vita ad un modello decentralizzato end-to-end di raccolta e separazione dei rifiuti. Il servizio consente allo stesso tempo a Saahas Zero Waste di raccogliere dati sui rifiuti prodotti che poi condivide con le aziende su base mensile per facilitare la riduzione e una migliore separazione dei rifiuti generati. Tutti i rifiuti


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biodegradabili sono compostati in loco per produrre concime organico di buona qualità. I rifiuti non biodegradabili sono inviati al Material Recovery Facility per essere ulteriormente divisi in 15-20 categorie prima di essere imballati e inviati presso le rispettive strutture di riciclo autorizzate. L’attività dell’azienda di Bangalore rappresenta un enorme passo in avanti in un Paese dove il riciclo informale di rifiuti non ha permesso mai prima d’ora la raccolta di dati sui rifiuti che ne quantificassero lo status quo. Oggi Saahas Zero Waste gestisce 30 tonnellate di rifiuti al giorno, con l’ambizioso obiettivo di arrivare a oltre 300 tonnellate al giorno nel 2021. Parallelamente al riciclo dei rifiuti, l’azienda ha anche avviato la creazione di una linea di prodotti riciclati o sovraciclati. Nascono così libri, carta igienica, quaderni, penne, ma anche portapenne, sedie, scrivanie, scaffali che in particolare sono ricavati dal riciclo del cartone Tetra Pak senza l’aggiunta di alcuna colla, ma semplicemente sfruttando il calore come collante. La scelta di puntare sulla produzione di cancelleria e mobili di arredo permette agli oggetti prodotti di essere utilizzati nelle scuole indiane e di sensibilizzare ed educare le nuove generazioni a valutare l’impatto positivo di una corretta gestione dei rifiuti. A differenza della raccolta di rifiuti informale in cui non si conoscono le destinazioni finali dei materiali e i rifiuti di basso valore vengono bruciati o scaricati in discarica, Saahas Zero Waste propone una raccolta formale e riconosciuta, partner di riciclo noti e l’invio dei rifiuti di basso valore verso forni da cemento per il coincenerimento.

Nel 2016 l’India si è dotata di una legge sulla gestione dei rifiuti che prevede la separazione dei rifiuti in sei diverse categorie: rifiuti solidi, rifiuti pericolosi e di altro tipo, rifiuti da costruzione e demolizione, rifiuti elettronici, plastica, rifiuti bio-medicali. La nuova normativa prevede inoltre che la responsabilità di strutturare una logistica inversa for la raccolta dei rifiuti post consumo sia a carico dei produttori (vedi intervista a seguire). I produttori di packaging, in particolare, devono munirsi di un sistema di raccolta. Infine, la separazione dei rifiuti all’origine è obbligatoria. Il modello di Saahas Zero Waste – che dopo Bangalore si è esteso anche a Chennai, città da 7 milioni di abitanti – punta ad arrivare a Delhi e Mumbai, metropoli che insieme sfiorano i 50 milioni di abitanti. Con la popolazione totale indiana che supera il miliardo e trecento milioni, di gran lunga superiore agli abitanti di Europa e Usa messi insieme, lavorare alla costruzione di un’India a zero rifiuti è di fondamentale importanza per il Paese stesso e per l’intero pianeta.

Immagini ©Saahas Zero Waste

Situazione normativa


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materiarinnovabile 20. 2018 Intervista

di A. I. T.

Così aiutiamo le aziende a gestire gli scarti Vishal Kumar, E-Waste Program Manager presso Saahas Zero Waste

Accanto allo Zero Waste Program portato avanti direttamente in loco per i grandi generatori di rifiuti, Saahas Zero Waste ha da diversi anni, anche prima della normativa del 2016, avviato il programma EPR – Extended Producer Responsibility. Quanto è difficile collaborare con le aziende parlando di rifiuti e di responsabilità dei materiali? “C’è spazio per avere un forte impatto con entrambi i programmi: espandere la responsabilità dei produttori nei confronti dei materiali è a mio avviso di fondamentale importanza. Zero Waste Program è il nostro progetto verticale di punta attraverso cui promuoviamo la gestione decentralizzata dei rifiuti e la separazione alla fonte. L’ERP ha un potenziale enorme per migliorare il riciclo dei rifiuti in India. Abbiamo messo in piedi l’intero meccanismo

I canali di riciclo informali ci pagherebbero i materiali che raccogliamo anche dieci volte di più rispetto alle aziende di riciclo formali, ma non sono autorizzati […] quindi li evitiamo.

di logistica inversa di collezione, separazione e aggregazione dei rifiuti prima che questi siano inviati ai partner di riciclo autorizzati. I produttori ci pagano una commissione per coprire le spese delle operazioni per soddisfare le norme EPR sancite con la legge del 2016. Abbiamo creato progetti pilota con i produttori di packaging multistrato per raccogliere ampi volumi di questo materiale non riciclabile e incanalarlo verso i forni da cemento per il coincenerimento. Negli ultimi mesi, siamo riusciti a scalare questi progetti di raccolta da 15 tonnellate a oltre 300 tonnellate mensili.” La responsabilità estesa dei produttori riguarda anche i prodotti elettronici in India? “Sì, in India esiste una normativa riguardante l’e-waste dal 2011, che è stata modificata nel 2016 per includere nuovi target di raccolta. Saahas Zero Waste si occupa anche di raccogliere prodotti elettronici a fine vita per conto dei produttori e inviarli allo stesso tempo alle aziende di riciclo autorizzate dallo State Pollution Control Board. Il Central Pullution Control Board è l’organo indiano che controlla la corretta applicazione della normativa in materia dei e-waste. Il riciclo di apparecchi elettronici è un argomento davvero complesso. I canali di riciclo informali pagherebbero i materiali che raccogliamo anche dieci volte di più rispetto alle aziende di riciclo formali, ma non sono autorizzati, non soddisfano le leggi sul lavoro e non hanno tecnologie appropriate per gestire i materiali chimici pericolosi presenti negli apparecchi elettronici, quindi li evitiamo.” Quanto è diffusa la pratica del riciclo informale in India? “Molto. Le percentuali di riciclo in India sono estremamente alte, molto più alte di quel che si possa immaginare. Il problema è che gran parte di questo riciclo avviene grazie al settore informale, che è difficile da controllare e porta con sé problemi quali il lavoro infantile e la scarsa sicurezza di chi raccoglie componenti riciclabili o riutilizzabili dalle discariche. Tutto ciò che ha un valore – dagli apparecchi elettronici e medicali, al rame, fino alla plastica – viene raccolto informalmente e inviato a riciclatori informali. Il problema presenta molte sfaccettature perché la persona che raccoglie i materiali in teoria sta facendo un buon lavoro in quanto evita che questi vengano bruciati o finiscano nei corsi d’acqua. Tuttavia, chi raccoglie rifiuti informalmente lo fa senza protezioni, senza scarpe e guanti adeguati, con l’alto rischio di contrarre malattie e senza essere pagato abbastanza pur lavorando tra le 15 e le 20 ore al giorno. Il settore informale riesce a essere estremamente redditizio per chi lo gestisce anche perché questi ultimi non pagano salari minimi ai lavoratori e scaricano/


bruciano tutti i materiali di basso valore invece che gestirli in sicurezza.” Cosa fate come Saahas Zero Waste per contrastare le pratiche di riciclo informale? “Lavoriamo per formalizzare il settore informale. Abbiamo nel nostro staff circa duecento persone in campo che a tempo pieno smistano rifiuti nel corretto canale di riciclo. Ricevono protezioni, uniformi, fondi di previdenza, assicurazione, più del salario minimo e lavorano dalle 9 alle 17 con molta dignità. Sono assunti da noi: sono un grande costo, ma ciò ci permette di risolvere il problema dei rifiuti anche da un punto di vista sociale, fa parte della nostra missione. Vogliamo dimostrare che è un modello economicamente attuabile. È una sfida quotidiana far vedere che il modello funziona per l’ambiente, per le persone e per l’economia.”

Sembra che il settore informale ostacoli il corretto e sicuro riciclo dei rifiuti in India. Cosa pensa della legge sui rifiuti approvata nel 2016? “I canali informali, pur essendo vietati per legge, sono davvero difficili da controllare. È molto costoso lavorare in maniera formale mentre non ci sono forti disincentivi ai canali informali. La legge nazionale sui rifiuti del 2016 è un grande passo in avanti nella gestione dei rifiuti contemplando sei diverse tipologie di rifiuti. Si tratta di una legge abbastanza progressista, ma l’implementazione è molto lenta e davvero graduale. Il settore informale non può essere completamente sorpassato poiché molti vivono di ciò. È necessaria, piuttosto, la creazione di sistemi in cui il settore informale sia integrato nei sistemi di raccolta e il riciclo sia incentivato per i riciclatori formali autorizzati con un forte monitoraggio e in accordo con il Pollution Control Boards. In fondo, è ora responsabilità dei produttori di istituire sistemi di raccolta e riciclo. Solo il tempo dirà quanto bene queste politiche verranno implementate.”

Immagini ©Saahas Zero Waste

La rigenerazione degli apparecchi elettronici può essere una soluzione più valida del riciclo, per esempio? “Anche la rigenerazione è molto diffusa in India. I tassi si aggirano intorno all’80%. Basti considerare che un telefono ha, in media, 3 o 4 cicli di vita, vale a dire 3 o 4 proprietari. Il primo proprietario vende il proprio vecchio telefono a canali informali che lo ricondizionano e lo rivendono. Dopo due o tre anni lo stesso telefono ritorna indietro, viene ricondizionato e riacquistato e così via per altri cicli. Alla fine, quando non si può utilizzare più, i componenti ancora funzionanti e di valore vengono estratti. In quest’ultima fase il settore informale estrae dalla scheda madre del computer, ad esempio, l’oro che è però sciolto con acidi che rilasciano sostanze tossiche e chimiche nell’ambiente e nelle acque che vanno ulteriormente ad inquinare e complicare la situazione.”


SOVRACICLARE gli edifici

Dobbiamo ancora costruire il 60% degli edifici necessari a gestire l’attuale livello di crescita e di urbanizzazione. Ma non abbiamo sufficienti risorse materiali: per questo occorre saperle reimpiegare e re-immaginare. A partire dai manufatti dismessi, vere miniere di cemento, legno e mattoni. di Antonella Ilaria Totaro, da Copenhagen

Combinare l’estetica, la sostenibilità, la qualità e l’armonia con il territorio circostante in architettura si può. Dalla Danimarca l’esempio di Lendager Group, studio di architettura, che utilizza cemento, legno e mattoni sovraciclati e reperibili a livello locale e che ha chiuso il 2017 con 29 nuove assunzioni. Tutto è iniziato da un’illuminazione avuta dall’architetto Anders Lendager che nel 2011 ha fondato il Lendager Group. L’illuminazione – o meglio la presa di coscienza – era ed è molto semplice, quasi banale: non abbiamo le risorse materiali per costruire le abitazioni e le città del futuro. Si stima, infatti, che il 60% degli edifici necessari a gestire l’attuale livello di crescita e di urbanizzazione non sia stato ancora costruito. In soli 3 anni, dal 2011 al 2013, la Cina ha utilizzato più cemento di quello usato dagli Stati Uniti in tutto il 20° secolo. Le risorse materiali non ci sono a meno che non si re-immaginino i materiali esistenti e i loro utilizzi. È proprio quanto sta facendo da oltre cinque anni la danese Lendager Group, pioniere di economia circolare ed efficienza energetica in architettura. Uno dei primi progetti dello studio di architettura

è stato Upcycled House, una casa unifamiliare realizzata con materiali di scarto sovraciclati. Dal life cycle assessment sulla casa è emerso che cambiando i materiali utilizzati si arrivava a risparmiare l’82% di anidride carbonica rispetto aduna casa normale. L’elemento upcycling che contraddistingue l’Upcycle House è rappresentato dai container per le spedizioni. Per la disparità tra importazioni ed esportazioni tra Occidente e Oriente, un’enorme quantità di container vuoti è parcheggiata nei porti europei e si può comprare a basso costo. Questa e altre intuizioni permettono di risparmiare risorse e di ottenere un prodotto economicamente competitivo, se non più economico, dei normali edifici. Dalla singola casa l’attenzione dello studio danese si è spostata verso edifici più grandi, strutture commerciali dai 10.000 ai 20.000 metri quadrati, arrivando a progetti che utilizzano solo la grande quantità di scarti provenienti dai consumatori e dall’industria costruttiva. Cemento, mattoni, legno vengono sovraciclati e inseriti in nuovi edifici. Gli edifici suburbani vuoti sono visti come banche o depositi di materiali e sono il punto di partenza per costruire i nuovi edifici. Accordi con le aziende di demolizione e con i proprietari dei vecchi


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La scarsità di materiali è una sfida per l’architettura. Lendager la sta cogliendo guardando ai materiali e alle risorse da un’altra prospettiva. Creando, allo stesso tempo posti di lavoro locale, e rendendo possibili nuovi modelli di business che possono essere scalati al di fuori dei tradizionali modelli architettonici.

Upcycle Studios – Lendager Group

Lendager Group lendager.com/en

Upcycle Studios – Lendager Group

manufatti permettono a Lendager di intercettare e approvvigionarsi di materiali altrimenti destinati ad un processo di sottociclo. In questo approccio innovativo i demolitori, in quanto proprietari delle risorse, diventano partner creativi dello studio. Progetto dopo progetto, Lendager Group sta così dimostrando che l’upcycling dei materiali ha anche economicamente senso a livello di risparmio di costi e di opportunità di business. Dalla mancanza di fornitori di prodotti sovraciclati è nato, infatti, Lendager Up, un’azienda indipendente che lavora nello sviluppo di prodotti che ottimizzano le risorse trovate a livello locale e crea materiali sovraciclati. Per esempio: pannelli acustici ottenuti dalle bottigliette di plastica, vecchie vele impiegate come elementi di separazione, legno di scarto utilizzato come materiale protettivo contro il fuoco o finestre termiche a doppio vetro nate da vecchie finestre. Le innovazioni nascono contemporaneamente allo sviluppo dei progetti architettonici. I progetti diventano generatori di nuova innovazione sostenibile, immediatamente implementata negli edifici sovraciclati allo stesso costo degli edifici tradizionali.

Upcycle Studios – Lendager Group

Stedsans In The Woods – Lendager Group

Stedsans In The Woods – Lendager Group

World


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Le città saranno resilienti e rigenerative

di A. I. T.

Anders Lendager, architetto, fondatore e AD Lendager Group

può essere uno strumento per risolvere la scarsità alimentare, negli ambienti interni ha il potenziale di creare ossigeno, scomporre l’anidride carbonica. Esistono molti elementi interessanti nell’usare la natura come parte della nostra strategia, per creare un ambiente migliore e più salutare.”

The Settlers

Foto di Rasmus Hjortshõj, COAST Studio

Possono i modelli di business circolare in architettura diffondersi a livello mondiale? “Al momento è cruciale creare alcuni esempi di questo approccio circolare per provare come essi siano economicamente praticabili e scalabili. Oggi ci sono molti progetti da portare avanti. Quando si dimostrerà che è possibile costruire in maniera diversa e circolare, allora sicuramente si accelererà e cambierà il modo in cui le città sono costruite in tutto il mondo. La sola cosa che sappiamo di sicuro è che non abbiamo le risorse per costruire le città e gli edifici del futuro. Questo buco nero delle risorse per cui noi vogliamo i prodotti ma non ci sono i materiali, verrà compreso fino in fondo solo quando saremo costretti a pensare come usare diversamente materiali che già utilizziamo, sperando non sarà troppo tardi.

Foto di Rasmus Hjortshõj, COAST Studio

Quanto è importante la natura nella vostra visione di architettura? “La biodiversità è fondamentale per mantenere una città in salute. Nello sviluppo della città, la natura fa agire gli edifici in maniera differente, permette il risparmio di energia e di materiali. La natura restituisce molto anche in termini di vivibilità, porta soluzioni architettoniche sostenibili e rigenera il suolo che è stato contaminato. Mentre negli ambienti esterni la natura

The Settlers

La scarsità di materiali è una sfida per l’architettura.

Come immagina le città del futuro? “Vedo la città come un organismo vivente, in cui le diverse parti sono connesse e vitali per la sopravvivenza dell’intero organismo. La città sarà rigenerativa e resiliente, in grado di mantenere in salute e in equilibrio i suoi elementi e di rigenerarsi sia da un punto di vista dei materiali che dell’energia, senza dimenticare le persone, la loro salute e il loro benessere sociale e lavorativo. Le case e le città aumentano la qualità della vita delle persone e saranno centrali nella riduzione del cambiamento climatico. Urbanizzazione, sostenibilità, qualità della vita e crescita devono essere prerequisiti, non opposti.”

Foto di Rasmus Hjortshõj, COAST Studio

Foto di Simon Birk

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Esiste un limite massimo di materiali che può essere riciclato in un edificio o tutto può essere riciclato? “No, non penso ci sia un limite. Ci sono alcuni materiali, usati in diverse parti del mondo, che sono molto vantaggiosi, perché assicurano durata e funzionalità nel tempo. Ci sono, poi, nuovi materiali da sviluppare in modo che si adattino alle diverse zone climatiche. L’upcycling dei mattoni, del cemento, dell’acciaio, del vetro con cui noi costruiamo gli edifici oggi credo sia il metodo migliore per costruire in questa fase. Tuttavia nel tempo si svilupperanno materiali nuovi a cui non avevamo pensato prima, come i materiali bio-compositi.”

The Resource Rows – Lendager Group

Oggi possiamo iniziare a pensare in un modo nuovo che ci fa risparmiare CO2 e crea edifici rigenerativi e città circolari.”

Upcycle House – Lendager Group

Foto di Rasmus Hjortshõj, COAST Studio

Upcycle House – Lendager Group

Upcycle House – Lendager Group

Foto di Rasmus Hjortshõj, COAST Studio

La legge danese spinge a riutilizzare i materiali? “Alcune norme danesi cercano di ridurre queste possibilità. Questo è un problema di cui dobbiamo occuparci perché ci limita nell’utilizzo di alcuni materiali. Allo stesso tempo, però, ci sono anche molte opportunità, ci sono ambiti che non sono normati o altri in cui il governo spinge i proprietari degli edifici a riutilizzare i materiali, a trattarli affinché non siano contaminati prima di essere buttati. Tra lacune normative e spinte al riutilizzo, abbiamo molti materiali a livello locale che possono essere usati per scopi diversi in ottica upcycling.”


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Startup

Nome: Plus: Settore:

Stuffstr, un’app per far circolare ciò che non si usa più Stuffstr L’applicazione americana Stuffstr dà nuova vita agli oggetti non più usati Piattaforma online

Caratteristiche:

Riconosciuta come digital distruptor dell’economia circolare e con partner quali Amazon, The North Face e H&M, l’azienda basa il proprio potere dirompente sulle applicazioni digitali per donare, riparare o vendere oggetti inutilizzati.

di Antonella Ilaria Totaro

Secondo John Atcheson, uno dei fondatori di Stuffstr, in media ogni americano nella propria casa ha un valore equivalente a circa 7.000 dollari in oggetti del tutto inutilizzati – o usati al massimo una volta al mese – tra abiti, mobili, attrezzi sportivi, oggetti da cucina e altro. In pratica circa l’80% degli oggetti posseduti. Stuffstr, azienda basata a Seattle, negli Stati Uniti, nasce proprio per liberarsi dagli oggetti inutilizzati. Su questi ultimi i fondatori di Stuffstr – John Atcheson e Steve Gutmann, dopo aver lavorato nel settore del car sharing – hanno spostato la loro attenzione.

Stuffstr, www.stuffstr.com

Riconosciuta come digital distruptor dell’economia circolare, l’azienda basa il proprio potere dirompente sulle applicazioni

digitali. Mentre semplici azioni come vendere oggetti su Facebook, donare pacchi in beneficenza o organizzare una vendita in garage non sempre facilitano il riutilizzo e la rimessa in circolo di oggetti non voluti, l’app Stuffstr permette di gestire con facilità una libreria di oggetti e cliccare sullo schermo per donarli, ripararli o venderli. L’obiettivo è semplificare al massimo la creazione della libreria, renderla automatica, sfruttando risorse esistenti e conoscendo quanto acquistato negli anni dai singoli utenti attraverso partner come Amazon. Altri partner poi, come The North Face e H&M, permettono a chi usa Stuffstr di trovare nei dintorni della propria abitazione centri di raccolta che accettano vecchi abiti di qualsiasi marca in cambio di sconti in negozio. La partnership con Goodwill, organizzazione no profit americana, consente agli utenti di donare in beneficenza gli oggetti non voluti. Grazie a questa app – progettata in modo che fornitori e produttori abbiano facilmente dati sul ciclo di vita degli oggetti post-vendita – i proprietari riescono a valorizzare ogni oggetto acquistato e non più utile. Stuffstr è membro della Ellen MacArthur Foundation Circular Economy 100 ed è attualmente impegnata nello sviluppo dell’app Sellalong, disponibile per ora solo a Seattle, che permette vendere immediatamente le attrezzature usate e di vederle ritirate a casa gratis lo stesso giorno.


Startup

Startup

Nome: Plus: Settore:

Vegea: pelle dal vino Vegea Vegea è un biomateriale prodotto al 100% dagli scarti del vino Nuovi materiali

Caratteristiche:

Vincitrice nel 2017 del premio Global Change Award di H&M, Vegea è una start-up italiana specializzata nella ricerca di soluzioni tessili innovative e basate su materiali organici (biobased), compatibili con i settori della moda e del design.

di Antonella Ilaria Totaro

Creare valide alternative alle pelli di origine animale: con questo obiettivo – da un’idea di Gianpiero Tessitore, architetto, e Francesco Merlino, chimico – nel 2016 è nata a Milano Vegea. Vincitrice nel 2017 del premio Global Change Award di H&M, Vegea è una start-up italiana specializzata nella ricerca di soluzioni tessili innovative e basate su materiali biobased, utilizzabili nella moda e nel design.

Vegea, www.vegea company.com

Nella produzione di Vegea è nullo l’utilizzo d’acqua, contro i 240 litri necessari per avere un metro quadrato di pelle animale; inoltre sono assenti le sostanze chimiche e gli acidi tipici della conciatura delle pelli classiche. In tal modo, quindi, la startup evita le tradizionali ripercussioni sull’ambiente e sulla salute di lavoratori e consumatori. Il processo di produzione di questo biomateriale ecologico utilizza i macchinari già presenti negli stabilimenti conciari. Considerando che dai 26 miliardi di litri di vino prodotti ogni anno nel mondo derivano 7 miliardi di chilogrammi di vinaccia, la

Oltre a esserne il nome, Vegea è anche il primo biomateriale prodotto dell’azienda, 100% vegetale e made in Italy. Ottenuto dalle fibre e dagli oli vegetali presenti nella vinaccia, è un materiale ecologico con le stesse caratteristiche meccaniche, estetiche e sensoriali della pelle animale.

produzione annuale potenziale di biomateriale vegetale si aggira sui 3 miliardi di metri quadrati. Oggi l’Italia rappresenta circa il 18% della produzione globale di vino ed è quindi un territorio ideale per la realizzazione di Vegea. Ma questo processo di utilizzo di scarti, ora divenuti risorse, potrebbe interessare tutte le grandi regioni vitivinicole internazionali. Dopo un periodo di messa a punto del biomateriale ecologico, lo scorso autunno Vegea ha lanciato una prima collezione per testare il materiale usato nella creazione di scarpe, borse e abiti. Attualmente l’azienda è insediata a Rovereto nell’incubatore di Progetto Manifattura, il polo clean-tech e dell’economia circolare italiano di Trentino Sviluppo.

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Startup

Nome: Plus: Settore: Caratteristiche:

di Antonella Ilaria Totaro

RiceHouse: architettura dagli scarti del riso RiceHouse Bio intonaci realizzati da paglia, lolla e pula di riso Nuovi materiali I materiali biocompositi RiceHouse sfruttano prodotti secondari della coltivazione del riso e garantiscono, usati in architettura, efficienza energetica e acustica, comfort abitativo e salubrità degli ambienti in cui sono utilizzati.

RiceHouse, www.ricehouse.it

Il riso rappresenta il nutrimento principale per oltre la metà della popolazione mondiale. Tuttavia, nel processo di coltivazione e produzione del riso restano sul campo, inutilizzate, tre sostanze: la paglia, la lolla e la pula. La start-up innovativa RiceHouse e la sua fondatrice – l’architetto Tiziana Monterisi – vogliono sfruttare e valorizzare questi prodotti secondari della coltivazione del riso per applicazioni in campo architettonico. Secondo l’azienda di Biella, in Italia, dalla paglia di riso si possono creare case in paglia e legno con materiali naturali provenienti dalla filiera corta, mentre la lolla e la pula possono essere trasformati in premiscelati per diventare bio intonaci RiceHouse (RH 100, RH 200, RH300). Materiali performanti ad alto valore tecnologico, frutto di un percorso di ricerca pluriennale, che sono stati premiati a gennaio 2018 alla fiera Klimahouse di Bolzano. I materiali biocompositi RiceHouse hanno caratteristiche di elevata efficienza energetica e acustica e garantiscono comfort abitativo e salubrità degli ambienti in cui sono utilizzati. Per RiceHouse l’utilizzo della paglia e della lolla come materiali da costruzione attiva un processo virtuoso sotto un profilo sociale, economico, ambientale, agricolo e architettonico. La paglia, per esempio, oltre a essere più economica di mattoni e cemento, è ottima ai fini del conseguimento di maggior efficienza energetica. La lolla, molto ricca in silice, è un materiale interessante nel campo dell’architettura naturale per le sue caratteristiche d’impermeabilità e resistenza agli agenti atmosferici. RiceHouse vuole rappresentare uno snodo centrale della filiera produttiva, coordinando le attività di produzione della materia prima, occupandosi dell’aspetto logistico e di stoccaggio del materiale. Inoltre, si pone come front-end nei confronti delle realtà di riferimento del mondo dell’edilizia sostenibile.


Startup

Startup

Nome: Plus: Settore:

Cuffie circolari con Gerrard Street Gerrard Street Cuffie modulari, facili da riparare e pay per use dall’Olanda Product as a service

Caratteristiche:

Cuffie di alta gamma, consegnate in casella postale come kit, facili da riparare, aggiornare e disassemblare a fronte di un abbonamento mensile, che puntano al mercato di chi compra abitualmente cuffie a basso costo e auricolari.

di Antonella Ilaria Totaro

La start-up olandese Gerrard Street affitta cuffie di alta gamma e design (con valore di mercato che si aggira attorno ai 250 euro) a un costo di 7,50 euro al mese. Il “prodotto come servizio” entra anche nel mondo delle cuffie con modelli completamente modulari al punto da poter essere recapitati nella cassetta postale come un kit.

Gerrard Street, gerrardstreet.nl

Le cuffie sono disegnate per essere assemblate e disassemblate: infatti, se un elemento si rompe, il cliente riceve il nuovo componente – il cui costo è incluso nell’abbonamento – nel giro di 96 ore; le parti rotte, una volta recuperate, sono riparate o riciclate. L’obiettivo è rendere l’esperienza meno problematica possibile e fidelizzare clienti soddisfatti anche attraverso il regolare upgrade dei moduli che le compongono.

Le prime 1.000 cuffie Gerrard Street sono state prodotte nel 2016. Attualmente ci sono 875 clienti abbonati alle cuffie modulari, mentre 500 nuove cuffie sono state realizzate a fine 2017. Un modello wireless è in fase di sviluppo, così come uno che cancella il rumore. Per arrivare a sviluppare Gerrard Street, i due fondatori Tom Leenders e Dorus Galama sono partiti dal considerare l’immenso problema dei rifiuti elettronici che porta in discarica ogni anno 40 miliardi di chili di prodotti elettronici, di cui 15 milioni di chili di cuffie. Una grande quantità di auricolari presto rotti che non incentiva la qualità; anzi, la vulnerabilità delle cuffie rende riluttanti gli amanti della musica all’acquisto di modelli costosi. Tuttavia servizi quali Netflix e Spotify stanno dimostrando quanto l’accessibilità più che il possesso sia importante quando si parla di audio e video. A ciò si aggiunge l’incremento del mercato di tablet, smartphone e tecnologie portatili. Per ascoltare musica, guardare serie tv o lavorare in spazi condivisi, le cuffie sono ormai ovunque. La competizione dei grandi marchi sul mercato delle cuffie è grande. Il mercato a cui Gerrard Street guarda, però, non è tanto quello degli abituali clienti premium, ma quello di chi compra cuffie a basso costo e auricolari. A questi clienti offre una qualità a cui non sono abituati. In un mercato saturo, la proposta è quella di cuffie di alta qualità, non di proprietà, a fronte di un pagamento mensile.

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materiarinnovabile 20. 2018

Rubriche Circular by law

Emissioni, energia e circolarità: buone notizie dalla Ue Francesco Petrucci*, giurista ambientale, membro della Redazione normativa di Edizioni Ambiente.

*In collaborazione con Rivista “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” e Osservatorio di normativa ambientale su www.reteambiente.it

“Final Report by the High-Level Expert Group on Sustainable Finance”, ec.europa.eu/info/ publications/180131sustainable-financereport_en “Report on the impact of the use of oxodegradable plastic including oxo-degradable plastic carrier bags, on the environment”, ec.europa.eu/ environment/circulareconomy/pdf/oxoplastics.pdf

Per raggiungere gli obiettivi Ue al 2030 concordati in sede di conferenza Onu sul clima del dicembre 2015 (Accordo di Parigi – COP 21), in particolare la riduzione del 40% delle emissioni di gas a effetto serra, servono 180 miliardi di euro di risorse aggiuntive. È quanto emerso dal Rapporto del gruppo di esperti ad alto livello sulla finanza sostenibile che la Commissione europea ha presentato il 31 gennaio 2018. La Commissione si impegnerà a trovare strumenti per attrarre ingenti quantità di capitale privato verso investimenti sostenibili. Una mano alla riduzione delle emissioni potrà darla la riforma del sistema di scambio quote di emissioni di gas a effetto serra Ue (Ets - Emission trading system) approvata dal Parlamento il 6 febbraio 2018. Manca il voto formale del Consiglio Ue per il via libera definitivo. Il provvedimento modifica la direttiva 2003/87/Ue rafforzando il sistema Ets per contribuire efficacemente al target di abbattimento delle emissioni di gas a effetto serra, del 40% al 2030. Intanto però una doccia fredda è arrivata dai dati Eurostat 2016 sul consumo di energia primaria nell’Unione europea diffusi il 5 febbraio 2018: al 2020 il target di riduzione del consumo energetico è del 20% ma l’Ue è fuori del 4%. In questo senso va salutato con favore il proseguimento dei lavori sul “pacchetto energia pulita” (Clean Energy for All Europeans) presentato dalla Commissione il 30 novembre 2016. Tra dicembre 2017 e gennaio 2018 sia il Parlamento che il Consiglio si sono espressi sulle proposte di direttiva su mercato energetico, energie rinnovabili, efficienza energetica, aprendo la strada ai negoziati per un testo condiviso. Accordo già raggiunto il 31 gennaio 2018 invece per la proposta di direttiva sull’efficienza energetica in edilizia, manca solo il voto formale di Parlamento e Consiglio Ue. Nel frattempo è arrivata una buona notizia per le imprese che lavorano nell’economia circolare. A metà dicembre Commissione, Parlamento e Consiglio Ue hanno raggiunto l’accordo sul “pacchetto economia circolare” (le proposte di direttiva su rifiuti, imballaggi, discariche, rifiuti elettronici, pile, veicoli fuori uso). La proposta votata dalla Commissione Ambiente del Parlamento Ue il 27 febbraio 2018, sarà votata dalla plenaria a metà aprile 2018 e dal Consiglio Ue probabilmente a giugno 2018 (ne riparleremo quando i testi saranno in vigore). Intanto il cambio di prospettiva portato dalle nuove norme è chiaro:

puntare sulla prevenzione della produzione dei rifiuti riducendo drasticamente smaltimento in discarica e incenerimento. Secondo i dati Eurostat 2016 diffusi il 22 gennaio 2018 il tasso di discarica nella Ue è al 24% (nel 1995 era del 64%) mentre dal 1995 al 2016 l’incenerimento è cresciuto del 105%. Raggiunto il traguardo del “pacchetto economia circolare”, la Commissione Ue il 16 gennaio 2018 ha presentato la Strategia europea per la plastica (Strategy for Plastics in a Circular Economy), che ha l’obiettivo di spingere sull’innovazione incidendo sul modo in cui i prodotti sono progettati, realizzati, utilizzati e riciclati nella Ue. Il traguardo da raggiungere al 2030 è la riciclabilità di tutti gli imballaggi presenti sul mercato. Intanto la Commissione presenterà una direttiva sulla plastica monouso e la proposta di modifica della direttiva imballaggi. Lo stesso giorno la Commissione ha presentato la Relazione sulla plastica oxo-degradabile. Le conclusioni della relazione sono piuttosto decise: poiché non ci sono prove che tale tipo di plastica non produce danni all’ambiente, la Commissione si adopererà con proposte legislative per limitarne l’uso. A proposito di plastica, col regolamento 2018/79/ Ue la Commissione ha aumentato il numero delle sostanze chimiche che possono essere contenute nei materiali plastici a contatto con gli alimenti. Maggiori restrizioni, invece, per l’uso del “bisfenolo A” come sostanza contenuta nella plastica a contatto con gli alimenti. Lo ha previsto il regolamento 2018/213/Ue che si applicherà dal 6 settembre 2018. Dal 31 gennaio 2020 scatterà la messa al bando dell’ottametilciclotetrasilossano (D4) e del decametilciclopentasilossano (D5) nei prodotti cosmetici ai sensi del regolamento “Reach” 1907/2006 sulla registrazione e autorizzazione delle sostanze chimiche. Ricordiamo che il 31 maggio 2018 scade l’obbligo di registrazione per le imprese che fabbricano o importano una o più sostanze soggette al cd. regime transitorio in quantitativi compresi tra 1 e 100 t/anno e hanno pre-registrato queste sostanze entro il dicembre 2008. Infine due segnalazioni in materia di certificazione. Con regolamento 2018/59/Ue sono stati prorogati al 31 dicembre 2019 i criteri vigenti per ottenere il marchio Ecolabel per i televisori, mentre con decisione 2017/2286/Ue la Commissione ha riconosciuto il sistema norvegese Eco-lighthouse come “equivalente” al sistema di Ecogestione e Audit Emas.


Rubriche

Il circolo mediatico

Se la natura è sospesa tra enigma e sogno Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.

Il cinema ha scoperto l’ambiente: a volte in chiave catastrofica, a volte in chiave fantascientifica, a volte – invece – fantastica. Stavolta parliamo di due film presentati in sala – Corpo e Anima – oppure in televisione, sulla piattaforma Netflix – Annihilation. In tutti e due i casi la dimensione ambientale viene interpretata e riproposta attraverso una chiave onirica e fantastica, spiazzante, che lascia meravigliati e confusi. Corpo e Anima, della regista ungherese Ildikò Enyedi, ha già vinto l’Orso d’Oro all’ultimo festival del cinema di Berlino. La storia è semplice, quasi banale: Mária e Endre lavorano nello stesso mattatoio, lei come responsabile del controllo di qualità, lui invece come direttore finanziario. Entrambi personaggi solitari e un po’ tristi, scoprono a un certo punto di avere in comune un sogno ricorrente: sono due cervi, maschio e femmina, che si incontrano in una innevata foresta del nord. Si erano già presentati in mensa, avevano già provato a conoscerci un po’ meglio, ma è adesso che i due si accorgono che qualcosa di grande tra loro è già successo e indietro non si torna. A questo punto la relazione con gli animali passa al secondo livello, perché sono stati gli animali a entrare nel territorio ghiacciato degli esseri umani e a parlare una lingua nuova. Dunque, ecco una storia d’amore incantevole e anticonformista che viene descritta attraverso la relazione psichica tra noi umani e gli animali. L’ipotesi della regista, gestita con delicatezza e minimalismo, è che il “luogo” degli animali, gli spazi selvaggi e non antropizzati, sia anche il luogo dell’amore e di quanto noi esseri umani abbiamo di più intimo e profondo. Differente è il taglio di Annihilation, ultimo film del regista americano Alex Garland, già autore di un altro film che sollevava grandi questioni “di frontiera” (in questo caso il rapporto tra umani e robot), il fortunato Ex Machina. Utilizzando un cast di protagonisti tutto al femminile, Garland trasporta sulla pellicola un libro di successo dallo stesso titolo, scritto da Jeff VanderMeer. La storia: un gruppo di scienziate vengono spedite in missione all’interno della “Area X”, una zona sinistra e misteriosa della Florida sottoposta a una totale quarantena, dove (pare) si è schiantata una astronave di extraterrestri. All’interno di

quest’area, paludosa, boscosa, difficile da attraversare, si è incredibilmente messo in moto uno strano processo di biotrasformazione della fauna e della flora, che dall’esterno può essere percepito come una sorta di multicolore e affascinante “scintillio” dell’aria. E quel che è peggio, la zona contaminata tende ad espandersi gradualmente ma inesorabilmente. Il capo della missione – interpretato da Natalie Portman, con lei recitano Tessa Thompson, Jennifer Jason Leigh e Gina Rodriguez – è una biologa ed ex militare, che ha deciso di correre il rischio per cercare di scoprire che fine abbia fatto suo marito, un membro delle forze speciali che è stato gravemente ferito in uno dei molti, fallimentari, tentativi di penetrare nella Area X per indagare su quanto sta accadendo al suo interno. Le scienziate scopriranno così un mondo caratterizzato da una eterea bellezza ma anche da pericoli mortali, con paesaggi mutanti dove vivono strane creature insieme animali e vegetali. Dove gli uomini si trasformano in piante, e un “qualcosa” sta creando con i geni terrestri e quelli alieni qualcosa di nuovo e indecifrabile. Un posto dove è facilissimo morire, o perdere il senno. Annihilation è disponibile in Italia soltanto su Netflix, per un braccio di ferro tra la produzione e il regista, ma le prime critiche sono ispirate al più caloroso entusiasmo: c’è già chi parla di un film destinato a diventare un “classico” della fantascienza.

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Pillole di innovazione

Errori del presente, orrori del passato Federico Pedrocchi, giornalista di scienza. Dirige e conduce la trasmissione settimanale Moebius in onda su Radio 24 – Il Sole 24 Ore.

Mi sto occupando di attività di riciclo della plastica, per via di una call alla ricerca che Corepla – il consorzio italiano che si occupa della raccolta, recupero e riciclo degli imballaggi di plastica – ha lanciato per avere idee nuove su come trasformare gli imballaggi. Come riciclarli meglio, come utilizzarli in nuove applicazioni, come agire a monte quando l’imballaggio viene progettato. Questa frequentazione ravvicinata mi ha procurato grandi sorprese in merito alla irrazionalità del periodo che stiamo vivendo. E anche alla superficialità che lo contraddistingue. Chiarisco subito, tuttavia, che ogni rimpianto del passato è ben lontano da queste considerazioni. Se parliamo di ambientalismo segnalo che in Le piace Brahms? struggente film d’amore dei primi anni ’60 di enorme successo, lei, Ingrid Bergman, torna a casa una sera, addolorata perché la sua storia non funziona, il suo lover è disordinato e pigro, fuma in continuazione e riempie i portacenere di cicche di sigarette. Lei prende uno di questi portacenere, va alla finestra e lo svuota in strada. Siamo a Parigi. Ricordo anche lo spot pubblicitario di un olio di oliva. “Puro come l’acqua”, e in effetti nel filmato era del tutto trasparente. Quindi: nel passato troviamo certamente – è ovvio – delle cose buone, ma anche degli orrori. Meglio oggi. Mi sembra incomprensibile, tuttavia, che nel dibattito ruggente sui sacchetti di plastica e gli aumenti dei costi, non trovi spazio il fatto che la plastica biodegradabile si degradi solo se si trova in un ambiente ad almeno 60°. Tempo fa ebbi una conversazione con un geologo iraniano il quale mi raccontò che nel Deserto di Lut, nel sud est del paese, andandoci con un elicottero e quattro piantine di gerani, dopo 15 minuti le piantine sono morte. Temperature che arrivano a 70° e umidità 0. E dopo 20 minuti sono morti anche quelli che hanno portato i gerani. Però qui è difficile trovare supermercati. Poi ho incontrato un’altra sorprendente realtà. Tutti i non addetti ai lavori – il 99% della popolazione – sono certamente convinti che la plastica sia la plastica. Ebbene, la vaschetta del prosciutto cotto ha un foglio superiore che è riciclabile e un contenitore sottostante che non lo è. Ciò discende dal fatto che il riciclaggio è un processo industriale che ha delle sue tecnicità. Un trita legno, insomma, non trita il ferro. Il paradosso non si ferma qui. Il foglio superiore potrebbe anche essere riciclabile se non rimanesse attaccato alla vaschetta, abbinamento sostanzialmente inevitabile perché uno taglia

il foglio quel tanto che basta per raggiungere il prosciutto. Sul foglio dovrebbe esserci scritta una indicazione per il distacco, ma non c’è mai. Infine, quando gli imballaggi finiscono nei centri di riciclaggio, vengono analizzati per individuare i differenti plasticismi. Per farlo si usano strumenti che utilizzano emissioni di luce che, per via di diversi assorbimenti della materia, sono in grado di operare le distinzioni. Ma se sono imballaggi colorati di nero la procedura non funziona! Ovviamente. Abbiamo un sacco di problemi complessi. Quelli semplici non dovremmo farceli scappare. Da cosa dipende questo scriteriamento? Probabilmente è figlio di una sciatteria intellettuale, di una superficialità che però riesce ad apparire autorevole. Di convenienze? Mah, ce ne possono essere nel colorare di nero gli imballaggi? Sulla vicenda dei biodegradabili a 60°, invece, ho capito che ci deve essere qualcosa che torna a qualcuno. Mentre su foglio e vaschetta incontriamo una sciatta pigrizia. Sottolineo nuovamente: non si tratta di incomprensione del problema, di mancanza di conoscenze. Tanti passaggi, nella storia delle tecnologie, possono apparire segnati da una visione delle cose drammaticamente sciocca. Agli inizi del Novecento per esempio, si erano appena scoperti i raggi X, e in Europa e Stati Uniti aprivano in continuazione degli studi che li impiegavano per depilare le signore. Tragico, ma anche Madame Curie mica aveva capito bene che cosa erano le radiazioni, e pagò un prezzo salato. Così vanno le cose. Del resto, se si pensa di risolvere il problema degli studenti che usano mitragliatrici nelle scuole armando gli insegnanti, beh, ciò è il segno di un’epoca strana. Colgo l’occasione per segnalare, allontanandomi dalla tematica di questa rubrica, che su Facebook gira un video di una ragazzina americana, di dieci anni direi, che riceve in regalo un fucile Beretta. Glielo danno avvolto in una carta regalo, ma lei intuisce subito che sta per mettere le mani sul sogno della sua vita, come se le avessero detto che un’amica vuole donarle un rene. Piange, singhiozza, non riesce a parlare, e poi finalmente prende in mano il fucile il quale, a occhio e croce, dovrebbe avere un rinculo in grado di staccarle una spalla.


The RadiciGroup way to Circular Economy

Performance Plastics Synthetic Fibres & Nonwovens

Post-industrial recycling Post-industrial and post-consumer recycling

Mechanical recycling of plastics and fibre scraps back into plastics for new, high performance and value-added products. This is the way we work.

Il riciclo meccanico degli scarti di plastica e fibre per la realizzazione di nuovi prodotti, ad elevate performance e alto valore aggiunto. Questo è il nostro modo di operare.

At RadiciGroup we measure the impacts of this strategy through Life Cycle studies for a sustainable and sound approach to circular economy.

Presso RadiciGroup misuriamo gli impatti di questa strategia attraverso studi di Life Cycle Assessment per un approccio sostenibile e rigoroso all'economia circolare.

RadiciGroup: Specialty Chemicals, Performance Plastics, Synthetic Fibres and Nonwovens

www.radicigroup.com


Focus: ++ Bio-based Building Blocks & Platform Chemicals ++ Lignocellulose ++ Innovation Award ++

HIGHLIGHTS OF THE WORLDWIDE BIOECONOMY Feedstocks for the Bio-based Economy Bio-based Building Blocks & Polymers Lignocellulose – Lignin & Cellulose Environmental Solutions Yeast as Platform Technology for Bio-based Chemicals • Innovation Award „Bio-based Material of the Year 2018” The 11th International Conference on Bio-based Materials is aimed at providing international major players from the biobased building blocks, polymers and industrial biotechnology industries with an opportunity to present and discuss their latest developments and strategies. The conference builds on successful previous conferences: 250 participants and 30 exhibitors are expected. bio-based-conference.com

Dominik Vogt

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