Materia Rinnovabile #21

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MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE

Euro 16,00 – www.renewablematter.eu – Poste Italiane S.P.A. – Spedizione in abbonamento postale – 70% LOM/MI/00670_Tassa Pagata/Taxe Perçue/Postamail Internazionale

21 | maggio-giugno 2018 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente

E se Karl Polanyi avesse avuto ragione? •• Rifiuti + Informazione = Risorsa •• Martin Charter: ri-progettare il futuro

Focus The Big Package •• Per un’Europa circolare •• Alexandre Affre: circolare uguale business •• The American Way •• La nuova direttiva imballaggi

A Singapore dove l’aria condizionata è un servizio •• Il cimitero dei frigoriferi cannibalizzati •• Bambù al posto dell’acciaio

Focus Plastica •• La via della plastica non porta più a Oriente •• La soluzione è circolare •• Idee per ripulire gli oceani •• Il mercato delle bioplastiche cresce. Nonostante Bruxelles •• La posizione di PlasticsEurope






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Stampato da Geca Industrie Grafiche con inchiostri a base vegetale privi di oli minerali. Il sistema produttivo di Geca non produce scarichi e ogni sfrido delle nostre lavorazioni è immesso in un processo di raccolta e riciclo. www.gecaonline.it

Stampato su Crush, carte ecologiche di Favini realizzate con sottoprodotti di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero: copertina Crush Agrumi 250 g/m2, interno Crush Mais 120 g/m2. www.favini.com


Editoriale

L’età della plastica di Emanuele Bompan

Presentazione A Plastic Ocean di Craig Leeson, Hong Kong 2016; www.youtube.com/ watch?v=pJpH7BoBc74

In questi mesi si sta sviluppando una percezione sempre più negativa della plastica. Nello specifico contro gli oggetti monouso, come cannucce, cotton fioc, bicchieri in polistirolo. Sui media abbondano le ormai famose immagini di Chris Jordan delle carcasse di gabbiani con gli stomaci imbottiti di tappi, tubetti ed altri paraphernalia in plastica. Documentari come A Plastic Ocean di Craig Leeson sono stati visti da decine di milioni di spettatori, denunciando lo stato indecente dell’inquinamento da plastica del nostro pianeta. I dati e le mappe sulle isole di rifiuti negli oceani rimbalzano sui social, corredati di appelli drammatici per eliminare le microplastiche negli oceani. Il rischio di trovarci nello stomaco quantità ingenti di materia plastica, ingerite attraverso il consumo di pesce, è discusso a cena da cittadini solitamente poco preoccupati dalle questioni ambientali. Niente da fare per il petrolio: dopo la gogna per le emissioni climalteranti ora deve fare i conti con gli impatti del suo prodotto più nobile: i polimeri. Ogni anno gli europei generano 25 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, ma meno del 30% è raccolta per essere riciclata. In Usa circa il 91% della plastica finisce nelle discariche o negli inceneritori. Nel mondo, le materie plastiche rappresentano l’85% dei rifiuti presenti sulle spiagge. In fondo, dagli anni ’50 abbiamo prodotto 8,3 miliardi di tonnellate di plastica e secondo le stime contenute in uno studio delle Università della Georgia e della California, rimanendo in uno scenario business as usual, entro il 2050 arriveremo a produrne 34 miliardi di tonnellate, di cui 12 miliardi finiranno nelle discariche o dispersi nell’ambiente. Questa mole immensa di materie plastiche raggiunge i polmoni e le tavole dei cittadini, con la presenza di microplastiche nell’aria, nell’acqua e nel cibo, con effetti sulla salute umana che restano al momento sconosciuti. Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione Ue, responsabile per lo sviluppo sostenibile, ha dichiarato: “Se non modifichiamo il modo in cui produciamo e utilizziamo le materie plastiche, nel 2050 nei nostri oceani ci sarà più plastica che pesci. Dobbiamo impedire che la plastica continui a raggiungere le nostre acque, il nostro cibo e

anche il nostro organismo. L’unica soluzione a lungo termine è ridurre i rifiuti di plastica riciclando e riutilizzando di più”. Subito gli ha fatto eco il direttore dell’Unep Erik Solheim tuonando che “l’inquinamento da plastica è oggi uno delle più grandi minacce ambientali”. Di urgenza globale, ha aggiunto, dimostrando quanto il tema occupi un posto rilevante nell’agenda delle Nazioni Unite. E quindi cosa rimane da fare? La plastica è una materia straordinariamente funzionale, tanto da risultare oggi insostituibile in molti campi: troppo efficiente per essere dismessa facilmente. Ma soprattutto, il vero problema sono la sua gestione, e i nostri comportamenti. Come al solito serve intelligenza, lungimiranza, partecipazione civica e tanto design. Oggi dobbiamo eliminare tutta la plastica laddove presente in modo non necessario. Dai sacchetti alle cannucce, dai bicchieri al packaging superfluo: molti oggetti potrebbero essere dismessi già entro la fine del 2020 se si volesse. Se da un lato è necessario ridurre alcuni consumi dall’altro dobbiamo ripensarne altri, lavorando anche sui costumi culturali. In alcune funzioni la presenza della plastica è talmente diffusa da rendere difficile immaginare l’uso di altri materiali, anche laddove questo è possibile e conveniente. E per conveniente si intende non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto da quello ambientale. Indubbiamente uno strumento interessante potrebbe essere la tassa sulle plastiche “usa e getta” di cui sta discutendo l’Unione europea ma che potrebbe essere applicata anche in Usa e in tanti paesi asiatici, come la Cina, principale produttore mondiale di plastica. Al momento di andare in stampa l’Ue avrebbe proposto di far pagare un “obolo” da 80 centesimi di euro al chilo per mitigare gli impatti della plastica (e far cassa per i mancati introiti dovuti alla Brexit). Farà arrabbiare? Sicuramente, come tutte le tasse ma potrebbe contribuire a eliminare tanta plastica superflua, favorendone se necessario la sostituzione con altre materie. A quel punto la palla passerebbe ai cittadini. In ultima istanza siamo noi come collettività ad aver creato questo problema, con il nostro amore per la comodità e la nostra scarsa consapevolezza degli impatti nell’economia lineare. Ora sappiamo e dobbiamo agire. Buona lettura.



Aggiornare il sistema fiscale: una strategia circolare di Femke Groothuis

Ex’Tax Project, www.ex-tax.com New era. New plan. Europe, www.neweranewplan.com

I sistemi di tassazione del mondo occidentale pesano molto sul lavoro mentre difficilmente tassano l’inquinamento e l’uso di risorse naturali. Le nostre regole fiscali rappresentano uno dei principali ostacoli per gli imprenditori che vogliono creare nuovi posti di lavoro e passare a modelli di business sostenibili e circolari. La Ex’Tax Project Foundation, con l’aiuto di partner esperti come Cambridge Econometrics, Trucost, Deloitte, EY, KPMG Meijburgg e PwC, studia il potenziale di uno spostamento della tassazione dal lavoro alle risorse naturali. L’ultimo studio dell’Ex’Tax Project, New era. New Plan. Europe mostra che in tal modo l’Unione europea e i paesi membri dell’Ue otterrebbero una maggiore crescita economica, un aumento dell’occupazione e un ambiente più pulito. Uno spostamento della tassazione porterebbe a un aumento del 2% del pil, nuovi posti di lavoro per 6,6 milioni di persone e una riduzione dell’8,2% delle emissioni di carbonio: il tutto entro il 2020 e con un risparmio di 27,7 miliardi di euro sull’importazione di energia nell’arco di cinque anni. Supporto crescente a uno spostamento della tassazione

Femke Groothuis è presidente dell’Ex’tax Project, un think tank concentrato sul ruolo della tassazione nel raggiungimento dei Global Goals e della crescita circolare inclusiva. La sua ricerca è focalizzata sulle opportunità di spostare la tassazione dal lavoro dipendente all’uso di risorse naturali e all’inquinamento.

Secondo la Commissione europea passare dalla tassazione del lavoro dipendente a un sistema meno distorto come le tasse ambientali, è “una strategia vincente”: “In Europa una delle principali difficoltà è costituita dal fatto che i governi tendono ad affidarsi troppo alle tasse sul lavoro. Ma l’eccessiva dipendenza dalle tasse sul lavoro può rappresentare uno svantaggio quando queste rendono troppo costoso assumere personale. Spostare parte della tassazione su altre cose, come l’inquinamento, potrebbe contribuire all’aumento dell’occupazione e della crescita economica. La tassazione intelligente è una strategia vincente.” La proposta di spostare la tassazione dal lavoro all’uso di risorse naturali è in circolazione da anni e molte istituzioni hanno chiesto un cambiamento in questa direzione delle politiche fiscali. Grazie al lavoro di Ex’Tax Project questa proposta sta prendendo forza. L’inquinatore non paga Considerando le attuali sfide globali – come i cambiamenti climatici, la scarsità d’acqua e le tensioni geopolitiche riguardo a combustibili e materiali – è sensato usare prudentemente

il capitale naturale. Ma la realtà è che l’uso delle risorse naturali è quasi esente dalla tassazione. Nel frattempo governi di tutto il mondo sussidiano addirittura il consumo di combustibili fossili (e quindi l’inquinamento) attraverso esborsi fiscali e trasferimenti di budget. L’IEA stima (per il 2015) in 325 milioni di dollari all’anno i sussidi concessi ai combustibili fossili; il doppio di quanto stanziato per quelli alle energie rinnovabili. L’inquinatore non paga. Ecco perché siamo arrivati a una situazione in cui l’inquinamento uccide 9 milioni di persone all’anno, 1,2 miliardi di esseri umani vivono in aree soggette a scarsità idrica ed entro il 2050 si prevede che gli oceani conterranno più plastica che pesci. Il talento è il costo maggiore Per le aziende il costo maggiore è il talento. Al fine di abbassare i costi, gli imprenditori sono diventati molto abili nel ridurre il personale utilizzando metodi come l’automazione, la standardizzazione (contrapposta alla produzione su misura), la riduzione del numero di dipendenti fino al di sotto del necessario, l’outsourcing e l’abbassamento del livello dei servizi al cliente. Il modo in cui abbiamo strutturato il nostro sistema fiscale incoraggia realmente il business a rendere superflue le persone, causando altra disoccupazione. Economia circolare in aumento Recentemente il concetto di economia circolare ha guadagnato popolarità. Tuttavia, i modelli di business circolare tendono a richiedere più lavoro e conoscenza rispetto ai modelli “lineari” concentrati semplicemente sulla vendita dei prodotti, che poi finiscono in discarica. Quando gli inquinatori circolano indisturbati e il lavoro costa, far crescere le attività circolari è una battaglia molto dura. Spostare la tassazione dal lavoro dipendente è una buona ricetta per la crescita inclusiva basata sulle qualità delle persone (capacità di lavoro, abilità e creatività) e non sull’estrazione di risorse naturali. Il nostro sistema fiscale inefficiente necessita di un aggiornamento fondamentale per vincere le sfide del 21° secolo. Sarà facile? No. Ma Henry Ford disse: “Se fai quello che hai sempre fatto, otterrai quello che hai sempre ottenuto.” Se prendiamo seriamente i Sustainable Development Goals e la crescita circolare inclusiva, dobbiamo cominciare ad allineare le politiche fiscali a questi obiettivi.


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M R

21|maggio-giugno 2018 Sommario

MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE www.renewablematter.eu ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Emanuele Bompan Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Mario Bonaccorso, Maurizio Bongiovanni, Rudi Bressa, Elena Comelli, Sergio Ferraris, Femke Groothuis, Joe Iles, Richard Heinberg, Remy Le Moigne, Alex Lemille, Giorgia Marino, Antonio Pergolizzi, Francesco Petrucci, Roberto Rizzo, Antonella Ilaria Totaro, Veronica Ulivieri, Silvia Zamboni Caporedattore Maria Pia Terrosi

Emanuele Bompan

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L’età della plastica

Femke Groothuis

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Aggiornare il sistema fiscale: una strategia circolare

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NEWS

Alexandre Lemille

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E se Karl Polanyi avesse avuto ragione?

Antonella Ilaria Totaro

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Ri-progettare il futuro Intervista a Martin Charter

Rémy Le Moigne

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Rifiuti + informazione = risorsa

Emanuele Bompan

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Focus The Big Package Per un’Europa circolare Intervista a Simona Bonafé

Rémy Le Moigne

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Focus The Big Package Un importante passo avanti Intervista a Janez Potočnik

Emanuele Bompan

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Emanuele Bompan

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Roberto Rizzo

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Giorgia Marino

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Michela Lazzaroni, Antonella Ilaria Totaro

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In Depth Da dove viene e dove va

Elena Comelli

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Focus plastica La soluzione è circolare

a cura della redazione

Think Thank

Policy

Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Francesco Bassetti Paola Cristina Fraschini Design & Art Direction Mauro Panzeri Impaginazione e infografiche Michela Lazzaroni Community manager Antonella Ilaria Totaro Traduzioni Francesco Bassetti, Erminio Cella, Laura Coppo, Franco Lombini, Mario Tadiello

Focus The Big Package The American Way Focus The Big Package L’importanza di un approccio dal basso Intervista a Alexandre Affre Focus The Big Package Direttiva imballaggi Focus plastica La via della plastica non porta più a Oriente


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Coordinamento generale Anna Re

Sergio Ferraris

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Antonella Ilaria Totaro

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Mario Bonaccorso

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Antonio Pergolizzi

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Focus plastica Così ti ripenso la plastica Intervista a Karl-H Foerster Focus plastica Ripulire gli oceani: le idee non mancano Focus plastica Il mercato delle bioplastiche cresce. Nonostante Bruxelles Il cimitero dei frigoriferi cannibalizzati

World Veronica Ulivieri

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La rivincita del bambù

Antonella Ilaria Totaro

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A Singapore l’aria condizionata funziona come servizio

Silvia Zamboni

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Da rifiuto a denaro

Maurizio Bongiovanni

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Correre e pulire: che cos’è il plogging

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Mattoni creati dai batteri con bioMASON W.r.yuma: occhiali da bottiglie di plastica e cruscotti Winnow: rifiuti analizzati, cibo risparmiato STRATA, servizio di arredamento modulare

Responsabile relazioni esterne Anna Re Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa ufficio.stampa@reteambiente.it Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.renewablematter.eu/it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright ©Edizioni Ambiente 2018 Tutti i diritti riservati

Startup Antonella Ilaria Totaro

Rubriche

In copertina Elaborazione grafica di Panma Bolec.

Francesco Petrucci

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Circular by law In Europa l’economia circolare è legge

Joe Iles

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Circulate La moda è un gioco da bambini

Richard Heinberg

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Thinking resilience Scegliere da che parte stare nello stallo tra civiltà e pianeta


materiarinnovabile 21. 2018

NEWS

Volontà d’acciaio

a cura della redazione

L’Europa rafforza ulteriormente i suoi obiettivi di riciclo dell’acciaio con l’Italia in prima fila, arrivando a ben 361.403 tonnellate, sufficienti a realizzare 3.600 chilometri di binari ferroviari. Il tasso di recupero, pari al 75,3% rispetto alle quantità immesse a consumo, è un successo per l’Europa intera, spiega RICREA, il consorzio italiano per la raccolta e il riciclo degli imballaggi in acciaio. Rispetto all’anno precedente, gli indicatori operativi segnalano un aumento della quantità d’imballaggi immessi a consumo, che raggiunge le 479.737 tonnellate, in crescita del +1,3%.

In Sudafrica si cambia rotta

Neoplastica eterna Arriva il sostituto della plastica? La svolta giunge da un polimero basato su una sostanza chiamata gamma-butirrolattone (Gbl) realizzata dal dipartimento di Chimica dell’Università del Colorado. Può essere riciclato (quasi) all’infinito e non inquina. “Ha un ciclo

vitale circolare”, afferma l’inventore Eugene Chen. Può essere riutilizzato più volte, si realizza in pochi minuti senza la necessità di sostanze chimiche tossiche o consumi energetici massicci perché il processo avviene a temperatura ambiente.

Mr Trash Wheel A Baltimora negli USA da quattro anni opera “Mr. Trash Wheel” un’imbarcazione alimentata a energia solare che raccoglie i rifiuti del fiume Jones Falls. Nel 2018 ha toccato un nuovo record: 638.262 bottiglie di plastica

La forza del ragno Un biomateriale più forte della tela del ragno. Questa la recente scoperta del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, che avrebbe sintetizzato un materiale biobased usando un metodo biomimetico fondato sull’organizzazione

di nanofibre cellulosiche in tessuti a grande scala. Secondo l’American Chemical Society (ACS Nano) sarebbe uno dei materiali più resistenti al mondo di origine organica. La sua resistenza è dovuta alla costruzione multiscalare dei pattern di tessitura che sfruttano le proprietà meccaniche delle nanofibre.

Ricrea – www.consorzioricrea.org

Investire in economia circolare: questo il mantra del nuovo Ministro dell’ambiente sudafricano Edna Molewa. “Dobbiamo disaccoppiare materiali ed efficienza delle risorse dalla crescita economica, trasformando pattern di consumo e produzione dannosi”, ha dichiarato Molewa a maggio durante il lancio della strategia. Il programma Recycling Enterprise Support Programme (RESP) sosterrà imprese “allblack” nelle aree meno sviluppate del paese realizzando centri di Buy-Back, centri di recupero materiali, sistemi di costruzione e demolizione circolari. Nel budget triennale sono stati allocati 194 milioni di rand (14 milioni di euro).

e 737.025 bicchieri in polistirolo raccolti. A maggio l’utility Baltimore Gas and ElectricCo.’s, ideatrice di Mr Thrash Wheel, ha lanciato anche TED, abbreviazione di Trash Elimination Device, un dispositivo a energia solare per la raccolta di rifiuti in corsi d’acqua di dimensioni ridotte.

Mr Thrash Wheel

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News Cotone sostenibile

Le pagine gialle dell’economia circolare

Yokohama

Cotton USA, l’associazione delle industrie del cotone americano ha stabilito rigidi obiettivi di sostenibilità per i prossimi dieci anni. Aumentare il sequestro di carbonio nel suolo del 30% attraverso l’utilizzo di colture di copertura e la riduzione della lavorazione dei terreni, efficientamento dell’utilizzo del terreno impiegando migliori varietà genetiche di cotone, l’utilizzo di sistemi di irrigazione più efficaci e ad alta componente tecnologica, riduzione dell’erosione del suolo del 50% e del 18% del consumo idrico. Un esempio per tutto il mondo dei biomateriali.

Un nuovo database, con informazioni da oltre 60 paesi, è stato lanciato in aprile per sostenere la crescita dell’economia circolare. Realizzato dal Circular Economy Club (CEC), con il sostegno del progetto internazionale Mapping Week, questo archivio open source raccoglie

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migliaia di imprese con lo scopo di accelerare l’adozione di pratiche di circolarità attraverso esempi concreti. “È fondamentale che i sostenitori della CE raccolgano e documentino quanto oggi è conosciuto. Questo database trasforma concetti astratti in pratiche concrete, aiutando a fornire un quadro più chiaro sullo stato dell’arte”, ha dichiarato la fondatrice di CEC, Anna Tarí.

Wikicommons/S Aziz123

Il telefonino di carta Un foglio di carta e una normale stampante a getto d’inchiostro: è tutto quello che, in uno scenario futuribile, potrebbe servire per fabbricare dispositivi di elettronica di consumo. Secondo una ricerca dell’Università di Manchester, gli inchiostri a base di grafene, materiale costituito da uno strato monoatomico di atomi di carbonio, potrebbero aprire la porta a innumerevoli applicazioni che vanno da etichette intelligenti per l’industria 4.0 a dispositivi biomedicali per l’analisi dei segnali biometrici, a metodi smart anti contraffazione. E chissà che in un futuro l’iPhone non sarà di carta e vetro.

Il prossimo 22-24 ottobre a Yokohama in Giappone si terrà la nuova edizione del World Circular Economy Forum (WCEF), organizzata dal Finnish Innovation Fund, Sitra, e dal governo giapponese. Vantaggio competitivo delle aziende circular e ruolo dell’economia circolare nel raggiungimento degli Obbiettivi del Millennio ONU. “Lo sviluppo di un’economia circolare in Asia è fondamentale”, spiega SITRA in un comunicato. WCEF 2018 sarà il primo grande evento sul tema nel mercato asiatico.

CEC

World Circular Economy Forum 2018

Barriere commerciali per rifiuti Prosegue la guerra contro l’import di rifiuti da parte della Cina. Attaccando questa volta gli Stati Uniti. Dal 15 maggio la China Certification and Inspection Group North America – l’autorità di Pechino che controlla i cargo diretti verso il Paese – ha posto

lo stop a tutti container contenti rifiuti. In particolare saranno presi di mira i rifiuti particolarmente inquinati, inclusi gli scarti di rame di bassa qualità (Categoria 7). Un segnale che dimostra quanto seriamente il governo cinese stia affrontando la questione.


E se Karl Polanyi

avesse avuto ragione?

Affrontare i bisogni della società usando come strumento la circolarità dei materiali di Alexandre Lemille

“Invece di inserire l’economia nelle relazioni sociali, le relazioni sociali sono inserite nel sistema economico.” Con questa frase, Karl Polanyi evidenzia l’idea che dai primi anni del Novecento la società è stata costretta a conformarsi ai bisogni dei meccanismi di mercato, invece di scegliere un approccio più logico dell’economia come strumento al servizio dei bisogni della società. Verso la metà del 20° secolo, Karl Polanyi era un economista austroungarico, specializzato in storia, antropologia e sociologia da una prospettiva

economica, solo per elencare alcune delle sue competenze. È famoso soprattutto per il libro La grande trasformazione in cui spiega come l’economia di mercato ha cambiato la nostra percezione delle interazioni sociali umane fin dalla prima rivoluzione industriale. Norme sociali dettate dai prezzi di mercato Polanyi evidenziò che prima dell’economia di mercato esistevano tra le persone – come principali mezzi di scambio –


Think Tank reciprocità e redistribuzione. Con l’emergere dell’industrializzazione, le relazioni tra gli esseri umani cambiarono sotto la forte influenza di istituzioni centralizzate che promuovevano l’autoregolazione dell’economia di mercato. In altre parole, le nostre decisioni quotidiane non vengono più prese sulla base delle nostre naturali abilità sociali – la nostra capacità di costruire relazioni personali e comunitarie – ma esclusivamente sulla base dei prezzi. Egli sostiene: “Permettere ai meccanismi di mercato di essere l’unico artefice del destino degli uomini e del loro ambiente naturale… porterà alla demolizione della società”. 1. Global Risks Report 2018, World Economic Forum, Figura II: Mappa delle interconnessioni tra trend e rischi 2018. 2. Il termine “sviluppo sostenibile” fu coniato nel documento Il nostro futuro comune, pubblicato dalla Commissione Brundtland nell’ottobre del 1987. Lo sviluppo sostenibile è il tipo di sviluppo che soddisfa i bisogni presenti senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. 3. “Circular Human Flows”, Alexandre Lemille, 2017, www.linkedin.com/pulse/ circular-human-flowsalexandre-lemille

Alexandre Lemille è il fondatore di Wizeimpact, un’azienda che usa il business come strumento per trovare soluzioni ai problemi ecologici e di sistema. Ha sviluppato una versione dell’economia circolare socialmente più inclusiva, ottenendo riconoscimenti dal WEF e anche da Change Hackers nel 2018. wizeimpact.com

Sebbene conscio del fatto che l’economia di mercato ha portato prosperità materiale, “egli mise in guardia sul pericolo di trasformare le persone in marionette e giocattoli delle irragionevoli forze del mercato” (J. Bradford DeLong - Thesis, 1997). Invece Polanyi suggerì che la prosperità può essere raggiunta evitando la povertà, la distruzione della creatività e l’erosione della comunità. Questi sono gli stessi tre rischi evidenziati dal World Economic Forum nel report “Rischi Globali”1 per spiegare le cause dei principali problemi socioeconomici, ovvero aumento della diseguaglianza in reddito e ricchezza, crescente polarizzazione delle società, aumento dell’urbanizzazione, crescita della classe media nei paesi emergenti, spostamento del potere eccetera. Reciprocità e redistribuzione Polanyi affermava che “l’economia umana, come regola, è immersa nelle relazioni sociali”, e quindi credeva che dovesse essere incorporata nella nostra rete di interazioni sociali, tradizionali e culturali, principalmente come strumento che conduce al benessere e non a dettare decisioni individuali e collettive, come succede oggi. Egli notò che le società pre-moderne della Cina, gli imperi indiani, i regni dell’Africa e della Grecia – per nominarne alcuni – funzionavano sui principi di reciprocità e redistribuzione. Il valore di terreni e lavoro non era determinato dai prezzi di mercato, ma dalle regole della tradizione, della redistribuzione e della reciprocità, le basi della natura umana. L’economia redistributiva riguardava un gruppo di persone che producevano, per un’entità centrale, beni che venivano poi ridistribuiti alla comunità secondo i bisogni dei vari membri. Nell’economia della reciprocità, l’allocazione dei beni era basata su scambi reciproci tra entità sociali, vale a dire, l’azione positiva di un gruppo innesca un’azione positiva da parte di un altro gruppo. Infine, l’economia della gestione domestica parte dalla famiglia come unità. La famiglia produce per suo uso e consumo. Un approccio altamente distributivo, ma decisamente all’opposto dei modelli attuali, almeno nell’emisfero settentrionale. Su queste basi, Polanyi propose di usare l’altro significato della parola “economia” – la definizione

originale di economia, oikonomia in greco antico, significava “gestione domestica” e si concentrava più sulla “gestione della casa”. Questo significato è lontano dall’inclinazione degli economisti neoclassici a usare il termine per designare una logica di azioni razionali e processi decisionali che comandano i nostri comportamenti – basata su come gli esseri umani si guadagnano da vivere relazionandosi con il loro ambiente sociale e naturale. Questa era una dichiarazione, a quei tempi – ma lo è tuttora – molto allineata con l’obiettivo che chiamiamo, oggi, “sviluppo sostenibile” come definito dalla Commissione Brundtland nel 1987.2 Comprensibilmente, decenni dopo la nostra decisione di optare per un’economia basata su “azioni razionali”, troviamo difficile vedere il collegamento tra la nostra vita quotidiana e il nostro ambiente sociale e naturale. La disconnessione e la nostra insensibilità a queste più ampie interazioni è onnipresente e percepibile in ogni occasione. Da un’economia del possedere a un’economia dell’essere Attualmente abbiamo una opportunità: ripensare le relazioni umane e come possano essere riallineate con la comprensione del funzionamento dei sistemi. Perché è così? Da un lato siamo nel pieno di una transizione tecnologica senza precedenti che – ancora una volta – cambierà i nostri schemi comportamentali, dai mezzi di scambio crittografici alle decisioni prese da un’intelligenza artificiale. D’altro lato siamo arrivati a comprendere che le tecnologie non saranno sufficienti per progettare uno spazio più sicuro per l’umanità su questo pianeta. Affidarsi unicamente a esse è altamente rischioso. L’unica possibilità consiste nel riscoprire i nostri schemi collaborativi: ricostruire le nostre connessioni reciproche e ricollegarci a queste interfacce più ampie, cioè la sbiadita biosfera da cui cominciare. L’economia circolare, nella sua forma attuale, riconosce i confini planetari come una spinta a innovare. In un mondo con una popolazione in crescita e le funzioni ambientali in via di scomparsa, abbiamo l’opportunità di identificare una nuova linea guida e avanzare con saggezza da questa: la riserva totale di risorse e di flussi di energie. Da questo punto di riferimento dovremmo tracciare una linea su un foglio bianco e riprogettare il nostro modello economico con approcci insoliti. Per esempio: gestire apertamente le risorse globali e ridistribuire le energie applicando i modelli economici di reciprocità, redistribuzione e gestione domestica dove applicabili. Ci sono tre riserve comuni di risorse sul pianeta, partendo dalle quali possono essere progettati molti servizi: la biosfera (madre Natura, la nostra riserva biologica), l’antroposfera3 (un’abbondante riserva di esseri umani) e la tecnosfera (una riserva limitata di componenti da gestire attentamente). L’economia circolare cerca anche di imitare

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materiarinnovabile 21. 2018 l’efficacia dei cicli naturali: flussi infiniti di energie. Tali flussi rinnovabili sono messi a disposizione da queste tre riserve e noi dovremmo trarne vantaggio allineando a essi il nostro mondo economico. Assolvere questo compito potrebbe richiedere tempo ma influenzerà positivamente i nostri schemi di pensiero: saremo in grado di stimare il valore reale di queste tre risorse ed energie disponibili e cominciare a gestirle più saggiamente, cioè all’interno della comunità e con attenzione.

4. www.glowee.com 5. La bioluminescenza è una reazione chimica regolata da un gene che permette a organismi viventi di produrre luce naturalmente. 6. Noi sulla Terra riceviamo continuamente 173.000 terawatt (migliaia di miliardi di watt) di energia solare. Questo quantitativo corrisponde a 10.000 volte l’energia totale usata nel mondo.

Basandoci su questo approccio, non produrremo più beni ma progetteremo servizi o, ancora meglio, esperienze. Questi servizi ci aiuteranno ad avere accesso a tutto ciò che ci serve, quando ne avremo bisogno, con un approccio più efficace se paragonato al nostro attuale modello basato sui prodotti: i beni scompariranno al posto di un servizio o un’esperienza. I servizi saranno ideati sulla base dell’efficacia dei flussi di energia. Saranno anche condivisibili, adattabili e versatili così che ognuno possa accedervi secondo le proprie necessità. L’illuminazione come servizio – in cui si paga la luce e non le lampadine – rimane, per esempio, piuttosto costosa attualmente poiché basata su lampade che usano elementi fisici che richiedono una logistica centralizzata ed energia di origine fossile. Se ci proiettiamo in un futuro prossimo, possiamo immaginare un servizio di illuminazione basato su energie rinnovabili a cui si accederà in modo collaborativo immediatamente e per sempre. Il suo costo diventerà assolutamente marginale dopo anni di utilizzo (in relazione alla Società a Zero Costi Marginali di Jeremy Rifkin). Ma guardiamo oltre, a quello che è disponibile oggi nel campo della bioeconomia: Glowee4 riproduce la bioluminescenza5 degli organismi marini per illuminare strade urbane e negozi. Queste luci naturali già oggi hanno già una durata di poco inferiore a una settimana! L’illuminazione quindi non sarà più un costo per un’organizzazione o per gli individui. Queste barriere economiche cadranno, altre potrebbero sorgere, ma se progettato bene il crollo di questi ostacoli permetterà di sollevare un maggior numero di persone in un rinnovato modello economico distribuito. Il nostro mondo è di natura distributiva Ed è proprio qui che si trova una finestra di opportunità: un modello economico basato su servizi che permettano alle risorse di sparire dietro le esperienze dei consumatori potrebbe essere la nostra occasione per ripensare i nostri schemi sociali fondamentali! L’economia circolare è di natura distributiva. Essa riconosce che l’energia è a disposizione di tutti noi sul pianeta in modo costantemente rinnovabile, cioè conosciamo la quantità di energia solare che il nostro pianeta riceve ogni giorno. Sappiamo anche che è più che sufficiente per i nostri bisogni attuali e futuri.6 Questo approccio distributivo del nostro sistema rappresenta un cambiamento

completo nell’ideazione se paragonato alle nostre organizzazioni aziendali e sociali gerarchiche, basate su un solo mezzo di scambio – un sistema finanziario centralizzato – che porta i nostri modelli di vita verso infinite forme di scarsità: scarsità di accesso alle risorse, scarsità causate dalla dipendenza dalla finanza, scarsità in termini di diversità, e molte altre, che portano le nostre comunità a una scarsità di tradizioni e di coesione sociale. Con la nostra scelta di un’impostazione razionale siamo diventati quello che Karl Polanyi ha indicato: i nostri comportamenti sono totalmente dettati dall’economia di mercato che ha distrutto il nostro senso di socialità e di appartenenza a una comunità. Invece, se guardiamo a un sistema che è veramente distributivo per natura, che si basa su un accesso infinito a flussi di energia e a una gestione attenta delle risorse (cioè la nostra definizione di “gestione domestica”), potremmo ripensare il modo in cui progettiamo i nostri beni e il valore che daremo ai loro componenti. Queste risorse materiali, che in economia circolare chiamiamo nutrienti tecnici, dovranno essere progettate in modo tale da avere un ruolo specifico da giocare per numerose esperienze. Gestirle significherà che tutte le loro caratteristiche e funzioni originali dovranno essere preservate il più a lungo possibile. In un tale economia, i prezzi di alcune di queste risorse saliranno con il diminuire della quantità disponibile. Gestire le risorse con l’approccio basato sul prendersi cura della qualità delle scorte di componenti ridurrà il rischio di essere esposti alla volatilità e all’aumento dei prezzi. Più entriamo in un’economia di esperienze, meglio le progettiamo, e più diminuirà la nostra dipendenza da una complessa e considerevole mole di nutrienti tecnici. Eppure, l’economia di mercato potrebbe aggiustare i prezzi al rialzo poiché la scarsità di queste risorse in un contesto di popolazione in crescita farà aumentare i prezzi o la tassazione. Progettare per gli esseri Tasse o prezzi più alti per le risorse potrebbero diventare una buona notizia. Quando non abbiamo altra scelta che affrontare un’impennata dei prezzi, cerchiamo sempre quali potrebbero essere le soluzioni alternative. Un’opportunità per una migliore progettazione del nostro capitale umano. Con questo cambiamento in arrivo nel modo in cui gestiamo scorte e flussi, perché non ripensare i nostri ruoli come esseri umani su questo pianeta? Noi stiamo per adottare un nuovo modello economico più attento alle sue risorse materiali. Un modello in cui la manutenzione e la riparazione sarà il nucleo della resilienza delle aziende. Fino a ora questo modello è stato pensato con macchine tecnologicamente avanzate. Queste sono la scelta giusta in termini di efficienza, ma lo sono in termini di efficacia? Necessitano di molti elementi rari della terra che non sono più facilmente disponibili sul pianeta. Sono già all’origine di feroci competizioni


Think Tank e tensioni tra potenze internazionali. Costruire un’economia mondiale solo su un modello basato sulle macchine potrebbe diventare un’opzione altamente rischiosa quando si tratta di gestire l’accesso alle risorse. Come spiegato precedentemente in questo articolo, le nostre relazioni con l’ambiente sociale e naturale sono state sabotate dalla nostra scelta di un modello economico. Si potrebbe rivisitare queste relazioni e ricrearle, e questa volta, grazie all’economia di mercato! In un mondo di esperienze la nostra attenzione dovrà spostarsi su quello che è disponibile all’infinito. Da una parte avremo le energie rinnovabili e le funzioni naturali cicliche dell’ambiente di cui abbiamo bisogno per ricostruire e crescere. Dall’altra parte, abbiamo noi stessi, esseri umani. Siamo numerosi (un’abbondante riserva di risorse sottoutilizzate): una volta che abbiamo mangiato e dormito, possiamo assolvere infiniti compiti considerandoci anche come fonte di infinite energie e di infinita conoscenza. Che ne dite di assicurare un crollo nei costi in risposta a prezzi più alti dei componenti? Quando una risorsa è disponibile in quantità, le tasse solitamente si abbassano in modo che traiamo vantaggio in abbondanza dal potenziale di quella fonte. L’accesso garantito agli esseri umani – considerati come una nuova forma di energia infinita e una riserva crescente di risorse7 – potrebbe partire da un crollo delle tasse sul lavoro. Energie umane a prezzi sostenibili porteranno a infinite attività o posti di lavoro con l’obiettivo di ricostruire la nostra biosfera come spazio sicuro e mantenendo il valore della nostra tecnosfera come spazio equo. Questo è precisamente il lavoro che è stato fatto dall’Ex’Tax Project8 proponendo un nuovo modello di flusso di reddito ai governi mediante lo spostamento della tassazione dal lavoro alle risorse scarse. Questo scatenerebbe la creazione di posti di lavoro e/o attività rigenerative aumentando al contempo il valore delle riserve di scarse risorse, le quali saranno quindi gestite con attenzione. In questo modo, gli esseri umani potranno ottenere maggiore controllo sull’economia di mercato che dipenderà fortemente da essi. Un’economia basata sul servizio è estremamente versatile, pluri-stratificata e distribuita per principio. Avvantaggiamoci di tutte queste funzioni per ritornare in noi. Infiniti mezzi di scambio Un altro fattore che potrebbe aiutare l’umanità a recuperare la propria rete sociale è la nascita di nuove forme di scambio al suo interno. Sia che si scelga di accedere alle esperienze usando le più recenti tecnologie, le banconote locali, registri crittografici, il baratto o addirittura i regali, c’è una rinascita di queste nuove e ulteriori forme di scambio tra due entità che

desiderano accordarsi riguardo a un consenso specifico (affare, accordo ecc.). Immaginate che queste forme possano aumentare all’infinito e siano altamente diversificate. Che tutte queste pratiche siano accettabili in quanto in linea con un sistema di scambio basato sul valore che salvaguarda le regole e le tradizioni locali. Perché non incorporarle in ben progettati registri di una cripto-valuta come garanzia della valorizzazione degli esseri umani? Perché no, dato che stiamo diventando un componente circolare fondamentale che gestisce un’economia materiale a corto di risorse? Emergeranno modelli microeconomici grazie a circoli virtuosi locali in cui individui, gruppi di individui o organizzazioni decideranno di utilizzare una vasta serie di strumenti economici tecnici o biologici. Accoppiate ai mezzi di scambio basati sulle tradizioni, le naturali interazioni sociali potranno rinascere. Usare modelli economici basati sul comportarsi umanamente come reciprocità, redistribuzione o gestione domestica avrebbe di nuovo senso. Le tradizioni resusciterebbero in un modello realmente differenziato e distributivo in un mondo moderno interrelato in cui gli esseri umani sarebbero completamente in linea con i loro contesti più ampi. Rigenerativa a tutti i livelli La nostra prossima economia dovrà essere rigenerativa ed equa, come soluzione non negoziabile ai nostri problemi ambientali, sociali ed economici. Si ritiene che l’economia circolare sarà il nostro prossimo modello. Essa si focalizza sul disaccoppiamento del bisogno di risorse dalla crescita economica. Come la famosa citazione di Kenneth Boulding – “chiunque creda nella crescita infinita di qualcosa di fisico, su un pianeta fisicamente limitato, o è matto o è un economista” – ci ricorda, persino nel 2018, quella crescita infinita non è possibile a meno che questo “avanzamento” non diventi una garanzia di creazione di valore per il pianeta, per le persone e la loro economia. Credere che l’economia circolare sarà implementata nelle giuste proporzioni, senza prendere in considerazione come le persone percepiscono la salvaguardia di quello che ritengono più prezioso, potrebbe non portare ai risultati attesi. Oggi abbiamo la possibilità di evolverci da un’economia dell’avere a una dell’essere in cui gli esseri umani potrebbero essere rivalutati dall’attenta progettazione di flussi circolari e della gestione delle diverse riserve, con l’economia incorporata nelle relazioni umane. Probabilmente Polanyi ha sempre avuto ragione, ed è ora che ci ricolleghiamo con entrambi i nostri ambienti, quello naturale e quello sociale, e l’economia non è niente più che uno degli strumenti a nostra disposizione.

7. Replacing Energy by Countless Jobs or Activities, Alexandre Lemille, 2017, www.linkedin.com/pulse/ endless-jobs-alexandrelemille 8. L’Ex’Tax Project o Valued Extracted Tax, www.ex-tax.com

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materiarinnovabile 21. 2018

Ri-progettare

IL FUTURO

Intervista a Martin Charter Designer, università e iniziative dal basso: dare forma a un nuovo mondo circolare. di Antonella Ilaria Totaro Martin Charter lavora da 30 anni come manager e formatore nel campo dell’innovazione sostenibile e della sostenibilità dei prodotti in ambito accademico, commerciale e della consulenza. Fondatore e direttore del Centre for Sustainable Design, è docente di Innovation & Sustainability alla University for the Creative Arts – UCA Farnham.

Secondo la Fondazione Ellen MacArthur “L’economia circolare è l’unica già progettata per essere ricostruttiva e rigenerativa”. La grande sfida per gli innovatori e i pionieri consiste allora nel progettare prodotti, servizi e attività economiche che facciano bene alle persone, al pianeta e agli affari. Negli ultimi anni alcune aziende hanno iniziato a lavorare a una Guida sulla Progettazione Circolare. Ma in che modo il design può effettivamente aiutare la transizione verso un’economia più circolare? Per comprendere meglio questa trasformazione in corso nel mondo del design e in quello accademico, Materia Rinnovabile ha intervistato Martin Charter, direttore del Centre for Sustainable Design della UCA e cofondatore del Farnham Repair Café. Grazie a numerosi anni di esperienza ha maturato una profonda comprensione del settore della sostenibilità. Pensa che la transizione verso l’economia circolare sia un processo dall’alto o dal basso? “Credo che si tratti di un processo complesso che richiede entrambi gli approcci. In Europa la

Commissione europea ha sviluppato un piano d’azione per l’economia circolare nel 2015, e anche Stati come Finlandia, Paesi Bassi e Spagna stanno dando vita a piani a lungo termine. La Cina sta riformulando la propria legge per promuovere l’economia circolare e il Giappone, che è sempre stato uno dei più avanzati nel campo dell’uso efficiente delle risorse e della produttività, quest’anno ospiterà il World Circular Economy Forum e prevedo che – grazie a questo evento – entrerà a pieno titolo nel dibattito sulla sostenibilità. Quindi il ruolo degli Stati è fondamentale, ma anche l’approccio dal basso è importante. Si pensi agli Usa: se anche il dibattito sulla sostenibilità non fa ancora parte della loro agenda politica, il movimento per il diritto alla riparazione sta esercitando pressioni affinché si riveda la legge. Molti movimenti dal basso stanno lavorando perché i singoli e i cittadini possano avere il diritto di riparare gli oggetti e abbandonare la logica dell’obsolescenza programmata.” Pensa che le aziende avranno un ruolo attivo nel rendere i consumatori più consapevoli?


Think Tank

L’attenzione dei consumatori e delle aziende è in aumento, ma crede che l’atteggiamento nei confronti della riparazione e del riutilizzo sia cambiato negli ultimi anni? “Mi occupo del business della sostenibilità dalla fine degli anni ’80: conosco la questione in modo approfondito e vedo che ci sono stati molti cambiamenti. Per esempio adesso nel mondo ci sono 1530 repair café. Ciascun café ha luogo una volta al mese attirando dalle 20 alle 30 persone. Quindi se ragioniamo su scala globale e moltiplichiamo 1530 per 30 otteniamo un gran numero di persone, di cittadini che fanno visita ai repair café. E se riportiamo su grande scala la percentuale di riparazione del 63% che abbiamo al Farnham Repair Café, vediamo che ci sono effettivamente molti prodotti che vengono riparati nel corso di queste iniziative avviate dai cittadini. La differenza è che 5 o 10 anni fa queste iniziative non esistevano, e questo è un fatto. Un altro aspetto interessante è che nel Regno Unito (e io non penso che il Regno Unito sia uno dei paesi più ecologici in Europa) la BBC sta trasmettendo una seconda serie di episodi della durata di mezz’ora che spiegano come riparare gli oggetti. E se la BBC trasmette una seconda serie su come riparare, significa che il programma fa audience.” Questa trasformazione culturale è comune a tutti i paesi europei? “Non sta avendo luogo dappertutto allo stesso modo, ed è interessante osservare da una prospettiva culturale questi cambiamenti e la nascita di queste iniziative guidate dai cittadini. L’80% dei nostri repair café si trova in Germania, Belgio e Olanda, e stupisce che praticamente non ce ne siano nei paesi scandinavi. Una cosa sorprendente se si pensa per esempio alla Svezia che in molte aree è davvero ‘verde’ e orientata alla comunità. Ho cercato di capirne di più: forse la ragione per cui in Svezia non ci sono questi repair café è che probabilmente le persone riparano gli oggetti direttamente a casa propria, nei loro

laboratori, in cantina; oppure lo fanno nei maker spaces o in realtà simili.” Questo per quanto riguarda i consumatori. Cosa succede invece da parte delle aziende? “Durante il processo di creazione del nuovo standard BS2001, il primo sull’economia circolare, abbiamo incontrato molte aziende e leader. Il rischio con le aziende, come abbiamo potuto osservare in un caso specifico, è la mancanza di coinvolgimento dei portatori di interesse, nessuna visione di cosa significhi l’economia circolare per un’azienda. L’elemento chiave è che è sempre utile coinvolgere e radunare almeno una volta all’anno le persone che non hanno familiarità con il soggetto. Lo facciamo con gli studenti di master, e anche con studenti che hanno 40 o più di 50 anni. Sono proprio loro che mi hanno lanciato la sfida chiedendomi cosa ci sia di nuovo nell’economia circolare.”

Centre for Sustainable Design, cfsd.org.uk Farnham Repair Café, repaircafe.org/en/ locations/repair-cafefarnham

Cosa c’è di nuovo nell’economia circolare? “Per me il contesto è sempre quello dello sviluppo sostenibile, una prospettiva molto più ampia definita grazie ai 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Io vedo la circolarità del prodotto come uno degli elementi di questa prospettiva. Non lo vedo come un cambiamento sostanziale, come lo sta presentando ad esempio il governo olandese, ma un piccolo elemento in un contesto più ampio. In termini di transizione dall’economia lineare

Repair Café – Wikicommons/Ilvy Njiokiktjien

“Il problema è sempre che se alcuni produttori hanno un atteggiamento proattivo, altri sono reattivi e quindi spingono affinché le cose restino come sono. Nessuna delle grande aziende apprezza l’introduzione di nuove leggi a meno che non vadano a loro beneficio. La politica può giocare un ruolo importante in questa sfida, incoraggiando almeno alcune aziende a seguire la strada della sostenibilità. Il piano d’azione per l’economia circolare è stato l’inizio di un processo di standardizzazione europea in cui l’attenzione è concentrata sul riparare, riutilizzare e rifabbricare. Queste azioni saranno ancora su base volontaria, ma le aziende potranno utilizzare le proprie squadre di progettazione e sviluppo o la propria catena di fornitura per aumentare la riparabilità e la possibilità di smontaggio dei loro prodotti. L’attenzione alla questione della riparabilità è in costante crescita nel Regno Unito.”

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materiarinnovabile 21. 2018 Se utilizzatori e consumatori fossero più consapevoli, e i produttori favorissero questa consapevolezza, molti oggetti potrebbero durare più a lungo.

Circular Ocean, www.circularocean.eu Sondaggio Global Shapers, www.shaperssurvey2017.org

a quella circolare, la circolarità nel business è un nuovo elemento chiave anche tra i leader (che non sono così indietro come si tende a pensare). Naturalmente molti di questi argomenti come la riparazione, la rigenerazione e il riciclaggio non sono cose nuove. Il ruolo della progettazione costituisce una novità, come anche il fatto di mettere insieme tutti gli elementi in modo sistematico e sistemico e di pensare a come massimizzare il valore e allungare la vita dei prodotti.” Ha fondato il Farnham Repair Café nel Regno Unito. Quanto è importante il movimento che promuove la riparazione degli oggetti nella transizione verso l’economia circolare? “Ho creato il primo repair café in Inghilterra in forma di attività no profit un anno fa, ma noi lavoriamo già da tre anni. Abbiamo volontari tra i membri della comunità locale, alcuni sono pensionati o semi-pensionati che vogliono condividere le proprie competenze. Anche il repair café fa parte di questa economia di condivisione, perché ha a che fare con la condivisione di competenze. Attraverso i repair abbiamo evitato che due tonnellate di materiale finissero in discarica, ossia da 10 a 15 tonnellate di carbonio. Abbiamo anche fatto risparmiare all’economia della nostra cittadina 45.000 sterline, perché riparando le cose non se ne sono dovute comprare di nuove.” Qual è la lezione più importante imparata da questa esperienza? “La lezione fondamentale del Farnham Repair Café viene dai dati che abbiamo raccolto in questi anni. Gestiamo il Repair Café come iniziativa comunitaria, ma l’abbiamo organizzata anche come living lab, quindi abbiamo raccolto numerosi dati. Abbiamo ospitato circa 1.500 persone riparando circa 500-600 prodotti in totale. Abbiamo un tasso di riparazione del 63% entro le due ore, e ciò significa che anche se i prodotti non sono stati progettati con questo obiettivo, con competenze adeguate possono essere riparati. Abbiamo scoperto che molti dei problemi degli oggetti che si rompono sono dovuti a una scarsa manutenzione da parte di utilizzatori e consumatori. Se utilizzatori e consumatori fossero più consapevoli, e i produttori favorissero questa consapevolezza, molti oggetti potrebbero durare più a lungo.” Nell’ambito della value chain, dove pensa si perda la maggior parte di valore? E come possiamo massimizzarlo? “Anche grazie alla mia esperienza nel progetto Circular Ocean penso che la circolarità del prodotto non riguardi la fine della vita di un prodotto, bensì la prospettiva di un ciclo di vita più esteso, con maggiore attenzione alla fase di utilizzo dei prodotti. Non riguarda i rifiuti, ma come mantenere valore il più a lungo possibile nel sistema. Sto lavorando a un libro su questo argomento, che parlerà di leggi, modelli aziendali,

progettazione e sviluppo, e conterrà anche molti casi studio.” Qual è il suo ruolo nel progetto Circular Ocean? “Come University for the Creative Arts – UCA Farnham siamo un partner fondamentale del progetto, ci occupiamo in particolare degli aspetti di eco-innovazione dei prodotti. Abbiamo studiato che cosa succede nella zona portuale, abbiamo esaminato i materiali presenti in quell’area e abbiamo cercato, attraverso degli hackathon, di capire come utilizzare le reti da pesca di scarto. Gestisco un webinar mensile per aziende e piccole e medie imprese per mostrare loro come ricavare nuovi oggetti dalle reti da pesca, dalle funi e da varie componenti.” Che ruolo possono giocare le università e le scuole nell’economia circolare? “L’educazione ha un ruolo importante in termini di contenuti e di curriculum. La UCA – University for the Creative Arts è specializzata nei settori creativi, come architettura e design. Molti studenti sono fortemente interessati alla sostenibilità, parecchi hanno sempre a che fare con materiali o tessuti, quindi i rifiuti e la circolarità sono aspetti facili da comprendere per loro. D’altra parte la sostenibilità e l’economia circolare devono essere parte del curriculum per poter ricevere il massimo dell’attenzione possibile ed essere facilmente accessibili. Quindi il Consiglio di Amministrazione dell’Accademia, che decide sul curriculum, ha un ruolo fondamentale nel favorire l’incontro dei nostri studenti con i temi legati alla sostenibilità. Deve esserci una forte motivazione da parte degli alti livelli. Alcune università stanno adottando il tema della sostenibilità in senso più ampio anche ispirandosi agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. La questione è la stessa per università, governi o aziende: se non si fa della sostenibilità e dell’economia circolare una priorità, non otterrà l’attenzione che merita.” Nota un interesse in crescita da parte dei vostri studenti sul tema dell’economia circolare? “Io non riesco a capire i millennial, mi confondono: in teoria sono ‘verdi’, ma le loro pratiche non lo sono molto. I dati del sondaggio Global Shapers del 2017 del World Economy Forum mostrano che i cambiamenti climatici li spaventano e per loro rappresentano una vera sfida, e anche che in molte start-up create da millennial la sostenibilità fa parte del loro core business. D’altra parte vedo gli studenti interessati solo a quello che è più facile, e non a pianificare veramente le cose. Le persone che vengono ai repair café hanno in media più di 50 anni: l’elemento che li accomuna è che non vogliono sprecare gli oggetti, per cui se c’è un modo semplice per ripararli lo utilizzeranno. Non so se i millennial condividono gli stessi valori considerato che sono cresciuti un un’epoca di fast fashion e di tecnologia in rapida evoluzione.”


Policy

Rifiuti + informazione = risorsa di Rémy Le Moigne

Oggi spesso i rifiuti sono materiali senza un’identità. Il Passaporto dei materiali costituenti un prodotto, la manutenzione predittiva e la gestione dei big data sono alcuni strumenti per renderli davvero risorse.

1. Thomas Rau; turntoo.com/documents/ Madaster-PressRelease.pdf

I principi dell’economia circolare si basano su un’equazione molto semplice: “rifiuti uguale risorsa”. Ma la realtà è un po’ diversa. Per esempio, convertire la plastica buttata via in materiali di valore è impegnativo perché spesso la composizione della plastica o la presenza di sostanze tossiche è sconosciuta. Rilavorare un oggetto per renderlo “come nuovo” è difficile se non se ne conosce la progettazione o il suo uso precedente. Per mantenere il valore dei materiali e dei prodotti nell’economia il più a lungo possibile, l’economia circolare deve avere accesso non solo ai rifiuti, ma anche alle informazioni inerenti: la composizione di una lega, la procedura di disassemblaggio di un’apparecchiatura o il numero di ore di operatività di un motore elettrico. I rifiuti non sono risorse, ma rifiuti + informazione lo sono.

2. Delta Development Group; tinyurl.com/ycazmsav

Oggi le informazioni sulla progettazione e l’utilizzo sono a malapena considerate nel ciclo di vita di un prodotto e, quando lo sono, non vengono scambiate lungo la catena di valore. Ma alcune soluzioni emergenti, che spesso sfruttano nuove tecnologie, rendono l’equazione “rifiuti + informazione = risorsa” una realtà. Passaporto dei materiali Le informazioni sulla progettazione del prodotto si perdono spesso lungo la catena di valore, tra l’azienda che elabora un prodotto e quella che si occupa della fine del suo ciclo di vita. I rifiuti rimangono spesso “materiali senza un’identità”.1 Per poter reperire e condividere le informazioni sulla progettazione di un prodotto, alcune industrie stanno utilizzando dei passaporti dei materiali.

Il passaporto di un materiale è costituito da una serie di informazioni sui componenti e i materiali di cui è fatto un prodotto, e di come questi possono essere disassemblati e riciclati alla fine del ciclo di vita utile del prodotto. Diversi edifici sono stati costruiti usando un passaporto dei materiali, come il quartier generale della Bluewater Energy Service di Hoofddorp o quello dell’azienda elettrica Liander a Duiven, entrambi in Olanda.2 Quando questi edifici saranno ristrutturati o demoliti, i loro materiali saranno più facilmente riusati o riciclati. Anche Maersk Line, la compagnia di trasporto container, sta usando un passaporto dei materiali per alcune delle sue navi. Oggi l’acciaio viene riciclato su larga scala. Però, diversi tipi di acciaio e metalli sono spesso mescolati nel processo di riciclo, riducendo la qualità dell’acciaio riciclato e alimentando il bisogno di nuovo minerale ferroso. Per poter costruire nuove navi partendo dalle vecchie, Maersk ha ideato un “passaporto dalla culla alla culla”, insieme ai cantieri navali coreani DSME. Il passaporto documenta quasi tutti i materiali usati per costruire le navi Triple-E (si tratta di grandi navi portacontainer con elevati standard di sostenibilità, ndr) e indica come disassemblarle e riciclarle. Rilavorazione intelligente Il costo per dare a un prodotto una seconda vita, riparandolo, rimodernandolo o rilavorandolo, spesso varia in relazione alle sue condizioni. Prodotti usati pochissimo sono molto più economici da ricondizionare rispetto a quelli utilizzati molto. Sfortunatamente, le condizioni di un prodotto usato sono a volte difficili da valutare

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materiarinnovabile 21. 2018 e possono richiedere un completo, e costoso, disassemblaggio. Alcuni produttori di oggetti molto pesanti, come locomotive, motori per aerei o attrezzature minerarie, hanno scelto di dotare le loro macchine con sensori che ne tracciano le condizioni durante la fase di utilizzo e facilitano così la ristrutturazione quando arrivano a fine vita.

Prevedere i guasti I dati sulle condizioni di un’apparecchiatura sono preziosi alla fine della sua vita utile, per ricondizionarla. Lo sono anche durante la sua vita utile, per manutenerla. Analizzando i dati sulle condizioni, una manutenzione predittiva può prevedere guasti a un’apparecchiatura prima che si verifichino. Sfrutta algoritmi che rilevano i pattern che portano a un guasto confrontando i dati in tempo reale con pattern di guasti preidentificati. Recentemente, l’intelligenza artificiale ha permesso agli algoritmi di identificare nuovi pattern di guasti imparando iterativamente dai dati.

Maersk

A Grove City, GE Transportation rilavora i motori diesel delle sue locomotive. In passato, l’azienda doveva smontare i motori separando i componenti al loro arrivo, cercando cosa doveva essere corretto prima del riassemblaggio. Lo stesso

procedimento veniva applicato su ogni motore riguardo a ogni componente, indipendentemente dalle condizioni del motore. Oggi, usando i dati sulle condizioni del locomotore, l’impianto è in grado di valutare l’usura e identificare rotture in ogni componente di un motore che arriva in fabbrica. In questo modo si sa se il motore deve essere rilavorato o preparato per il riuso, o se non necessita di alcuna riparazione.

Maersk

Managing Director di Gate C, società di consulenza sull’economia circolare, Rémy Le Moigne è stato partner di Deloitte per cui ha diretto progetti in Europa e in Africa. È anche l’autore di diversi libri tra i quali L’economie circulaire. Stratégie pour un monde durable (Dunod, 2018) e Supply chain management. Achat, production, logistique, transport, vente (Dunod, 2017).

Komatsu, l’azienda produttrice di macchinari per l’edilizia e l’industria mineraria, ha dotato tutti i macchinari standard di sensori che inviano dati a una piattaforma centrale. La piattaforma è in grado di compilare e analizzare le informazioni sulla localizzazione e sulle condizioni del macchinario, permettendo a Komatsu di quantificare i costi e i benefici di varie opzioni di logistica inversa, tra cui il riuso, la rilavorazione o l’ammodernamento.

Maersk

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Google Logo – Earth Day (WWF)

Policy

La manutenzione predittiva viene applicata a un crescente numero di beni, dai treni ai motori a reazione, dalle centrali elettriche alle piattaforme petrolifere. Per esempio, Siemens analizza continuamente i dati raccolti da centinaia di sensori e controlla dispositivi in treni, locomotori e infrastrutture ferroviarie come la temperatura dei cuscinetti assali e dei trasformatori, le condizioni dell’olio idraulico, le vibrazioni dei carrelli, i dati operativi dinamici dal sistema di trazione e da quello frenante, le operazioni delle porte automatiche e le informazioni sui sistemi di riscaldamento, ventilazione o condizionamento. Per massimizzare il loro tempo di attività, alcuni ascensori Thyssenkrupp sono equipaggiati con sensori che raccolgono i dati del macchinario come i movimenti delle porte, i viaggi, le accensioni, i codici di errore.

I dati sono inviati a una piattaforma cloud dove gli algoritmi li analizzano secondo i pattern e calcolano il tempo di operatività del macchinario e il rimanente tempo di vita dei componenti. Le diagnosi vengono inviate in tempo reale ai tecnici, con l’indicazione di quali interventi servono. Finora le aziende si affidavano sia a una manutenzione preventiva sia correttiva, e nessuna delle due era davvero efficiente. La manutenzione preventiva, che effettua controlli secondo un calendario prefissato sulla base del chilometraggio o del tempo invece che sulle reali condizioni del macchinario, spesso porta alla sostituzione non necessaria di componenti o viene effettuata nel momento sbagliato. La manutenzione correttiva, che ripara i macchinari solo quando si rompono, può essere costosa quando il guasto comporta un lungo periodo di fermo. La manutenzione predittiva, invece, non solo rileva le condizioni del macchinario che porteranno a un guasto, ma stima anche il tempo entro il quale il guasto si verificherà, permettendo di pianificare gli interventi manutentivi. Nel settore ferroviario, è previsto un aumento dell’efficienza fino al 25% grazie alla manutenzione predittiva.3 È quanto ha fatto l’azienda tedesca di trasporto su rotaia DB Cargo, in collaborazione con GE, ricorrendo alla manutenzione predittiva ha ridotto del 25% il numero di guasti su un parco macchine di 250 locomotori. Migliorare la produttività delle risorse

ThyssenKrupp Quartier Essen/Wikicommons Arnoldius

3. McKinsey, “The rail sector’s changing manintenace game”; tinyurl.com/ ybvhmsbb

Alcuni prodotti richiedono l’impiego di molte risorse durante la loro produzione o la fase di utilizzo. Consumano grandi quantità di materiali per essere costruiti o richiedono una grande quantità di energia. Ma i dati possono contribuire a migliorare la produttività delle risorse in questi prodotti. Come dimostra Google, che è riuscita a ridurre la quantità di energia usata per il raffreddamento dei suoi data center fino al 40%. Ogni data center infatti è dotato di migliaia di sensori che raccolgono informazioni come la temperatura,

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Airline Aircraft

MICHELIN® XDR250 50/80R57 / ©2018 Michelin North America, Inc., All rights reserved

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4. DeepMind; tinyurl.com/k9f6bld 5. Michelin; tinyurl.com/y7f8jsyl 6. Pratt&Whitney; tinyurl.com/yaullyvh

Airline Aircraft

7. Rolls-Royce; tinyurl.com/yat6teet

Airline Aircraft

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l’elettricità o la velocità delle pompe. Applicando l’intelligenza artificiale allo storico dei dati raccolti da questi sensori, Google ha potuto comprendere meglio le dinamiche del data center e ottimizzare l’efficienza del sistema di raffreddamento.4 Alcuni pneumatici Michelin per macchinari minerari sono dotati di sensori che permettono agli operatori minerari di monitorare la temperatura e la pressione di ogni pneumatico in tempo reale, migliorandone la performance ed estendendone il tempo di vita.5 Gestire i big data Sempre di più, il business dovrà non solo progettare ed elaborare prodotti, ma anche gestire i dati che li riguardano. Per farlo, il business dovrà acquisire nuove capacità, soprattutto perché la mole di dati è molto grande. Per esempio, il motore Geared Turbofan della Pratt & Whitney misura 5.000 parametri durante un volo. La flotta di motori Geared Turbofan genererà più di due petabytes di dati all’anno, equivalente a una nuova American Library of Congress ogni anno.6 Alcuni marchi industriali, come GE, Siemens o Boeing, hanno scelto di progettare e gestire delle loro piattaforme di analisi dei dati per immagazzinare, mettere al sicuro e analizzare i loro dati. In collaborazione con Palantir Technologies, un provider di soluzioni per big data e analisi avanzate dei dati, Airbus ha avviato una piattaforma per i dati degli aerei. La piattaforma integra i dati operazionali, di manutenzione e degli aeromobili di una linea aerea. Permette ad Airbus di migliorare la progettazione dei suoi aerei e delle apparecchiature. Aiuta anche le linee aeree a migliorare la performance operativa della loro flotta. Il business dovrà anche implementare nuove organizzazioni per gestire i dati. Per esempio, nell’industria ferroviaria, Siemens gestisce un centro di analisi dei dati che riunisce esperti di dati, fisici, ingegneri, informatici e matematici. Il centro analizza scrupolosamente i dati diagnostici che vengono raccolti dai treni e dai componenti delle infrastrutture ferroviarie. Rolls-Royce ha aperto un Airline Aircraft Availability Centre (Centro per la disponibilità di aeromobili delle linee aeree) che monitora migliaia di motori in tutto il mondo. Monitorando i dati trasmessi da questi motori, il centro ne pianifica le operazioni e la manutenzione, portando efficienza in un’industria in cui un 1% di risparmio di carburante può significare un risparmio di 250.000 dollari all’anno per aereo.7 Oggi, i dati di progettazione e utilizzo sono gestiti principalmente per beni pesanti come aerei, treni, navi o persino ponti. Ma domani, i dati dovrebbero essere gestiti per una gamma molto più ampia di prodotti, dalle auto alle lavatrici, dai telefoni alle sedie, se vogliamo rendere ancora circolare il nostro pianeta.


Focus The Big Package


Focus The Big Package

Per un’Europa circolare di Emanuele Bompan, da Strasburgo

Intervista a Simona Bonafé “Un passaggio epocale e rivoluzionario verso un nuovo modello economico che creerà fino a 500.000 nuovi posti di lavoro.” Simona Bonafé, relatrice al Parlamento europeo sul Pacchetto Economia Circolare.

Con l’approvazione al Parlamento europeo di Strasburgo (dopo anni di ritardi) del Pacchetto sull’economia circolare non si chiude un cerchio, ma anzi “si apre la strada a un modello di sviluppo nuovo”. A sostenerlo è Simona Bonafé, l’eurodeputata del Partito Democratico italiano, relatrice del provvedimento passato il 18 aprile a larghissima maggioranza: 580 sì su 661 votanti. Tecnicamente è una revisione di quattro direttive sulla gestione dei rifiuti che dovrà poi essere adottata dai Paesi membri dell’Ue entro due anni, che si va ad affiancare ad una serie di provvedimenti della Commissione. Bonafé è stata una delle figure più attive, essendo relatrice, del lavoro parlamentare dietro il Pacchetto CE. Materia Rinnovabile l’ha intervistata nei corridoi di Strasburgo durante i giorni del voto per fare il punto. Qual è il messaggio politico di questo voto? “Si rafforza l’idea di un’Europa che sta cambiando modello di sviluppo, passando da un’economia che consuma più materie di quante l’ambiente è in grado di rigenerarne, a una dove la materia

può essere rigenerata, recuperandola dai rifiuti, rimettendola nel ciclo produttivo. È un risultato importante, ma non è un arrivo: è solo un inizio. Creerà competizione industriale, posti di lavoro, e solide fondamenta per una vera economia circolare europea.” Gli obiettivi sono chiari... “In base alla nuova norma almeno il 55% dei rifiuti urbani domestici e commerciali dovrà essere riciclato. L’obiettivo salirà al 60% nel 2030 e al 65% nel 2035. Il 65% dei materiali da imballaggio dovrà, invece, essere riciclato entro il 2025 e il 70% entro il 2030. Sono stati poi fissati obiettivi distinti per materiali da imballaggio specifico, come carta, cartone, plastica, vetro metallo e legno. In Italia, il mio Paese, si producono 497 chili di rifiuti pro capite (dato 2016) di cui il 27,64% finisce in discarica, il 50,55% viene riciclato o compostato e il 21,81% incenerito. Il Pacchetto Ue invece limita la quota di rifiuti urbani da smaltire in discarica a un massimo del 10% entro il 2035. Mi piace ricordare agli europei anche tutta la parte che riguarda lo scarto alimentare: per la prima volta introduciamo nella legislazione europea un obbligo di riduzione dello spreco di cibo. Avevamo preso un impegno come Europa in sede di Nazioni Unite con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile (SDGs) di ridurre del 50% lo spreco alimentare. Abbiamo approfittato di questa normativa per inserire l’obbligo di dimezzamento dello spreco alimentare nel 2030. A oggi c’è una definizione: ‘tutto ciò che si butta via’. Ma non c’è una metodologia per calcolarlo. Quando sarà definito dalla Commissione, grazie all’inserimento in norma capiremo chiaramente cosa si dovrà fare per dimezzare lo spreco alimentare.” Molti si aspettavano un risultato “discarica zero”, si è ottenuto l’obiettivo del 10% entro il 2035. Perché il target è stato annacquato?


Policy “Oggi il panorama europeo sulle discariche è molto variegato: nel 2014 Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Svezia non hanno inviato alcun rifiuto in discarica, mentre Cipro, Croazia, Grecia, Lettonia e Malta hanno interrato più di tre quarti dei loro rifiuti urbani. Ci sono dodici paesi che superano il 50%. Dunque abbiamo dovuto tener conto della posizione di questi paesi che hanno detto ‘siamo pronti, ma dateci flessibilità’.”

Parlamento europeo, Circular economy: More recycling of household waste, less landfilling, tinyurl.com/y7bq3tda

Nel Pacchetto si parla anche di prevenzione. “Per me è stato uno dei capisaldi di questo Pacchetto, anzi addirittura mi sento di dire che si tratta dell’apporto principale del Parlamento europeo sulla proposta della Commissione. Il Parlamento ha avuto un ruolo molto propositivo, anche se le proposte si sono concentrate troppo sui rifiuti urbani, avendo meno implicazioni politiche. Invece rimane il tema dei rifiuti industriali da aggredire. Questo è indubbiamente un limite della normativa fin dal suo nascere.” Quale impatto avrà l’Epr, l’Extended Producer Responsibility? “Quando il Pacchetto sarà recepito i produttori saranno obbligati per legge a farsi carico della gestione della fase di rifiuto dei loro prodotti. I produttori saranno inoltre tenuti a versare un contributo finanziario a tale scopo. Nella legislazione dell’Ue sono stati introdotti regimi obbligatori di responsabilità estesa del produttore per tutti gli imballaggi.”

Sulle emissioni di CO2 si prevede che la circular economy, sempre al 2035, possa ridurle di 617 milioni di tonnellate.

Sugli impatti economici e occupazionali ci sono tante cifre, non sempre allineate e che a volte sembrano anche esagerate. Materia Rinnovabile ne scriverà in uno dei prossimi numeri per capire i veri impatti occupazionali della circular e bioeconomy. Qual è secondo lei una stima verosimile? “Prendiamo come riferimento tre studi: lo studio della Ellen MacArthur Foundation, l’Impact Assessment della Commissione e quello del Parlamento europeo. Sono studi molto simili che danno dei range diversi, ma se dovessi guardare nel mezzo possiamo ipotizzare la creazione di 500.000 posti di lavoro. Chiaramente sono posti di lavoro in settori specializzati: innovazione, nuove tecnologie, informatica, ingegneria dei materiali. Sulla crescita economica ci sono dati che dicono che si può raggiungere il 7% in più del Pil da qui al 2035. Mi pare eccessivo, ma rimanendo nella media possiamo pensare un 5%. Si stima un risparmio annuo per le aziende di 600 miliardi di euro legato alla gestione e allo smaltimento dei rifiuti. Sulle emissioni di CO2 si prevede che la circular economy, sempre al 2035, possa ridurle di 617 milioni di tonnellate.” Oggi dagli investitori finanziari, che cercano equity o azioni in imprese che hanno abbracciato modelli realmente circular, al mondo consumer, inclusa la gdo, interessando settori trasversali che vanno dall’agricoltura all’edilizia, c’è una grande

necessità di circolarità. Come si definisce e misura la “circolarità” di un’impresa. Cosa può fare l’Ue? “Al momento di certificazioni ambientali europee ce ne sono diverse, che possono in parte servire allo scopo. Io mi sono posta personalmente il tema di come misurare la circolarità e l’uso efficiente delle risorse. Non sono temi facili, perché quando parliamo di economia circolare parliamo di materiali e settori merceologici diversi. Con costi differente. Riciclare la plastica ha dei costi diversi, anche ambientali, rispetto a quelli legati alla produzione di plastica vergine, considerato anche che il costo del petrolio è in discesa. In proposito abbiamo chiesto alla Commissione di aprire un tavolo di lavoro.” Per iniziare a lavorare sugli altri due pilastri dell’economia circolare, PaaS (Product as a Service) e life-extension dei prodotti, la Commissione deve iniziare a prendere in mano la direttiva EcoDesign. Come siamo messi al momento? “La discussione procede, ma sarà ancora più complessa del Pacchetto CE. Credo che l’Italia, da sempre culla del design e dell’artigianato abbia grandi competenze da spendere. Settori come il legno, il vetro, l’arredamento e l’industria della moda possono dare suggerimenti importanti.” Quando si parla di ecodesign si deve affrontare il tema dell’End of Waste (EoW), ovvero le condizioni secondo cui un materiale e prodotto di scarto cessa di essere inquadrato dalla legge come rifiuto e diventa sottoprodotto o materia prima seconda. “Queste sono due leve dell’economia circolare, che vanno nella direzione di generare meno rifiuti. Affinché funzioni l’EoW non deve creare distorsioni competitive: se un prodotto non lo consideri più rifiuto in uno Stato membro ma continui a considerarlo rifiuto in un altro, è chiaro che hai due costi economici diversi. Noi abbiamo previsto un quadro che vuole essere il più uniforme possibile. Poi spetterà ai Paesi membri implementarlo.” Esporteremo i principi dell’economia circolare anche in Usa? “Oggi gli Usa decidendo di non ottemperare agli accordi di Parigi hanno fatto una scelta precisa, che è quella di non investire sull’economia verde. Di fondo non ci credono. Invece ci sta credendo moltissimo la Cina. E l’Europa su questo ha vantaggio competitivo, che dovrà essere sfruttato in pieno.” Prossimi passi? “È appena uscita la strategia sulla plastica, oggi un tema main stream, che si può spalmare su tutte le politiche che fa l’Unione europea. L’altra cosa che mi aspetto è un’azione più incisiva sulla finanza sostenibile, perché adesso il salto in avanti si può fare se ci sono opportunità di investimento, che interessino sia il settore pubblico che quello privato.”

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materiarinnovabile 21. 2018

Focus The Big Package

Un importante passo avanti Intervista a Janez Potočnik “Un passaggio epocale e rivoluzionario verso un nuovo modello economico che creerà fino a 500.000 nuovi posti di lavoro.” di Rémy Le Moigne

Il Parlamento europeo ha appena adottato il Pacchetto economia circolare. Come ci siamo arrivati e ora dove dobbiamo andare? Adottato dal Parlamento europeo il 18 aprile 2018 e approvato dal Consiglio europeo il 21 maggio, il Pacchetto economia circolare non è mai stato così vicino a diventare legge. Quanto è importante questo pacchetto e quale dovrebbe essere il prossimo passo nell’agenda politica? Abbiamo rivolto queste domande all’ex Commissario europeo per l’Ambiente e ideatore del Pacchetto nel 2010, Janez Potočnik. Ci può raccontare come è nato il Pacchetto economia circolare? “Nel 2010 l’ambiente era diviso in due aree: una riguardava i cambiamenti climatici, l’altra tutto il resto. A prima vista la divisione sembrava piuttosto innaturale, ma essendo valida dal punto di vista operativo, era abbastanza utile. A quel tempo i cambiamenti climatici erano al centro dell’attenzione, mentre il resto dell’ambiente non veniva molto considerato. Ecco perché, quando ho iniziato il mio mandato come Commissario europeo per l’Ambiente nel 2010, ho dovuto trovare un nuovo modo di descrivere l’ambiente che aiutasse a risolverne alcuni dei più spinosi problemi. Ho scelto di evidenziare il collegamento tra l’ambiente e le attività economiche e poi

persuadere la gente che, essenzialmente, se lo si guarda nel modo giusto, il portfolio ambientale era probabilmente il più forte portfolio economico della Commissione europea. Su questa base siamo partiti con un’iniziativa sull’efficienza nell’uso delle risorse. Abbiamo istituito la ‘tavola rotonda sull’efficienza nell’uso delle risorse’ e, successivamente, adottato la ‘Roadmap per l’efficienza nell’uso delle risorse’ che ha rappresentato il primo passo concreto verso il Pacchetto economia circolare. Mentre questa iniziativa si stava evolvendo piuttosto bene, durante la seconda parte del mio mandato, abbiamo rivisto il Pacchetto legislativo sui rifiuti. Abbiamo utilizzato questo momento per cercare di cambiare l’iter della gestione dei rifiuti, per considerarli non come un problema ma piuttosto come una soluzione ad alcune sfide economiche dell’Europa, tra le quali la competitività.” Quali sono stati i principali ostacoli per il Pacchetto economia circolare e come sono stati superati? “L’ostacolo principale da superare è stato il malinteso sul fatto che le misure a difesa dell’ambiente producano sempre impatti più o meno negativi sull’economia, malinteso basato


Policy

Janez Potocnik – Forum for the Future of Agriculture, Bruxelles 2016

economici, e alcuni membri molto attivi del Parlamento europeo. Abbiamo coinvolto anche ricercatori universitari, rappresentanti di ONG, delegati illustri a livello europeo di sindacati e associazioni dei consumatori. Quindi, in pratica, intorno al tavolo c’erano tutti. I partecipanti hanno nominato degli sherpa (funzionario che prepara incontri politici internazionali ad alto livello, ndr), lavorato molto duramente per circa due anni e hanno dato vita a una proposta che ho tradotto in azioni legali o altre proposte politiche che sono state incluse nel Pacchetto economia circolare. Quando, più tardi, la nuova Commissione ha revocato il Pacchetto, è stato abbastanza logico che si levassero intense proteste perché tutti quei partecipanti sentivano l’economia circolare come una cosa loro e credevano nel suo sviluppo in Europa.”

Prima di essere Commissario europeo per l’Ambiente dal 2010 al 2014, Janez Potočnik ha diretto il team di negoziatori per l’ingresso della Slovenia nell’Ue e ha lavorato come Commissario europeo per la Scienza e la Ricerca. Oggi è il Co-Presidente dell’International Resource Panel dell’Unep ed è partner di SystemiQ.

su una supposizione errata. Naturalmente qualsiasi misura ambientale fa aumentare i costi. Ma questi costi esistono già, e noi ne stiamo negando l’esistenza. In qualche modo, questi costi non vengono pagati dai produttori e dai consumatori dei beni, ma sono trasferiti sul sistema sanitario o, più spesso, sulla generazione successiva, perché questa, come sapete, non può lamentarsi. Il superamento di questo ostacolo ha richiesto un duro e lungo lavoro e molti incontri a tutti i livelli. Per riuscirci – in particolare – è stato necessario produrre numerose prove che dimostravano l’utilità delle misure a non solo per la salute e l’ambiente, ma anche per l’economia.” Il Pacchetto economia circolare si è guadagnato un ampio sostegno da parte del Parlamento europeo e da diversi soggetti coinvolti. Come è stato possibile ottenere tale consenso? “Da quando è stata istituita la Tavola rotonda sull’efficienza nell’uso delle risorse, abbiamo lavorato costantemente sulla costruzione del consenso. Abbiamo messo insieme una decina di business leader, come Paul Polman di Unilever, già attivamente coinvolti nell’economia circolare. Io ho portato alcuni miei colleghi della Commissione, tra cui quelli legati agli aspetti

Il Pacchetto economia circolare è ambizioso, ma lo è abbastanza? “Come prima cosa dobbiamo comprendere l’essenza che sta alla base del Pacchetto economia circolare. Il nostro attuale modello economico si è dimostrato socialmente, ecologicamente e persino economicamente insostenibile. È responsabile della diseguaglianza nella distribuzione locale della ricchezza, della perdita di biodiversità, dei cambiamenti climatici, e delle crisi economiche, solo per citare alcuni dei danni procurati. In aggiunta, viviamo in un mondo che è un unico sistema socio-ecologico strettamente intrecciato. Siamo più interconnessi e interdipendenti che mai e, per questo motivo, la nostra responsabilità individuale e collettiva è aumentata enormemente. Oltre a tutto questo, abbiamo di fronte le sfide del 21° secolo, come l’incremento demografico, la crescita del consumo pro capite, l’invecchiamento della popolazione, la digitalizzazione o la robotizzazione, che semplicemente non possiamo ignorare. Il cambiamento del nostro modello economico è necessario e, sostanzialmente, inevitabile. È importante capire che l’economia circolare è uno strumento molto efficiente per la transizione verso questo inevitabile nuovo modello economico e dovrebbe essere abbracciata da tutti. Dovrebbe anche essere vista come una soluzione per aumentare la competitività dell’Unione europea, che – per varie risorse – dipende molto dalle importazioni. Non è un segreto che, naturalmente, questo pacchetto dovrebbe andare più velocemente ed essere più ampio ma, indubitabilmente, è un passo importante. Per me è anche chiaro che è necessario un prossimo passo e non c’è tempo da perdere.” L’economia circolare non solo fa risparmiare risorse ma crea anche posti di lavoro. Potrebbe la creazione di occupazione diventare uno dei più importanti propulsori della transizione verso un’economia circolare? “Sicuramente, la crescita economica che sostiene

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materiarinnovabile 21. 2018 quella di occupazione, potrebbe dare una spinta importante. Naturalmente, per essere franco, è più facile dimostrare l’esistenza di una correlazione positiva dell’economia circolare con la crescita economica che con l’occupazione. Ma quello che è essenziale è che lo sviluppo di un nuovo modello economico, oggi localizzato in alcune aree come l’Europa o la Cina, si espanda a livello globale. È fondamentale rimuovere alcune barriere, come quelle ai mercati, per evitare di diventare, o essere visti come, un altro modello occidentale che protegge i nostri interessi. È essenziale che l’occupazione arrivi al centro del Pacchetto economia circolare. Nel corso dell’ulteriore sviluppo del modello economico circolare, dobbiamo implementare soluzioni che diano lavoro ad altre persone, che creino occupazione locale e occupazione che non può essere delocalizzata.”

L’economia circolare è una risposta importante, se non la risposta, per la competitività dell’economia dell’Unione europea che […] è estremamente dipendente dalle importazioni. Un politico che non lo capisce non dovrebbe fare politica.

Quali dovrebbero essere le prossime priorità della Commissione? “Prima guardiamo cos’è necessario fare, indipendentemente da chi dovrebbe farlo, che sia la Commissione o un’istituzione a un livello più globale o più locale. Dobbiamo rafforzare le sinergie dell’economia circolare con la dimensione sociale, con i cambiamenti climatici, con la bioeconomia, che sta anche diventando sempre più importante. E con le città, perché dobbiamo essere consapevoli che la prossima ondata di edifici cittadini sarà praticamente finita entro i prossimi 50 anni. Dobbiamo anche lavorare sul mantenimento del valore nell’economia circolare perché a volte ci focalizziamo troppo sulla quantità di rifiuti ma non sul valore che stiamo trattenendo, e questo valore è un importante propulsore economico per l’adozione dell’economia circolare. Se si guarda dal punto di vista della Commissione, io credo che l’attenzione dovrebbe essere rivolta all’implementazione del pacchetto normativo sulla plastica, che ritengo importante, alla progettazione dei prodotti, con direttive sull’eco-progettazione, alla rimozione delle barriere per i nuovi modelli di business, come quelli basati sui prodotti come servizi, e all’estensione della responsabilità del produttore. La Commissione dovrebbe anche lavorare su alcuni punti, in cui ha meno potere ma ai quali dovrebbe assolutamente contribuire, come gli incentivi di mercato che, oggi, ci hanno intrappolato nel nostro attuale modello economico. La Commissione dovrebbe contribuire a cambiare il segnale che viene mandato ai mercati, valutare maggiormente il capitale naturale, aggiornare opportunamente la struttura fiscale e fare leva sugli appalti pubblici. Praticamente, c’è un sacco di lavoro che ci attende e dovremo lavorare sistematicamente a 360 gradi.” Avendo adottato il Pacchetto, l’Europa può guidare l’economia globale verso un’economia più circolare? “Io penso che non solo possa, ma che fondamentalmente dovrebbe. Vorrei spiegarle perché. Oggi c’è una seria richiesta di ridefinire la sovranità perché molti dei nostri problemi,

come il cambiamento del modello economico, possono essere risolti solo a livello globale. Un esempio di ridefinizione della sovranità è l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici in cui tutti noi conveniamo sulla necessità di introdurre soluzioni sul miglior modo possibile per proteggere l’ambiente. Perché l’Unione europea è così importante in questo ambito? Perché 70 anni fa l’Ue ha ridefinito la sovranità per raggiungere un unico scopo: evitare conflitti e guerre sul suolo europeo. Ha incontrato diversi problemi ma, alla fine, ha raggiunto il suo obiettivo. E tutte le sfide che abbiamo di fronte oggi sono più o meno le stesse che l’Europa aveva di fronte allora. Per ridefinire la sovranità, penso fondamentalmente che, oltre alle tre convenzioni che già esistono dal 1992, la Convenzione sui cambiamenti climatici, la Convenzione sulla biodiversità (Cbd) e la Convenzione contro la desertificazione (Ccd), ci potrebbe essere bisogno di un’altra convenzione che potremmo chiamare ‘Convenzione sulla gestione delle risorse naturali’. Questa nuova convenzione dovrebbe fondamentalmente connettere le tre già esistenti, collegherebbe le storie della biodiversità o dei cambiamenti climatici con quella di un nuovo modello economico, creerebbe le condizioni necessarie e rimuoverebbe delle barriere, come quelle dei mercati, che attualmente ci impediscono di andare oltre a livello globale.” Ora che il Pacchetto sta per diventare legge, come può l’economia circolare rimanere tra le priorità dell’agenda politica? “Sono assolutamente convinto che l’economia circolare dovrebbe rimanere tra le priorità dell’agenda politica. È essenziale per la transizione verso un’economia più responsabile e sostenibile. È una parte estremamente importante della risposta nella battaglia ai cambiamenti climatici. Non è assolutamente sufficiente concentrarsi su energia e offerta. Dobbiamo guardare anche al lato della domanda: i modelli di produzione e consumo, il consumo di altre risorse come terreni, acqua e particolari materiali che non vengono gestiti appropriatamente. Una gestione inefficiente delle risorse potrebbe diventare un’ulteriore propulsore alle emissioni di CO2 e non risolveremmo adeguatamente il problema del clima. E, infine, l’economia circolare è una risposta importante, se non la risposta, per la competitività dell’economia dell’Unione europea che, come ho già detto, è estremamente dipendente dalle importazioni. Un politico che non lo capisce non dovrebbe fare politica.”


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The American Way L’America usa poco il termine economia circolare. Ma il mondo delle corporations guarda con attenzione al di là dell’Atlantico. Reportage dal 4° Summit sull’economia circolare e sostenibilità della Camera di Commercio Usa. di Emanuele Bompan, da Washington D.C.

4° Summit sull’economia circolare e sostenibilità, www.uschamber foundation.org/ event/fourth-annualsustainability-andcircular-economy-summit

Qual è la differenza tra la circular economy vista da Bruxelles e quella vista da Washington D.C? Per avere la risposta bisognava essere al 4° Summit on Circular Economy della US Chamber of Commerce Foundation, la fondazione della potente Camera di Commercio americana e contare il numero di corporation da oltre un miliardo di dollari presenti. Nomi del calibro di CocaCola, AB-InBev, Lockeed Martin, Veolia, Lexus. La circolar economy è un tema che interessa terribilmente il Big Business. Sparuto invece il numero delle associazioni registrate, inesistente la presenza della pubblica amministrazione e del governo, limitato a un ristretto manipolo dell’Epa, l’Agenzia di protezione dell’ambiente americana. Niente a che vedere con il Circular Economy Stakeholder Summit di Bruxelles, frequentato da tantissimi enti di ricerca, IGOs (organizzazioni intergovernative), associazioni, agenzie europee, camere di commercio e un numero più ristretto di grandi imprese. Fin dalle 8.30 del mattino gli iscritti si affollano all’ingresso della sede della Chamber of Commerce Foundation, nei pressi di Lafayette Square, letteralmente di fronte alla Casa Bianca. Caffè in abbondanza e tanti giovani. “Per la nostra

impresa è importante guardare con attenzione a questi nuovi trend”, spiega James R. Lee, ingegnere esperto in sostenibilità di Lockheed Martin, colosso dell’aerospaziale della sicurezza globale. “Circular economy non è un termine diffuso in Usa, ma le aziende, specie quelle del packaging stanno imparando in fretta”, racconta Scott Byrne, environment specialist di Tetra Pak. Un rappresentante di una grande azienda del Michigan, che preferisce non rilasciare il nome, rivela la motivazione politica dell’improvviso interesse del mondo imprenditoriale nella circular: “di clima meglio non parlare a Washington, l’economia circolare è un termine politicamente neutro che tutti possono usare”. Nelle sessioni si discute di come raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) con focus sul goal 12 (modelli di consumo e produzione responsabili) e di come comunicare la propria “circolarità e sostenibilità reale”. “La comunicazione è fondamentale”, spiega Deborah Philips dell’American Chemistry Council che plaude l’approdo della circular in Usa: “è una grande opportunità per il mondo della chimica statunitense e per tutto il settore del packaging”.

Ian Wagreich/©U.S. Chamber of Commerce

Focus The Big Package


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materiarinnovabile 21. 2018 gestione delle risorse che soddisfi le necessità industriali di oggi e quelle del futuro. Basta leggere la strategia dell’Epa su Smm nel periodo 2017-2022 per capire le tante somiglianze tra Smm e economia circolare.

D’accordo l’Epa, che in una mail ci ribadisce l’importanza del concetto di Sustainable materials management (Smm), gestione sostenibile dei materiali attraverso l’intero ciclo di vita. I principi di questo approccio si fondano sull’uso efficiente dei materiali, con enfasi sulla riduzione di elementi tossici nei materiali lungo l’intero ciclo vita, su una

Alla domanda “cosa ne pensate del Pacchetto Ue sull’economia circolare e la nuova strategia sulla plastica?” i partecipanti rispondono cautamente. In America i regolamenti piacciono poco. Però se ne parla. “Avere un campo da gioco spianato aiuterebbe tantissimo” aggiunge Walker. “Le imprese americane impazziscono con il patchwork di leggi statali, diverse l’una dall’altra, che comportano spesso importanti danni economici. Inoltre alcuni Stati e contee non hanno legislazioni di alcun tipo per fare la raccolta differenziata. WBCSD non propone solitamente interventi regolativi, ma in questo caso c’è bisogno di una leadership federale”.

Freya Williams, Cheryl Coleman, Cindy Ortega. Ian Wagreich/©U.S. Chamber of Commerce

Scott Mackey, John Kotlarczyk Jr., Laurene Hamilton, Denise Coogan, Alan Barton. Ian Wagreich/©U.S. Chamber of Commerce

U.S. Epa Sustainable Materials Management Program Strategic Plan, www.epa.gov/ sites/production/ files/2016-03/documents/ smm_strategic_plan_ october_2015.pdf

Secondo il direttore del World Business Council For Sustainable Development (WBCSD) North America Chris Walker “il concetto di economia circolare non è ancora popolare in America poiché qua si è sempre parlato di uso efficiente dei materiali. Inoltre questo concetto in Europa ha una visione ambientale di lungo termine. In America si basa soprattutto sulle opportunità di business legato alle materie prime seconde. Cinque anni fa veniva percepito come una questione da ambientalisti amici degli alberi. Oggi economia circolare comincia a prendere il significato di riconoscere come i rifiuti siano un’opportunità di business, con un valore da identificare”.

Però questo non basta, spiega a Materia Rinnovabile Chris Walker: “c’è bisogno di coniugare la visione integrale dell’economia circolare europea”. Ed è proprio questo l’obiettivo della Camera di Commercio che a oggi organizza l’evento più importante degli Stati Uniti sul tema economia circolare. E dalla partecipazione si può scommettere che l’interesse è in aumento.

Una posizione condivisa da altri intervistati. Se l’Europa diventa circular è bene armonizzare il mercato delle merci ed evitare barriere commerciali. “Accadrà come con le emissioni dei veicoli. [In Usa] 49 Stati avevano standard deboli. La California invece aveva approvato target molto elevati. Eppure data l’importanza del mercato dell’automotive californiano, a livello federale si sono scelti standard di emissioni elevate. Così se l’Europa ha un approccio di mercato aggressivo, con al centro la circular, tutto il mondo del


Ann Amstutz-Hayes, Audrey Lundy, Stacy Okonowsky, Scott Breen. Ian Wagreich/©U.S. Chamber of Commerce

Policy

business Usa seguirà questi standard elevati, per non rischiare di perdere sul mercato”, conclude Walker. Anche l’Agenzia per la protezione dell’ambiente guarda con attenzione al modello proposto da attori come la Ellen MacArthur Foundation, presente come osservatore con la direttrice delle operazioni in Usa, Del Hudson. “Cresce l’intenzione di sostanziare il paradigma della gestione sostenibile dei materiali”, spiega dal palco Cheryl Coleman, direttore della conservazione delle risorse dell’Epa. “Molti Stati hanno adottato il processo Smm nei loro programmi. Oggi da una visione end-of-life di gestione dei rifiuti stiamo passando a una gestione dell’intero ciclo di vita del prodotto”. In particolare in settori come la carta

Betsy Hickman, Suzy Friedman, Bernadette Hobson, Megan Weidner. Ian Wagreich/©U.S. Chamber of Commerce

Il Dipartimento per l’agricoltura americano stima che oltre un terzo dei vegetali e frutta acquistati dagli americani venga buttato nella spazzatura.

e il packaging. Industrie, non profit e pubblica amministrazione implementano sempre più strategie di life-cycle analysis, obiettivi zero-waste, strategie di sostenibilità, e iniziative di SSM. Inoltre l’Epa rimane sempre interessata a conoscere e condividere le iniziative e le pratiche più diffuse in particolare nell’ambito della Resource efficiency (Re) l’efficiente uso delle risorse, come delineato dal Smm Strategic Plan realizzato dall’Epa. Al centro dell’intervento di Cheryl Coleman, grande attenzione agli scarti alimentari, che sono oggi la materia numero uno che finisce nelle discariche e inceneritori americani. Lo spreco alimentare vale il 21% dei rifiuti municipali. Nel 2014 solo il 5,1% di oltre 38 milioni di tonnellate è stato impiegato per produrre energia o compost. Il resto finisce in discarica. L’Usda, il Dipartimento per l’agricoltura americano, stima che oltre un terzo dei vegetali e frutta acquistati dagli americani venga buttato nella spazzatura. Ridurre il foodwaste ridurrebbe da solo il 20% del totale delle emissioni di metano derivate dalle discariche. Senza dimenticare che nel Paese 42 milioni di persone sono a rischio insicurezza alimentare. “Il governo americano ha come obiettivo dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030”, dice la Coleman. “L’Europa ci sta riuscendo, possiamo farlo anche noi.” Intanto l’Europa lavora per mettere piede in Usa, in attesa del boom della circular economy. Nutrita la delegazione di imprese olandesi, con tanto di delegato di ambasciata, Bart de Jong, esponenti di Rabobank Groep N.V. (il colosso bancario di Utrecht, molto attivo nella circular) e altre imprese orange dell’economia circolare presenti. “C’è molto da fare e le imprese europee si stanno creando un vantaggio competitivo”, dice De Jong. “Ma questo non significa che il mondo corporativo Usa non impari in fretta: ciò brucerebbe il nostro vantaggio competitivo.”

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L’importanza di un approccio dal basso

www.circulary.eu

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Intervista ad Alexandre Affre

Sono sempre più numerose in Europa le aziende consapevoli del fatto che l’economia circolare non è una moda, ma una vera strategia industriale in grado di rafforzare la propria attività. “Il mondo imprenditoriale è pienamente coinvolto nella rivoluzione dell’economia circolare. Non solo perché risparmiare risorse è un buon affare, ma anche per il suo forte impatto positivo sia sul mercato del lavoro sia sulla sostenibilità.” La posizione ufficiale di BusinessEurope, espressa dal direttore di Industrial Affairs Alexandre Affre,

©BUSINESSEUROPE / Foto: Erik Luntang

di Emanuele Bompan, da Bruxelles

Scienziato, con un master in ecologia, Alexandre Affre come direttore del dipartimento per la Politica industriale di BusinessEurope è responsabile per il coordinamento delle politiche su energia, clima, industria, ricerca e innovazione. In passato ha lavorato alla rete di monitoraggio sul commercio della fauna selvatica di Wwf e Iucn.

offre un’immagine chiarissima dell’opinione del mondo imprenditoriale riguardo alle riforme contenute nel Pacchetto per l’economia circolare, e alle future direttive dell’Unione europea sullo stesso tema. L’anno scorso BusinessEurope (abbreviazione di The Confederation of European Business, lobby che rappresenta aziende di tutte le dimensioni nell’Unione europea) ha lanciato una nuova piattaforma per offrire una vetrina alle imprese circolari. L’ha fatto durante la sessione conclusiva di EU Green Jobs Summit 2017, e quest’anno si impegnerà ulteriormente nella promozione della sua agenda per l’economia circolare, esercitando forti pressioni per convertire all’economia circolare il modo europeo di fare business. Materia Rinnovabile ha incontrato Alexandre Affre nel corso del Circular Economy Stakeholders Event, un importante evento organizzato dal Comitato economico e sociale europeo a Bruxelles. Qual è la prospettiva di BusinessEurope sull’economia circolare in Europa? Quanto sta crescendo, e a che velocità? “Come BusinessEurope siamo coinvolti


Policy nell’economia circolare perché osserviamo che un numero crescente dei nostri membri e aziende ne sono interessati, quando non stanno già portando avanti qualche attività riconducibile all’economia circolare. Per loro non si tratta di una moda, ma di una strategia industriale per rafforzare la propria attività. Si tratta di un processo dal basso, che arriva dal settore industriale e sta lentamente trasformando il modo di operare dell’economia europea, delle aziende e delle imprese. Offriamo una vetrina delle iniziative imprenditoriali di economia circolare per aiutare i nostri membri a diventare veramente circolari o a migliorare le proprie attività nel contesto dell’economia circolare.” Il Pacchetto per l’economia circolare può accelerare la transizione delle imprese verso questo modello? “Il Pacchetto che è stato adottato costituisce un passo positivo, e ci aspettiamo che incrementi parecchio questa tendenza. Quello che ci piace del Pacchetto è l’approccio dal basso che ha aiutato a risolvere le difficoltà concrete che le aziende si sono trovate ad affrontare.” Qual è il suo risultato più importante? “Che oggi le aziende abbiano molto più accesso a materiali riciclati. Dato che si stanno impegnando in modo crescente a utilizzare materiali riciclati nei loro prodotti, la sfida risiede nella quantità e nella qualità dei materiali a disposizione. È necessario raggiungere questi obiettivi in modo progressivo, impegnandosi a raggiungere livelli intermedi attraverso i quali nel giro dei prossimi due anni un’azienda potrà raggiungere una percentuale del 30 o 40% di materiale riciclato nel proprio processo produttivo. Penso che non dovremmo solo creare un flusso di materiali a livello nazionale, ma cercare fornitori in tutta Europa. Ci sono difficoltà sulla fornitura di alcuni materiali, ma sono sicuro che riusciremo a superarle.” Parlando di economia circolare in Europa, quali settori vedete svilupparsi con maggiore rapidità? “Sicuramente quello delle aziende che si occupano di gestione dei rifiuti nell’Europa occidentale. La situazione è più complicata nei paesi dell’Europa centrale e orientale per questioni culturali, e questo è un aspetto che dobbiamo rispettare e accettare, come a mio parere fa il Pacchetto. Le cose stanno cambiando, ma non tutti i paesi si stanno muovendo alla stessa velocità. Questa è la ragione per la quale come BusinessEurope stiamo cercando di impegnarci in quei paesi in cui la velocità di cambiamento è inferiore. Stiamo pianificando gli eventi e i workshop di quest’anno proprio in quei paesi, suggerendo soluzioni possibili per attività e aziende.” Le istituzioni finanziarie mostrano interesse per l’economia circolare? “Gli investitori sono sempre più interessati, e la finanza etica sta diventando di tendenza. Questo

sta già accadendo, e ci aspettiamo che questo fenomeno continui a crescere.” Per dare una spinta all’innovazione servono più investitori o più tasse? “Bisogna stare attenti alle soluzioni politiche (comprese le tasse) che possono creare più problemi di quanti ne risolvono.” Le aziende mostrano interesse per marchi, certificazioni o strategie di misurazione che valutino la loro circolarità e promuovano gli investimenti circolari? “Non ho dati da fornire al proposito, ma da conversazioni, discussioni e feedback ricevuti posso dire che molte aziende valutano da sé il proprio grado di circolarità. Per le aziende ha molto senso essere più efficienti, utilizzare le risorse in modo più efficace ed essere meno dipendenti da prezzi volatili. Quindi le aziende valutano la propria circolarità, magari senza condividerne i dati, ma sicuramente lo stanno facendo.” Dovremmo accantonare l’idea di un marchio per l’economia circolare? “Attualmente il modo in cui le aziende comunicano il proprio operato al mondo esterno, che sia ai clienti e ai consumatori o ai legislatori attraverso informazioni, siti web o altri mezzi di comunicazione, dipende dalla strategia commerciale di ogni singola azienda. Alcuni utilizzano l’etichettatura, altri utilizzano gli strumenti informatici per offrire informazioni sui prodotti che immettono sul mercato. Perciò non penso che ci sia un’unica soluzione adatta a tutti i casi. Dobbiamo essere cauti sulle nuove etichettature e flessibili con le aziende.” Le aziende stanno investendo negli incubatori di economia circolare? “Il World Economic Forum ha un progetto dedicato a questo tipo di attività. Gli incubatori esistono grazie al supporto della comunità finanziaria; hanno lo scopo di mettere insieme gli investitori per ottenere le risorse necessarie a nuovi progetti e iniziative.” Il mondo economico del Nord America è attento a quanto accade nell’Unione europea? “Per quello che ne so io è un argomento di attualità anche negli Stati Uniti, anche se con un accento un po’ diverso, perché lì l’interesse è molto più rivolto alla questione dell’efficienza energetica. Non sono sicuro che il termine economia circolare sia visibile negli Stati Uniti quanto lo è in Europa; ma comunque numerosi investimenti vengono orientati all’efficienza delle risorse, all’utilizzo dei materiali e al riciclaggio. Spesso ne parliamo con i colleghi nordamericani, e la Camera di Commercio statunitense, che è la controparte del nostro BusinessEurope, è abbastanza attiva su questo tema. Discutiamo con loro su questioni di commercio, clima ed efficienza delle risorse. Vedo sicuramente un gran potenziale di collaborazione fra queste due aree del mondo.”

Circular economy industry platform, www.circulary.eu BusinessEurope, www.businesseurope.eu

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materiarinnovabile 21. 2018

Focus The Big Package

Direttiva imballaggi

Gli obiettivi per i rifiuti di imballaggi indicati dall’Europa, per l’Italia in molte filiere sono a portata di mano. Ma per chiudere il cerchio occorre che l’industria della valorizzazione riceva materiali sempre di maggiore qualità. Il punto di vista di Giorgio Quagliuolo, presidente di Conai, sulla nuova direttiva. Anche gli imballaggi hanno trovato spazio nel Pacchetto europeo sull’economia circolare, approvato lo scorso aprile dal Parlamento europeo e che prevede la revisione della direttiva speciale1994/62/CE in materia di rifiuti di imballaggi (gli Stati membri avranno due anni di tempo per recepire le nuove norme). Tra le principali novità: l’obbligo per ciascun Paese di istituire schemi Epr (Extended Producer Responsibility) per il sistema di riciclo degli imballaggi a partire dal 2025, nuovi obiettivi di riciclo e la centralità del tema degli imballaggi riutilizzabili, per i quali vengono fornite delle indicazioni sulle misure che gli Stati membri possono mettere in campo per incentivarne l’immissione sul mercato. “Complessivamente il giudizio di Conai su questa revisione è positivo: oltre 20 anni di operato ed esperienza sono stati messi nero su bianco in una direttiva europea, nel tentativo di dare uniformità ai diversi sistemi europei che si sono evoluti nel tempo e nei modi” afferma Giorgio Quagliuolo, presidente di Conai, il Consorzio italiano per la gestione dei rifiuti da imballaggio. “La nuova direttiva di fatto riconosce ai Sistemi per il riciclo e recupero degli imballaggi come Conai, istituiti ai sensi dell’art. 7 della direttiva stessa, il ruolo di pionieri degli schemi Epr. Sarà comunque delicata la fase di recepimento delle nuove disposizioni nel Testo Unico in materia ambientale”.

di Roberto Rizzo

Conai, www.conai.org

I nuovi obiettivi

Giorgio Quagliuolo

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I nuovi obiettivi al 2025 e 2030 per il riciclo degli imballaggi sono rispettivamente del 65% e del 70% dell’immesso al consumo complessivo in peso, con sotto-obiettivi per le diverse filiere (grafico 1). Si tratta di obiettivi che dovrebbero essere a portata di mano per l’Italia, se si analizzano i risultati relativi al 2016 (grafico 2): 8,4 milioni di tonnellate di rifiuti da imballaggio avviati a riciclo, pari al 67% dell’immesso al consumo complessivo; obiettivi al 2025 già raggiunti per

le singole filiere di vetro, carta, acciaio, alluminio e legno. Per la scadenza del 2030 risultano aver già oggi raggiunto gli obiettivi le filiere alluminio e legno. Tutto questo in base all’attuale metodologia di calcolo, che però in futuro potrebbe essere modificata. Con la revisione della direttiva verranno infatti definite regole comuni tra i diversi Stati membri sul punto di misurazione dei dati e sulla trasparenza del reporting allo scopo di permettere un confronto più uniforme tra le diverse performance nazionali. “Sarà fondamentale chiarire l’esatto punto di misurazione dei flussi avviati a riciclo, che secondo il nostro giudizio dovrà considerare o il flusso in ingresso all’impianto di riciclo, o quello in uscita dagli impianti di selezione, con criteri che codifichino la qualità del materiale”, afferma Quagliuolo. La sfida della plastica È la filiera della plastica la più distante dagli obiettivi al 2025 e sarà quindi cruciale individuare strumenti e misure strutturali per ottenere un salto di qualità. Al riguardo, lo scorso gennaio è entrato in vigore il contributo diversificato per gli imballaggi in plastica che distingue tra imballaggi oggi selezionabili e riciclabili agevolandoli dal punto di vista del contributo che deve essere sostenuto dalle aziende per la loro valorizzazione a riciclo/ recupero, e imballaggi che invece presentano maggiori criticità al riciclo, sui quali intervenire con iniziative specifiche di promozione di R&S, come ecodesign, design for recycling. “Per chiudere il cerchio – afferma Quagliuolo – è fondamentale che l’industria della valorizzazione abbia materiali in ingresso sempre più di qualità, motivo per cui promuoviamo l’incremento della raccolta differenziata, accompagnata però da standard sui sistemi di raccolta che ne garantiscano un adeguato livello qualitativo per il riciclo. In proposito, è stata recentemente


Policy Grafico 1 | Obiettivi al 2025 e 2030 per il riciclo complessivo degli imballaggi e per le singole filiere (in peso) Fonte: Conai.

PLASTICA

LEGNO

ALLUMINIO

MATERIALI FERROSI

VETRO

CARTA E CARTONE

TOT

2025

50

25

50

70

70

75

65

2030

55

30

60

80

75

85

70

%

%

Grafico 2 | Avvio al riciclo degli imballaggi in Italia tra il 2014 e il 2016, complessivo e per le singole filiere Fonte: Conai.

2014 %, kt

2015 %, kt

2016 %, kt

PLASTICA

LEGNO

ALLUMINIO

38

59

74

790 kt

1.553 kt

47 kt

41

60

70

867 kt

1.641 kt

47 kt

41

61

73

894 kt

1.705 kt

49 kt

pubblicata la norma tecnica UNI 11686 Waste visual elements, che si pone l’obiettivo di promuovere e armonizzare la raccolta differenziata in Italia e non solo.” L’Italia del riciclo degli imballaggi: una best practice europea “Come sistema di consorzi, che ha funzionato mettendo in atto la responsabilità condivisa tra i diversi attori della filiera, coinvolgendo in primis i produttori e gli utilizzatori di imballaggi, crediamo di poter ancora dare un importante contributo” prosegue Giorgio Quagliuolo. “Ciò a maggior ragione se si considera che la nuova direttiva, proprio sulla base dei positivi risultati conseguiti, prevede l’obbligatorietà della istituzione di sistemi di gestione dei rifiuti d’imballaggio analoghi al nostro (Epr). Fra i fattori successo che hanno consentito all’Italia, anche grazie al contributo di Conai, di fare negli ultimi 20

ACCIAIO

72,5 336 kt

73,4 348 kt

77 ,5 360 kt

VETRO

CARTA

TOT

70

79

65

1.615 kt

3.482 kt

7.822 kt

80

67

3.653 kt

8.216 kt

80

67

3.752 kt

8.448 kt

70,9 1.661 kt

71 ,4 1.688 kt

anni numerosi passi in avanti, fino a diventare tra le best practice europee nel riciclo in particolar modo negli imballaggi, svettano un contesto normativo chiaro e con pari regole per tutti, la natura privatistica e imprenditoriale di Conai, da cui deriva la sua autonomia d’azione per il perseguimento degli obiettivi di riciclo e recupero, e il suo carattere no profit, che consente di incidere sull’intera filiera con misure di prevenzione”. Fermo restando che in Italia sarà comunque necessario continuare a investire sul potenziamento dei livelli qualitativi e quantitativi nelle aree in ritardo rispetto agli obiettivi di legge, in particolare nel Centro-Sud, dove le percentuali di riciclo sono ancora più basse rispetto alla media europea, nonostante siano sempre più numerose le buone pratiche anche in questa area del Paese. Bari, Catanzaro, Potenza, sono solo alcuni dei comuni con cui Conai sta collaborando da alcuni anni e dove sono stati ottenuti risultati positivi già nel breve-medio periodo.

Roberto Rizzo, giornalista scientifico, EGE (Esperto in Gestione dell’Energia) Certificato ed esperto della Commissione Europea per il programma delle Nazioni Unite “Sustainable Energy for ALL” (SE4ALL) in Africa sub-sahariana.

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La via della plastica non porta più a Oriente

Focus plastica

di Giorgia Marino

Pechino impone restrizioni sugli import di scarti da riciclare scombinando le carte in tavola: sia per l’industria cinese, sia per il sistema globale di smaltimento e riciclo dei rifiuti, specie quelli plastici. Se da una parte il mondo dovrà accelerare la transizione verso un’economia circolare, dall’altra stanno già cambiando le rotte della plastica, dirigendosi verso mercati alternativi. Una bambina gioca in mezzo a cumuli di imballaggi e rifiuti plastici provenienti da ogni parte del mondo; va a “pescare” pesci morti in un torrente di liquami, mentre le pecore brucano il pluriball dal prato; accende la brace per la cena con pezzi di nylon e va a dormire nella sua stanza, tappezzata di confezioni di caramelle e figurine americane raccolte dalla discarica. Siamo nello Shandong, provincia nord-orientale della Cina. La casa di Yi-Jie è

una piccola fabbrica a conduzione familiare per il riciclo della plastica, in un distretto che, come spesso avviene nella Repubblica Popolare per svariati settori, è interamente dedicato a questa attività. In pratica, un inferno di plastica. Yi-Jie è la protagonista del documentario “Plastic China” del regista e giornalista ambientale Wang Jiuliang. Uscito nell’autunno 2016, dopo tre anni di lavoro e ricerche, il film ha girato il mondo


Policy raccogliendo premi e riconoscimenti internazionali (anche in Italia, primo premio al Festival CinemAmbiente 2017). Soprattutto ha ottenuto una grande eco in patria, con corollario di indignazione popolare e conseguente censura governativa, come ha dichiarato lo stesso Wang. Il lavoro denuncia infatti una pratica divenuta negli anni una vera e propria piaga, ambientale ma anche sociale, per la Repubblica Popolare: l’importazione dall’estero di rifiuti da riciclare, per soddisfare

un’industria sempre più affamata di materie prime. Si parla, solo per il 2016, di 50 milioni di tonnellate di materie di recupero importate, includendo carta, ferro, acciaio e altri metalli; di queste, 7,3 milioni di tonnellate sono plastica, quasi la metà proveniente dall’Europa, il resto prevalentemente da Stati Uniti, Corea e Giappone. “Nel complesso, fino a oggi, il suolo cinese ha accolto circa il 56% della plastica buttata dal resto del mondo”, precisa Liu Hua, attivista cinese di Greenpeace East Asia.

“Plastic China” di Wang Jiuliang, www.youtube.com/ watch?v=v0Kif9cugQ0

Immagini ©2016 Dave Hakkens

Laureata in Scienze della Comunicazione a Torino, Giorgia Marino – giornalista freelance e web editor – scrive di cultura, ambiente e innovazione. In passato direttore del magazine Greenews.info oggi lavora per diverse testate tra cui La Stampa.

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materiarinnovabile 21. 2018 Insomma, la Cina, dopo essersi ritagliata il ruolo di fabbrica del pianeta, si è trasformata, neanche troppo lentamente, nella sua discarica. Ora, però, non vuole più questa parte. Le bambine che corrono su colline di spazzatura portata dall’estero mal si accordano con il New Deal verde brillante del presidente Xi Jinping. E del resto, lo confermano anche da Greenpeace, il problema

dell’inquinamento da plastica era da tempo nell’agenda delle priorità politiche di Pechino. “Il Paese – spiega Liu Hua – deve già vedersela con la quantità crescente di rifiuti prodotti in casa, di cui oltre 3,5 milioni di tonnellate vengono riversati ogni anno in mare. Un numero che non farà che aumentare, visto che il consumo pro capite di plastica in Cina è salito alle stelle negli ultimi anni, a causa della crescita dei consumi della classe media e della diffusione dei servizi di consegna a domicilio di cibo e bevande.”

Immagini ©2016 Dave Hakkens

La Spada della Nazione e i nuovi standard Ci sono quindi voluti solo pochi mesi perché fosse approvata una normativa che limita fortemente, stabilendo standard più severi, l’import di materiali di scarto dall’estero. Le restrizioni comunicate alla World Trade Organization riguardano 24 tipologie di rifiuti solidi fra i più inquinanti, come la plastica per uso domestico, la carta indifferenziata o mista, gli scarti tessili e scorie di varia natura. A queste – stando alle ultime comunicazioni di fine aprile da parte del ministero dell’Ambiente di Pechino – si aggiungeranno nuove limitazioni con cadenza annuale (dicembre 2018 e dicembre 2019), in un progressivo piano di “ripulitura” dei flussi in entrata su suolo cinese. Il divieto che interessa i rifiuti prodotti da uso quotidiano è già entrato in vigore dal 1° gennaio 2018, mentre dal 1° marzo sono diventati effettivi i nuovi standard di impurità per gli scarti industriali. “Il problema maggiore, infatti – continua Liu – soprattutto per quanto riguarda la plastica, è che i materiali importati erano spesso di bassa qualità e scarso valore”: altamente “impuri”, insomma, perciò più inquinanti. Altre volte, invece, sono le caratteristiche intrinseche del materiale a costituire il problema, come per il pvc che rilascia diossina nell’ambiente. E poi ci sono i rifiuti compositi, i poliaccoppiati con carta plastica e alluminio ad esempio, difficilissimi da riciclare, soprattutto se si pensa alle scarse tecnologie di manifatture a conduzione familiare come quella ritratta dal film di Wang Jiuliang. Va detto che, per decenni, il rispetto degli standard qualitativi internazionali (quelli già vigenti) non è stato per il mercato cinese la prima preoccupazione nell’importare rifiuti dall’estero, così come per gli stessi Paesi esportatori. La rapida crescita dell’industria richiedeva materie prime e non c’era tempo di andare troppo per il sottile. Con l’aumento della produzione, la Cina si è però trovata da un lato ad avere una maggiore riserva interna di materiali da riciclare, e dall’altro a dover gestire una crescente pressione dell’opinione pubblica per il problema dell’inquinamento industriale. Due fattori che, già all’inizio del 2017, hanno portato Pechino a un primo giro di vite nei controlli sui container di rifiuti provenienti dall’estero, ispezionati accuratamente (e platealmente) con tecnologie a raggi x per garantire la conformità agli standard qualitativi. La Spada della Nazione (National Sword), come è stata battezzata con la consueta roboante


retorica la campagna di controlli, si è dunque abbattuta sugli export internazionali, evolvendosi pochi mesi dopo nelle ben più severe restrizioni comunicate al WTO. La Cina, dunque, ha pensato a se stessa. E lo ha fatto come sempre senza stare tanto a tergiversare, quasi da un giorno all’altro. Spiazzando la comunità internazionale e il sistema globale di smaltimento e riciclo, che sulla possibilità di spedire la propria spazzatura in Estremo Oriente ha sempre fatto (forse troppo) affidamento. “Le nuove soglie di impurità stabilite sono così basse che costituiscono, di fatto, un blocco per molte importazioni”, ha dichiarato negli scorsi mesi Arnaud Brunet, direttore generale del Bureau of International Recycling, la federazione internazionale delle industrie del riciclo con base a Bruxelles. “La Cina – spiega Brunet, interpellato da Materia Rinnovabile a febbraio – voleva inizialmente fissare le soglie allo 0,3%, poi ha acconsentito a portarle allo 0,5% per quasi tutti i materiali”. Il BIR aveva anche chiesto un periodo di transizione di cinque anni per consentire un adeguamento graduale del sistema internazionale, “ma la richiesta – dichiarano – non è stata neanche presa in considerazione”. Prime conseguenze Ora cosa accadrà? La prima, scontata conseguenza è la diminuzione delle importazioni (o esportazioni, a seconda del punto di vista) di materiali di scarto.

Precious Plastic: il futuro del riciclo è open source? La plastica è preziosa. Non è scontato affermarlo, visto che il valore attribuitole dal mercato (e che l’ha resa la materia usa-egetta per eccellenza) non rispecchia né le sue straordinarie caratteristiche di resistenza, durevolezza e versatilità, né gli ormai palesemente insostenibili costi ambientali. Per questo, il trentenne designer olandese Dave Hakkens ha battezzato “Precious Plastic” il suo ambizioso progetto per diffondere il riciclo fai da te del materiale più sprecato e abusato al mondo. La sua missione è mettere a disposizione di chiunque gli strumenti per recuperare la plastica di scarto e farne vari oggetti da rivendere (stoviglie, vasi, piastrelle, persino prese da arrampicata). L’idea, sviluppata a partire dal 2013, ha la sua genesi nell’universo dei makers e si nutre di quella cultura della condivisione e dell’innovazione dal basso tipica degli artigiani digitali. Ma se le stampanti 3D, totem della comunità globale dei makers, richiedono materie prime apposite e spesso costose, i macchinari di Hakkens nascono invece, nell’ottica dell’economia circolare, per utilizzare quello che già c’è. I piccoli laboratori di “Precious Plastic”, che racchiudono in meno di 30 metri quadrati tutto

il sistema di recupero e lavorazione e sono installabili ovunque, hanno inoltre una funzione didattica e “narrativa”: condensano e mostrano l’intero processo di riciclo, di solito relegato in strutture non accessibili al pubblico, rendendolo così alla portata di tutti e in un certo senso normalizzandolo. Sostanzialmente le macchine sono di tre tipi: gli shredder, che triturano i rifiuti plastici; i dispositivi che riscaldano il materiale trasformandolo in una pasta malleabile; gli estrusori, per ottenere forme a sezione costante, come un tubo. Tutti gli schemi e i tutorial per costruirle sono open source e disponibili sul sito. In più c’è un forum per chiedere aiuti e consigli e una piattaforma online per vendere prodotti o parti di macchine già costruite. Infine, una mappa interattiva localizza i membri della community in tutto il mondo: partiti dall’Olanda, ormai se ne contano centinaia, dalla Corea del Sud alla Nuova Zelanda, dal Messico al Kenya alla Thailandia. Insomma, una tecnologia preta-porter, a basso costo e potenzialmente replicabile da chiunque che, diffondendosi nei paesi in via di sviluppo, potrebbe diventare, nella visione di Hakkens, un importante tassello per il futuro del riciclo.

preciousplastic.com


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In dicembre, Brunet si sbilanciava dichiarando un calo atteso dell’80% nell’export di rifiuti plastici verso la Repubblica Popolare. Quella che già sembrava una previsione catastrofica, a giudicare dai dati rilasciati da Pechino in aprile, pare ora addirittura ottimistica. Se nel primo trimestre del 2018 un timido, e severamente controllato, flusso di scarti plastici ancora varcava i confini cinesi (circa 10.000 tonnellate, secondo i dati rilasciati dal ministero dell’Ambiente), dopo l’entrata in vigore dei nuovi standard a marzo il governo ha annunciato trionfante che l’import di plastica è stato azzerato. Gli effetti ricadranno innanzitutto sull’industria del riciclo in Cina. “È probabile – spiega Liu Hua – che l’intero settore vada incontro a un aumento dei prezzi dei rifiuti e allo stesso tempo si trovi ad affrontare una carenza di materia prima. Saranno le piccole fabbriche a conduzione familiare a patire maggiormente lo stress di questo cambiamento.” Stesso stress che subiranno le piccole e medie imprese (e non solo loro) di tutto il mondo se, come teme Brunet, “non si troverà in fretta una soluzione”. Rotte alternative Per alcuni la soluzione è nella ricerca di mercati alternativi. Le rotte della plastica stanno già cambiando, dirigendosi verso il Sudest Asiatico, dove del resto comincia a essere rilocalizzata la stessa industria manifatturiera cinese. Recenti stime del BIR, pubblicate in gennaio dalla Thomson Reuters Foundation, sembrano confermare questa tendenza. Le importazioni annuali di rifiuti plastici in Malesia, per esempio, dalle 288.000 tonnellate del 2016 sono schizzate a 450-500.000 tonnellate nel 2017. Nello stesso anno, in Vietnam le importazioni sono cresciute del 62%, in Indonesia del 65% e in Thailandia addirittura del 117%. “Effettivamente – conferma Brunet – ci si aspetta che questi Paesi assorbano almeno in parte i volumi di materiali di scarto prima destinati alla Cina, ma in ogni caso sono ben lontani dalla sua capacità.” Resta poi da vedere se siano sufficientemente equipaggiati per controllare e


Policy

Accelerare la circolarità Ripensare l’intero sistema di produzione e consumo in ottica sempre più circolare è per l’appunto ciò che si propone l’Europa. Almeno negli intenti, riaffermati anche nella recente “Strategia per la plastica nell’economia circolare”. Dove, volente o nolente, la Commissione ha dovuto rivolgere più di un pensiero alla decisione cinese. Ammontano a quasi 26 milioni di tonnellate i rifiuti plastici prodotti ogni anno dall’Unione europea,

e di questi meno del 30% viene oggi raccolto per il riciclo. Di questa porzione (circa 7,7 milioni di tonnellate), più o meno la metà viene solitamente inviata all’estero, soprattutto in Cina, dove, almeno fino ad oggi, finiva l’85% dell’export di scarti plastici europei (circa 3,3 milioni di tonnellate). Ora la situazione, per forza, dovrà cambiare, ma questo, scrivono con un certo ottimismo gli estensori del documento Ue, “potrebbe creare opportunità per il comparto europeo del riciclo”. Il problema, e non di poco conto, è la scarsa domanda di plastica riciclata da parte delle industrie dell’Unione. “L’utilizzo in prodotti nuovi è basso – si legge nella direttiva – e spesso si limita ad applicazioni di poco valore o di nicchia. L’incertezza riguardo agli sbocchi di mercato e al profitto tiene lontani gli investimenti necessari per far crescere la capacità di riciclo dell’Europa e spingere l’innovazione”. Ora però, “il restringersi delle rotte per l’esportazione di rifiuti da riciclare rende ancora più urgente lo sviluppo di un mercato europeo per la plastica riciclata”. Le tappe serrate del Dragone, allora, potrebbero costringere anche il Vecchio Continente ad accelerare il passo.

Immagini ©2016 Dave Hakkens

gestire il flusso di rifiuti plastici (anche illegali) che presumibilmente potrebbe arrivargli addosso, e c’è già chi teme problemi analoghi, se non peggiori di quelli sperimentati dai cinesi. “In ogni caso – commenta Liu Hua – spostare il problema non lo risolverà. Trasferire i rifiuti in un’altra parte del mondo non può nascondere il fatto che, globalmente, stiamo producendo molta più plastica di quanta il pianeta possa gestirne. Il blocco posto dalla Cina potrebbe allora essere un buon punto da cui partire per riorganizzare il nostro modello di consumo verso un minor spreco di risorse.”

Spostare il problema non lo risolverà. Trasferire i rifiuti in un’altra parte del mondo non può nascondere il fatto che, globalmente, stiamo producendo molta più plastica di quanta il pianeta possa gestirne.

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PRODUZIONE

MONDIALE DI PLASTICA (anno, milioni di tonnellate)

In Depth

infografiche di Michela Lazzaroni, testi di Antonella Ilaria Totaro

2013 299 CHI NE PRODUCE DI PIÙ (%, 2013)

2005 230

88

33

66 11

22 77 55

44

,1%

31

41

,6

%

1. Cina 24,8% 2. Europa (EU27+CH+NO) 20% 3. NAFTA 19,4% 4. Resto dell’Asia 16,4% 5. Medio Oriente, Africa 7,3% 6. Giappone 4,4% 7. America Latina 4,8% 8. CIS 2,9%

37,3%

EU28+NO/CH

per paese

TRATTAMENTO DEI RIFIUTI PLASTICI DOPO IL CONSUMO (2016)

12,9

in dieci anni

11,3

+ 61%

8,4

+ 79% - 43%

06

(mt)

20

16

Riciclaggio Recupero di energia Discarica

20

42

7,0

4,7

7,4


In Depth

2014 311

2016 335

2015 322

DOMANDA DI PLASTICA IN EUROPA (%, 2013) Germania 25,4%

Francia

Italia

9,7%

14,3%

UK

7,6%

Spagna 7,5%

Tutti gli altri paesi 35,5%

ANNI IMPIEGATI PER BIODEGRADARSI

Bottiglie di plastica

450

Lattine in alluminio Bicchieri in polistirene 200

50

Linea del tempo Pannolini

450

Svizzera Austria Germania Paesi Bassi Svezia Danimarca Lussemburgo Belgio Norvegia Finlandia Irlanda Estonia Slovenia Regno Unito Francia Portogallo Italia Repubblica Ceca Polonia Slovacchia Spagna Lituania Ungheria Romania Lettonia Croazia Bulgaria Cipro Grecia Malta

Paesi in cui esistono limitazioni sullo smaltimento in discarica

Filo da pesca

600

Da dove viene e dove va

Sono almeno mezzo milione le discariche in Europa, dove la società dei consumi nasconde la plastica sotto il tappeto. Sebbene molte siano gestite in maniera impeccabile, numerose diventeranno depositi a rischio inquinamento di materiali che ci metteranno centinaia di anni a degradarsi. Questi siti, che occupano oltre 6.000 chilometri quadrati di territorio, continuano a riempirsi di materiali non biodegradabili: il 37% della plastica smaltita in Europa finisce lì. Ma la situazione sta cambiando, con quote crescenti in differenziata. Nel resto del mondo il conferimento in discarica della plastica supera in media il 60%. E in molti paesi rimane un’alternativa alla dispersione nell’ambiente, diffusa dove non ci sono sistemi di gestione rifiuti.

Fonti: PlasticsEurope (PEMRG), report 2016 e 2017; NOAA / Woods Hole Sea Grant.

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materiarinnovabile 21. 2018

Focus plastica

La soluzione è circolare

ecoBirdy ©Luca Piras

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di Elena Comelli

Nei prossimi 10 anni la produzione di plastica da fonti fossili è destinata ad aumentare del 40%. Intanto l’Ue presenta la nuova Strategia per una gestione più circolare di questo materiale. Aumentandone il riciclo e favorendo la diffusione di bioplastiche.

Reporter di business, specializzata in energia e tecnologie pulite, Elena Comelli collabora con diversi giornali italiani, tra cui Il Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore.

Quando Daniel Webb ha aperto il ripostiglio che aveva dedicato ai suoi rifiuti di plastica, ammassandoli lì dentro per un anno intero, una montagna di 4.490 borse, imballaggi, confezioni, contenitori, bottiglie, bicchieri, posate, spazzolini ed altro gli è caduta addosso. Da quel momento, all’inizio del 2018, è iniziata un’opera di catalogazione, da cui è emerso che si tratta per il 93% di contenitori monouso e per il 60% di imballaggi di cibo. Solo otto pezzi della sua collezione sono fatti di plastica riciclata. Ora la montagna di rifiuti, debitamente riordinata, è stata fotografata ed è finita su un enorme murale fronte mare a Margate, ameno luogo di villeggiatura nel Kent, dove si è potuto ammirare come un monito alla decadenza della civiltà fino al 21 maggio. Nel frattempo, la catena di supermercati inglesi Sainsbury’s ha pensato di correre ai ripari di fronte alla “preoccupante” tendenza dei Millennials a consumare sempre meno carne per paura di toccarla, inventando un packaging di plastica ad hoc che consenta di cucinarla facendola scivolare direttamente nella padella, senza prenderla in mano. La prossima tappa sarà la banana senza buccia avvolta nella pellicola trasparente, per evitare la fatica di sbucciarla. Il progetto di Daniel, chiamato Everyday Plastic, conferma – se ce ne fosse bisogno – che viviamo nell’era della plastica. Il suo avvento è stata una

liberazione e ha migliorato in mille modi la vita quotidiana, ma al tempo stesso ci ha imprigionati in un mare di rifiuti e di micro-inquinamento. In base a un recente studio delle università americane della California e della Georgia, da quando la plastica è diventata un prodotto di massa negli anni ’50 a oggi ne sono state sfornate 8,3 miliardi di tonnellate; e le previsioni dei ricercatori stimano che questa montagna crescerà fino a 34 miliardi di tonnellate nel 2050. Nell’ultimo quinquennio, infatti, i big della petrolchimica hanno investito 186 miliardi di dollari in 318 nuovi stabilimenti, che porteranno a un aumento della produzione di plastica da fonti fossili del 40% nel prossimo decennio. Di questa enorme massa, fino ad oggi solo il 9% è stato riciclato e il 12% bruciato nei termovalorizzatori, mentre il 79% è andato a inquinare l’ambiente, in discarica, sul territorio o in mare. Nello studio – senza dubbio il più completo identikit nella storia di questo materiale – si stima che metà dei 340 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno diventa rifiuto dopo meno di 4 anni di uso, per non parlare dei sacchetti, che in media si utilizzano solo per 20 minuti. E sarà sempre più così, visto che la crescita della produzione è guidata dall’aumento dei contenitori monouso e dalle bottiglie. Il confronto con gli altri materiali ubiqui, come l’acciaio o il cemento, è deprimente: “Più di metà di tutto l’acciaio


Plastica prodotta e mal gestita Norvegia Canada

Regno Unito

27 Paesi Ue più Norvegia

Irlanda Stati Uniti

Danimarca Svezia

Belgio Francia Spagna

Portogallo Messico

Cuba Haiti Repubblica Domenicana Porto Rico Guatemala Honduras Trinidad e Tobago Nicaragua El Salvador Venezuela Costa Rica Guyana Panama Colombia

Marocco

Senegal

Ecuador

Finlandia

Paesi Bassi Germania Polonia Croazia Italia

Ucraina

Turchia Siria Iran Cipro Libano Pakistan Israele India Kuwait UAE*

Libia

Egitto

Arabia Saudita Yemen

Ghana

Costa d’Avorio

Cina

Oman

Nigeria

Giappone Corea del Sud Taiwan

Vietnam

Thailandia Sri Lanka

Somalia

Hong Kong

Bangladesh Myanmar

Filippine

Malesia

Singapore Papua Nuova Guinea

Indonesia

Angola

Perù

Corea del Nord

Grecia

Tunisia Algeria

Russia

Brasile Mauritius Cile

Uruguay Argentina

Sudafrica

*Emirati Arabi Uniti

Australia

Nuova Zelanda Popolazione costiera Produzione di rifiuti plastici in milioni di persone in migliaia di tonnellate al giorno, 2010 meno di 1 37 da 1 a 2 Rifiuti plastici da 2 a 10 totali prodotti 10 da 10 a 50 da 50 a 263 1 Porzione di plastica Paesi senza 0,2 mal gestita accesso al mare

Mural by the Sea, www.muralbythesea.co.uk

Fonte: Jambeck, J., R. e altri Plastic waste inputs from land into the ocean, Science, 2015; Neumann B. e altri Future Coastal Population Growth and Exposure to Sea-Level Rise and Coastal Flooding – A Global Assessment. PloS ONE, 2015.

che produciamo va nelle costruzioni, quindi viene utilizzato per decenni. Con la plastica è il contrario”, rileva Roland Geyer dell’Università della California a Santa Barbara, che ha guidato lo studio. “Oltre metà di tutte le materie plastiche diventano rifiuti dopo pochissimo tempo, da due giorni a quattro anni”. Il mare è l’ecosistema più colpito: lo stesso team aveva calcolato in uno studio precedente che 8 milioni di tonnellate di plastica all’anno finiscono in mare. Entro il 2050 gli oceani conterranno più plastica che pesce, secondo le stime della Ellen MacArthur Foundation. E gli esperti ammoniscono che la plastica si sta già facendo strada nella catena alimentare umana. In primo luogo nell’acqua di rubinetto. Il tasso più alto di contaminazione dell’acqua da bere, al 94%, è stato trovato negli Stati Uniti, secondo uno studio condotto da Sherri Mason, esperta di microplastiche della State University di New York a Fredonia. In pratica, quasi tutta l’acqua che esce dai rubinetti degli americani

è inquinata da fibre plastiche. L’India viene subito dopo. In Europa la situazione è migliore, ma siamo comunque al 72%. Non è chiaro come tutta questa plastica possa finire nell’acqua da bere, ma la spiegazione più plausibile, secondo i ricercatori, è che le microplastiche in sospensione in atmosfera, dove sono arrivate attraverso l’azione dell’usura quotidiana di materiali sintetici, finiscano nei laghi e nei fiumi con la pioggia. Un altro studio dell’Università di Paris-Est a Créteil ha scoperto nel 2016 che una pioggia di microplastiche scarica dalle 3 alle 10 tonnellate all’anno di questi materiali su Parigi, inquinando l’aria e le acque della città. “Riteniamo che laghi e fiumi siano stati contaminati dagli input atmosferici”, sostiene Johnny Gasperi che ha condotto lo studio. “Ciò che abbiamo osservato a Parigi tende a dimostrare che in atmosfera sia presente un’enorme quantità di fibre”. Una ricerca dell’Università di Plymouth, invece, ha appurato che circa un terzo dei pesci catturati nel Regno Unito sono contaminati da microplastiche.


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materiarinnovabile 21. 2018 Le immagini di questo articolo raffigurano gli oggetti in plastica riciclata proposti da Ecobirdy progettati dai designer Joris Vanbriel e Vanessa Yuan. Un progetto cofinanziato dal programma europeo COSME, che unisce alla realizzazione di oggetti di arredo per bambini, specifiche attività e supporti didattici. Ne parleremo più diffusamente in uno dei prossimi numeri. www.ecobirdy.com

1. Come preannunciato il 16 gennaio 2018 durante la presentazione della strategia europea sulla plastica, il 28 maggio 2018 la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sulla plastica monouso che punta a una significativa riduzione del consumo di alcune plastiche monouso, reca divieti di circolazione nella Ue di determinati prodotti di plastica (tra cui cotton fioc, forchette, coltelli, cucchiai, bacchette, piatti, cannucce), e prevede la promozione del design di quei prodotti di plastica a ridotto impatto ambientale.

Chi mangia regolarmente prodotti ittici ingerisce fino a 11.000 frammenti di plastica all’anno, secondo i risultati di uno studio dell’università di Gand, tanto che l’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha richiamato l’attenzione sulla necessità di studiare gli effetti delle microplastiche sul nostro organismo (di cui si sa pochissimo), “dato il potenziale di inquinamento da microplastiche nei pesci commerciali”. Alternative? Da un lato aumentare al massimo il riciclo della plastica già esistente e non biodegradabile, in modo da eliminare la necessità di produrne di nuova. Dall’altro, sostituire la plastica tradizionale derivata dal petrolio, con bioplastiche da materie prime rinnovabili, che oggi rappresentano appena l’1% della produzione annuale di plastica nel mondo: 4 milioni di tonnellate sui 340 milioni annuali. In Europa, la strategia adottata dalla Commissione Ue all’inizio di quest’anno punta al riciclo totale degli imballaggi da qui al 2030: un obiettivo

ambizioso, considerando che dei 26 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica prodotti ogni anno nell’Ue, per ora solo il 30% viene avviato a riciclo. Una quota significativa di questa percentuale, inoltre, viene trattata in mercati terzi, come la Cina, che ha recentemente annunciato un giro di vite sull’import di rifiuti in plastica, e solo il 6% rientra nella produzione di plastica europea. Da questa perdita di valore deriva un danno di oltre 100 miliardi di euro all’anno per l’economia dell’Unione. Emerge, quindi, l’urgenza di creare un mercato del materiale rigenerato, oggi molto limitato da una serie di blocchi, che le direttive in via di stesura finale cercheranno di superare. A fine marzo la commissione Ambiente del Parlamento europeo ha pubblicato una bozza di risoluzione, che sarà la base per le direttive europee in materia.1 Il relatore, l’europarlamentare conservatore belga Mark Demesmaeker, considera il documento varato da Bruxelles in gennaio come “un passo avanti nella transizione verso


Policy

2. Il 2 maggio 2018 la Commissione europea ha presentato la bozza del bilancio pluriennale 20212027. Tra le nuove risorse destinate a finanziare l’Unione europea è stato previsto anche un contributo sulla plastica non riciclata che, secondo alcuni calcoli, potrebbe portare 2 miliardi di euro nelle casse dell’Unione e disincentivare la produzione di plastica non riciclabile.

una gestione sostenibile della plastica e verso un’economia circolare”, ma teme che “le azioni volontarie potrebbero essere insufficienti” per spingere l’industria all’utilizzo di plastica riciclata. Ne deriva l’ipotesi, caldeggiata dal Parlamento, di introdurre “regole obbligatorie sulle quote di contenuto riciclato per prodotti specifici” e di una modulazione dell’Iva per sostenere chi usa più plastica riciclata degli altri.2 “Il divieto di importazione cinese di rifiuti di plastica offre all’Ue un’immensa opportunità di premere sull’acceleratore. Dobbiamo usare questo slancio per investire e innovare”, dice Demesmaeker, che individua tre importanti blocchi da superare. “È chiaro che alzare gli standard di qualità sarà essenziale per stimolare il mercato delle materie plastiche secondarie. Attualmente esiste una discrepanza tra la qualità delle materie plastiche riciclate e la qualità necessaria per la funzionalità di determinati prodotti”, sostiene Demesmaeker. Anche le nuove regole sulla responsabilità estesa del produttore, concordate nella legislazione rivista sui rifiuti, possono svolgere un ruolo importante: “Per spingere davvero il mercato in una certa direzione, abbiamo bisogno di un chiaro impegno da parte dei grandi operatori del settore, come nel caso dell’impegno di Danone di passare al 100% a bottiglie di plastica riciclata per l’acqua Evian entro il 2025. Sarà molto interessante vedere come i grandi player cominceranno ad abbinare un modello di business

sostenibile e circolare alla propria immagine”, prevede Demesmaeker. Il procurement e il design per la circolarità sono un terzo tassello importante per sviluppare il mercato delle materie plastiche riciclate. “Un Green Deal sugli appalti circolari è attualmente in vigore nelle Fiandre, avviato con l’istituzione della piattaforma Circular Flanders e ispirato a un precedente esempio olandese. Questo caso di successo dimostra l’importanza degli appalti pubblici e privati per stimolare l’innovazione nei modelli di business”, rileva Demesmaeker. La progettazione dei prodotti in funzione di un’economia circolare, la creazione di un mercato europeo per le materie plastiche riciclate, la prevenzione della produzione di rifiuti di plastica e la promozione delle bioplastiche sono tutti temi al centro delle raccomandazioni dei parlamentari. Per sostenere la transizione verso un’economia circolare, l’Europarlamento “ritiene che la società civile debba essere in grado di obbligare le imprese ad assumersi la propria responsabilità”. La Commissione dovrebbe “rendere la ‘circolarità prima di tutto’ un principio generale, anche per gli articoli in plastica che non sono imballaggi”, suggerisce l’Europarlamento. Nella bozza di fine marzo si chiede dunque che questa nozione venga incorporata nel New Deal for Consumers, attualmente in fase di preparazione. È il primo passo verso un coinvolgimento diretto del sistema produttivo europeo nella lotta contro l’inquinamento da plastica.

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materiarinnovabile 21. 2018

Focus plastica

Così ti ripenso la PLASTICA Intervista a Karl-H Foerster

Inquinamento marino, imballaggi a volte eccessivi, difficoltà nel riciclo e sovrasfruttamento delle risorse sono tutti aspetti che mettono la plastica sotto una cattiva luce. Ne abbiamo parlato con Karl-H Foerster, direttore esecutivo di PlasticsEurope. di Sergio Ferraris

Qual è oggi il ruolo delle plastiche? “Se non esistessero, la società moderna dovrebbe inventarle per assicurarsi un futuro sostenibile. La ragione per cui le plastiche sono il materiale ideale da utilizzare in così tanti campi è che uniscono alte prestazioni a un utilizzo efficiente delle risorse. Da un punto di vista puramente economico, le plastiche fanno risparmiare. In termini di versatilità e potenziale di innovazione, rispondono in modo ideale a una vasta gamma di esigenze tecnologiche emergenti. Dal punto di vista della sostenibilità, l’utilizzo della plastica offre significativi benefici all’ambiente in diverse aree, quali gli imballaggi, l’industria automobilistica, le apparecchiature elettriche ed elettroniche, il settore edilizio e delle costruzioni, gli utensili domestici, l’attrezzatura per lo sport e il tempo libero e l’agricoltura.” Solo vantaggi? “A questi numerosi vantaggi si accompagnano notevoli sfide, e a queste grandi responsabilità,

specialmente per l’industria della plastica. Queste responsabilità spaziano dall’assicurare l’affidabilità dei nostri prodotti, all’offrire soluzioni innovative per i rifiuti in plastica. Noi di PlasticsEurope promuoviamo l’utilizzo sostenibile della plastica a nome delle nostre imprese associate. Per farlo lavoriamo insieme a diversi stakeholder per identificare il modo in cui le plastiche possano rispondere in modo adeguatamente a queste importanti sfide sociali e politiche.” La plastica al momento è sotto attacco. Abbiamo l’inquinamento marino, un utilizzo eccessivo degli imballaggi e una bassa percentuale di riciclo, e tutto ciò disturba l’opinione pubblica. Qual è la sua risposta? “Crediamo che le caratteristiche uniche delle plastiche determinino per loro un ruolo di grande importanza nel cammino verso un futuro più sostenibile, in cui le risorse possano essere utilizzate in modo più efficiente. Anzitutto e in


Policy

Sergio Ferraris è direttore di QualEnergia.

primo luogo, i rifiuti contenenti plastica devono essere recuperati per evitare che finiscano inutilmente in discarica o, ancora peggio, vengano dispersi nell’ambiente. PlasticsEurope ha l’obiettivo di contribuire al raggiungimento del livello zero plastics to landfill. Tale obiettivo può essere raggiunto ragionando sull’intero ciclo di vita delle plastiche e promuovendo soluzioni di economia circolare. Questo richiede che tutti gli stakeholder si impegnino in azioni coordinate e collaborative al fine di migliorare la raccolta dei rifiuti, il pre-trattamento, lo smistamento, il riciclo e il recupero energetico. La ‘Strategia per la Plastica in un’economia circolare’ della Commissione europea presentata nel gennaio 2018, costituisce uno sforzo ambizioso per ‘rendere il riciclo vantaggioso per le imprese,

Karl-H. Foerster ha più di 30 anni di esperienza professionale nel settore dell’industria chimica e plastica, dove ha ricoperto varie posizioni manageriali tra cui vicepresidente a Polymer Latex, e direttore generale della Neochimiki Group. Dal 2013 è direttore generale di PlasticsEurope.

PlasticsEurope, www.plasticseurope.org/it Plastics 2030 Voluntary Commitment, tinyurl.com/yc6hbhy3

arginare i rifiuti plastici, fermare l’inquinamento marino, stimolare investimenti e innovazione e promuovere il cambiamento in tutto il mondo’. Inoltre sempre a gennaio, PlasticsEurope ha pubblicato il Plastics 2030 Voluntary Commitment (impegno volontario per la plastica 2030), che pone una serie di obiettivi ambiziosi da raggiungere entro il 2030, e delinea iniziative future che saranno intraprese dall’industria in partenariato con altre realtà. Si concentra su tre aree chiave: aumentare il riciclo e il riutilizzo, prevenire la dispersione di plastica nell’ambiente e accelerare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse. Le plastiche devono essere gestite responsabilmente in tutto il loro ciclo di vita. Dobbiamo evitare la dispersione nell’ambiente imponendo una corretta gestione dei rifiuti e, attraverso una progettazione consapevole dei prodotti e comportamenti responsabili. La maggior parte dell’inquinamento da plastica è legato al post-utilizzo, ma parte è di origine industriale,

come nel caso dei granuli che ritroviamo nel flusso dei rifiuti e negli oceani. In generale il contenimento della dispersione di granuli fa parte del sistema di gestione ambientale di qualsiasi azienda, ma per dare ulteriore priorità a questo aspetto e coinvolgere tutta la filiera, PlasticsEurope e le sue imprese associate fin dal 2011 hanno promosso attivamente pratiche di buona gestione delle plastiche attraverso l’iniziativa Operation Clean Sweep (OCS).” Quali risultati ha raggiunto questa iniziativa? “Attualmente circa il 70% delle imprese associate a PlasticsEurope – tra queste i principali produttori di plastica e le imprese parte dello Steering Board – hanno sottoscritto l’impegno. Come volume questa percentuale corrisponde alla maggioranza della produzione di plastica in Europa.” In questo contesto che cosa fa l’industria della plastica a favore di innovazione e ricerca e sviluppo? “Come PlasticsEurope siamo impegnati a lavorare per un’economia più sostenibile, circolare ed efficiente dal punto di vista delle risorse, e crediamo che l’innovazione sia la chiave per arrivare a questo risultato. Per esempio, un’industria competitiva incrementerà investimenti e innovazione, promuovendo e sviluppando nuove tecnologie per il riciclo nel senso più ampio del termine (incluso lo smistamento), creando adeguate infrastrutture per la gestione dei rifiuti in Europa e promuovendo comportamenti responsabili tra i consumatori.” In che modo questo si collega all’industria europea che si occupa di tecnologie di riciclo avanzate e di bioplastiche? “Oltre a produrre materiali che rendono possibili cose come un significativo risparmio energetico, per esempio, nel loro operare chi produce plastica persegue sempre obiettivi di efficienza nell’utilizzo delle risorse. Questo viene ottenuto grazie a installazioni di alta qualità e sistemi di gestione ambientale. I produttori di plastica si adoperano anche per aumentare l’efficienza energetica nei processi produttivi, e a utilizzare energia e combustibili a bassa emissione di CO2 se disponibili a costi competitivi e sostenibili. I gas rinnovabili e sostenibili sono possibili esempi di combustibili che possono esser utilizzati come materie prime a bassa emissione di CO2. Nel lungo periodo, l’innovazione nell’uso di alternative alle fonti fossili – che si tratti di CO2 come combustibile, di rifiuti plastici o di materie prime rinnovabili – contribuirà efficacemente a migliorare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse nella produzione di materie prime plastiche. Ci siamo anche impegnati nel realizzare uno studio sulla plastica nell’economia circolare, con un focus sull’incremento dell’utilizzo di materie prime alternative entro il 2019. A partire dai risultati di questo studio formuleremo delle raccomandazioni sulle azioni da intraprendere per minimizzare l’impatto ambientale.”

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Ripulire gli oceani: le idee non mancano di Antonella Ilaria Totaro

Istituzioni ed enti politici, partnership e comuni cittadini stanno sviluppando programmi per ripulire mari e fiumi e salvaguardare così l’ecosistema oceanico e il benessere delle comunità. Ma anche per riuscire a sfruttare il valore economico dei rifiuti marini.

1. European Commission, Our Oceans, Seas and Coasts.

Se c’è un problema ambientale che negli ultimi anni ha riscosso una crescente attenzione e consapevolezza è quello dei rifiuti marini. Un problema che accomuna tutti gli Stati del mondo e che, al contrario di quanto avviene di solito, non è causato – almeno direttamente – tanto dai Paesi industrializzati, quanto da quelli in via di sviluppo o recentemente sviluppati. Infatti, solo il 2% dei rifiuti marini deriverebbe – secondo il report The New Plastics Economy della Ellen MacArthur Foundation – da Europa e Stati Uniti. Ridurre la quantità di rifiuti marini risponde a diversi degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs): in particolare al 12° (consumo e produzione responsabili) e al 14° (la vita sott’acqua). Secondo la Commissione europea l’80% della plastica presente negli oceani proviene dalla terraferma, mentre soltanto il 20% è il risultato di attività collegata all’acqua.1 A causare la dispersione di plastica e di altri materiali in

2. Jambeck et al. ‘Plastic waste inputs from land into the ocean’. Marine Pollution. 3. Ellen MacArthur Foundation, The New Plastics Economy: Rethinking the future of plastics.

mare è spesso la mancanza di infrastrutture che vanno sviluppate e rese facilmente accessibili, in particolare nel Sudest asiatico e in Cina. Recenti ricerche considerano i Paesi asiatici responsabili dell’80% dei rifiuti oceanici.2 Migliorare le infrastrutture e la raccolta di rifiuti nei Paesi maggiormente responsabili del marine litter è dunque la soluzione migliore. Tuttavia, in attesa che le infrastrutture vengano migliorate e siano definite pratiche positive, occorre ridurre la quantità di rifiuti marini già presenti per scongiurare le stime secondo cui nel 2050 nei mari ci sarà – in termini di peso – più plastica che pesci.3 Tanti sono i programmi in corso per cambiare rotta: dalla Global partnership on Marine Litter dell’Onu al Marine Litter Watch (MLW), modello – completo di un’app mobile – sviluppato dall’European Environment Agency che combina il coinvolgimento dei cittadini con le tecnologie moderne per ridurre il gap informativo riguardante i rifiuti marini trovati sulle spiagge, rilevante per la

The Ocean Cleanup

Focus plastica


Policy

The Ocean Cleanup

Foto di Matthew Chauvin – The Ocean Cleanup

Eea, “Marine LitterWatch in a nutshell”, 2015; tinyurl.com/ybsze67f

Boyan Slat –The Ocean Cleanup

The Ocean Cleanup, www.theocean cleanup.com

Rendering – The Ocean Cleanup

Plastic Samples – The Ocean Cleanup

The Ocean Cleanup Uno dei primi ad aver pensato a come ripulire gli oceani su ampia scala è stato il ventitreenne olandese Boyan Slat che a soli 19 anni ha abbandonato i suoi studi ingegneristici per dar vita a The Ocean Cleanup, iniziativa nata per sviluppare una tecnologia in grado di ripulire l’oceano. Anni di ricerca e milioni di dollari (dal 2013 la fondazione The Ocean Cleanup ha raccolto ben 31,5 milioni di dollari) hanno portato alla progettazione di una rete di lunghe barriere galleggianti che si comportano come una costa artificiale, consentendo alle correnti oceaniche naturali di concentrare la plastica facilitandone la raccolta. Dopo il primo prototipo realizzato nel giugno 2016, a metà 2018 sarà lanciato il primo sistema operativo completo nel Great Pacific Garbage

Onu, Global partnership on Marine Litter; tinyurl.com/yboxvndt

Foto di Matthew Chauvin – The Ocean Cleanup

politica ambientale marina dell’Unione Europea (Marine Strategy Framework Directive). Ma al di là delle azioni di istituzioni ed enti politici (per esempio enti territoriali, fondazioni e organismi internazionali), numerose sono anche le iniziative di comuni cittadini, partnership europee e multinazionali che hanno come obiettivo comune quello di mantenere la plastica fuori dagli oceani e dai mari dal momento che in gioco non c’è solo l’ecosistema oceanico, ma anche la salute delle specie marine e il benessere delle comunità – in fondo di tutta l’umanità – che dal mare e dall’oceano dipendono. Recuperare e trasformare i rifiuti marini in un valore, oltre che ambientale, anche economico è il passaggio ulteriore che alcune aziende e progetti in giro per il mondo stanno facendo. Si tratta naturalmente di un lavoro a lungo termine. Non a caso molte delle attività sono in fase iniziale e i risultati effettivi si vedranno soltanto nel lungo periodo.

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materiarinnovabile 21. 2018 4. Schmidt, Krauth, Wagner ‘Export of Plastic Debris by Rivers into the Sea’, Environ. Sci. Technol. 2017. pubs.acs.org/doi/ abs/10.1021/acs. est.7b02368

Patch (la più grande isola di rifiuti oceanici: un accumulo di detriti composto quasi interamente di rifiuti plastici situato tra le Hawaii e la California, nda). Secondo i piani, la tecnologia sviluppata da The Ocean Cleanup in pieno funzionamento dovrebbe riuscire a ripulire del 50% il Great Pacific Garbage Patch in 5 anni.

5. Our Ocean svoltosi il 5 e il 6 ottobre 2017 a Malta e #BlueInvest dello scorso 17 maggio 2018 a Bruxelles.

Next Wave Nata con l’obiettivo di intercettare in alcune zone prioritarie le plastiche presenti nei corsi d’acqua e dirette verso l’oceano – si stima che l’88%95% della plastica negli oceani arriva da soli 10 fiumi4 – Next Wave punta anche a creare con tali materiali plastici la prima catena di fornitura di materie plastiche globale cross-industriale a livello commerciale, lavorando i materiali raccolti dai fiumi e dalle aree costiere per usarli nei prodotti e negli imballaggi delle aziende partner.

©Interface

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The Ocean Cleanup

6. EuropeanCommission, Strategy for Plastics.

Next Wave, www.nextwaveplastics.org

Tra le aziende che hanno creato Next Wave, iniziativa oggi gestita dall’incubatore americano Lonely Whale, ci sono multinazionali che da anni sono impegnate nell’ambito dell’economia circolare: tra queste Dell e Interface insieme a General Motors, Herman Miller. Le aziende coinvolte ne hanno un vantaggio sociale ed economico poiché alla sicurezza della catena di approvvigionamento si affiancheranno elevati standard ambientali e sociali. Lo scorso dicembre è stato presentato il primo prodotto nato dal progetto, creato dai partner fondatori Bureo e Humanscale. Si tratta di una sedia da ufficio ergonomica realizzata utilizzando quasi due chili di plastica recuperata. Il consorzio stima – entro 5 anni – di intercettare, evitando che finiscano nell’oceano, più di 1,5 milioni di chili di plastica e attrezzi da pesca di nylon, quantità equivalente a 66 milioni di bottiglie d’acqua.


Ghost Fishing Greece – Healthy Seas

Come sostiene, infatti, Dina Margrethe Aspen, ricercatrice del Department of Ocean Operations and Civil Engineering alla Norwegian University, partner del progetto: “Anche se parecchio lavoro è stato fatto per eliminare il problema delle reti fantasma, molto ancora si può ottenere attraverso una maggiore collaborazione tra attori industriali, agenzie governative e istituti di ricerca. Riteniamo che l’interazione degli stakeholder sia la chiave per stabilire tale collaborazione. Ciò che manca attualmente è un piano d’azione che porti ad una gestione efficiente delle risorse presenti nelle attrezzature da pesca. Tale piano dovrebbe dare la priorità a varie azioni volte a eliminare, ridurre o invertire i flussi di attrezzature che vengono abbandonate, perse o altrimenti scartate e assicurare che venga recuperato la maggiore quantità possibile”. Il progetto transnazionale vede coinvolti l’Environmental Research Institute, North Highland

College UHI (Scozia), Macroom E (Irlanda), The Centre for Sustainable Design, University for the Creative Arts (Inghilterra), Arctic Technology Centre (Groenlandia), Norwegian University of Science and Technology (Norvegia).

Circular Ocean, www.circularocean.eu

Healthy Seas Già attivo da alcuni anni e con ricadute evidenti sul mercato è il progetto Healthy Seas, anche questo legato alla pulizia degli oceani dai rifiuti che vanno spesso a essere un pericolo per la biodiversità marina. Nata da una joint venture europea di aziende della pesca, ong, governi, comunità e aziende di recupero, riciclo e produzione, Healthy Seas accompagna il recupero dei materiali alla collaborazione con i pescatori e le comunità locali per prevenire la produzione di rifiuti e incrementare la sostenibilità del settore. Sono attualmente in corso tre progetti pilota nel Mare del Nord, nel Mare Adriatico e nel Mar Mediterraneo, tutte regioni importanti per il turismo e la biodiversità, ma sfruttate anche massicciamente per la pesca. Le reti da pesca – spesso lasciate inutilizzate – raccolte e pulite sono trasformate in materiali vergini e trasformati dall’azienda italiana Aquafil in Econyl@, filato di nylon rigenerato e impiegato per costumi da bagno, abbigliamento sportivo, intimo e anche tappeti.

Healthy Seas, healthyseas.org

Healthy Seas

Anche la Commissione europea sta guardando con sempre più attenzione al problema dei rifiuti negli oceani e nei mari. Prova ne sono le recenti conferenze sul tema5 e la Strategia per la Plastica adottata lo scorso gennaio.6 Tra i progetti finanziati a livello europeo che guardano alla ricerca di soluzioni innovative e sostenibili per i rifiuti di plastica di uso marittimo c’è il progetto Circular Ocean. Sviluppato nella regione Artico e Periferia settentrionale (NPA- Northern Periphery and Arctic Rgion) il progetto incoraggia le imprese e gli imprenditori a sviluppare nuovi prodotti e sperimentare soluzioni eco-innovative che generino reddito partendo dal recupero di materiali scartati dalla pesca. Inoltre Circular Ocean mira a quantificare gli impatti ambientali delle reti perse o abbandonate nell’area.

Circular Ocean

Circular Ocean


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materiarinnovabile 21. 2018

Focus plastica

Il mercato delle bioplastiche cresce. Nonostante Bruxelles di Mario Bonaccorso

Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista.

Oggi solo l’1% della plastica prodotta al mondo è di origine biologica. Ma il mercato è in espansione e interessa molti settori: dal packaging, all’elettronica, all’automotive, al tessile, all’agricoltura. E una fetta di questa torta la vogliono non solo le aziende focalizzate sul biobased, ma anche i big player della chimica. La troviamo già nei sacchetti per la spesa, in molte parti delle automobili, nei giocattoli e nelle confezioni alimentari. È la bioplastica, ovvero quella plastica che non deriva più dal petrolio ma, in percentuali diverse, dalle risorse biologiche. Il suo mercato è destinato a crescere del 20% nei prossimi cinque anni, secondo un’indagine realizzata dal nova-Institut per la European Bioplastics, l’associazione europea dei produttori di bioplastica. Il centro di ricerche tedesco stima che la produzione annua complessiva passerà dai 2,05 milioni di tonnellate del 2017 a 2,44 milioni nel 2022. Oggi meno dell’1% dei 320 milioni di tonnellate di plastica prodotta annualmente è di origine biologica, ma la domanda di mercato sarà via via favorita dallo sviluppo di biopolimeri sempre più sofisticati e innovativi. Si tratta soprattutto di PLA (acido polilattico) e PHAs (poliidrossialcanoati), ma anche di biopolimeri che utilizzano l’amido di mais come Mater-Bi o Bioplast, con cui si producono plastiche biobased e biodegradabili. A contendersi le fette maggiori di questa torta in crescita sono grandi società chimiche come Basf, Braskem e Total-Corbion ma anche imprese totalmente focalizzate sulle bioplastiche come le italiane Novamont e Bio-on, l’americana NatureWorks, la tedesca Biotec, la britannica Biome Bioplastics e l’olandese Avantium, che con

Basf ha dato origine alla joint-venture Synvina. La diffusione della bioplastica, del resto, interessa un numero elevato di settori: dal packaging – a cui nel 2017 è stato destinato il 60% della produzione complessiva (1,2 milioni di tonnellate) – al catering, fino all’elettronica di consumo, all’industria automobilistica, all’agricoltura, all’industria dei giocattoli e a quella tessile. I nuovi polimeri biobased Il motore della crescita delle bioplastiche è rappresentato in via principale da PLA e PHA. Il primo – la cui capacità produttiva dovrebbe aumentare del 50% entro il 2022 – è un materiale molto versatile, adatto a innumerevoli applicazioni, dagli imballaggi alle fibre. Secondo gli esperti offre alte prestazioni che ne fanno un eccellente sostituto per il polistirolo (PS), il polipropilene (PP) e l’acrilonitrile-butadiene-stirene (ABS) in applicazioni più impegnative. L’ABS – per fare un esempio – è la plastica utilizzata per produrre i famosi mattoncini della Lego che il colosso dei giocattoli danese ha annunciato volere produrre totalmente in bioplastica entro il 2030. I PHAs, invece, sono un’importante famiglia di polimeri che è entrata sul mercato su scala commerciale più recentemente, con capacità produttive che si stima potranno triplicare nei prossimi cinque anni. Questi poliesteri sono


Policy

al 100% a base biologica, biodegradabili e presentano una vasta gamma di proprietà fisiche e meccaniche. La plastica a base biologica, non biodegradabile, comprese le soluzioni cosiddette drop-in polietilene (PE), polietilene tereftalato (PET) e poliammidi (PA) a base biologica, allo stato attuale rappresentano circa il 56% (1,17 milioni di tonnellate) della capacità globale di produzione di bioplastiche. L’indagine realizzata dal nova-Institut stima che la produzione di polietilene a base biologica continuerà a crescere man mano che saranno disponibili in Europa nuovi impianti che garantiranno maggiori capacità. Mentre si assisterà a uno spostamento degli investimenti dal PET al PEF (polietilene furanoato), un nuovo polimero che dovrebbe entrare nel mercato nel 2020. Il PEF è paragonabile al PET ma è al 100% a base biologica e presenta superiori proprietà termiche e barriera, ponendosi così come un materiale ideale per il confezionamento di bevande e prodotti alimentari. Non è un caso che l’olandese Avantium che lo sta sviluppando abbia siglato nel dicembre 2011 una partnership commerciale con la Coca-Cola. A essere atteso su scala commerciale entro il 2020 è anche il polipropilene (PP) a base biologica, che ha un forte potenziale di crescita in virtù della sua applicazione in una vasta gamma di settori. Infine, ci sono i poliuretani (PUR) a base biologica, un importante gruppo di polimeri che ha enormi

Cosa sono i biopolimeri I biopolimeri sono polimeri preparati attraverso processi biologici che conferiscono al prodotto finale un’elevata biodegradabilità. Possono essere estratti da materiali di origine vegetale e quindi rinnovabili come l’amido e le miscele di amido; oppure prodotti tramite sintesi chimica, usando monomeri biologici e rinnovabili come l’acido polilattico (PLA) o il poliestere. Ci sono poi i poliidrossialcanoati (PHA), polimeri di riserva sintetizzati dai batteri, per immagazzinare carbonio ed energia. Si trovano all’interno delle cellule batteriche, accumulati sotto forma di granuli.

Il Mater-Bi presenta caratteristiche e proprietà d’uso simili alle plastiche tradizionali ma, al tempo stesso, è biodegradabile e compostabile ai sensi della normativa europea.

capacità di produzione, un mercato consolidato e dovrebbe crescere più rapidamente del mercato PUR convenzionale grazie alla propria versatilità. I big player Uno dei principali produttori al mondo di biopolimeri è il gruppo chimico brasiliano Braskem, che vanta nel proprio portafoglioprodotti resine di polietilene (PE), polipropilene (PP) e polivinilcloruro (PVC), nonché prodotti petrolchimici di base come etilene, propilene, butadiene, cloro, benzene, toluene ecc. La società sudamericana dal 2010 a oggi è divenuta leader nel mercato mondiale delle bioplastiche, grazie allo sviluppo di “I’m Green”. Si tratta di un polietilene da fonti rinnovabili (ricavato dalla canna da zucchero), che è il risultato di una cooperazione avviata nel 2008 con l’Università statale di Campinas (Unicamp) e la Fondazione per il sostegno alla ricerca dello Stato di San Paolo (Fapesp) per lo sviluppo di ricerche per la produzione di biopolimeri o polimeri da fonti rinnovabili. Negli Usa è attiva anche NatureWorks, società nata da una joint venture tra il colosso statunitense Cargill e la thailandese PTT Global Chemical. La società, che ha il proprio quartier generale in Minnesota, commercializza monomeri e biopolimeri denominati Ingeo derivati al 100% da risorse naturali rinnovabili. “La produzione di Ingeo (un biopolimero PLA) genera – assicurano dalla NatureWorks – il 60% in meno di gas a effetto serra e richiede il 50% in meno di energia non rinnovabile, rispetto ai polimeri tradizionali come il PET o il polistirene.” Le sue applicazioni principali: filamenti per stampa 3D, articoli durevoli, film, rivestimenti per carta, tazze e contenitori per alimenti, stoffe, salviette umidificate, materiali usa e getta e materiale di base per molti compound chimici. In Europa, il mercato del PLA interessa la jointventure tra il gigante petrolifero francese Total e la società chimica olandese Corbion. La Total Corbion PLA sta costruendo in Thailandia un impianto di polimerizzazione con una capacità di 75.000 tonnellate all’anno. Il suo avvio è pianificato per la seconda metà del 2018 e produrrà una gamma completa di resine pulite in PLA sotto il marchio Luminy: dal PLA standard al PLA specifico resistente alle alte temperature.

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materiarinnovabile 21. 2018 La bioplastica nell’economia circolare Secondo la Commissione europea ogni anno i cittadini del Vecchio Continente generano 25 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica, di cui solo meno del 30% viene raccolto per il riciclo. E solo il 5% del valore della plastica utilizzata per il packaging resta nel ciclo economico, mentre il rimanente viene perso dopo un primo uso molto breve. Il conto da pagare ogni anno ammonta così dai 70 ai 105 miliardi di euro. Uno spreco enorme che ha portato la Commissione a presentare lo scorso dicembre la propria strategia sulla plastica nell’economia circolare, stabilendo obiettivi chiari per ridurre gli sprechi di plastica, aumentare l’efficienza delle risorse e creare crescita occupazionale in Europa. Manca però – lamenta European Bioplastics – un approccio globale al tema della plastica con un’attenzione limitata al riciclaggio meccanico. Secondo l’associazione dei produttori di bioplastica “sono stati ulteriormente rinviati i passi concreti verso la riduzione della dipendenza dalle materie prime fossili, collegando l’economia circolare con

European Bioplastics, www.europeanbioplastics.org

la bioeconomia e il sostegno a soluzioni innovative di plastica a base biologica; i contributi delle plastiche biodegradabili a un’economia circolare sono riconosciuti, ma mancano ancora misure concrete”. “Le plastiche ottenute da materie prime rinnovabili sono un’alternativa sostenibile per molti prodotti in plastica”, ha dichiarato François de Bie, presidente di European Bioplastics. “Se da un lato l’aumento del contenuto di plastica riciclata è importante per ridurre le materie prime fossili vergini, dall’altro è necessario incoraggiare anche le materie prime alternative sostenibili come le materie prime biologiche, allo scopo di de-fossilizzare l’economia delle materie plastiche.” La partita delle bioplastiche in Europa è perciò destinata a proseguire. In attesa che la Commissione europea presenti entro il prossimo ottobre, come pre-annunciato, la nuova strategia sulla bioeconomia, chiamata ad aggiornare quella lanciata nel febbraio del 2012.

“Nel mercato in rapida crescita delle bioplastiche – ha dichiarato Stéphane Dion, amministratore delegato di Total Corbion PLA – la nostra nuova società si impegna a fornire un materiale versatile e innovativo che sia biobased e biodegradabile, porti valore aggiunto ai clienti e contribuisca a un mondo più sostenibile per noi stessi e le generazioni future.” Anche la tedesca Basf guarda da tempo con interesse al mercato. Il colosso chimico di Ludwigshafen, che è impegnato nella ricerca e nella produzione di biopolimeri compostabili e con contenuto da fonti rinnovabili, ha già lanciato la bioplastica Ecovio che è certificata compostabile secondo gli standard internazionali e al termine del proprio normale utilizzo può essere avviata a un impianto di compostaggio industriale. “Nelle condizioni tipiche di tale ambiente, infatti – dicono da Basf – Ecovio subisce un processo di biodegradazione ad opera di microrganismi e, nel corso di qualche settimana, si trasforma in compost utilizzabile per migliorare la fertilità del terreno.” Le principali aree di applicazione di questa bioplastica made in Germany sono i sacchetti per la raccolta della frazione organica e quelli per la spesa. Ma non solo: soddisfacendo i requisiti della normativa europea in materia di contatto con prodotti alimentari, può trovare molte altre applicazioni come rivestimento di carta e cartone, nella produzione di bicchieri o piatti usa e getta o delle vaschette destinate a contenere prodotti alimentari e nei film plastici utilizzati in agricoltura per la pacciamatura. L’interesse di Basf nei confronti delle bioplastiche

è testimoniato anche da Synvina. Si tratta di una joint-venture, realizzata con Avantium nell’ottobre 2016, per produrre e commercializzare l’acido furandicarbossilico (FDCA) prodotto da risorse rinnovabili (fruttosio derivante da piante come materia prima) e il polietilene furanoato (PEF), che ha proprio nel FDCA il proprio elemento costitutivo, caratterizzato – rispetto ai materiali plastici convenzionali – da migliori proprietà barriera per gas come anidride carbonica e ossigeno. Il che lo rende un prodotto adatto a garantire una maggiore durata dei prodotti confezionati e quindi per la produzione di imballaggi per alimenti e bevande, come per esempio film e bottiglie di plastica. Dopo l’uso, inoltre, il PEF può essere riciclato. Le imprese bio Al fianco dei colossi chimici attivi nel variegato mondo delle bioplastiche, operano alcune imprese che possono essere definitive come vere e proprie realtà biobased, quali Novamont e Bio-on, Biome Bioplastics e Bioplastic. Nata dalla Scuola di Scienza dei materiali Montedison da cui si è sviluppato negli anni ’80 il centro di ricerche Fertec finalizzato a integrare chimica e agricoltura, oggi Novamont è una realtà industriale leader nel proprio settore. La bioplastica sviluppata dalla società guidata da Catia Bastioli è commercializzata con il marchio Mater-Bi e deriva da amido di mais e oli vegetali, non modificati geneticamente e coltivati in Europa con pratiche agricole di tipo tradizionale.


Policy Il Mater-Bi presenta caratteristiche e proprietà d’uso simili alle plastiche tradizionali ma, al tempo stesso, è biodegradabile e compostabile ai sensi della normativa europea. “Consente così – sottolinea l’impresa novarese – di ottimizzare la gestione dei rifiuti organici, ridurre l’impatto ambientale e contribuire allo sviluppo di sistemi virtuosi con vantaggi significativi lungo tutto il ciclo produzione-consumo-smaltimento.” Un’impresa più giovane, ma che si è caratterizzata fin dalla sua nascita per una grande dinamicità, è la bolognese Bio-on, costituita nel 2007 per operare nel settore delle biotecnologie applicate ai materiali di uso comune e dare vita a prodotti e soluzioni al 100% ottenuti da fonti rinnovabili o scarti della lavorazione agricola. La bioplastica sviluppata dalla società guidata da Marco Astorri è a base di biopolimeri PHAs e può avere molteplici applicazioni industriali: dal packaging generico a quello alimentare, fino al design, all’abbigliamento e persino all’automotive, alla cosmetica e al biomedicale. Nata come puro technology provider, Bio-on lo scorso settembre ha annunciato l’inizio dei lavori di costruzione a Castel San Pietro Terme in provincia di Bologna, di un impianto per la produzione di biopolimeri speciali PHAs, naturali e biodegradabili al 100%, destinati in particolare al settore cosmetico.

sfruttando la lignina contenuta nella pasta di scarto prodotta dalle cartiere. La nuova plastica ecologica sfrutta una sostanza specifica (sintetizzata in laboratorio) che si trova nello stomaco delle termiti ed è in grado di scomporre la lignina in modo tale da ottenere biopolimeri plastici ecosostenibili. All’ormai lontano 1992 risale invece la nascita di Biotec, che da impresa di Ricerca e Sviluppo è diventata oggi una dei principali player nel mercato della bioplastica. La società tedesca di Emmerich am Rhein detiene oltre 200 brevetti e si occupa di sviluppo e produzione di bioplastiche sostenibili da risorse vegetali rinnovabili. Le applicazioni, flessibili e rigide, vanno dai sacchetti per i rifiuti e per la spesa, alle capsule farmaceutiche, ai blister per l’industria alimentare, alle confezioni per cosmetici. Biotec oggi produce e commercializza con il nome di Bioplast una nuova generazione di materiali termoplastici personalizzati con varie proprietà funzionali, biodegradabili al 100%.

Novamont, www.novamont.com Bio-on, www.bio-on.it/index.php Biome Bioplastics, biomebioplastics.com Biotec, en.biotec.de

Nel 2007 è nata nel Regno Unito su iniziativa della Biome Technologies, Biome Bioplastics, una società con quartier generale a Southampton e quotata alla Borsa di Londra. L’impresa amministrata da Paul Mines ha portato sul mercato una nuova bioplastica resistente alle alte temperature, biodegradabile e compostabile,

Intervista

di M. B.

Bisogna individuare un percorso coerente e integrato Giulia Gregori, responsabile pianificazione strategica e comunicazione istituzionale, Novamont S.p.A

Cosa è possibile fare oggi con il Mater-Bi di Novamont? E quali sono gli sviluppi a cui state lavorando? “Il Mater-Bi è una famiglia di bioplastiche ottenute da materie prime vegetali e completamente biodegradabili e compostabili. È utilizzato in un’ampia gamma di settori applicativi in cui, grazie a tali caratteristiche, può contribuire a risolvere specifici problemi ambientali, come l’inquinamento e la conseguente messa a discarica del rifiuto organico: sacchi per la raccolta differenziata dell’organico, sacchi per asporto merci e frutta e verdura, packaging alimentare, stoviglie per grandi eventi e mense. Un altro settore in cui

le bioplastiche giocano un ruolo fondamentale è l’agricoltura, in quanto biodegradano nel suolo non rilasciando sostanze tossiche e non inficiandone la fertilità. Vi sono poi altre applicazioni specifiche in cui il rischio di rilascio accidentale nell’ambiente è estremamente elevato, come nel caso delle attrezzature da pesca. Negli anni la nostra ricerca ha lavorato in direzione del progressivo aumento del contenuto di materie prime rinnovabili del Mater-Bi, in una logica di integrazione a monte delle nostre tecnologie, e continuiamo a guardare in tal senso. Lavoriamo, inoltre, al miglioramento continuo delle performance tecniche

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materiarinnovabile 21. 2018 e ambientali dei nostri prodotti e all’ampliamento della gamma di soluzioni disponibili, puntando in particolar modo sulle applicazioni legate al food packaging.” Come si inserisce la bioplastica nel paradigma della bioeconomia circolare? “Le bioplastiche Mater-Bi si inseriscono nel paradigma della bioeconomia circolare poiché contribuiscono ad aumentare la quantità e la qualità del rifiuto organico raccolto diventando fertile compost per i terreni e chiudendo così il ciclo del carbonio. Inoltre la circolarità non è applicata al solo prodotto, ma all’intero modello di sviluppo basato sul concetto di rigenerazione territoriale. Infatti promuoviamo l’utilizzo di materie prime di origine vegetale a basso input provenienti da terreni marginali e che possano essere sfruttate in tutte le loro componenti, minimizzando gli scarti. E applichiamo le nostre tecnologie proprietarie nella reindustrializzazione di siti dismessi, contribuendo a creare nuovo valore e occupazione e a rigenerare interi territori da un punto di vista economico, sociale e ambientale.”

e sostenibile delle risorse e del passaggio dal modello lineare di economia a un modello circolare e senza scarti. Tuttavia affinché la strategia possa contribuire in modo efficace al raggiungimento di questi obiettivi ambiziosi è necessario individuare un percorso coerente e integrato anche per le bioplastiche, agendo su aspetti quali la definizione dei settori in cui le bioplastiche possono portare dei vantaggi, l’identificazione di strumenti che ne migliorino le condizioni di mercato, la maggiore diffusione di imballaggi biodegradabili e compostabili per alimenti.”

Qual è la vostra valutazione della Strategia sulla plastica nell’economia circolare presentata dalla Commissione europea? Che cosa secondo voi andrebbe modificato o integrato? “La Strategia sulla plastica potrebbe rappresentare un passo in avanti nella direzione di un uso più efficiente

Intervista

di M. B.

L’Ue deve riconoscere il valore delle bioplastiche Mariagiovanna Vetere, Global Public Affairs Manager di NatureWorks

www.natureworksllc.com

Cosa differenzia oggi il PLA dalle altre bioplastiche? Quali sono gli sviluppi a cui state lavorando? “Il PLA (acido polilattico) che noi produciamo – Ingeo – è un polimero totalmente biobased e compostabile; si differenzia dagli altri biopolimeri per l’estrema versatilità che ne consente l’utilizzo in molti campi, dalle fibre agli imballaggi, ai filamenti per la stampa 3D. Stiamo anche lavorando allo sviluppo di fibre con elevato potere assorbente che utilizzate nei pannolini per bambini, nello strato a contatto con la pelle, riducono sensibilmente il presentarsi di allergie e irritazioni.” Come si inserisce la bioplastica nel paradigma della bioeconomia circolare? “La bioplastica, con la sua adattabilità a molteplici soluzioni di fine vita – dal riciclo al compostaggio, alla digestione anaerobica – si adatta perfettamente ai principi dell’economia circolare. Basti pensare, per esempio, al ciclo della vita garantito dal compostaggio,

in cui l’utilizzo delle bioplastiche favorisce la raccolta differenziata dell’organico aumentando la produzione di compost e restituendo fertilità ai terreni. Non saprei pensare a miglior circolarità che quella del carbonio che viene catturato dalle piante, per poi essere trasformato in bioplastiche e, infine, torna nel terreno e nell’atmosfera e nutre nuove piante.” Qual è la vostra valutazione sulla Strategia sulla plastica nell’economia circolare presentata dalla Commissione europea? Che cosa secondo voi andrebbe modificato o integrato? “La Strategia sulla plastica è una proposta ambiziosa: affronta l’argomento da diverse angolazioni e propone molte soluzioni interessanti. Però si concentra solo sul riciclo delle plastiche tradizionali, trascurando l’importanza del compostaggio nell’ambito dell’economia circolare. Infine, ancora una volta, manca un chiaro legame tra bioeconomia ed economia circolare e il conseguente riconoscimento del valore delle plastiche di origine rinnovabile.”


Policy Intervista

di M. B.

PHAs: i biopolimeri dalle elevate prestazioni Marco Astorri, co-fondatore e amministratore delegato di Bio-on

Cosa sono i PHAs e cosa li differenzia dalle altre bioplastiche? “I poliidrossialcanoati (PHAs) sono biopolimeri con caratteristiche termo-meccaniche, fisiche e reologiche superiori rispetto alle altre bioplastiche, che consentono elevate prestazioni e nuovi campi applicativi. Rappresentano una classe di poliesteri termoplastici molto ampia che comprende più di 100 polimeri ottenuti da differenti monomeri di partenza con proprietà che variano in un range molto ampio. Stiamo parlando quindi di una piattaforma tecnologica facilmente processabile che garantisce proprietà comparabili a quelle delle plastiche convenzionali ricavate sia da petrolio, come per esempio il polipropilene (PP), sia da gas, come il polietilene (PE) e altre. I PHAs sono ottenuti completamente da fonti naturali attraverso processi fermentativi che utilizzano come materie prime gli scarti, i residui e i sottoprodotti di diversi settori agro-industriali (e non cibo come altri biopolimeri) e garantiscono completa e naturale biodegradabilità – e non solo la compostabilità – nell’acqua e nel suolo. Inoltre hanno l’enorme vantaggio di essere biocompatibili e bioriassorbibili dal corpo umano e animale, aprendo enormi e interessanti campi di applicazione.” Quali sono le applicazioni a cui state lavorando? “Con Minerv BioCosmetics stiamo sviluppando

un programma dedicato alla sostituzione dei polimeri nelle formulazioni cosmetiche, un settore estremamente promettente dove i PHAs possono avere un ruolo da protagonisti assoluti. Recentemente abbiamo presentato anche un progetto per il coating dei fertilizzanti (U-COAT) che si aggiunge allo sviluppo di biopolimeri per la produzione di occhiali, il programma Minerv Supertoys per lo sviluppo di nuove formulazioni dedicate ai giocattoli, la BioRemediation per la pulizia degli idrocarburi dal mare oltre a MinervBiomeds per la sostituzione dei liquidi di contrasto e lo sviluppo della teranostica. E molte altre applicazioni sono nella fase di sviluppo finale e nei prossimi mesi presenteremo nuovi e rivoluzionari utilizzi.” Quali sono le vostre previsioni sul mercato delle bioplastiche? E quali i vostri prossimi passi? “In generale pensiamo che il mercato dei biopolimeri crescerà con numeri molto interessanti. La richiesta è in continuo aumento e la recente polemica sulle plastiche di origine petrolifera non ha fatto altro che alimentare ancora di più questa domanda generalizzata. Per quanto ci riguarda, Bio-on è sempre più impegnata a sviluppare il mercato delle applicazioni speciali che ha dati e caratteristiche molto promettenti e che richiede prestazioni di elevata qualità garantite proprio dai PHAs.”

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materiarinnovabile 21. 2018

Il cimitero dei frigoriferi cannibalizzati In Europa – e ancor peggio in Italia – buona parte dei rifiuti elettrici ed elettronici finiscono nel mercato illegale fortemente condizionato dai prezzi delle materie prime, quali ferro e rame. E il prezzo ambientale e sociale legato agli smaltimenti illeciti lo pagano tutti i cittadini. di Antonio Pergolizzi

Antonio Pergolizzi dottore di ricerca (PhD), giornalista ed esperto di tematiche ambientali, dal 2006 coordina la scrittura del Rapporto Ecomafia di Legambiente (edizione 2017, www.edizioniambiente. it/libri/1159/ ecomafia-2017/).

Legambiente, I pirati dei Raee; www.legambiente.it/ sites/default/files/docs/ raee_dossier_i_pirati_dei_ raee_02.pdf

L’immagine del cimitero di frigoriferi cannibalizzati e gettati in un sito industriale abbandonato – alle porte di Roma, a due passi dalla Villa di Adriano a Tivoli – raccontano bene cosa sono, oggi, i piranha dell’economia circolare in nero. Si ingozzano di tutto ciò che abbia valore (compressori e metalli) e sputano il resto (scheletro di poliuretano e gas refrigeranti) ovunque c’è spazio. Di siti del genere, solo nel 2013 la Polizia municipale di Roma Capitale ne ha scovati una trentina, mentre in altre zone d’Italia – a Modena – ne hanno contati più di cinquanta. Nell’orgia dei trafficanti di rifiuti, i Raee (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) sono innegabilmente tra le tipologie di rifiuti più appetibili. Perché? Hanno un alto valore intrinseco, esiste una oggettiva difficoltà per i sistemi di gestione legali a intercettarli nei mille rivoli in cui si disperdono, e, soprattutto, perché se ne producono quantità impressionati e sempre in crescita. Secondo le stime più accreditate se ne produrrebbero ogni anno in Europa tra i 9 e i 10 milioni di tonnellate, ma per il WEEE Forum, l’Associazione internazionale a cui aderiscono i principali Sistemi collettivi di molte delle nazioni europee, se ne raccoglierebbero solo 3,5 milioni di tonnellate, lasciando il resto al mercato nero. In Italia andrebbe ancora peggio: i Raee risucchiati nei flussi informali supererebbero abbondantemente la quota del 65%. Secondo il dossier di Legambiente I pirati dei Raee, pubblicato in collaborazione con il Centro di coordinamento Raee nel 2014, in Italia circa il 74% dei rifiuti elettronici finirebbe nei circuiti illegali, mentre sarebbero quasi 300 le discariche abusive di rifiuti elettronici censite nel periodo 2009-2013. Dati impressionanti. Che purtroppo appaiono confermati anche da altre cifre. Come la sorprendente coincidenza tra i quantitativi di Raee

sequestrati in Italia dalle dogane nel 2016 perché oggetto di esportazioni illegali, e i quantitativi di Raee raccolti dal sistema dei Comuni italiani nello stesso periodo (Ispra 2017): i due dati, incredibilmente, coincidono alla perfezione assestandosi intorno alle 235.000 tonnellate. Questo non vuol dire affatto che tutti i Raee raccolti dai Comuni italiani finiscono per essere spediti illegalmente all’estero, quanto piuttosto che esiste un mercato nero almeno pari a quello ufficiale dove brulicano i piranha dei Raee. Senza contare quelli che circolano nelle filiere della distribuzione, che sono la maggior parte. Anche nel 2017 i conti non tornano e più del 38% dei rifiuti sequestrati alle frontiere italiane era costituito, manco a dirlo, da Raee: l’emorragia continua. Forse per capire come opera il mercato nero serve descrivere, brevemente, come funziona in Italia il sistema legale. Il modello di governance scelto è quello della Responsabilità estesa del produttore (Epr), che attribuisce l’onere della raccolta degli apparecchi a fine vita direttamente ai produttori/ distributori. Per ottemperare questo obbligo, di solito i produttori costituiscono dei consorzi (soggetti di diritto privato), che così diventano attori centrali nell’assicurare il funzionamento del meccanismo legale. In questo settore se ne sono costituiti ben 15, tanto da rendere necessaria la creazione di un Centro di coordinamento (Cdc Raee) col compito principale di garantire il coordinamento tra questi soggetti, divenendo al contempo punto di riferimento per l’intera filiera. Chi finanzia il sistema di Epr? Sostanzialmente, il famoso eco contributo pagato dai consumatori al momento dell’acquisto di un nuovo apparecchio. Ora, non essendoci un obbligo di legge né per i Comuni né per i negozianti di consegnare i Raee ai Sistemi collettivi, di fatto si sono creati almeno due mercati: uno gestito dal Cdc Raee e uno gestito dai privati, dove per quest’ultimi valgono solo le regole del mercato, poiché sia i Comuni sia i negozianti possono affidare i Raee al miglior offerente (purché in possesso di una autorizzazione al trattamento


Policy di questi rifiuti). Se, infatti, il sistema Cdc Raee (nonostante tutti gli intoppi della filiera) assicura un minimo di tracciabilità della filiera e il censimento annuale dei quantitativi raccolti e movimentati, lo stesso non può dirsi dei circuiti che operano al di fuori di questo sistema. Che con ogni probabilità rappresentano la fetta di mercato più grossa. Come spiega Giorgio Arienti (Dg di Ecodom e presidente del Cdc Raee), “quando i consumatori comprano un nuovo frigorifero, 9 volte su 10 buttano quello vecchio – è un mercato di sostituzione – ma i sistemi collettivi che fanno capo al CdC Raee ne ricevono però solo 5. Lo stesso per le lavatrici, dove se ne intercettano solo 3 su 9. La domanda allora sorge spontanea: dove vanno a finire questi grandi elettrodomestici, e soprattutto, nelle mani di chi?”. La verità è che ci sono troppi pescecani affamati in questo settore, sia dal lato della domanda sia dell’offerta, che provano a occultare sistematicamente i costi delle procedure di trattamento. E se per la consegna dei Raee da parte dei negozianti o dei Comuni al sistema Cdc Raee esistono accordi di programma nazionali pubblici che stabiliscono, per esempio, che per ogni tonnellata di R1 (freddo e clima) che conferiscono ai sistemi collettivi ricevono 50 euro, mentre per ogni tonnellata di R2 (grandi bianchi) ne ricevono 100, quali siano gli accordi economici tra coloro che sono fuori da questo sistema e con quali garanzie di compliance delle norme ambientali non è affatto facile saperlo. Quello che è certo è che il mercato illegale sguazza nelle falle dei modelli legali ed è pesantemente condizionato dall’andamento dei prezzi delle materie prime sul mercato internazionale:

Ferro: confronto tra quantità raccolta e andamento del prezzo Fonte: Ecodom, 2017. 6.000

350

Quantità raccolte (sinistra) Valore ferro (destra)

300

5.000

250 4.000 200 3.000 150 2.000 100 1.000

0 mesi

50

g f m a m g l a s o n dg f m a m g l a s o n d g f m a m g l a s o n d g f m a m g l a s o n d g f m

2013

2014

2015

2016

2017

0

all’aumentare del prezzo del ferro o del rame, per esempio, diminuiscono in maniera speculare e inversa i flussi verso il Cdc Raee (e viceversa) mentre aumentano quelli in libero mercato (anche illegale). Come sanno bene i doganieri e le forze dell’ordine. Ultima annotazione sul sistema di raccolta dei comuni, pesantemente gravato dalle continue razzie di cui sono vittime le isole ecologiche e i centri di stoccaggio al fine di alimentare i mercati criminali, laddove non mancano nemmeno bande di soggetti che stazionano fuori ogni isola per intercettare i potenziali clienti, prima ancora che questi varchino la soglia del sito. Non sorprende che le aziende in regola soffrano la carenza di materiali da lavorare. E il contributo ambientale pagato dai cittadini/ consumatori? Incassato dai negozianti, viene versato ai produttori e da questi ai sistemi collettivi per finanziare, di fatto, solo quella parte di Raee che viene gestito da questi. Mentre le bonifiche e il degrado ambientale e sociale causato dagli smaltimenti illeciti li pagano tutti i cittadini, nessuno escluso. Probabilmente una delle falle nella governance generale è data dalla mancanza di sinergia tra il sistema di gestione dei Comuni e quello della distribuzione. L’uno non comunica con l’altro e ognuno va per conto suo, magari scaricando la responsabilità sull’altro. Tanto che alcuni paesi in Europa hanno capito che proprio qui casca l’asino. Così partendo da alcune amministrazioni particolarmente volenterose si sono messe a punto iniziative, a rete, per intercettare quanti più Raee possibile (soprattutto quelli più piccoli e difficili da intercettare) e raggiungere gli ambiziosi obiettivi Ue di raccolta (65% entro il 2019). In Germania, nella regione Sassonia-Anhalt e più precisamente ad Halle (Saale) hanno sperimentato un sistema misto di raccolta, che integra i classici centri di raccolta (modello di consegna) con unità mobili per la raccolta di rifiuti pericolosi (modello ritiro) con 34 depositi dei contenitori per intercettare i Raee di piccole dimensioni (modello di consegna). Insieme all’ampliamento dell’orario per la consegna nei centri di raccolta (80 ore settimanali di apertura, quando la media in Germania è di circa 60), questa sinergia ha spinto in alto le performance di raccolta. Lo stesso in Svezia, dove nella cittadina di Gävle, più o meno a 200 km a nord di Stoccolma, si sono inventati l’acqua calda ampliando i punti di raccolta in quasi tutti i negozi e stringendo accordi con la rete delle Coop. Una buona comunicazione ai cittadini, un aumento della frequenza dello svuotamento dei contenitori e la garanzia di ritiri rapidi ed efficienti ai negozianti dietro il pagamento di un piccolo contributo (circa 20 euro) hanno fatto il resto. Pubblico e privato hanno fatto squadra: nel 2013 più di una tonnellata di piccole apparecchiature elettriche ed elettroniche è finita nella rete virtuosa del Comune, sottraendola ai circuiti informali. Piccoli esempi di lungimiranza strategica al servizio della collettività, dove vincono tutti facendo rete, eccetto i ladri di rifiuti. Che in Italia continuano a ingrassare.

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La rivincita del bambù Ha una crescita rapida, si adatta a diverse situazioni climatiche, fa bene all’ambiente e ai suoli dove è coltivato. Materiale versatile, leggero ma resistente, il bambù può essere utilizzato anche in edilizia e nel design in alternativa a materie prime scarse e costose.

di Veronica Ulivieri

Il bambù è una specie di erba gigante: appartiene alla famiglia delle graminacee e come loro ha una velocità di crescita maggiore degli alberi.

Il ponte di Anjan in Cina è uno dei più antichi del mondo e fino a pochi decenni fa era fatto completamente di bambù. Solo alla fine del secolo scorso le canne sono state sostituite con cavi d’acciaio. Una storia che però è destinata a diventare sempre più l’emblema di una tendenza del passato. Per la sua rapida crescita in situazioni climatiche diverse e senza bisogno di particolari input agricoli, di pari passo con prestazioni ambientali molto positive, infatti, il bambù è considerato da molti il nuovo oro verde. Perfetto per inserirsi nei cicli produttivi di un’industria alle prese con una transizione biobased, valida alternativa ad altre materie prime scarse e costose, e allo stesso tempo preziosa occasione di sviluppo per i Paesi emergenti della fascia tropicale, uno degli habitat migliori per il bambù. In Africa e America Latina è ancora considerato spesso “il legno dei poveri”, ma le cose stanno lentamente cambiando. Secondo Michael F. Ashby, scienziato dell’università di Cambridge e autore di Material and the Environment, nei prossimi 25 anni la domanda di materie prime aumenterà di quasi il 3% annuo. Allo stesso tempo, per molte di esse c’è un problema di scarsità, con metalli come il piombo,

il rame e lo zinco le cui riserve sfruttabili non dureranno più di 25 anni. Ad alimentare i cicli produttivi, insomma, dovranno essere maggiori quantità di materie rinnovabili, capaci di incamerare anche CO2 piuttosto che generare grandi quantità di emissioni in fase di estrazione e utilizzo. D’altra parte, per rispettare gli impegni presi alla Conferenza sul Clima di Parigi, l’industria dovrà essere in prima fila nel taglio delle emissioni. “In questo contesto di una economia biobased nascente, le piante alternative e preferibilmente a crescita rapida come bambù, canapa, lino, alghe, miscanthus, sughero, ma anche diverse specie di alghe e funghi (come il micelio) hanno potenzialmente un ruolo importante da giocare”, scrive nel suo libro Booming Bamboo. The (re)discovery of a sustainable material with endless possibilities Pablo Van der Lugt, ingegnere olandese tra i massimi esperti europei del nuovo oro verde. Solo in Europa, per esempio, secondo McKinsey un modello circolare potrebbe ridurre i consumi di materie prime di un terzo al 2030 e dimezzarli al 2050 rispetto al 2015. Il bambù è una specie di erba gigante: appartiene alla famiglia delle graminacee e come loro ha una velocità di crescita maggiore degli alberi. In non


World più di tre anni le canne di bambù si lignificano e dopo cinque anni dalla semina si può fare la prima raccolta: le canne sono già pronte per essere usate in applicazioni in cui è necessaria notevole rigidità e robustezza, come l’edilizia. “Non servono erbicidi o pesticidi, si tratta di una coltivazione economica”, spiega Omar Pandoli, ricercatore della Pontificia Università del Brasile che da alcuni anni studia l’ingegnerizzazione delle canne di bambù. Proprio la loro velocità di crescita garantisce ritorni economici soddisfacenti, senza comportare rischi di deforestazione: in una piantagione gestita in maniera sostenibile, infatti, è possibile raccogliere ogni anno un quarto delle canne di bambù presenti senza mettere in pericolo la sopravvivenza dell’intera foresta. Non solo: in molti casi il bambù viene usato per riforestare aree degradate in Cina e India, per la sua capacità di rivitalizzare il suolo grazie a una rete molto estesa di radici. “Nonostante nelle piantagioni commerciali pesticidi e fertilizzanti possano essere usati per ottenere raccolti più abbondanti, il loro impiego non è obbligatorio e certamente non si tratta di una pratica comune (come è invece nelle piantagioni di alberi da legname)”, scrive ancora Van der Lugt. E il bambù si conquista una promozione anche sul piano della performance di carbonio, con un’impronta di CO2 negativa: “In applicazioni dove è possibile sostituire materiali ad alta emissione di anidride carbonica (metalli, plastica, legno tropicale da fonti non sostenibili) con il bambù,

questo potrebbe portare a un’elevata riduzione della CO2. Se questo effetto di sostituzione venisse incluso in accordi climatici in futuro, la cosa rappresenterebbe un grosso incentivo per un’ulteriore implementazione di bambù durevole e di altri prodotti biobased nell’industria delle costruzioni”. A questo si aggiunge il fatto che assorbendo grosse quantità di CO2, il bambù può riportare in produzione terreni degradati o aumentare la resa di quelli con altri tipi di coltivazioni, con grossi benefici economici per i paesi emergenti. Se in Cina e in India il bambù è presente da millenni, con una tradizione consolidata e una diffusione molto ampia, in altri paesi le sue potenzialità si iniziano ad apprezzare solo di recente, e molto più lentamente. È il caso del Brasile, dove la storia della riscoperta del bambù si intreccia a quella di Khosrow Ghavami. Professore di ingegneria iraniano, arriva alla Pontificia università di Rio de Janeiro nel 1979 e da allora lavora per approfondire le potenzialità del bambù. “È stato un pioniere ed è riuscito a dimostrare che il bambù poteva sostituire l’acciaio in combinazione con il cemento. Allora pensare una cosa simile era considerata un’eresia”, spiega Pandoli, docente del dipartimento di chimica nell’università brasiliana. Arrivato in Brasile nel 2012 dopo aver studiato in Cina, all’ateneo di Rio ha “ritrovato” il bambù e a quel punto ha deciso di andare a conoscere Ghavami. “Da lì è partita la mia

Veronica Ulivieri, giornalista, si occupa soprattutto di economia e inchieste su temi ambientali. Scrive, tra gli altri, per Repubblica Affari&Finanza, La Stampa e Il Fatto quotidiano.it. Nel 2015 ha vinto il premio Ugis – Unione giornalisti italiani scientifici.

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materiarinnovabile 21. 2018 ricerca per ottenere quello che lui chiama il super nano bambù: si tratta di canne ingegnerizzate in cui le piccole cavità sono riempite di nanoparticelle che ne migliorano le prestazioni e la resistenza agli attacchi biologici”. Un’altra linea di ricerca che sta prendendo piede in Brasile riguarda il miglioramento delle prestazioni del cemento tradizionale attraverso l’aggiunta di fibre vegetali, comprese quelle di cellulosa estratte dal bambù. Nel frattempo, nello stato del Minas Gerais è sorto anche un centro per la promozione del bambù. Un’altra strada della riscossa del

bambù in Brasile riguarda il design. Alexandre Montenegro e Henrique Gomma di Fubbá Smart Objects, per esempio, hanno dato vita a un tavolo rotondo tutto in bambù. È uno degli oggetti di design portati in giro per il mondo dall’Agenzia dell’export brasiliano Apex per promuovere la l’industria creativa del paese. “Abbiamo scelto di utilizzare il bambù perché è una materia prima ecologica, rinnovabile, con una grande resistenza e, non ultimo, anche facile da pulire. Il bambù è il 30% più leggero del legno ed è molto più flessibile e versatile. È resistente all’acqua, piacevole al tatto, e il suo utilizzo non è dannoso per l’ambiente”, raccontano i due designer. Montenegro e Gomma stanno vincendo una delle sfide più complesse nell’utilizzo di questo materiale: riuscire cioè a trovare applicazioni ad alto valore aggiunto, in grado di remunerare il lavoro di chi lo utilizza. Nel 1984, ne Il libro del bambù David Farrely ha censito oltre 1.500 usi di questo materiale, dagli estratti medicinali ai pavimenti, dai rivestimenti per gli aerei alla carta. Il modello vincente è quello cinese, dove ogni parte della pianta viene utilizzata e gli scarti sono ridotti al minimo. In passato il fatto che l’artigianato in bambù era venduto in mezzo mondo a prezzi bassissimi non ha giovato alla sua immagine come materiale per il design. Ma mentre nel ponte di Anjan il bambù veniva sostituito con i tralicci di acciaio, le terre degradate cinesi erano rimesse in produzione grazie all’oro verde e in Brasile era partita la riscoperta di questa pianta. Un’altra storia è già cominciata.

Acciaio vegetale Il bambù può essere il nuovo acciaio. Lo ha dimostrato con i suoi studi a partire dagli anni ’70 l’ingegnere iraniano e docente alla Pontificia università di Rio de Janeiro Khosrow Ghavami. E ne è convinto anche l’architetto colombiano Simón Vélez, che progetta soprattutto edifici per le zone rurali, spesso usando proprio questo materiale dalle molteplici potenzialità. L’idea che lo ha guidato è stata quella di una “architettura vegetariana”: “Abbiamo un’overdose di minerali nell’industria delle costruzioni, soprattutto nei Paesi del terzo mondo”, dice, mentre il passaggio a materiali rinnovabili potrebbe abbassare i costi aumentando la sostenibilità ambientale, ma anche la resistenza delle costruzioni. Più di tre decenni fa, infatti, Vélez ha scoperto una tecnica per trasformare il bambù in una specie di “acciaio vegetale”, rendendolo più robusto dello stesso metallo: iniettando malta di cemento nelle cavità del bambù dove ci sono unioni strutturali. Oggi l’architetto colombiano ha progettato più di 200 edifici tra Europa, Usa,

Sud America e Asia. Molti di questi utilizzano Wil bambù. E l’oro verde ha convinto numerosi progettisti in tutto il mondo, soprattutto da quando si sono diffusi dei trattamenti ad alta temperatura che rendono questo materiale resistente anche per l’uso esterno, in facciate e pavimentazioni. Tra questi, per esempio, c’è il trattamento brevettato chiamato Bamboo X-treme. A Oslo, in Norvegia, la casa di riposo Bo-og è stata una delle prime costruzioni in cui il bambù trattato termicamente è stato usato per una facciata su una grossa estensione. A Beer Sheva, in Israele, invece, sono fatte di bambù la pavimentazione e la copertura di un ponte pedonale lungo 180 metri che collega l’università all’area situata oltre la stazione ferroviaria, mentre allo zoo di Lipsia, in Germania, migliaia di canne di bambù sono state usate per la facciata del nuovo parcheggio coperto, unendo eco-sostenibilità a un tocco di esotismo.

Il bambù è il 30% più leggero del legno ed è molto più flessibile e versatile.


World

A SINGAPORE

l’aria condizionata funziona come servizio Negli ultimi decenni la crescente agiatezza e urbanizzazione e l’aumento globale delle temperature hanno reso i condizionatori d’aria un bene essenziale. Kaer, azienda con sede a Singapore, ha reagito a questo trend creando ACaaS, un modello nel quale il condizionamento dell’aria è un servizio. Così l’utente ha accesso a un ambiente fresco senza dover occuparsi dei problemi relativi al possesso degli impianti. di Antonella Ilaria Totaro

Tutto è cominciato circa otto anni fa quando l’amministratore delegato di Kaer, Justin Taylor, si è seduto insieme al presidente e ai direttori per pensare a come innovare l’azienda e generare valore aggiunto per i propri clienti. Kaer, fondata nel 1993, aveva oltre trenta diverse linee di prodotti sul mercato, tutte collegate al raffreddamento dell’aria, agli edifici “verdi” e all’efficienza energetica. L’obiettivo dell’incontro non era semplicemente creare alternative più economiche o guadagnare maggiori quote di mercato, ma discutere problematiche chiave che l’azienda stava affrontando. A ogni modo, i manager di Kaer si resero conto che mentre i proprietari degli edifici lavorano con consulenti, appaltatori e fornitori, essi erano gli unici responsabili del sistema di condizionamento dell’aria negli edifici. Tuttavia, la priorità dei proprietari degli edifici e dei loro clienti non è possedere i condizionatori d’aria, ma avere aria fresca. Dalla comprensione di questo semplice fatto nacque l’idea dell’aria condizionata come servizio, ACaaS.

Negli anni successivi l’azienda compì una completa riorganizzazione e fu creata una divisione totalmente nuova, chiamata asset management. Questa nuova e rivoluzionaria divisione, nella quale oggi lavora oltre il 50% dei dipendenti della Kaer, si occupa dei clienti e fa sì che abbiano aria condizionata funzionante in ogni momento. Ricercatori e ingegneri lavorano per trovare modi attraverso i quali fornire un’efficace distribuzione dell’aria, maggiore comfort e migliore qualità dell’aria interna agli edifici. A sua volta, la divisione asset management cerca di migliorare l’esperienza dei propri committenti, dei clienti dei committenti e di tutti gli utenti finali degli edifici a cui forniscono ACaaS. Negli ultimi anni l’azienda ha installato il suo modello AcaaS in data center, impianti di trasformazione alimentare, istituti scolatici, uffici e persino centri commerciali. Il modello ha raggiunto oltre 25.000 RT (Refrigerator Ton, l’unità di potenza che misura il consumo di aria condizionata), utilizzati per raffreddare quasi 500.000 metri quadrati di spazio. Mentre l’azienda

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materiarinnovabile 21. 2018 è attiva a Singapore, in Malesia, Indonesia e India, il servizio è offerto, al momento, solo a Singapore e in India. I proprietari di edifici che scelgono l’aria condizionata come servizio ricevono le condizioni ambientali che desiderano e la temperatura che scelgono. Kaer, quale fornitore del servizio, si assume la piena responsabilità dell’installazione e del mantenimento del sistema di condizionamento dell’aria; e quindi del comfort degli spazi. Mentre ci sono alcune aziende che vendono acqua refrigerata, Kaer è l’unica al mondo che fornisce aria condizionata come servizio, rivoluzionando il settore. Utilizzando il modello “prodotto come servizio”, Kaer ha spostato la responsabilità della riduzione del consumo di energia dagli operatori e dai proprietari di edifici e si è assunta il compito di ottimizzare il sistema di condizionamento. Con ACaaS i proprietari degli edifici pagano per uno spazio fresco e confortevole senza anticipare le spese ed è semplicemente addebitato loro un costo fisso mensile o una cifra corrispondente

al consumo effettivo (payper use) in $/RTH (dollaro per tonnellata di refrigerante all’ora). In questo modo, Kaer affronta l’apparente paradosso di applicare un modello di business che abbassa la domanda del prodotto che vende, che è ingegnosamente risolto utilizzando una struttura di prezzi in cui i risparmi ottenuti sono condivisi con il cliente.

Utilizzando il modello “prodotto come servizio”, Kaer ha spostato la responsabilità della riduzione del consumo di energia dagli operatori e dai proprietari di edifici e si è assunta il compito di ottimizzare il sistema di condizionamento.

Pagare una cifra fissa mensile o per RT usato per avere un ambiente confortevole è vantaggioso per i proprietari di edifici che possono scaricare su Kaer tutte le operazioni e gli interventi di manutenzione, inclusi i costi dell’elettricità e delle riparazioni. Una vera soluzione circolare e vincente. Nonostante abbia più senso in paesi come Singapore e India, dove l’aria condizionata è utilizzata tutto l’anno, e considerando il fatto che in molti paesi del Sudest Asiatico gli edifici sono i più grandi consumatori di energia, il modello di “prodotto come servizio” potrebbe essere una soluzione globale per la crescente richiesta di energia dettata dall’ascesa dell’aria condizionata come bene essenziale.

Intervista

di A. I. T.

Un modello che unisce business e ambiente Dave Mackerness, Business Development Director di Kaer Pte Ltd

Come hanno reagito i clienti al passaggio all’aria condizionata come servizio? “All’inizio pensavano che fossimo completamente pazzi perché stavamo facendo qualcosa che nessun altro aveva mai fatto prima. C’è stato un lungo periodo di gestazione prima di guadagnarci un certo interesse. I clienti erano scettici riguardo al provare il modello ACaaS, nonostante la parte ingegneristica fosse la stessa, usassimo le stesse apparecchiature e lo stesso metodo per far funzionare il sistema. Ma, il modello di business era completamente diverso. Stiamo andando verso un mondo in cui i proprietari di edifici non possiedono più le attrezzature. Questo è un grande passo, perché devono fidarsi e contare su un’azienda che fa funzionare il sistema. Deve avvenire un vero cambio di mentalità. Tanti non sono stati molto recettivi. Così, invece di rivolgerci a quei clienti che avrebbero avuto maggiori benefici dal nuovo modello (che è ciò che solitamente le aziende farebbero) abbiamo cercato persone che volessero cambiare il modo di fare le cose, che credessero nelle stesse cose in cui crediamo noi, come l’outsourcing e l’agire diversamente. Il successo è arrivato da persone con un diverso schema mentale. Dopo aver ottenuto i primi 5, 10, 15 clienti abbiamo cominciato ad attirare l’attenzione dei grandi proprietari immobiliari e ora

abbiamo persino quella dei manager di importanti fondi.” Perché i proprietari degli edifici dovrebbero passare all’aria condizionata come servizio? “Riteniamo di far funzionare il nostro sistema di condizionamento dell’aria meglio di chiunque altro. Ciò vuol dire che i proprietari hanno meno lamentele dagli inquilini perché è troppo caldo o troppo freddo, e si verificano anche meno guasti. Controlliamo le nostre apparecchiature in ogni momento della giornata e gli inquilini hanno un servizio migliore. L’affidabilità è fondamentale per i data center o per gli impianti produttivi. Inoltre ci sono dei miglioramenti del servizio correlati al modello di business. L’aria condizionata come servizio possiede e offre enormi vantaggi ai proprietari degli edifici come, per esempio, non dover spendere capitali in un’attività secondaria o non assumersi rischi economici. Questi sono benefici enormi.” Qual è stata – ed è tuttora – la sfida più grande nel passaggio dalla proprietà al servizio? “La parte più difficile riguarda la predisposizione mentale. Il prodotto come servizio è un grande modello, estremamente semplice e offre al cliente una migliore performance. Ho parlato con molte persone.


World collegati. Riconoscendo ciò, ora abbiamo un direttore delle performance e ogni mattina il nostro AD viene aggiornato su quanta energia stiamo risparmiando o utilizzando, e su come possiamo migliorare. Il nostro business è strettamente legato alla quantità di energia che risparmiamo. Abbiamo persino sviluppato una piattaforma d’intelligenza artificiale, che è l’unica al mondo che può ottimizzare autonomamente il sistema di condizionamento dell’aria.”

Kaer, www.kaer.com

A tutte piaceva il modello ACaaS, ma tutte avevano paura di trovarsi in spazi in cui non possedevano i propri apparecchi. La difficoltà è avere i clienti convinti, poi il resto viene da sé. Io ho avuto la stessa paura, come amante della musica, quando sono passato a Spotify: il passaggio non è stato facile, mi ci sono voluti 3 o 4 anni. Ma quando alla fine ho cambiato, sono stato trascinato dall’esperienza. Ha totalmente modificato il modo in cui ascoltavo musica. Con Kaer Air stiamo attuando un’uguale trasformazione con lo stesso modello di ‘prodotto come servizio’. Stiamo trasformando il modo in cui i proprietari di edifici creano esperienze per i propri clienti.” Le aziende che offrono l’aria condizionata come servizio hanno una grande responsabilità dal momento che il servizio implica anche un alto consumo energetico. Come gestite questa responsabilità? “L’altro vincitore in questo modello è l’ambiente. Non è necessario convincere i proprietari immobiliari del senso economico dietro la protezione dell’ambiente. Con questo modello di business nessuno deve occuparsi del consumo di energia a parte Kaer. Poiché il 40% dei costi della fornitura di aria condizionata è rappresentato dall’energia, in ogni momento di ogni giorno abbiamo una forte motivazione finanziaria a rendere il sistema più efficiente. Che il proprietario abbia a cuore o meno l’ambiente è irrilevante, per noi è una decisione economica. Tutti tengono all’ambiente, ma non tutti spenderebbero soldi per salvarlo, o cambierebbero il proprio stile di vita per il suo bene. Il bello di questo modello di business è che Kaer guadagna di più se ha un minore impatto sull’ambiente. I profitti economici e i positivi impatti ambientali sono direttamente

Il futuro, quindi, è nel servizio e non nella proprietà? “Assolutamente sì! Come Spotify e altre aziende stanno dimostrando, alle persone non interessa possedere la musica, vogliono ascoltarla. Molti esempi stanno dimostrando la forza del modello basato sul prodotto come servizio (PaaS). Un’altra cosa fantastica di questo modello è la ‘democratizzazione del miglior prodotto’. Solitamente, per ogni prodotto il 5% del mercato sceglie un prezzo basso e un prodotto di scarsa qualità e altro 5% sceglie un prezzo alto e un prodotto di ottima qualità. Mentre la maggior parte delle persone sceglie una via di mezzo tra i due. Quindi, solo il 5% dei clienti ha accesso al miglior prodotto disponibile, alla migliore soluzione tecnica e alla migliore performance. Con Kaer Air noi portiamo lo stesso servizio a ognuno dei nostri clienti. A testimonianza di ciò, il sistema più efficiente dal punto di vista energetico e altamente performante tra i clienti di Kaer è rappresentato da un centro commerciale che ha uno dei sistemi più efficienti al mondo. È persino più efficiente dei nostri progetti governativi o iconici. L’illuminazione come servizio, l’energia solare come servizio, l’aria condizionata come servizio permetteranno al restante 95% degli edifici di avere accesso alla miglior tecnologia, ideazione progettuale e know-how allo stesso prezzo. Io penso che con il passaggio al PaaS a Singapore saremo in grado di raggiungere in breve tempo il 70-80% degli edifici green.” Di cosa hanno bisogno le aziende per adottare un modello di business basato sul prodotto come servizio? “Bisogna prima di tutto avere la sicurezza e la capacità di fornire il servizio. Serve il capitale e bisogna essere capaci di costruire il sistema migliore. Noi investiamo molto tempo e denaro in persone e strumenti che facciano funzionare il sistema in maniera efficiente. Quando si firma un contratto per 15 anni bisogna essere veramente sicuri di far funzionare il sistema efficientemente, altrimenti questo può avere un forte impatto sui profitti aziendali. Queste sono state per noi le principali sfide. Ci siamo trovati anche nel posto giusto al momento giusto, perché a Singapore l’aria condizionata è usata 12 mesi all’anno. Convincere il nostro consiglio direttivo e la nostra squadra a perseguire questo nuovo modello è stato facile, perché era meglio per i nostri clienti. Non abbiamo cercato di inventare qualcosa che ci permettesse di vendere un maggior numero di prodotti. Abbiamo ascoltato quello che i nostri clienti ci dicevano e questo modello di business ha rappresentato la soluzione più ovvia.”

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Da rifiuto a denaro In Europa più di tre milioni di tonnellate di fibre tessili vengono buttate via ogni anno. Per mettere fine a questo spreco il progetto Ue Trash-2-Cash punta su rigenerazione, riciclo e nuovi materiali. di Silvia Zamboni

Ogni anno nei 28 paesi dell’Unione europea più di tre milioni di tonnellate di fibre tessili finiscono nei rifiuti, uno spreco che danneggia l’ambiente e le tasche dei consumatori. Per invertire questo trend è sceso in campo il progetto “Trash-2-Cash” (“Da rifiuto


World a denaro”), finanziato dalla Ue con quasi 8 milioni di euro – su un budget di poco meno di 9 milioni – che coinvolge diciotto partner distribuiti in dieci paesi: Danimarca, Finlandia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito, Slovenia, Spagna, Svezia, Turchia. Tra le figure professionali schierate, ricercatori, ecodesigner, rappresentanti di aziende fornitrici di materie prime e di prodotti tessili finiti.

Trash-2-Cash, www.trash2cash project.eu RISE – Research Institutes of Sweden, www.ri.se/en

Silvia Zamboni, giornalista esperta in materie ambientali ed energetiche, è autrice di libri su buone pratiche di green economy, mobilità e sviluppo sostenibile.

Obiettivo base del progetto è mettere l’industria tessile sui binari sostenibili dell’economia circolare tramite soluzioni fornite dall’ecodesign da un lato e sviluppando metodi di riciclo dei tessili dall’altro, per arrivare a creare nuove fibre ad alta prestazione ambientale ed economica. “I vestiti che buttiamo e le materie prime che vanno perdute nei processi produttivi sono risorse preziose che non ci possiamo permettere di sprecare”, sottolinea Emma Östmark dell’istituto di ricerca svedese RISE – Research Institutes of Sweden. “Trash-2-Cash ci dà l’opportunità di provare a mettere fine a questo spreco”. Due le tipologie di fibre su cui è focalizzata la ricerca: il poliestere (puro al 100% o miscelato al cotone) e la cellulosa (contenuta nel cotone, in poliaccoppiati o prodotta industrialmente). Allo studio sono le proprietà dei materiali e l’esame dei processi ambientalmente efficienti di rigenerazione del cotone, nonché le tecniche di riciclo delle fibre di poliestere. Si stanno inoltre creando nuovi materiali tessili sostenibili, destinati all’alta moda, all’arredamento da interni e all’industria dell’auto, da testare nell’ambito di reali processi produttivi. Se la produzione, a partire dai rifiuti, di nuove fibre rigenerate è al centro degli sforzi del team, non meno interessante è la strada intrapresa per migliorare i metodi di Ricerca&Sviluppo, sfruttando il potenziale di innovazione insito nell’ecodesign (“Design-Driven Materials Innovation”). Una sorta di eredità progettuale affinché altri eco-designer seguano le orme tracciate da Trash-2-Cash nel far dialogare ricerca scientifica e industria. E se collaborazione è la parola d’ordine che regola le relazioni tra i partner, le “esigenze dei consumatori” rappresentano il faro che li guida verso la meta finale: sviluppare tecnologie di riciclo per produrre nuove fibre tessili capaci di soddisfare le esigenze dei consumatori. “I nuovi tessuti creati nell’ambito di Trash-2-Cash – spiega Rebecca Earley della University of the Arts di Londra – saranno ottenuti dai rifiuti e pensati per essere usati in maniera appropriata e a fondo prima di finire nella filiera del riciclo”. A novembre 2018, dopo 42 mesi di navigazione, Trash-2-Cash arriverà a destinazione. Solo allora si potrà tirare il bilancio finale di questa pioneristica avventura partita per dare un futuro sostenibile a tanti protagonisti tessili della nostra quotidianità, a cominciare dall’abbigliamento, reso oggi ancor più impattante dai dilaganti acquisti compulsivi che connotano i consumatori dei paesi occidentali ed emergenti.

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Correre e pulire:

che cos’è il plogging Quando il running fa bene al corpo ma anche all’ambiente, ecco che si parla di plogging. Un’attività che in Svezia è già un must, in Italia si pratica da quattro anni e ora si sta diffondendo in tutta Europa.

di Maurizio Bongiovanni

Il 2018 è l’anno del plogging. Infatti è solo da quest’anno che il termine usato per indicare la raccolta dei rifiuti durante l’attività di jogging si è imposto a livello internazionale. “Plogging” ha origini svedesi e deriva dal verbo plockaapp, ovvero pick-up, raccogliere. Termine che in Svezia si usa già dal 2016 per indicare runner armati di guanti e sacchetti intenti a pulire

strade e parchi dai rifiuti abbandonati, e che così facendo uniscono l’esercizio fisico al rispetto per l’ambiente. La diffusione del plogging si è avuta grazie a Instagram. Nel giro di due anni si contano più di 4.000 post con l’hashtag #plogging proprio mentre si diffondono campagne in tutto il mondo


World per prevenire l’inquinamento di plastica nel mare. L’attrattiva del plogging è la sua semplicità: tutto ciò di cui si ha bisogno è l’abbigliamento da corsa e un sacco della spazzatura. Così corsa e squat regolari per raccogliere i rifiuti da terra restituiscono la sensazione di sentirsi in forma mentre si sostiene una buona causa.

Il formato è lo stesso proposto in Italia: due eco-atleti, Albert Bosch e Nicole Ribera, hanno corso una maratona al giorno per 7 giorni con l’obiettivo di raccogliere la quantità massima di rifiuti. Entrambe le iniziative – quella italiana e spagnola – rientrano nella campagna Let’s Clean Up Europe, un’iniziativa voluta dalla Commissione europea per coinvolgere i cittadini sul territorio in azioni di clean up.

Un’idea nata in Italia da Roberto Cavallo, divulgatore ambientale ed esperto di rifiuti, che nel 2015 ha dato inizio alla “Keep Clean and Run” ovvero il “Pulisci e corri”. Coprendo tre regioni del nord, Cavallo corse più di una maratona al giorno recuperando rifiuti abbandonati – il cosiddetto littering – e incontrando scuole e amministrazioni locali, dalla montagna al mare. “L’idea era quella di accendere i riflettori sul fenomeno dell’abbandono dei rifiuti, incentrando il percorso sugli ecosistemi montano e marino, consapevoli del fatto che il 70% dell’inquinamento dei mari ha origine nell’entroterra” spiega Cavallo. Dopo tre edizioni in giro per l’Italia e un documentario incentrato sull’argomento del regista italiano Mimmo Calopresti, nel 2018 il “Keep Clean and Run” si è trasformato in “Keep Clean and Ride”, percorrendo una distanza di 1.000 km in bici e raccogliendo i rifiuti da Bari a Padova lungo la costa adriatica e l’entroterra.

Ma torniamo al nord Europa. Qui il plogging sta contagiando positivamente anche i paesi limitrofi alla Svezia, come per esempio Danimarca e Finlandia. Già famosa per il suo higgy, ovvero la ricerca della felicità quotidiana attraverso semplici gesti, la Danimarca ha subito adottato questa iniziativa sul suo territorio: tutte le settimane, per esempio, il club della cittadina di Næstved organizza corse nella foresta per raccogliere gli eventuali rifiuti lasciati a terra. “Usiamo i social per coordinarci e segnalare la presenza di rifiuti e ogni martedì organizziamo una corsa per recuperarli”, ha detto Klaus Christian, uno degli organizzatori, alla tv locale, ØST. Attualmente, più di 2500 danesi aderiscono al gruppo Facebook TrailSkrald: “Abbiamo visto che c’era un sacco di spazzatura in giro dove correvamo” ha spiegato Kenneth Andersen, co-fondatore del gruppo. “Invece di puntare il dito contro gli altri, abbiamo deciso di usare le mani per fare qualcosa di concreto.”

2015, Roberto Cavallo con Luca Mercalli ad Avigliana

L’evento è stato fonte di ispirazione per gli ambientalisti spagnoli, in particolare catalani, che hanno organizzato la Ultra Clean Marathon.

Etna

Roberto Cavallo. Discarica abusiva, zona Catania

Envi.info, www.envi.info

Maurizio Bongiovanni, giornalista freelance e project manager presso AICA – Associazione internazionale per la comunicazione ambientale. Ha collaborato con diverse testate nazionali, autore di documentari, attivista in difesa del suolo e caporedattore di Envi.info.

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Startup

Nome: Plus: Settore: Caratteristiche:

Mattoni creati dai batteri con bioMASON bioMASON Materiali edilizi creati da batteri a temperatura ambiente Nuovi materiali bioMASON impiega microrganismi naturali per la produzione industriale di materiali per il settore edilizio che riducono le emissioni di CO2 e la dipendenza dai combustibili fossili e risorse idriche

di Antonella Ilaria Totaro

Photo courtesy of bioMASON, Inc

biomason.com

World Bank, Introducing energyefficient clean technologies in the brick sector of Bangladesh, 2011, Washington, DC.

Un’unità sottile di bioLITH™, materiale lanciato da bioMASON lo scorso anno

L’architetto statunitense, oggi 40enne, Ginger Krieg Dosier ha fondato nel 2012 bioMASON, una startup che punta a far crescere materiali di origine organica utilizzabili nel settore edilizio. L’idea venne alla fondatrice studiando la struttura della barriera corallina, un materiale cementizio molto duro, creato dalla natura a temperatura ambiente marina con pochissima energia e input di materia. Esattamente come accade per i coralli, bioMASON impiega microrganismi naturali per “far crescere” un cemento duraturo a temperatura ambiente. La presenza dei batteri nei mattoni permette l’indurimento e la formazione di cemento biologicamente controllato, eliminando la necessità di cottura. In tal modo si riducono le emissioni di CO2 e la dipendenza dai combustibili fossili con la possibilità di produrre i materiali in loco. Nel processo creato da bioMASON, la sabbia è messa negli stampi insieme ai batteri, che sono nutriti con una soluzione acquosa, ioni di calcio, che permette ai mattoni di indurirsi senza passare dai forni (dove tradizionalmente i mattoni restano tra i 3 e i 5 giorni). La produzione di mattoni è presente ovunque in Asia, soprattutto in India e in Bangladesh, dove è tradizionalmente un’industria su piccola scala e gestita in maniera informale. In Bangladesh, le fornaci per i mattoni sono responsabili del 30-50% delle emissioni di polveri sottili e causa, quindi, di disturbi cardiovascolari e respiratori e anche di morte. Una singola fornace può arrivare a emettere 48.000 chili di monossido di carbonio in una sola stagione. Secondo uno studio della Banca Mondiale in Bangladesh la produzione di mattoni è seconda soltanto al traffico come fonte di inquinamento. Si tratta di un business molto dispendioso dal punto di vista energetico sia per l’estrazione delle materie prime e i trasporti che per il riscaldamento dei forni. Gli inquinanti atmosferici, cioè il particolato (PM), il monossido di carbonio (CO) e il biossido di zolfo (SO2) sono emessi principalmente durante il processo di cottura del mattone.


Startup

Startup

Nome: Plus: Settore:

W.r.yuma: occhiali da bottiglie di plastica e cruscotti W.r.yuma Prodotti da materiali riciclati Primi occhiali da sole al mondo da stampa 3D di rifiuti di plastica

Caratteristiche:

I vecchi cruscotti delle auto, le bottiglie di plastica e gli sportelli dei frigoriferi sono puliti, fatti a pezzi e trasformati in nuovi inchiostri per stampante 3D da partner terzi belgi e olandesi e W.r.yuma ne fa occhiali da sole di alta qualità

di Antonella Ilaria Totaro

“I nostri occhiali non cambieranno il mondo, lo cambieranno le persone che li indossano”: è questa l’idea di Sebastiaan de Neubourg, fondatore di W.r.yuma, che ha lanciato, prima azienda al mondo, gli occhiali da sole con montature stampate in 3D e inchiostro proveniente dal riciclo della plastica a livello locale. Con il nome che prende spunto da Yuma,

www.wryuma.com

Arizona, US, il posto più soleggiato al mondo, la startup belga disegna e realizza occhiali che puntano su sostenibilità, modularità e stile. E lo fa servendosi di alcuni partner tra Belgio e Olanda. I vecchi cruscotti delle auto, le bottiglie di plastica e gli sportelli dei frigoriferi sono puliti, fatti a pezzi e trasformati in nuovi inchiostri per stampante 3D dalla Better Future Factory di Rotterdam, mentre la startup Tridea di Bruxelles fornisce inchiostro per stampanti 3D da bottiglie di plastica. Con i diversi rifiuti si ottengono montature di colore diverso: nere con i cruscotti delle auto, semi-trasparenti con il PET riciclato, mentre i frigoriferi permettono di stampare il testo sulle stanghette degli occhiali. Gli occhiali da sole sono progettati e assemblati a mano ad Anversa, utilizzando lenti italiane di alta qualità con protezione UV 100% e avvalendosi per l’assemblaggio, il confezionamento e la spedizione dell’impresa sociale Flexpack. Il progetto del fondatore, un ingegnere 33enne, riguarda anche il fine vita degli occhiali che sono disegnati per essere disassemblati. I clienti saranno in grado di scambiare gli occhiali da sole con un nuovo modello a prezzo scontato, mentre le vecchie montature, tornate indietro, potranno essere riciclate. Un vantaggio importante della stampa 3D consiste, infatti, nel poter realizzare edizioni limitate di montature personalizzate da riciclare facilmente dopo l’uso. I primi occhiali da sole W.r.yuma, consegnati in tutto il mondo agli inizi del 2018, sono stati finanziati su Kickstarter, piattaforma di crowdfunding, attraverso una campagna il cui obiettivo di finanziamento è stato raggiunto in 24 ore. Nell’estate del 2018, W.r.yuma, che punta su stile e giovani, sarà presente a festival musicali in tutta Europa, dove stamperà occhiali da sole da tazze riciclate. “Il futuro è realizzare occhiali da sole con il bicchiere di plastica da cui hai bevuto la tua birra”, dicono.

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Startup

Nome: Plus: Settore:

Winnow: rifiuti analizzati, cibo risparmiato Winnow Tecnologia che traccia e riduce lo spreco di cibo monitorando il bidone dei rifiuti Tecnologia

Caratteristiche:

Con un metro intelligente collegato al bidone dei rifiuti, Winnow traccia le diverse tipologie di cibo cestinato, analizza gli sprechi per arrivare a individuale opportunità chiave per salvare cibo e modificare i comportamenti nelle cucine commerciali

di Antonella Ilaria Totaro

Con lo spreco di cibo che diventa una problematica sempre più centrale, Winnow vuole essere la tecnologia che permette agli chef di ridurre i rifiuti alimentari. Con sede a Londra, Winnow evita lo spreco di cibo analizzando e registrando tutto quel che finisce nella spazzatura delle cucine commerciali. I dati raccolti permettono ai cuochi di ricevere report – giornalieri e in tempo reale – per migliorare i processi produttivi e dimezzare lo spreco di cibo, il che si traduce parallelamente in taglio di costi e riduzione dell’impronta ambientale. Winnow è un termine proveniente dal mondo agricolo che si può tradurre con vagliare.

www.winnow solutions.com

1. www.wrap.org.uk/ content/less-foodwaste-saves-money 2. Vedi anche “Capitali in circolo”, Intervista a Jamie Butterworth di Antonella Ilaria Totaro, Materia Rinnovabile n. 19, dicembre 2017-gennaio 2018; www.renewablematter. eu/it/art/380/Capitali_ in_circolo

Vagliare il grano vuol dire separare il grano dalla pula. Con la stessa idea, Winnow vuole separare quanto di utile c’è nel cibo che è oggi buttato e che potrebbe essere sfruttato diversamente. Secondo il Waste and Resources Action Programme (WRAP) il settore dell’ospitalità britannica cestina circa 600.000 tonnellate di cibo annui,1 mentre il settore della distribuzione, supermercati inclusi, ne butta circa 400.000 tonnellate. I consumatori sono sempre più preoccupati dal cibo gettato, anche considerando che hotel, pub, ristoranti potrebbero evitare i 2/3 di questo spreco. Con una tecnologia semplice e immediata, Winnow traccia lo spreco di cibo, registra le diverse tipologie di cibo cestinato, analizza gli sprechi giornalieri per arrivare a individuale opportunità chiave per salvare cibo e modificare i comportamenti in cucina. Si tratta di un’opportunità economica da non sottovalutare considerando che clienti come Ikea, Costa e Accor Hotels, adottando questa tecnologia, stanno risparmiando tra il 3 e l’8% di costi di cibo, recuperando quindi nel giro di qualche mese l’investimento per l’adozione della tecnologia. Winnow Solutions è stata la prima azienda in cui Circularity Capital ha investito nell’ottobre 2017,2 oltre a essere nominata startup dell’anno 2016 dal Guardian Sustainable Business.


Startup

Startup

Nome: Plus:

STRATA, servizio di arredamento modulare STRATA Servizio di arredamento modulare per proprietari di immobili

Settore:

Modello di business circolare – Nuovo design

Caratteristiche:

Una nuova categoria di servizi di arredamento modulare per i proprietari e una nuova opportunità per gli inquilini di personalizzare il proprio appartamento in affitto

di Antonella Ilaria Totaro

www.stratalayer.com

Dall’ex leader di Circular Ikea dell’Inter Ikea Systems e da due designer del Royal College of Art nasce Strata che punta a offrire un sistema di arredamento flessibile a strati modulari. Considerando il rapido cambiamento di mode e la difficoltà di chi affitta una casa di avere un appartamento che rispecchi i propri gusti, STRATA ha sviluppato un modello in cui i diversi elementi di arredamento, dalle sedie ai divani, dagli scaffali ai tavoli, sono pensati e disegnati a strati, separati e scomponibili. Lo strato di base dell’oggetto di arredamento, realizzato in materiali più pesanti e durevoli, è tenuto in uso il più a lungo possibile, mentre quelli superiori, come il tessuto di rivestimento di un divano, sono pensati per essere separati, rinnovati e adattati ai gusti degli affittuari di casa. STRATA offre lo strato di base dell’oggetto come servizio ai proprietari che per questo pagano un costo totale senza investimenti iniziali, senza costi di riparazione o rifiuti ingombranti da gestire. La struttura di base è standard per tutti i tipi di sedie o scaffali, ha un’aspettativa di vita più lunga rispetto agli altri strati dell’oggetto e il metallo, con cui questi strati di base sono realizzati avrà un valore crescente nel tempo e può essere considerato una banca di materiale. Gli strati superiori, al contrario, sono personalizzabili dai locatari che possono scegliere il design, i colori e i tessuti senza essere costretti a buttare via l’intero pezzo di arredamento. Questi strati di rivestimento possono essere acquistati in negozi, presso produttori locali o essere personalizzati nei fablab. A questi si aggiunge un terzo livello, quello dei dati. Sensori connessi catturano dati per permettere ai proprietari di casa di aver un inventario aggiornato dei propri strati di base e offrire ai locatari un’esperienza in un ambiente più salutare e sostenibile. Il modello di Strata è attualmente un prototipo. I fondatori Matthieu Leroy, Victor Strimfors e Katrine Hesseldahl puntano a essere attivi in 500 appartamenti per studenti in tre anni, con pacchetti tariffari diversi offerti ai proprietari e l’obiettivo di fornire contratti di servizio completi di 3-5 anni.

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Rubriche Circular by law

In Europa l’economia circolare è legge Francesco Petrucci*, giurista ambientale, membro della Redazione normativa di Edizioni Ambiente.

*In collaborazione con Rivista “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” e Osservatorio di normativa ambientale su www.reteambiente.it

L’economia circolare è diventa una realtà legislativa europea pronta a incidere significativamente sul mercato dei materiali. Il 22 maggio 2018 il Consiglio Ue ha approvato definitivamente il “pacchetto economia circolare” (già votato dal Parlamento Ue il 18 aprile 2018) con le proposte di direttiva su rifiuti, discariche, imballaggi, veicoli, pile e rifiuti di apparecchi elettrici ed elettronici. Le misure economiche previste dal pacchetto economia circolare premieranno le imprese più innovative che sapranno realizzare prodotti sostenibili, riparabili, riciclabili, a ridotto impatto ambientale. I provvedimenti (direttive 849/2018/Ue, 850/2018/ Ue, 851/2018/Ue e 852/2018/Ue) sono stati pubblicati sulla Guue il 14 giugno 2018 e sono in vigore dal 4 luglio 2018. Nel frattempo la Commissione europea ha avviato la lotta alla plastica inquinante e non riciclabile. Come preannunciato a gennaio 2018 durante la presentazione della strategia europea sulla plastica, il 28 maggio 2018 è stata presentata dalla Commissione europea la proposta di direttiva sulla plastica monouso che avrà un impatto notevole sull’industria del settore. La direttiva mira a contenere l’impatto della plastica sull’ambiente, in particolare sul mare, agendo in varie direzioni: prevenzione, con misure idonee dirette a ridurre il consumo di alcune plastiche monouso; divieti di circolazione, con l’uscita dal mercato di determinati prodotti di plastica (tra cui cotton fioc, forchette, coltelli, cucchiai, bacchette, piatti, cannucce); requisiti di progettazione, promuovendo il design dei prodotti a ridotto impatto ambientale. Previsto infine l’obbligo di etichetta su alcuni prodotti per avvisare i consumatori sul loro impatto ambientale. Una mano alla riduzione della plastica non riciclabile potrebbe darla il nuovo bilancio pluriennale dell’Unione europea 2021-2027. Tra le nuove risorse che lo finanzieranno, secondo la bozza presentata il 2 maggio 2018, ci sarà un contributo sulla plastica non riciclata che, secondo alcuni calcoli, potrebbe portare 2 miliardi di euro nelle casse dell’Unione e disincentivare la produzione di plastica non riciclabile. Buone notizie per l’efficientamento in edilizia col via libera definitivo della proposta di modifica della direttiva 2010/31/Ue. Il voto del Parlamento europeo è arrivato il 17 aprile, quello del Consiglio Ue il 14 maggio 2018. Lo scopo delle nuove norme è una decisa decarbonizzazione degli immobili nella Ue al 2050. Passi decisivi anche sulle emissioni di gas a effetto serra. L’8 aprile 2018 è entrata in vigore la revisione

del sistema Ue per lo scambio di quote di emissione di gas a effetto serra (Emission Trading System): la direttiva 2018/410/Ue ha modificato la direttiva 2003/87/Ce rendendo più efficace il meccanismo, gli Stati membri hanno tempo fino al 9 ottobre 2019 per recepire le novità. Parallelamente è arrivata l’approvazione definitiva del regolamento che fissa obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra per i settori “non Ets” (agricoltura, trasporti, edilizia e rifiuti) dal 2021 al 2030. Il voto del Parlamento Ue è stato il 17 aprile, quello del Consiglio il 14 maggio 2018. Infine, voto finale il 14 maggio 2018 anche per la proposta di regolamento sulla contabilizzazione delle emissioni e degli assorbimenti di gas a effetto serra risultanti dall’uso del suolo, dal cambiamento di uso del suolo e dalla silvicoltura per contribuire alla riduzione delle emissioni. Sul fronte delle certificazioni europee, ancora novità sull’Ecolabel con la decisione 2018/680/Ue che approva i criteri ecologici per ottenere il marchio Ue Ecolablel per i servizi di pulizia di ambienti interni (è una novità assoluta), mentre la decisione 2018/666/Ue proroga al 31 dicembre 2022 i criteri ecologici già esistenti per ottenere il marchio Ecolabel per le vernici per interni ed esterni. Continuano inoltre gli aggiornamenti della disciplina dettata dal regolamento Reach 1907/2006/ Ce, normativa sull’autorizzazione e registrazione delle sostanze chimiche, fondamentale per tutte le aziende che lavorano con sostanze e miscele e che ha risvolti importanti anche per tanti settori produttivi, compreso il settore della plastica dato che sono molte le sostanze chimiche usate come additivi nelle materie plastiche. Una prima novità riguarda il regolamento 2018/675/Ue che dal 1° dicembre 2018 aggiorna la classificazione Reach riferita alle sostanze cancerogene, mutagene e tossiche per la riproduzione. Un secondo intervento sul regolamento Reach ad opera del regolamento 2018/589/Ue ha riguardato nuovi limiti dal 9 maggio 2018 al commercio dei liquidi di lavaggio o sbrinamento del parabrezza contenenti metanolo e le restrizioni per la produzione, utilizzo e immissione nel mercato dell’1-metil-2-pirrolidone (applicabili dal 9 maggio 2020). Infine, non è ancora in vigore ma ha fatto passi in avanti la proposta che modificherà numerosi allegati del regolamento Reach 1907/2006/Ce. Gli Stati membri il 26 aprile 2018 hanno raggiunto un accordo sul testo. Le novità chiariranno i requisiti di registrazione Reach in relazione ai nanomateriali, prodotti sempre più usati nell’industria e non efficacemente regolati ai fini della tutela dell’ambiente e della salute.


Rubriche

Circulate

La moda è un gioco da bambini Joe Iles è editor in chief di Circulate alla Ellen McArthur Foundation contribuendo a diffondere pareri illustri, notizie e casi di studio sull’economia circolare.

vigga.us/order-vigga A New Textiles Economy: Redesigning Fashion’s Future, www.ellenmacarthur foundation.org/ programmes/systemicinitiatives/make-fashioncircular

Che genere di consumatore incurante dopo poche settimane butta via i vestiti appena acquistati? Avete indovinato: i bambini. Nonostante gli impatti negativi dell’industria della moda si comprendano sempre meglio, bebè, lattanti e bambini di tutte le età non mollano. Comprano roba nuova, la indossano qualche volta e poi ne hanno abbastanza. Serve un guardaroba completamente nuovo. Probabilmente vi sarete già resi conto che questa è una visione un po’ distorta dei fatti, anche se il principio base non fa una piega. Con la crescita i bambini – i loro bisogni e le loro taglie – cambiano rapidamente. Si stima che nei primi due anni di vita in media i bambini crescano di otto taglie. Il risultato è un continuo bisogno di nuovi indumenti, a spese e a discapito dei genitori, che traina una domanda costante di risorse ed energia per la produzione di capi di abbigliamento, e comporta l’inevitabile necessità di smaltire i vestiti che non vanno più. Ma direste che gli utilizzatori di quei vestiti, o addirittura i loro genitori che li comprano, sono intrinsecamente spreconi? Naturalmente no. Fa tutto parte del sistema che è alla base del modo in cui progettiamo, produciamo, compriamo, usiamo e buttiamo via i vestiti. È lo stesso sistema lineare “prendi-produci-butta via” sul quale si fondano la maggior parte delle industrie, dal cibo, ai telefoni, alle case. In Danimarca c’è un’azienda che guarda agli indumenti per bambini da un punto di vista completamente diverso. Vigga produce capi di abbigliamento di alta qualità usando materiali naturali. Hanno un bell’aspetto, sono ben progettati e fatti per durare. Il che fa salire il prezzo. Così, invece di limitarsi a vendere questi prodotti – che ridurrebbe il numero di persone che possono permetterseli – la startup li fornisce con una sorta di abbonamento. Per una cifra mensile, Vigga manda ai clienti gli indumenti giusti della taglia giusta per i loro bambini. Quando crescono, ricevono la nuova collezione per posta, e i vestiti più piccoli vengono restituiti, lavati in una lavanderia professionale e pronti a essere usati da un altro bambino. La fondatrice Vigga Svensson dice che questo sistema fa risparmiare soldi e tempo ai genitori, fornendo al contempo un prodotto di qualità superiore. Inoltre, a differenza delle aziende che vendono abbigliamento in maniera tradizionale, progettare indumenti durevoli aiuta anche Vigga:

i capi di alta qualità possono essere scambiati più a lungo, tra più clienti, facendo aumentare il guadagno del business. Creando quindi un incentivo a produrre qualcosa che non finisce mai in discarica. Perché limitarsi all’abbigliamento per bambini? Perché un maggior numero di clienti non può soddisfare in questo modo i suoi bisogni di moda e indumenti? Nel mondo il numero medio di volte in cui un capo di abbigliamento viene indossato è diminuito del 36% rispetto a 15 anni fa. È un grande spreco di denaro: i consumatori si fanno scappare un valore di 400 miliardi di euro all’anno, buttando via indumenti che potrebbero ancora indossare, e si stima che alcuni capi siano scartati dopo essere stati usati tra le sette e le dieci volte. Il rapporto A New Textiles Economy: Redesigning Fashion’s Future afferma che “per indumenti i cui i bisogni pratici cambiano nel tempo, per esempio, l’abbigliamento per bambini o quello comprato per occasioni uniche, i servizi di noleggio ne farebbero aumentare l’utilizzo mantenendo i capi in uso continuo, invece di parcheggiarli nel cassetto di qualcuno”. Insieme a migliori modelli di rivendita, questo genere di attività potrebbe invertire la tendenza ad avere sempre più indumenti da buttare. Questa è una delle tre principali aree in cui è necessaria un’innovazione per creare un’industria della moda che possa prosperare in futuro. Insieme allo sviluppo di modelli di business che mantengono in uso gli indumenti, dobbiamo incrementare la domanda di materiali rinnovabili e sicuri, e unire le forze dell’industria per trasformare gli abiti usati in nuove opportunità. Per rendere questa visione una realtà la Ellen MacArthur Foundation Make Fashion Circular Initiative sta mettendo insieme attori dell’industria della moda. Insieme ai Core Partner Burberry, Gap, H&M, HSBC, Nike e Stella McCartney, e supportata da C&A Foundation e Walmart Foundation, l’iniziativa porterà le soluzioni necessarie per soddisfare le richieste e le aspettative in trasformazione della società, e affrontare i temi che hanno reso la moda una delle industrie più sprecone e inquinanti.

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Thinking resilience

Scegliere da che parte stare nello stallo tra civiltà e pianeta Giornalista e divulgatore Richard Heinberg ha scritto di energia, ambiente, ecologia. Autore di 13 libri, oggi è senior fellow al Post Carbon Institute. È considerato uno dei più attivi sostenitori della necessità di mettere fine alla dipendenza da fonti fossili.

Per fermare i cambiamenti climatici, rispondere al crollo della biodiversità e minimizzare il pericolo di esaurimento delle risorse naturali, dobbiamo ridurre la dimensione dell’economia globale basata sul modello “estrarre-consumare-inquinare”. Ma dato che dipendiamo dall’economia per il sostentamento, va fatto in modo equo e giusto per tutti. Però le élite finanziarie e politiche non vogliono saperne. La crescita economica è il principale oggetto di fede nel nostro mondo moderno. Qualsiasi sia il problema, la crescita è la soluzione. L’economia è un veicolo senza retromarcia, e noi trattiamo il pianeta come un semplice mezzo per giungere alla nostra gloriosa o ignominiosa fine. Una forza incontenibile (la nostra domanda di una crescita infinita) si è scontrata con qualcosa di inamovibile (un pianeta con risorse e capacità di ricezione dei rifiuti limitate). La gara che contrappone la civiltà al pianeta sembra essere in fase di stallo. Nel frattempo gli archeologi hanno imparato che le civiltà sono entità instabili e temporanee. Quindi, nella nostra gara, possiamo essere abbastanza sicuri che sarà il pianeta a prevalere anche se probabilmente in una condizione così indebolita e destabilizzata da non poter più sostenere una civiltà. Possiamo uscire da questo stallo prima che l’umanità si intrappoli in una traiettoria irreversibile? Forse la tecnologia potrebbe avere un ruolo. Potremmo passare a tecnologie energetiche che non rilasciano carbonio. Ma se la società umana continua a crescere, e se continuiamo a usare l’energia per un’ulteriore estrazione di risorse che distrugge gli ecosistemi, allora persino i generatori solari o eolici riusciranno al massimo a posticipare la scomparsa della civiltà. Se vogliamo proteggere la civiltà sul lungo periodo, la nostra sola vera speranza è trasformarla. Dobbiamo pensare all’economia umana come sottoinsieme dipendente dell’ecosistema globale. Dobbiamo puntare a un’auspicabile condizione di stabilità piuttosto che a una crescita infinita. Inoltre, la nostra economia deve essere circolare in modo da non portare all’esaurimento o al degrado delle risorse naturali e non generare rifiuti tossici. Dobbiamo ripristinare gli ecosistemi, creare suolo, espandere le foreste, rimuovere l’inquinamento dagli oceani e tenere sotto controllo la pesca. Nel frattempo possiamo ridurre gli impatti sociali promuovendo forme cooperative di possesso dell’attività produttiva da parte dei lavoratori,

la sharing economy e un reddito di base universale. Però, perché questo tipo di cambiamenti possa realizzarsi, sarà necessario un cambiamento profondo dei cuori e delle menti. Invece di vedere il mondo naturale come un deposito di risorse da saccheggiare, dobbiamo guardarlo come la base della nostra esistenza e la guida delle nostre azioni. In ogni epoca si sviluppa una visione del mondo che aiuta le persone a dare un senso alla loro vita e a ciò che le circonda. Durante la breve era industriale alimentata dal fossile, l’umanità ha adottato una visione del mondo incentrata sull’adorazione della tecnologia e sull’obiettivo della crescita economica. Ma oggi stanno germogliando, invisibili ai più, i semi di una visione nuova e diversa. La visione ecologica del mondo è l’inevitabile risposta umana ai cambiamenti climatici, e rappresenta una rivoluzione morale ed etica. La mente ecologica cerca collegamenti sistemici tra i fenomeni. Ha una visione planetaria ma è radicata e adattata localmente. Man mano che allunga i suoi rami e dispiega le sue foglie, il pensiero incentrato sulla natura mette in dubbio molte assunzioni rinforzate culturalmente. Nella gara tra civiltà e pianeta, sempre più esseri umani stanno cambiando parte. E il motivo per farlo è incontestabile: Chi vuole far parte della squadra perdente? È comprensibile che politici ed economisti ostacolino questa rivoluzione. Il loro potere deriva dalla difesa del paradigma attualmente imperante. Quindi la rivoluzione non può iniziare in sale riunioni o parlamenti, nemmeno nelle conferenze sul clima. Comincia invece nei cuori e nelle menti. È vero, la maggior parte di noi non sopravviverebbe neanche un mese senza la civiltà. Ma la nostra dipendenza non cambia il fatto che il modo in cui viviamo non ha futuro. Quando ci sforziamo di sviluppare un’economia che non metta a repentaglio le stesse basi della propria esistenza, si delinea una potenziale tregua. Eppure finché i termini di questa tregua potranno essere schematizzati e adottati, è il pianeta a meritare la nostra fedeltà. Poiché la civiltà basata sul modello “cresci ed esaurisci” non ha futuro, l’unica risposta realistica è trarre supporto da essa: posare il nostro smartphone e uscire dal nostro guscio. Via via che prestiamo più attenzione agli uccelli e agli insetti, torniamo gradualmente in noi. Benvenuti nella squadra vincente.



27-28 SEPTEMBER TURIN (ITALY) Organized by

JOIN US TO SHAPE THE WORLD CIRCULAR BIOECONOMY Info and Registration: https://ifib2018.b2match.io Venue: Cavallerizza Reale, via Verdi 9

Among the speakers: Jennifer Holmgren (LanzaTech), Tony Duncan (Circa Group), Philippe Mengal (BBI JU), Liesbet Gooverts (EIB), Sandy Marshall (Bioindustrial Innovation Canada), Bernardo Silva (ABBI Brazil), Elisabetta Balzi (EU Commission), Mathieu Flamini (GFBiochemicals), Alit Fasce Pollicelli (Ministry of Economy, Argentina), Paolo Corvo (Clariant), Niklas von Weymarn (Metsä Spring), Henri Colens (BraskemBio), Giulia Gregori (Novamont), Andrea Pipino and Vito Guido Lambertini (Fiat Chrysler Automobiles), Mieke De Schoenmakere (EEA), Jean-Marie Chauvet (Foundation Jacques de Bohan), Vander Tumiatti (SEA Marconi), Susanne Braun (University of Hohenheim), Luca Cocolin (University of Turin), Mauro Fontana (Ferrero Group), Veerle Rijckaert (Flanders’ Food), Simão Soares (SilicoLife), Christian Hübsch (UPM Biochemicals)




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