MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE
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22 | luglio-agosto 2018 pubblicazione bimestrale Edizioni Ambiente
Carlo Petrini: il cibo, unità base di connessione •• Intelligenza in 3D. Intervista a Gunter Pauli
Focus circular food •• Ritorno al futuro per vincere la sfida alimentare •• Intervista a Jacqueline Alder, Fao: un mare di opportunità •• Il Food System nell’economia circolare
Dossier Irlanda/bioeconomia •• Ecodesign per l’alluminio •• Tutti i segreti del tappo in sughero •• Riciclo della carta: un cerchio quasi perfetto
Focus future-proof cities •• Intervista a Piero Pelizzaro: noi siamo resilienza •• Città, dove inizia la transizione •• 100 città resilienti •• Il parco giochi della rivoluzione blu
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Stampato da Geca Industrie Grafiche con inchiostri a base vegetale privi di oli minerali. Il sistema produttivo di Geca non produce scarichi e ogni sfrido delle nostre lavorazioni è immesso in un processo di raccolta e riciclo. www.gecaonline.it
Stampato su Crush, carte ecologiche di Favini realizzate con sottoprodotti di lavorazioni agro-industriali che sostituiscono fino al 15% della cellulosa proveniente da albero: copertina Crush Agrumi 250 g/m2, interno Crush Lenticchia 120 g/m2. www.favini.com
Pianta di coca, Franz Eugen Köhler, Köhler’s Medizinal-Pflanzen, 1897. Wikimedia Commons CC0
Editoriale
Una questione globale di Emanuele Bompan
Nel Putumayo, Colombia, la produzione di coca ha raggiunto livelli tra i più alti degli ultimi anni. Il processo di sostituzione delle colture con cash crop come cacao o peperoncini pregiati funziona a fatica: la coca rende molto di più sul mercato. “Senza una valorizzazione reale della produzione agricola non si può fermare la coca”, spiega Nico, un piccolo produttore locale, durante un’intervista. Sebbene questo sia un caso limite, il tema di come trarre maggior valore (economico e non solo) dai prodotti agricoli, schiacciati dalla dittatura dei prezzi della grande distribuzione e degli intermediari, è centrale nei Paesi in via di sviluppo così come in quelli industrializzati. Con poche eccezioni – come il settore vitivinicolo – l’agricoltura è in perenne difficoltà, costantemente alla ricerca di sussidi (ingenti quelli per i carburanti fossili). Un settore che ha il potenziale per trovare nuove fonti di reddito e che dovrebbe essere protagonista nella mitigazione degli impatti ambientali, rispristinando i danni di un’agricoltura tecnologica e iper specializzata e migliorando la produttività dei suoli. Con un altro obiettivo fondamentale: garantire occupazione dignitosa e adeguatamente remunerata, qualcosa di ben diverso da ciò che ci raccontano le cronache. L’industria alimentare è stata definita da alcuni la “più grande industria del mondo”, con oltre un miliardo di persone che lavorano ogni giorno per coltivare, elaborare, trasportare, commercializzare, cucinare, confezionare, vendere o consegnare cibo. Le risorse necessarie per sostenere questo settore sono ingenti: il 50% della terra abitabile del pianeta e il 70% della domanda di acqua dolce vengono assorbiti dall’agricoltura. Gli impatti ambientali dell’agricoltura e dell’allevamento, cardine della nostra stessa esistenza sono immensi, dalle emissioni di carbonio legate alla deforestazione, all’impronta ambientale degli allevamenti intensivi. Allo stesso tempo i produttori diretti (non i grandi marchi) non ne traggono una reale ricchezza, specie nei Paesi meno industrializzati. Può essere l’economia circolare una soluzione a questi problemi? È quello che ci domandiamo in questo numero di Materia Rinnovabile. Come possiamo realizzare colture e processi industriali da cui riuscire a ottimizzare l’uso delle risorse
traendo profitto da ogni output, limitando gli impatti ambientali e anzi operando per rigenerare l’ambiente? L’innovazione della chimica dei materiali e la riscoperta di saperi tradizionali potrebbe essere la chiave della circular economy of food. Oggi da una pianta come la vite siamo in grado di realizzare un’ampia gamma di prodotti: vino, distillati dalle vinacce, polifenoli, materiale tessile dalle vinacce esauste, fibra dalle foglie. Ed è solo un esempio tra i tanti di cui già disponiamo. Allo stesso tempo la riscoperta dell’agro-ecologia e di specie resilienti può tutelare colture e allevamenti dagli shock climatici e ambientali. È un mondo da scoprire e da studiare, capendo come ottimizzare i processi di scala (Di quanti sottoprodotti si dispone? Avremo sufficiente materia per una supply chain? Quali sono le giuste econometrie?), cercando i modelli più efficienti (come la 3D Farming di Gunter Pauli, intervistato nelle pagine che seguono) e più sostenibili per un’agricoltura e un’industria alimentare resiliente, studiando le buone pratiche e alimentando un dibattito politico in cui questo tema non è ancora emerso. Con due punti fermi: evitare l’uso di risorse utilizzabili come alimento per produrre materiali o energia, evitando disastri come il boom dei bio-carburanti di prima generazione, che ha distorto il mercato di derrate come mais e barbabietola da zucchero, creando vere e proprie crisi alimentari. E come secondo punto, i prezzi: il cibo deve uscire dalle logiche finanziarie. Entrando pesantemente nei mercati finanziari delle commodities (come quello di Chicago) non solo come derrate ma anche come biomateria, c’è il rischio di forti distorsioni e di possibili speculazioni legate a prodotti derivati. Una volta posti i giusti paletti sta alla ricerca indipendente impegnarsi sull’analisi quantitativa e qualitativa di questi processi, mentre per industria e agricoltori il compito è innovare i processi e studiare sempre nuove soluzioni. Ai designer, infine, l’onere di ripensare e riprogettare sia il modo in cui consumiamo il cibo sia gli usi delle nuove biomaterie che nasceranno dagli scarti dell’agricoltura, della produzione e dal food waste. Toccherà a chi, come noi si occupa di comunicazione raccontare tutto questo, collegando i diversi aspetti e cercando di promuovere le nuove idee, stimolando anche la politica ad agire.
The Circular Rush di Sirpa Pietikäinen
Sirpa Pietikäinen, politica finlandese del Partito di coalizione nazionale. È stata membro del Parlamento finlandese e – dal 1991 al 1995 – ministro per l’Ambiente. Dal 2008 è deputata del Parlamento europeo. In quanto membro supplente del Comitato Ue su ambiente, salute pubblica sicurezza alimentare, ha stilato un rapporto sull’agricoltura biologica nel 2015 ed é stata relatrice sull’economia circolare.
Stiamo già consumando circa una volta e mezza la quantità totale di risorse naturali che il nostro pianeta può rigenerare annualmente. Se continuiamo su questa strada, entro il 2050 avremo bisogno del quadruplo delle risorse che il pianeta può produrre annualmente. Il problema è che abbiamo una sola Terra. La sostenibilità richiede un cambiamento radicale nel modo in cui usiamo le risorse. Dobbiamo raggiungere lo stesso livello di produzione e benessere con un decimo delle risorse e un decimo delle emissioni. L’Europa è estremamente dipendente dall’importazione di materie prime ed energia. In realtà, dal 2005 l’Ue ha avuto un deficit commerciale nelle materie prime. I costi dei materiali spesso rappresentano circa il 50% dei costi operativi totali di un’azienda. Sia le materie prime sia l’energia hanno continuato a costare sempre di più. La scarsità di risorse porta a un aumento dei prezzi – semplice economia. Le economie europee non possono sopravvivere – figuriamoci crescere e prosperare – a meno che non compiamo dei passi radicali per migliorare l’efficienza nell’uso delle risorse e per passare a un’economia veramente circolare. Quello di cui abbiamo bisogno è un vero cambio di paradigma, che porterà benefici sia alla nostra economia che all’ambiente. Dobbiamo smettere di sprecare preziose risorse e cominciare a usarle in maniera più efficiente. In questa sfida giace anche un’enorme opportunità. Coloro in grado di trovare soluzioni per il dilemma dell’efficienza nell’uso di risorse saranno i vincitori della nuova corsa economica: questo significa risolvere il problema del fare di più con meno e creare maggiore valore aggiunto con meno risorse. Molti settori commerciali hanno già riconosciuto questi fatti e hanno cominciato a comportarsi di conseguenza. Hanno fatto un salto verso una nuova mentalità, in cui l’intera logica del successo nel business è ribaltata. Queste aziende hanno creato nuovi modelli di business per ottenere una maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse e modelli circolari tra cui l’aumento di noleggi, condivisione, leasing, bio-innovazioni, rilavorazione... Alcuni studi commissionati da aziende mostrano importanti opportunità di risparmio sui costi dei materiali per l’industria dell’Unione europea e un significativo potenziale per la crescita del Pil. Per esempio la Commissione europea ha
calcolato che un aumento della produttività delle risorse del 30% entro il 2030 creerebbe due milioni di nuovi posti di lavoro e farebbe aumentare il pil dell’1%. Al fine di sostenere questo cambiamento dobbiamo anche cambiare le regole del gioco. La regolamentazione non è mai neutrale. La legislazione è uno dei propulsori principali della rivoluzione nel business. Molto del nostro pensiero e anche gran parte dell’attuale legislazione sono stati creati per rispondere ai bisogni di una società “consuma-butta via” e quindi devono essere cambiati per adeguarsi al nuovo ordine mondiale. Nell’economia circolare non ci sono rifiuti, i prodotti sono progettati per durare a lungo, per essere riparabili, riutilizzabili e riciclabili; quando arrivano alla fine del ciclo di vita utile le risorse contenute in questi prodotti vengono ancora reindirizzate a un utilizzo produttivo. Ogniqualvolta sia possibile dovremmo passare dal non-rinnovabile al rinnovabile e quindi facilitare il calcolo di quale attività economica operi nei confini della sostenibilità. La bioeconomia ha un ruolo di primo piano in questo cambiamento. Però non tutta la bioeconomia è sostenibile. Ne è un esempio l’impennata nell’uso dell’olio di palma e il come questo fatto dimostri la potenziale insostenibilità della bioenergia, quando utilizza prodotti che hanno altri e più efficienti impieghi. Per comprendere pienamente come funziona la bioeconomia all’interno dei confini di ecosistemi sostenibili e dei limiti della biodiversità e della rinnovabilità, abbiamo bisogno di indicatori appropriati, armonizzati e obbligatori con analisi sul ciclo completo. Mentre assistiamo all’aumento del bisogno di materiali di origine biologica nel packaging, nella chimica, nell’abbigliamento, negli edifici e per altri usi, dobbiamo affrontare i limiti della rinnovabilità e della sostenibilità. Ecco perché dobbiamo applicare il principio della decuplicazione degli utilizzi nei cicli di feedback. La circolarità va anche applicata ai biomateriali, e i biomateriali che stanno cominciando a scarseggiare devono essere usati applicando il principio dell’utilizzo a cascata.
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22|luglio-agosto 2018 Sommario
MATERIA RINNOVABILE RIVISTA INTERNAZIONALE SULLA BIOECONOMIA E L’ECONOMIA CIRCOLARE www.renewablematter.eu ISSN 2385-2240 Reg. Tribunale di Milano n. 351 del 31/10/2014 Direttore responsabile Emanuele Bompan Direttore editoriale Marco Moro Hanno collaborato a questo numero Irene Baños Ruiz, Mario Bonaccorso, Rudi Bressa, Elena Comelli, Joke Dufourmont, Franco Fassio, Sergio Ferraris, Michele F. Fontefrancesco, Roberto Giovannini, Igor Kos, Daniel Lerch, Nate Maynard, Giorgia Marino, Carlo Petrini, Francesco Petrucci, Andrea Pieroni, Sirpa Pietikäinen, Rebecca Ricketts, Nadia Tecco, Luisa Torri, Antonella Ilaria Totaro Caporedattore Maria Pia Terrosi Coordinamento di redazione Paola Cristina Fraschini Editing Francesco Bassetti Paola Cristina Fraschini
Emanuele Bompan
5
Una questione globale
Sirpa Pietikäinen
7
The Circular Rush
10
NEWS
Carlo Petrini
13
Focus circular food Il cibo, unità base di connessione
Marco Moro
14
a cura della redazione
Think Thank
Policy 17
Emanuele Bompan
24
Emanuele Bompan
28
Joke Dufourmont
32
Focus future-proof cities Le città, catalizzatrici per un’economia circolare
Rebecca Ricketts
35
Focus future-proof cities Circular Glasgow
Igor Kos
36
Focus future-proof cities Maribor, una città circolare
Daniel Lerch
37
Focus future-proof cities Perché Portland è una città resiliente?
Nate Maynard
38
Focus future-proof cities Tai-Pay: più butti via più paghi
Emanuele Bompan
40
Community manager Antonella Ilaria Totaro Traduzioni Francesco Bassetti, Erminio Cella, Franco Lombini, Mario Tadiello
Focus circular food Il Food System nell’economia circolare
Franco Fassio, Nadia Tecco
Design & Art Direction Mauro Panzeri Impaginazione e infografiche Michela Lazzaroni
Focus circular food Intelligenza in 3D Intervista a Gunter Pauli
Focus circular food Un mare di opportunità Intervista a Jacqueline Alder Focus circular food Ritorno al futuro, riscoprire i saperi tradizionali per vincere la sfida alimentare Intervista a Danielle Nierenberg
Focus future-proof cities 100 città resilienti Intervista a Lina Liakou
9
Coordinamento generale Anna Re
Sergio Ferraris
43
Focus future-proof cities Noi siamo resilienza Intervista a Piero Pelizzaro Focus future-proof cities Il parco giochi della rivoluzione blu
Antonella Ilaria Totaro
45
Michela Lazzaroni, Antonella Ilaria Totaro
50
In Depth Perché le città devono diventare circolari
52
Dossier Irlanda L’Irlanda è sempre più verde con la bioeconomia
Mario Bonaccorso
World Rudi Bressa
58
La Slovenia si propone come circular hub per l’Europa
Irene Baños Ruiz
60
Agenzie di sviluppo nell’economia circolare
Rudi Bressa
64
Tutti i segreti del tappo in sughero, circolare per natura
Rudi Bressa
68
Foreste da conservare
Giorgia Marino
70
Un cerchio (quasi) perfetto: il riciclo della carta in Italia
Sergio Ferraris
72
Ecodesign per l’alluminio
74 75 76 77
CupClub, la startup delle tazze come servizio ecoBirdy: nuovi giocattoli da plastica riciclata 500 tonnellate di cibo recuperato con InStock Evoware, il packaging a base di alghe che scompare
Francesco Petrucci
78
Circular by law L’Ue vuol chiudere la partita con la plastica
Roberto Giovannini
79
Il circolo mediatico A volte i cattivi siamo noi
Startup Antonella Ilaria Totaro
Rubriche
Responsabile relazioni esterne Anna Re Responsabile relazioni internazionali Federico Manca Ufficio stampa press@renewablematter.eu Contatti redazione@materiarinnovabile.it Edizioni Ambiente Via Natale Battaglia 10 20127 Milano, Italia t. +39 02 45487277 f. +39 02 45487333 Pubblicità e promozione marketing@materiarinnovabile.it Abbonamenti (6 numeri all’anno) Solo on-line su www.renewablematter.eu/it/moduloabbonamento Questa rivista è composta in Dejavu Pro di Ko Sliggers Prodotto e stampato in Italia presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Copyright ©Edizioni Ambiente 2018 Tutti i diritti riservati
materiarinnovabile 22. 2018
NEWS
Wang Hui: Pesco in fiore, barca da pesca, National Palace Museum, Taipei/wikimedia.commons
10
a cura della redazione
New Vague Al London College of Fashion’s Centre for Sustainable Fashion (Csf), dal prossimo anno accademico iniziano i corsi sulle tecniche di produzione che tengono conto della circular economy. I primi a partecipare saranno degli stilisti del gruppo Asos che manderà gran parte del dipartimento creativo. “Vogliamo che i nostri stilisti abbiano le conoscenze e le competenze necessarie per mettere in pratica la sostenibilità e la circolarità” ha commentato Vanessa Spence, design director dell’azienda. “È fondamentale che sin dall’inizio disegniamo i nostri prodotti in maniera circolare e responsabile.”
Ue + Cina = Circular La Cina e l’Unione europea hanno firmato un memorandum d’intesa sull’economia circolare durante il 20° vertice UeCina, svoltosi a Pechino il 16 e 17 luglio scorso. L’accordo firmato dal vicepresidente della Commissione europea Jyrki Katainen e dal presidente della Commissione nazionale cinese per lo sviluppo e la riforma He Lifeng, vedrà le due maggiori economie del mondo definire meccanismi e regole per un’economia circolare
Jump off, plastic
AB InBev
L’Australia ha aderito alla lunga lista di paesi che hanno bandito i sacchetti di plastica monouso all’interno della gdo, mettendo un soprapprezzo per quelli riutilizzabili e incoraggiando gli acquirenti a portare da casa il proprio. Sebbene alcune catene hanno ritardato il bando, per facilitare la transizione prima della fine dell’estate tutti gli esercizi avranno raggiunto l’obiettivo sacchetti zero. Decine di paesi hanno già imposto divieti o tasse sui sacchetti di plastica monouso, inclusi Regno Unito, Francia, Cina e Paesi Bassi. Il Kenya ha forse la legge più dura: coloro che violano il divieto devono affrontare quattro anni di carcere o una multa fino a $ 39.000.
Il colosso della birra AB InBev ha trovato una seconda vita ai cereali esausti ricavandone sottoprodotti della birra adatti al consumo. La tecnologia sostenibile è stata sviluppata nel Global Innovation and Technology Center (GITeC) di AB InBev a Leuven, in Belgio. È stato sviluppato un
globale, aprendo la via allo sviluppo di prodotti, standard e politiche, che potrebbero creare le condizioni per un “cambio di sistema” su scala globale verso un modello economico a basse emissioni di carbonio e rigenerativo. Tra i settori più interessati dall’accordo il tessile, il packaging, l’elettronica, e la chimica. La cooperazione tra le due potenze economiche in questo campo riguarderà scambio di know-how, di strategie, legislazione, politiche e
ricerca in aree di reciproco interesse. Tratterà i sistemi di gestione e gli strumenti politici come la progettazione ecologica, l’etichettatura ecologica, la responsabilità estesa del produttore e le filiere verdi nonché il finanziamento dell’economia circolare. Entrambe le parti si scambieranno le best practice in settori chiave come i parchi industriali, i prodotti chimici, le materie plastiche e i rifiuti.
processo di fermentazione unico per convertire i cereali usati in ingredienti alimentari stabili, con una tecnologia specifica volta a preservare il valore nutrizionale degli ingredienti vegetali. Il primo prodotto realizzato è Canvas, una bevanda di orzo “circular” a base vegetale, disponibile in cinque aromi: Original, Cocoa, Latte, Matcha e Turmeric Chai.
Un fondo per la CE La società di gestione ginevrina Decalia ha lanciato Decalia Circular Economy, il primo fondo di investimento azionario dedicato all’economia circolare. Con una gestione attiva, (active share stimata al 93%), il fondo comprenderà circa 70 posizioni di cui 25 basate su forti convinzioni. Sarà prevalentemente orientato alle capitalizzazioni minori. La gestione sarà affidata all’equipe di Clément Maclou, responsabile delle strategie incentrate sulle tendenze di consumo. Il fondo, comparto della Sicav Ucits lussemburghese Decalia, è attualmente riservato agli investitori qualificati, ma sarà presto registrato in Svizzera e in molti paesi europei.
News
Fairphone-as-a-service ©Fairphone
BioAfrica
Product-as-a-Service
l’ingegneria vincolata, R&S e la programmazione di produzione di legacy product (prodotto simbolo), questo salto in una categoria di prodotti completamente nuova sta costringendo i produttori a reinventarsi. Il 18% dei produttori prevede di abbandonare i prodotti basati sulle transazioni di proprietà e passare a un’attività interamente basata sui servizi. La maggioranza (54%) prevede di vendere entrambi, sia i legacy product e di lanciare nuovi prodotti intelligenti e connessi che saranno le loro piattaforme per i ricavi dei servizi.
Entro il 2020 il 47% di tutti i prodotti manifatturieri sarà in grado di generare entrate come prodotto-come-servizio. Un sondaggio di Capgemini ha scoperto che i produttori di quest’area stanno reinventando l’uso delle tecnologie digitali, in modo da sfruttare nuove opportunità di mercato. I produttori prevedono che i prodotti intelligenti e connessi lanciati sul mercato saliranno dal 35% nel 2017 al 47% nel 2020, con un tasso di crescita annuale composto (CAGR) del 10,3% all’anno (erano solo il 14% nel 2014). Considerando
Dal 27 al 29 agosto si è tenuta in Sud Africa la prima convention “BIOAfrica”. Scopo della kermesse è sostenere e rafforzare la crescente bioeconomia nel continente. “La convention BIOAfrica creerà un ambiente favorevole all’interazione business-to-business e promuoverà partnership tra aziende locali e investitori internazionali, nonché collaborazioni strategiche da parte di attori del settore in tutto il continente per promuovere e sviluppare la bioeconomia africana”, ha affermato Siyabulela Ntutela, l’amministratore delegato di AfricaBio. Il summit, il primo del settore nel continente, promuove lo sviluppo di tecnologie d’avanguardia che consentiranno scoperte per nuove biomolecole industriali.
Finanza circolare ABN AMRO, ING e Rabobank si sono uniti per pubblicare le linee guida per chi vuole investire nell’economia circolare: saranno uno strumento utile per aiutare le società di servizi finanziari di tutto il mondo a passare a un’economia circolare aumentando il capitale destinato a progetti con modelli di business circolari (Cbm). Le linee guida aiuteranno le società di servizi finanziari a identificare se le iniziative sono coerenti con le Cbm, incoraggiando il settore finanziario a valutare le conseguenze ambientali di un investimento, in particolare l’impronta ambienta derivante, legata a materiali, energia e acqua utilizzati.
Distruggi tutto Burberry ha distrutto oltre 28 milioni di sterline dei suoi prodotti di moda e cosmetici nell’ultimo anno per proteggersi dalla contraffazione e dalla distribuzione nel mercato grigio con dettaglianti non ufficiali non approvati dal marchio. La società ha anche affermato di aver cura di ridurre al minimo la quantità di scorte in
eccesso che produce e sta cercando modi per ridurre e “rivalutare” i rifiuti. Per evitare le critiche la compagnia ha ammesso di usare i pregiati vestiti per produrre energia tramite termovalorizzazione. C’è chi fa peggio? Richemont ha denunciato la distruzione di orologi per un valore di 421 milioni di euro, tra cui prodotti di marchi come Cartier e Jaeger-LeCoultre, in Europa e in Asia.
ABN AMRO, Amsterdam/Mig de Jong
Circular Economy Network ha indetto il primo premio per le start up dell’economia circolare, sui temi dell’ecodesign e della simbiosi industriale in cui si riutilizzano prodotti di scarto di altre produzioni, dei progetti di ecoinnovazione, dell’efficienza nell’uso di materiali, riducendo il consumo di materie prime o producendo con materie prime seconde, delle tecnologie di produzione con materiali di scarto e il riciclo di rifiuti. Saranno premiate le prime tre classificate con una targa di riconoscimento, la possibilità di aderire gratuitamente al Circular Economy Network, la prima sarà incubata da Progetto Manifattura, il primo incubatore internazionale dell’economia circolare.
press.burberry.com
CE Start-up da premio
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Focus circular food
Think Tank
Il cibo, unità base di connessione Il modello economico lineare basato sul concetto di rifiuto e scarto è particolarmente evidente nell’ambito del cibo. Per questo l’alimentazione costituisce un campo prioritario per sperimentare nuove modalità di produzione e di fruizione di beni, un nuovo approccio alla materia prima e agli scarti, nuove relazioni economiche e sociali. di Carlo Petrini
gorartser_PixabayCC0
Slow Food, www.slowfood.com
Gastronomo, fondatore e presidente del movimento Slow Food e dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, Carlo Petrini. Ambasciatore della Fao in Europa per il Sustainable Development Goals – Fame Zero, è l’ideatore della rete Terra Madre. Editorialista de La Repubblica, ha pubblicato Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo e Buono, pulito e giusto (Slow Food Editore, 2009 e 2016).
Ogni essere vivente è il frutto d’interrelazioni, soggette all’influenza del contesto e, a loro volta, capaci di influire sull’ambiente naturale e sociale. Siamo sistemi aperti con dinamiche circolari al proprio interno, inseriti in un ecosistema terrestre che ha le medesime caratteristiche. La circolarità ci appartiene come esseri viventi e dunque quando la interrompiamo generiamo un problema a livello di sistema. In questo scenario, la prospettiva che offre il cibo è un punto di osservazione privilegiato per andare alla scoperta delle proprietà e delle potenzialità del pensare circolare. Il cibo è il tramite attraverso cui inizia il processo circolare di metabolizzazione della materia nel corpo umano e la sua consequenziale trasformazione in energia per la vita. Flussi d’informazioni caratterizzano i meccanismi circolari di feedback che danno origine e sono il motore dell’evoluzione della specie. Il cibo è unità base di connessione, e costituisce un campo prioritario per la sperimentazione di un nuovo modo di intendere la produzione e la fruizione di beni, un nuovo approccio alla materia prima e allo scarto, un nuovo paradigma di costruzione di relazioni economiche e sociali integrate e positive per tutti. Partire dal cibo per sviluppare un nuovo modello di economia vuol dire riportare l’attenzione alle comunità, alla qualità delle relazioni e alla sostanza dei comportamenti. Perché il cibo è un agente strutturante dei territori in quanto è ancora connesso alla verità dei bisogni. Non significa occuparsi solo di ciò che ci tiene in vita, al contrario significa esplorare territori complessi che attengono alla socialità, alla comunità, all’identità, alla spiritualità di ciascun essere umano, a qualunque latitudine e di qualunque estrazione sociale e culturale. L’economia lineare ed estrattiva, basata sulla massimizzazione del profitto e sulla continua erosione dei costi, imperniata sul concetto di rifiuto e scarto, ha lentamente ma inesorabilmente colonizzato il nostro immaginario e il nostro pensiero, omologando sempre più spesso i nostri processi mentali a quelli produttivi. Questo fenomeno è ancora più evidente nell’ambito del cibo, dove le pratiche proposte si scontrano
con scenari produttivi che continuano a porre le persone e le risorse primarie in una condizione di sfruttamento e dove un’omologazione diffusa, basata principalmente sulle regole rapaci dell’economia finanziaria, genera impatti negativi sul capitale naturale, sociale e culturale del pianeta. È necessario rilevare a questo proposito che rispettare il pianeta vuol dire in primis avere cura di noi stessi e dare l’opportunità agli ecosistemi futuri di fruire di quanto rimetteremo alla loro gestione. La nostra quotidiana gratificazione deve quindi porsi dei limiti per rimanere nei confini planetari e sociali di un sistema che non dobbiamo distogliere dal suo equilibrio dinamico. Per questo è necessario sviluppare nuove alleanze per condividere valori e obiettivi, per porre un freno all’uso irrazionale delle risorse e per provare a ricucire un tessuto sociale che deve essere assieme il punto di partenza e il volano principale del cambiamento che auspichiamo. Perché l’economia la fanno le persone, e un modello che depaupera le risorse naturali va per forza di cose di pari passo con lo sfruttamento del lavoro, con l’iniquità nella distribuzione del reddito e con la marginalizzazione degli interessi comunitari e sociali. In sostanza, non possiamo fare distinzioni tra la crisi ambientale e la crisi sociale a cui assistiamo. Non c’è un problema di risorse planetarie da un lato e uno di equità sociale globale dall’altro. Le due questioni sono intimamente interconnesse e integrate, e come tali vanno affrontate. Non c’è ambientalismo senza lotta alla povertà e non c’è promozione sociale senza ecologia. Oggi è necessario sviluppare questo dialogo, ripensando e ridisegnando un’economia rigenerativa, circolare, attenta a preservare il sapere che possiamo attingere da quella straordinaria biblioteca che è il pianeta. Pensare per sistemi è la condizione necessaria per comprendere come le parti s’influenzano a vicenda, come possiamo passare da un modello di competizione a uno di collaborazione tra gli attori di uno stesso sistema, come il concetto circolare non possa essere ridotto a una mera definizione di “economia del rifiuto”. Non sprechiamo l’occasione di cambiare paradigma, ne abbiamo un disperato quanto urgente bisogno.
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materiarinnovabile 22. 2018
Focus circular food
Intelligenza in 3D Intervista a Gunter Pauli I sistemi naturali lavorano in tre dimensioni, mentre i nostri sistemi agroindustriali guardano soprattutto alla geometria piana. Ciò che conta è quanta superficie possiamo usare. E se provassimo invece a usare l’intelligenza della natura? di Marco Moro
Gunter Pauli, autore, docente, attivista, imprenditore. Il suo ultimo libro è Economia in 3D – L’intelligenza della natura, pubblicato da Edizioni Ambiente.
Non-convenzionale è la definizione standard del pensiero di Gunter Pauli. Capace di guardare simultaneamente al futuro profondo e al passato remoto, con infinita complessità, questo imprenditore visionario originario di Antwerp da sempre cerca di scardinare le regole dell’economia neoclassica cercando nuovi paradigmi. Nella sua ultima fatica, Economia in 3D, guarda in profondità nei modelli di produzione alimentare. Materia Rinnovabile si è seduta con lui in un caffè di Milano per una lunga chiacchierata sul tema. Nel tuo ultimo libro, dove riprendi i principi della Blue Economy, sostieni che l’attuale approccio alla produzione agricola è eccessivamente semplificato e semplicistico. Quali sono le caratteristiche dell’attuale “mainstream agricolo” che ti spingono a formulare questo giudizio? “Oggi tutto è standardizzato. Trattiamo la produzione dei pomodori come se si trattasse della produzione di automobili. L’auto è di metallo ed è una macchina. Il pomodoro è vita. Ma in un pomodoro privo del suo sapore non si trova alcuna vita, e credo che di questo non sia necessario convincere nessun abitante del Mediterraneo, dove le forze della vita si sono manifestate in modo più spettacolare che altrove! Per dare una risposta alla domanda di cibo nel mercato globale, l’industria, la scienza e la politica hanno scelto la strada della standardizzazione.
Questo significa che oggi, come consumatori, ci aspettiamo di trovare la stessa qualità di pomodori in qualsiasi parte del mondo, lo stesso mais ovunque. Abbiamo negato la biodiversità biologica e climatica. Di fronte all’incremento della siccità puntiamo alla modificazione genetica, piuttosto che all’uso di piante adatte a queste condizioni. Quindi il modello è la standardizzazione e la standardizzazione è guidata dai costi. Tutto oggi è guidato dai costi, e ciò risponde alla logica economica convenzionale: se il cibo è meno caro, sarà accessibile a una maggiore quantità di persone. Ma è proprio questa logica che ha condotto a trattare il suolo come se fosse una risorsa mineraria. Denunciamo sempre gli effetti negativi delle attività minerarie sulla qualità dell’aria, dell’acqua e sulla salute delle persone. Ma l’agricoltura è diventata una attività di estrazione del carbonio dal suolo. Ma se non c’è carbonio nel suolo, non c’è capacità di ritenzione idrica e se non c’è ritenzione idrica ci sarà bisogno di crescenti quantità di acqua per garantire la fertilità del terreno. E sappiamo che già oggi il 70% dell’acqua potabile nel mondo è utilizzata per irrigazione, e questo è un trend in costante crescita, perché ci siamo completamente dimenticati del ruolo e dell’importanza del carbonio nel suolo. L’attuale sistema agroalimentare è pronto al collasso. È tenuto in vita solo grazie ad un uso
Think Tank
Keynote Speech: Prof. Johan Rockström & CEO Pavan Sukhdev, www.youtube.com/ watch?v=tah8QlhQLeQ
G. Pauli, Economia in 3D – L’intelligenza della natura, 2018 Edizioni Ambiente www.edizioniambiente.it/ libri/1208/economia-in-3d www.zeri.org www.TheBlueEconomy.org Twitter: @MyBlueEconomy @gunterpauli
sempre più massiccio di fertilizzanti sempre più potenti. Le risposte che diamo alla crisi della qualità del suolo sono condizionate dalla volontà di produrre sempre maggiori quantità della stessa cosa. E le risposte sono la genetica e la chimica: pesticidi, erbicidi, fungicidi sono il modo in cui rispondiamo. A questi si aggiungono tutti i conservanti che mettiamo nella frutta, perché l’uso della chimica nel cibo non si ferma sul campo. Si inizia dai semi, che sono trattati chimicamente e si finisce con il cibo, che è analogamente trattato a partire dal packaging. Quando guardiamo a questo cocktail chimico dobbiamo essere consapevoli che non è solo il suolo che stiamo esaurendo, ma è al cibo stesso, per come siamo abituati a pensarlo, che stiamo cambiando identità, definendolo diversamente da come si definisce in tedesco, Lebensmittel, ovvero strumento per la vita. Perché il cibo continui ad essere un mezzo per la vita è forza vitale quella che dobbiamo garantirgli, mentre ciò che stiamo dando è chimica, i cui componenti possono avere anche effetti benefici se presi singolarmente, ma quello che può fare al nostro corpo il cocktail di questi elementi nessuno lo ha mai testato. Le fondamentali contraddizioni dell’attuale sistema agroalimentare sono quindi il consumo d’acqua e di suolo, la produzione di cibo a costi (e prezzi) sempre più bassi, l’ossessione per la chimica. Ripensando all’oggi tra 50 anni ci chiederemo come sia stata possibile tanta stupidità, come sia stato possibile eliminare l’habitat dell’orangutang solo per avere olio di palma e produrre biscotti da spedire in tutto il mondo confezionati nella plastica. E in tutto questo mi chiedo: dov’è che si crea profitto? Il profitto si crea nella fase di trasformazione. Tutti sappiamo che non è nell’azienda agricola che si fanno i soldi, perché troppi agricoltori stanno soffrendo. I soldi li fa chi crea il prodotto da vendere al consumatore finale. E così, forse, è proprio nel sistema attuale che troviamo gli ingredienti per la creazione di un nuovo sistema agroalimentare. È a questo che dobbiamo guardare, non a una rivoluzione che fermi il sistema corrente, ma a ciò che lo fa funzionare e a come questi ingredienti possono essere trasformati in elementi di un modello virtuoso di produzione e consumo.” È quello che proponi come transizione da un sistema a due dimensioni verso uno “tridimensionale”. Se l’agricoltura di oggi si pensa in termini di geometria piana, cos’è questa terza dimensione che non vediamo o che abbiamo dimenticata? “Oggi, combinando la migliore genetica con l’eccellenza chimica, da un ettaro di terreno possiamo arrivare a produrre 20, forse 23, perfino 25 tonnellate di biomassa. Una foresta pluviale produce 500 tonnellate di biomassa per ettaro. Se l’obiettivo è nutrire il pianeta dobbiamo operare come fa una foresta pluviale, quello stesso ecosistema che oggi distruggiamo per fare spazio
alle monocolture e sostenere che questo è il prezzo per assolvere al difficile compito di nutrire il mondo. E invece i numeri dicono chiaramente che non è così: quello che dobbiamo fare è domandarci cosa produce questa enorme differenza. Le foreste di kelp (alghe del genere laminariale) generano su un ettaro, crescendo per diversi metri sotto la superficie del mare, fino a un migliaio di tonnellate di biomassa. E mentre l’industria vi dirà, “ok, ma quella roba nessuno la vuole mangiare” continuerà a inondarci di junk food. Ma se si è riusciti a rendere saporito perfino un hamburger di McDonald vogliamo veramente credere che sia impossibile fare altrettanto con le alghe? Ovviamente no! Quello di cui abbiamo veramente bisogno è il livello di produttività di una foresta pluviale, che non depriva, ma invece rigenera la fertilità del suolo, e per ottenere questo la condizione essenziale è riportare il carbonio nel suolo. La foresta pluviale, pur crescendo su un suolo povero, riesce a compiere questo ciclo di rigenerazione. Lo sanno bene le popolazioni native, per le quali i metodi di collaborazione con la natura per conservare la fertilità del suolo sono parte fondamentale del patrimonio culturale, come dimostra la cosiddetta terra preta che si trova nella foresta amazzonica. Ciò che ci sta dicendo la natura è molto chiaro: datemi tre dimensioni, lasciate che io cresca in altezza per proteggere la vita che altrimenti i raggi ultravioletti distruggerebbero. La capacità di lavorare ‘in 3D’ porta a creare una densità di biomassa che è impossibile anche da immaginare se tutta l’attenzione è riservata al solo chicco della pianta del mais e se si ritiene, come si fa normalmente oggi, che ‘il fertilizzante non va usato per far crescere il gambo’. Se deve andare tutto nel chicco ciò che otteniamo è una coltivazione sempre più “bidimensionale”, che si avvicina al suolo, in modo che l’azione del fertilizzante vada più diretta all’obiettivo e la chimica risulti più efficiente nell’aumentare la produttività. In un’agricoltura ‘3D’ la densità si estende in altezza, come accade nelle foreste pluviali dove la grande densità di biomassa vegetale arriva fino a 20 o 30 metri di altezza, e la cui ricchezza viene condivisa con le altre forme di vita. E se il punto è la produttività, guardiamo piuttosto all’acqua, che ha un ulteriore vantaggio, la sua densità: l’acqua è 700 volte più densa dell’aria ed è quindi ovviamente più ricca di nutrienti. È curioso quindi come oggi ci si concentri sulle colture idroponiche per tenere immerse solo le radici, quando fino a una profondità di 20 metri grazie alla luce incidente una pianta totalmente immersa godrebbe del massimo apporto dalle sostanze nutritive che fluttuano nell’acqua. L’agricoltura in 3D, come si vede, è biomimetica, perché la natura è progettata per riprodursi. E chiunque conosca un minimo di geometria, in sostanza, capisce subito che tre dimensioni offrono molto di più di due. Quindi perché mai l’agricoltura dovrebbe focalizzarsi solo sul piano o peggio? Perché la genetica punta solo a rendere le
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materiarinnovabile 22. 2018 colture più vicine al suolo? Credo che qui si cada veramente in errore e chi oggi si occupa di biomimetica dovrebbe guardare allo spazio fisico in cui l’agricoltura si colloca, piuttosto che agli insetti o alla singola pianta. C’è meraviglia ovunque in natura, ma la vera meraviglia è il modo in cui usa lo spazio a tre dimensioni, e non c’è dubbio che oggi si possa praticare un’agricoltura che imita questa capacità. Ma che esperienza abbiamo di uso tridimensionale dello spazio in agricoltura? Con le serre cerchiamo di creare un ambiente ad atmosfera controllata, ma ancora una volta senza capire i modelli di funzionamento della natura. Perché il modo in cui gli ingegneri ritengono che funzioni la natura, non ha nulla a che fare con il modo in cui essa funziona veramente. In una serra, per avere i pomodori o l’insalata anche in inverno riscaldiamo l’aria con enormi costi energetici provocando una elevata evaporazione dell’acqua. Quindi abbiamo poi bisogno di irrigare, e le serre sono tipicamente grandi consumatrici di acqua per metro quadro. Quale è il problema? È che abbiamo dimenticato che le piante non hanno bisogno di aria calda per far crescere le foglie, hanno bisogno di una differenza di temperatura tra radici e foglie che è ciò che permette di avere un flusso ottimale dei nutrienti nella pianta. Abbiamo inventato l’irrigazione a goccia, grande business per chi produce questi sistemi, ma non è altro che ciò che la natura tende sempre a realizzare, un ambiente in cui si possa verificare una differenza di temperatura tra suolo e ciò che vi cresce sopra tale da consentire il raggiungimento del ‘punto di rugiada’ (dewpoint). In natura è la rugiada che ogni giorno fornisce l’’irrigazione a goccia’ e lo fa da milioni di anni. Altra cosa che abbiamo dimenticato. Consideriamo un altro fattore: la luce, domandandoci di quanta luce le piante hanno bisogno e anche di che tipo. Oggi usiamo Led per tenere le serre costantemente illuminate. La luce dei Led viene però “letta” dalle piante come luce diurna, ma queste non hanno bisogno di luce diurna perenne, bensì del cambiamento che avviene tra alba e tramonto, che induce processi chimici differenti nei due tipi di clorofilla presenti negli organismi vegetali. Clorofille che permettono alle piante, sulla base di differenze anche minime nella frequenza della luce, di ‘sapere’ in quale parte del mondo si trovano e in quale giorno dell’anno. Utilizzare tecniche in grado di simulare questi processi naturali ci permette di raggiungere ugualmente i risultati desiderati, e avere la nostra insalata nel giro di due settimane senza aggiungere chimica, genetica o irrigazione a goccia. È qui che abbiamo sbagliato, nel non prenderci il tempo di comprendere come veramente agisce la natura, scegliendo invece sempre delle presunte scorciatoie.” Pensi che da un modello di agricoltura in 3D possano trarre beneficio anche altri settori? Che possano cambiare anche le
relazioni tra attività agricole e altre attività produttive? “Ritengo che considerare l’agricoltura solo come ‘l’attività che produce il cibo’ è qualcosa che non è mai stato fatto nella storia. È quella semplificazione che ci porta oggi a produrre milioni di tonnellate di cereali per nutrire il bestiame. Ma è assurdo pensare all’agricoltura come responsabile della sola produzione di cibo, perché è intrinsecamente connessa a settori come quello tessile o alla chimica. O alla gestione dell’acqua e infine alla cultura in generale. Non si può separare la parola ‘agricoltura’ dalla parola ‘cultura’. Quello che abbiamo fatto, in realtà è trasformare ‘agricoltura’ in ‘agroindustria’. Ed è per questo che abbiamo bisogno di persone come Carlo Petrini (si veda il suo articolo in queste pagine) che richiamano il legame indissolubile tra cultura e agricoltura, mobilitando milioni di persone intenzionate a cambiare il sistema attuale. Non si possono pensare separatamente attività che incidono sullo sviluppo di un stesso territorio: agricoltura, chimica, trasporto, tutto va pensato come un sistema integrato, e si deve partire da ciò che un territorio ha, per poi pensare a ciò di cui può aver bisogno. Ed è qui che gli economisti sono in errore: si guarda solo a ciò di cui un territorio ha bisogno perché si vuole creare un mercato, perché se non c’è bisogno del mercato... come si fa a creare business? Questo induce una mentalità per cui pensiamo sempre di avere troppo poco. L’economista arriva e ci dice ‘siete troppo piccoli per competere, meglio non farlo’, e così gli agricoltori abbandonano i campi e terreni fertili si trasformano in terreni abbandonati. Serve un profondo cambiamento nel nostro modo di pensare. Se non lo facciamo perdiamo importanti opportunità di business, ma perdiamo anche possibilità di sviluppo per il territorio. Ed è esattamente in questa direzione che siamo andati finora, direzione che ci ha portati alla crisi, all’abbandono dell’agricoltura da parte dei giovani, alla riduzione di tutto a competizione su mercati delle commodities, cosa che rende del tutto superflua la valorizzazione di quegli effetti a cascata cui ci porterebbe l’adozione di un modello diverso. Che permetta di pensare al di fuori del solo core business, in un sistema che integra produzione agricola, energia rinnovabile e nuova chimica.”
Policy
Focus circular food
Il Food System nell’economia circolare
Ecodesign e upcycling sono le parole chiave con cui si declina l’economia circolare nel sistema alimentare. 150 case history, italiani e non solo, raccontano esperienze di circolarità.
È dunque evidente come la relazione tra uomo e natura non sia più figlia di una logica win-win, ovvero votata alla soddisfazione reciproca degli attori facenti parte dello stesso sistema e che
La catena del valore nella Circular Economy for Food
1. Materie prime, produzione e raccolto 2. Prima trasformazione 3. Trasformazione industriale 4. Distribuzione 5. Consumo domestico 6. Ristorazione 7. Raccolta cibo e imballaggi 8. Produzione riutilizzo riciclaggio 9. Rifiuti residui
CICLI BIOLOGICI E/O TECNICI DI VALORIZZAZIONE DEGLI OUTPUT IN ALTRI SISTEMI
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3 CICLI BIOLOGICI E/O TECNICI DI VALORIZZAZIONE DEGLI OUTPUT NEL FOOD SYSTEM
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Fonte: Fassio F., Tecco N. (2018), Circular Economy for Food, Edizioni Ambiente, Milano.
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K C A ND P
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FOOD SYSTEM
H ER S YS TE M S
FOOD LOSSES
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Ricercatrice, docente, consulente nell’ambito della valutazione della sostenibilità dei sistemi alimentari e della gestione delle risorse naturali, Nadia Tecco – PhD in Analisi e governance dello sviluppo sostenibile – ha svolto incarichi presso varie università italiane. Attualmente collabora presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino.
La gestione lineare che ha caratterizzato il sistema produttivo e di consumo del cibo nell’ultimo secolo è stata causa di degrado ambientale e sociale, ha contribuito all’impoverimento della dotazione di capitale naturale e culturale, ha prodotto inquinamento dal campo allo stomaco, proponendo un cibo spesso povero di nutrienti come di valori. Questa economia ha mostrato come l’umanità può divenire un essere vorace,
che preleva risorse dagli ecosistemi e le reimmette nei cicli naturali destabilizzando gli equilibri. Ne sono un chiaro esempio lo spreco di cibo e le perdite alimentari che pesano1/3 di quanto prodotto, quantità che per ben 4 volte potrebbe nutrire i 795 milioni di persone che oggi soffrono la fame.
IN
Systemic Designer, ricercatore presso l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, consigliere nazionale Slow Food Italia, membro dell’Osservatorio permanente del Design ADI, direttore del Systemic Food Design Lab. Franco Fassio – PhD in Cultura del Design – è docente di Scienze della progettazione gastronomica, Food Packaging, Company Creation, Designing Sustainability, Ecodesign e Systemic Food Design.
Perché parlare di cibo ed economia circolare?
AG
di Franco Fassio e Nadia Tecco
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materiarinnovabile 22. 2018 Il modello della “torta nuziale” di Rockström e Sukhdev Il modello mette in evidenza gli anelli concentrici di azione del sistema alimentare rispetto ai Sustainable Development Goals 2030 (Obiettivi disviluppo sostenibile). Il cibo è l’unica leva che li connette tutti.
Legenda 1. Niente povertà 2. Zero fame 3. Buona salute e benessere 4. Istruzione di qualità 5. Parità di genere 6. Acqua pulita e servizi igienico-sanitari 7. Energia accessibile e pulita 8. Un buon lavoro e crescita economica 9. Industria, innovazione e infrastruttura
Fonte: Azote Images for StockholmResilience Centre, 2016.
F. Fassio, N. Tecco, Circular Economy for Food, Edizioni Ambiente 2018; www.edizioniambiente. it/libri/1197/circulareconomy-for-food
ci si trovi piuttosto in una situazione lose-lose, in cui sia l’umanità che gli ecosistemi stanno perdendo le loro chance di sopravvivenza. Il potenziale impatto e i benefici che deriverebbero dal passaggio ad una logica circolare e sistemica, sono enormi: maggiore stabilità e salute degli ecosistemi, recupero del saper condividere, cooperare, essere consapevolmente responsabili e trarre benefici da un benessere diffuso. Lo sviluppo tecnologico e la diffusione dei saperi hanno effettivamente traghettato l’umanità fino ai giorni nostri in una condizione in cui siamo in grado di sfamare più di 7 miliardi di persone, ma che in cambio, consegna alle future generazioni, al netto delle forti disuguaglianze, una situazione sicuramente non promettente e per certi aspetti già compromessa. L’economia circolare va quindi intesa come una giusta “dieta”, nell’accezione originaria del termine, dal greco diaita, modo di vivere. Al cibo va riconosciuto il suo potenziale strategico nelle sue specificità di ambito di vita e settore
produttivo non paragonabile ad altri. Attraverso il cibo passa la nostra alimentazione corporea, ma anche la natura del nostro rapporto con il mondo e con gli altri. Il cibo quindi può farsi portatore e incarnare i principi dell’economia circolare ma può anche supportarla nell’individuare un binario di evoluzione teoricopratico e nel calibrarne gli obiettivi. In un sistema alimentare, opportunamente orientato, l’economia circolare può dunque trovare un prezioso alleato per aspirare al raggiungimento di molti, se non alla totalità, degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu (SDG’s) oltre che rilanciare lo sviluppo in molte economie emergenti e risanare il settore agricolo dei paesi industrializzati. I portatori del cambiamento Ma nel concreto come si sostanzia l’economia circolare applicata al sistema alimentare? Una delle risposte è nata all’interno del gruppo
Policy Nuvola di SDGs 10. Riduzione nella diseguaglianza 11. Città e comunità sostenibili 12. Consumo e produzione responsabili 13. Azioni sul clima 14. Vita sott’acqua 15. Vita sulla terra 16. Pace, giustizia e istituzioni forti 17. Collaborazione per gli obbiettivi
Ottenuta valutando in chiave sistemica le case history attualmente censite: uno scenario in cui emerge l’attuale orientamento della Circular Economy nell’ambito food.
Fonte: Fassio F., Tecco N. (2018), Circular Economy for Food, Edizioni Ambiente, Milano.
di ricerca “Circular Economy for Food. Materia, energia e conoscenza in circolo” dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, in Italia. Un’attività che ha portato alla catalogazione di più di 150 case history, nazionali e internazionali, alcuni dei quali riportati nell’omonimo libro uscito per Edizioni Ambiente e riprese in questo focus di Materia Rinnovabile. Pur trattandosi di esperienze molto diverse fra loro per dimensione aziendale, posizione all’interno della filiera alimentare, tipologia di prodotto, materia prima seconda o servizio al centro dell’azione di circolarità (dal tutolo del mais al melasso da barbabietola, dalla sansa di olive ai gusci di nocciola passando attraverso il confronto con le specificità dei materiali che popolano il complesso e articolato mondo del food system), due, sono le parole chiave intorno alle quali si articolano le esperienze di circolarità studiate: upcycling ed ecodesign. L’upcycling rappresenta la trasformazione di ciò che erroneamente viene considerato rifiuto o di scarso valore in una nuova risorsa per un altro
ciclo produttivo o di consumo. A differenza di quanto avviene tradizionalmente con i processi di riciclo in cui spesso si determina una perdita di valore della materia (downcycling), il valore materiale/immateriale e/o relazionale è mantenuto o addirittura incrementato, riducendo al contempo i costi, non trascurabili, dello smaltimento, specie in caso di rifiuti ritenuti speciali dalla normativa. Questo è il caso di Duedilatte e di Vegea che ottengono fibre tessili rispettivamente dai sottoprodotti del latte e dal vino. Sempre di upcycling si tratta quando bucce e torsoli di mela diventano carta nell’azienda Frumat; o quando i gusci di nocciola sono trasformati in granuli vegetali per attività di vibrofinitura, lucidatura e sabbiatura con Agrindustria o utilizzati come nel caso di Ferrero per la produzione di cartoncino da imballaggio o per l’estrazione di fibre probiotiche. L’altra parola chiave è ecodesign. Si parla in questo caso della scelta di impiegare risorse “circolari” poiché riutilizzabili, a volte (quasi)
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materiarinnovabile 22. 2018 infinite volte come nel caso del vetro e dell’acciaio per il packaging, di privilegiare risorse materiali ed energetiche rinnovabili, di mantenere la purezza della risorsa nei diversi passaggi della catena del valore optando per la mono-materialità e l’assenza di contaminazioni o adottando nuove tecnologie per favorire le operazioni di disassemblaggio e recupero, di agevolare la diffusione di pratiche di condivisione. La prossimità assume un nuovo valore, sia nelle scelte di utilizzare razionalmente risorse localmente disponibili e nella ricerca di soluzioni creative per il loro utilizzo, sia nel valore attribuito alle relazioni di simbiosi industriale e territoriale a scala locale. In tal senso è esemplificativo il caso della bevanda analcolica Unico, realizzata dalla Lurisia Acque Minerali e prodotta con un 70% di uva barbera e 30% purè di mele, pere e pesche. Il caso studio ben rappresenta le potenzialità della circolarità nel trovare risposte a bisogni contingenti e locali, quali nel caso specifico la crisi del mercato piemontese dell’uva barbera, che altrimenti avrebbe rischiato di rimanere sui tralci a fronte di un costo di raccolta troppo oneroso rispetto ai prezzi praticati. La produzione della bevanda Unico, è stata realizzata dal 2013 al 2016, fintanto che il mercato dell’uva barbera non si è nuovamente stabilizzato, mostrando in tal senso anche il valore di adattamento della circolarità a temporanee situazioni di creazione di perdite alimentari (come in questo caso) o sprechi. Il mercato insomma mostra, in tutto il mondo, come le imprese vadano sempre più nella direzione di generare nuove relazioni di simbiosi, sinonimo di responsabilità condivisa, e verso la creazione di nuove opportunità di sviluppo e lavoro. Progressivamente, sta evolvendo il concetto di qualità di prodotto, estendendosi nel tempo e allargandosi all’intera catena produttiva, ridefinendo i termini del contratto tra consumatore e produttore, verso un nuovo paradigma per la costruzione di relazioni ambientali, economiche e sociali maggiormente integrate. Si sta generando lentamente un contesto in cui, grazie alla Circular Economy for Food si svilupperà un concetto di “qualità di sistema” e di “comunicazione valoriale di sistema” in un’ottica di simbiosi che da industriale deve passare ad essere anche comunicativa. Dunque l’agro-economics deve ragionare sempre più sulla catena del valore delle risorse in un’ottica di circolarità inserita in sistemi aperti (foodsystem), contribuendo in questa maniera allo sviluppo della sovranità alimentare dei popoli, tassando le risorse e non il lavoro. L’economia circolare associata ai temi del cibo è una grande opportunità che può completamente ripensare la Rivoluzione Verde e rispristinare il matrimonio quotidiano tra due attori dello stesso sistema, l’uomo e il cibo, condividendo la cattiva e la buona sorte.
Gli impatti dell’agricoltura lineare
La produzione di cibo è una delle principali cause della perdita di biodiversità a livello mondiale, per il suo impatto sugli habitat naturali e del sovrasfruttamento di alcune specie. La Fao stima che il 75% delle varietà delle colture agrarie siano andate perdute e che i 3/4 dell’alimentazione mondiale dipendano da appena 12 specie vegetali e 5 animali. Tale perdita di agrobiodiversità si riflette direttamente sul cibo: su circa 30.000 specie commestibili presenti in natura, le colture alimentari che, da sole, soddisfano il 95% del fabbisogno energetico mondiale sono appena 30. Tra queste, frumento, riso e mais forniscono più del 60% delle calorie che consumiamo. L’agricoltura industriale, basata su produzioni intensive, monocolture, su un numero ristretto di specie vegetali ed animali, su input esterni di sintesi (come fertilizzanti e pesticidi), occupa circa il 34% della superficie totale del pianeta e circa la metà della sua superficie abitabile. Si stima che la produzione agricola rappresenti la causa del 69% dei prelievi di acqua e a causa di ciò, entro il 2030, circa 3 milioni di persone non avranno un facile accesso all’acqua potabile. Insieme agli altri attori del sistema alimentare, la produzione agricola è responsabile di circa il 30% delle emissioni di gas serra. Di 1,5 miliardi di ettari di terre coltivate a livello mondiale, 1/3 è utilizzato per produrre alimenti per animali mentre altri 3,4 miliardi di ettari sono usati come pascolo. Tuttavia i prodotti di origine animale rappresentano solo il 17% delle calorie e il 33% delle proteine consumate dagli esseri umani a livello globale. A causa dell’agricoltura intensiva, il 25% dei suoli del pianeta è gravemente impoverito e il 30% dei terreni coltivabili è diventato improduttivo. Se consideriamo che le stime degli incrementi demografici ci dicono che nel 2050 la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi e mezzo di persone, questo “traguardo”, con l’attuale modello di consumo, richiederà un aumento della produzione agricola del 70%. In questo quadro produttivo, ogni anno, 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo destinato all’uomo, diventa scarto per un totale pari a circa 8.600 navi da crociera. Il valore economico del cibo sprecato a livello globale unito alla stima dei costi connessi all’ambiente ed alla società, è di 2.600 miliardi di dollari all’anno. Il rischio di mortalità per patologie legate alla cattiva alimentazione, ha superato quello relativo a malattie determinate da insufficiente apporto calorico. Mentre 795 milioni di persone soffrono la fame circa 1,5 miliardi di persone sono obese o in sovrappeso. Nel mondo, circa 36 milioni di persone muoiono ogni anno per la carenza di cibo mentre 29 milioni, per patologie connesse all’eccesso di cibo. È evidente che stiamo vivendo una vera e propria “crisi della ragione” quando scopriamo che servirebbero circa 267 miliardi di dollari l’anno per eliminare la fame nel mondo entro il 2030 ovvero più o meno lo 0,3% del pil mondiale.
Policy
CASE HISTORY: BACARDI Un passo innovativo verso la risoluzione di queste problematiche è stato fatto da Bacardi, leader mondiale nella produzione e distribuzione di bevande alcoliche che da anni mette in campo molte azioni per ridurre il proprio impatto ambientale e in particolare i consumi di energia e le emissioni di gas a effetto serra. Con la linea di Vodka 42 Below, il gruppo Bacardi ha lanciato in Australia e Nuova Zelanda un’innovativa campagna per il recupero di agrumi e olive dai bicchieri dei cocktail. I locali che li servono raccolgono il materiale organico, che altrimenti finirebbe in discarica, lo accumulano e poi lo consegnano alla stessa Bacardi. Nel 2016, a tre mesi dall’avvio dell’iniziativa, sono stati recuperati 400 chilogrammi di materiali organici da circa 3.200 cocktail. Quantità che ha permesso di creare 20.000 confezioni monouso di sapone e più di 400 dispenser di medie dimensioni, successivamente ridistribuiti ai locali coinvolti. Gli agrumi e le olive, infatti, sono alla base di diversi prodotti cosmetici e detergenti grazie all’olio essenziale che viene ricavato dalla scorza o dalla polpa del frutto. Il recupero di tale scarto risponde alle esigenze del consumatore, ma in particolare dell’industria cosmetica che può così, per esempio, ricavare l’aroma dalla buccia di veri limoni invece che da sostanze artificiali. Grazie alla raccolta degli scarti in due settimane un locale, con buona affluenza di clienti, può produrre in media 25 litri di sapone.
CASE HISTORY: BALADIN
CASE HISTORY: LUFA FARMS
Il birrificio è stato fondato nel 1996 a Piozzo inizialmente come semplice brewpub, dal 2012 Baladin è a tutti gli effetti birrificio agricolo. Il nuovo birrificio – inaugurato a luglio 2016 con una capacità produttiva di 50.000 ettolitri – ha puntato al rispetto dell’economia del territorio e all’uso efficiente della materia prima, con una particolare attenzione alla rigenerazione degli scarti e all’utilizzo di energia prodotta da fonti rinnovabili. Baladin si propone di perseguire un modello di “autarchia produttiva” in tutti gli step (con l’eccezione di alcune spezie), in modo da ridurre l’impatto a livello ambientale, assumendosi la responsabilità dell’intero ciclo di produzione delle proprie birre e l’ambizione di raggiungere la completa autonomia nella fornitura delle principali materie prime. Dal 2016 l’azienda gestisce direttamente un appezzamento di un ettaro, a 800 metri dal birrificio nel Comune di Piozzo. Per l’indipendenza energetica “circular”, la sede della società di distribuzione sostiene il proprio fabbisogno grazie a 1.800 metri quadrati di pannelli solari, mentre il birrificio è alimentato da energia certificata da fonti rinnovabili come l’eolico. Attualmente l’azienda sta portando avanti molte sperimentazioni per progettare un ciclo di produzione a “rifiuti zero” in cui gli scarti diventano fonte di energetica o materia seconda per nuovi prodotti. A partire dalla produzione di una tonnellata di trebbie al giorno, risultanti dal processo di birrificazione, oltre alla consueta opzione di valorizzarle come alimento per bestiame e concime è in fase di progettazione un impianto di generazione di calore da biomassa a partire dalla disidratazione e combustione delle stesse. Ulteriori sperimentazioni stanno portando l’azienda a ragionare sulla possibilità di produrre, sempre a partire dalle trebbie, altri prodotti alimentari come biscotti.
Lufa Farms sta reinventando un sistema alimentare che non funziona più, utilizzando lo spazio sui tetti urbani per produrre cibo da vendere localmente. L’azienda canadese, con sede a Montreal, sta integrando lo sviluppo della filiera alimentare nel tessuto urbano. Un elemento fondamentale per trasformare la nostra catena alimentare lineare in un sistema circolare. Di fatto, dal 2009 Lufa Farms – grazie alle sue serre poste sui tetti degli edifici – ha contrastato una serie di problemi. Infatti, non solo l’azienda rende produttivi ettari di spazio altrimenti inutilizzati, ma in questo modo raccoglie acqua piovana; sfrutta l’energia gratuita del sole; utilizza il calore proveniente dall’edificio sottostante; riduce i costi di trasporto incrementando la “produzione locale” e utilizzando veicoli elettrici per le consegne. Lufa Farms ha già costruito tre serre sui tetti per un totale di 1,5 ettari di area coltivabile: solo mezzo ettaro può alimentare 2.000 persone utilizzando il 50% in meno di energia per il riscaldamento delle serre e tra il 50% e il 90% in meno di acqua e fertilizzanti. La conversione agricola dei tetti cittadini sta andando di pari passo con l’azione per rendere circolare la catena alimentare urbana, e Lufa Farms è un esempio concreto dell’approccio integrato e distribuito alla produzione di cibo che costituirà la spina dorsale dell’economia circolare.
CASE HISTORY: LAVAZZA Lavazza, azienda torinese leader nel settore della produzione di caffè, ha sviluppato una capsula compostabile in collaborazione con Novamont, operante nel settore delle bioplastiche. Avviato nel 2010 il progetto ha richiesto oltre 5 anni di sperimentazioni focalizzate sulla ricerca di un materiale performante e sostitutivo delle plastiche comunemente utilizzate. È quindi nata la capsula compostabile per caffè espresso italiano realizzata in Mater-Bi, una bioplastica ottenuta dall’utilizzo di componenti vegetali e perfettamente biodegradabile. La nuova capsula, una volta esausta, può quindi essere gettata nell’umido e avviata al compostaggio industriale: dopo circa 75 giorni, quando il processo di degradabilità è completo, si ha una totale trasformazione delle sostanze organiche di partenza in molecole inorganiche semplici che rendono possibile che sia l’involucro sia i residui di caffè diventino compost per il terreno. In questo modo, la capsula compostabile diventa anche un incentivo alla pratica domestica della raccolta differenziata dell’umido. L’attenzione dedicata al fine vita della capsula contribuisce dunque a ridurre ulteriormente il quantitativo di rifiuti prodotti e a consolidare l’impegno dell’azienda nei confronti dell’ottimizzazione degli imballi e dei processi, in una prospettiva di sviluppo circolare: un ambito in cui Lavazza si cimenta da molti anni.
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Dalle scienze gastronomiche al Food Monitor
CASE HISTORY: AGRIPROTEIN Fondata nel 2008, l’azienda sudafricana Agriprotein attribuisce al modo in cui trattiamo i rifiuti e produciamo cibo un’importanza fondamentale per la creazione di un sistema alimentare veramente circolare. Agriprotein utilizza gli insetti per ricavare proteine alimentari di alta qualità dai rifiuti organici: in questo modo vuole affrontare la sfida posta dalle oltre 650 milioni di tonnellate di rifiuti organici prodotte ogni anno nelle aree urbane del pianeta, una quantità che – secondo alcune stime – dovrebbe raddoppiare entro il 2050. Al tempo stesso, vuole combattere l’inefficienza del nostro sistema alimentare, in particolare riguardante il modo in cui viene prodotta la carne. Infatti, ricorrendo a processi che si verificano in natura, l’azienda ha creato una soluzione circolare per la gestione dei rifiuti organici e per la produzione di mangimi per gli animali. In pratica alla Agriprotein utilizzano l’eccezionale capacità di riciclo delle sostanze nutritive delle larve della mosca soldato nera per decomporre i rifiuti organici e contemporaneamente produrre proteine di alta qualità da utilizzare come mangimi per animali. I residui di questo processo vengono usati come un ricco compost. Azienda in forte espansione, Agriprotein prevede di costruire 200 nuovi impianti entro il 2027. Oltre ai vantaggi finanziari, questo modello consente di ridurre le emissioni di carbonio, di rigenerazione il suolo e ridurre il ricorso al pesce (non d’allevamento) per la produzione di mangimi animali.
di Andrea Pieroni, Luisa Torri, Michele F. Fontefrancesco
Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, www.unisg.it
Il finire del Novecento ha marcato un profondo cambiamento del modo di percepire il cibo all’interno del dibattito pubblico. Il secondo dopoguerra è stato caratterizzato dalla veloce industrializzazione del comparto agroalimentare e dall’affermazione del consumo di massa, creando un paesaggio gastronomico d’inedita abbondanza. I decenni della ricostruzione hanno segnato, per lo più il rapido abbandono delle cucine tradizionali e l’erodersi delle diversità bio-culturali locali, a fronte dell’affermarsi del consumo di prodotti industriali e di un modello economico lontano da ogni forma di sostenibilità. In relazione a questa massificazione dei consumi e standardizzazione del gusto, negli Ottanta nacquero associazioni e movimenti interessati alla riscoperta e valorizzazione alla gastronomia del territorio e del cibo di qualità: tra queste realtà, Slow Food. La nuova coscienza del cibo Questo clima culturale aprì lo spazio per il ragionamento sulla sostenibilità del cibo che si riverbera nel presente. Si rafforzò, così, la cognizione di come il discorso sul cibo e sulla gastronomia, necessitasse di una sintesi transdisciplinare; di una comunità e di un luogo dove maturare un nuovo linguaggio, un nuovo modo di pensare il cibo che potesse essere effettivamente capace di affrontare le sfide della sostenibilità, del “buono, pulito e giusto”, del tema della sovranità alimentare e dell’accesso equo alle risorse. Seguendo questa spinta ideale, nacque nel 2004 l’Unisg – l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche. Fondata in Italia a Pollenzo, su iniziativa di Slow Food e con la collaborazione delle regioni Piemonte ed Emilia Romagna, propone un nuovo approccio metodologico e didattico in grado di fornire una visione completa dei sistemi di produzione del cibo e di formare figure professionali nuove con conoscenze e competenze trans-disciplinari legate al comparto agroalimentare capaci di operare indirizzando la produzione, la distribuzione e il consumo verso scelte sostenibili. Oggi Unisg è direttamente impegnata nel garantire l’alta qualità della formazione didattica e nel contribuire alla condivisione delle conoscenze per rafforzare la sostenibilità e la sovranità dei sistemi alimentari nel mondo, promuovendo una ricerca capace di
contribuire al benessere, al sostegno delle diversità bio-culturali, e al riconoscimento della pari dignità tra saperi scientifici e saperi tradizionali. La ricerca dell’Università si è mossa volendo definire le “scienze gastronomiche”. Come spiega il Manifesto di Pollenzo, redatto dall’Ateneo, esse sono intese dall’Unisg come espressione plurale di tutte le conoscenze, metodologie e pratiche applicative inerenti al cibo e tratteggiano: “una nuova forma di umanesimo [... che come] la migliore tradizione umanista poggia le proprie radici sul rispetto per il vivente e sulla fioritura delle diversità a ogni livello.” L’approccio della ricerca di Unisg è interdisciplinare e si basa su tre macro-aree di interesse tra loro interconnesse: 1. diversità bio-culturale e cambiamento; 2. qualità e percezione del cibo; 3. sostenibilità economica e ambientale. Il contributo di Unisg In questo contesto si legge l’impegno di Unisg nel campo dell’economia circolare. Tale concezione è applicata alla complessità dei sistemi alimentari e risulta cruciale per la diffusione di un nuovo concetto di food innovation, legato alla salvaguardia
dei capitali naturali, sociali e culturali e del diritto di ogni popolo a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi ecologici e sostenibili. In tale ambito di ricerca, sono in via di sviluppo nuove traiettorie. Tra queste lo studio dell’impatto delle economie circolari sulle performance aziendali, indagini sociologiche sulla percezione dell’azione circolare sulla società, l’approfondimento del tema della “Geografia circolare” e del suo impatto sui territori, l’analisi del ruolo del cibo nelle città circolari e rigenerative, la valutazione dell’accettabilità e della percezione sensoriale dei nuovi prodotti circolari da parte dei consumatori, lo sviluppo di un Indicatore Ceff, Circular Economy for Food, per misurare l’impatto dell’azione circolare. Nell’ottica dell’accessibilità della ricerca, l’Ateneo intende mettere a disposizione della società e delle imprese, i suoi risultati su un’apposita piattaforma digitale: Circular Economy for Food Monitor. Quest’iniziativa è mirata a permettere che l’informazione possa diventare conoscenza e consapevolezza comune, facendo di Unisg un punto di riferimento a livello internazionale per lo sviluppo teorico-pratico della Ceff, protagonista di un’azione costante di monitoraggio, analisi e progettazione, della circolarità nel food system.
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Andrea Pieroni, è Rettore dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, Professore ordinario di Botanica alimentare ed Etnobotanica. Luisa Torri, è Professore associato di Scienze Sensoriali e Direttrice della Ricerca dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche. Michele F. Fontefrancesco, è docente di Antropologia culturale e membro dell’Area ricerca dell’Università degli Studi di Pollenzo.
In baso: Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
Fonte: Unisg
Andrea Pieroni
Policy
Foto di Tommy Ton – Blue Fashion Challenge event
Focus circular food
Un mare di opportunità
Intervista a Jacqueline Alder Efficienza e innovazione per arrivare a un uso sostenibile delle risorse provenienti dal mare. Ecco gli obiettivi della Fao nelle parole di Jacqueline Alder.
di Emanuele Bompan, da Roma Dal 2015 alla Fao come vicedirettrice si occupa della supervisione dell’amministrazione e del lavoro tecnico della Divisione prodotti, commercio e marketing dell’industria ittica, Jacqueline Alder è stata coordinatrice per l’Unep del programma per la gestione degli ecosistemi marini, costieri e di acqua dolce a livello globale, regionale e nazionale.
L’inquinamento, il sovrasfruttamento, la pesca illegale, non documentata e non regolamentata e i cambiamenti climatici sono diventati gravi minacce per gli ecosistemi acquatici. Per sbloccare il potenziale dei mari e degli oceani, è essenziale una gestione adeguata della pesca. Gli ecosistemi marini e d’acqua dolce del mondo – il Mondo Blu – forniscono servizi ecosistemici essenziali, biodiversità, cibo e mezzi di sostentamento per centinaia di milioni di persone. Però, fino a ora gli esseri umani hanno attinto solo a una parte delle sue risorse, senza rispettare la biodiversità, né contribuire al ripristino della popolazione ittica o senza impegnarsi in una gestione adeguata delle coste. Per arrivare all’utilizzo sostenibile delle risorse acquatiche viventi, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao)
promuove attivamente politiche e pratiche sostenibili nell’industria ittica e nell’acquacoltura, comprese iniziative mirate a creare una bioeconomia circolare nel Mondo Blu. Nel 2013 la Fao ha lanciato la Blue Growth Initiative (Bgi) che si basa sul Codice di condotta per l’industria ittica responsabile della Fao e si concentra sull’innovazione e l’utilizzo sostenibile delle risorse viventi acquatiche. Per saperne di più riguardo alla Blue Growth Initiative, Materia Rinnovabile ha intervistato Jacqueline Alder Fishcode Manager del Dipartimento dell’Industria ittica e dell’acquacoltura. Qual è l’obiettivo fondamentale della BGI? “L’obiettivo della Bgi è l’efficienza nell’uso delle risorse derivate da prodotti marini. Fondamentalmente, stiamo riducendo ed
Foto di Tommy Ton – Blue Fashion Challenge event
Le foto ritraggono alcune delle creazioni dei designer vincitori del “Fashion Challenge event”, sponsorizzato da Nordic Council.
Foto di Tommy Ton – Blue Fashion Challenge event
Blue Growth Initiative, www.fao.org/policysupport/policy-themes/ blue-growth/en
Cosa si può fare con la pelle del pesce? “A seconda dell’uso che se ne vuole fare, si può essiccarla e poi tingerla in modo da renderla simile al cuoio, o applicarvi della cera gommosa così da trasformarla in un tessuto lucido impermeabile. Viene usata per produrre accessori, più che un intero vestito. Per esempio in Marocco ho visto scarpe di pelle di pesce. Pesci diversi offrono disegni differenti: alcuni hanno squame molto
Foto di Tommy Ton – Blue Fashion Challenge event
eliminando le perdite e gli sprechi di cibo. In particolare stiamo implementando modi innovativi di usare le parti del pesce che non vengono mangiate, come la pelle e lo scheletro. Queste parti vengono spesso disperse nell’ambiente o nella stessa acqua in cui i pesci vengono catturati. Abbiamo identificato dei mercati in cui queste parti possono essere riutilizzate, alcuni dei quali imprevedibili, come l’industria della moda.”
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Fonte mappa: base di dati Fao, aprile 2015.
piccole, che creano un trama molto piacevole; mentre le squame più grandi creano una pelle con una trama meno definita.” Dove si sta sviluppando questa idea innovativa? “Abbiamo progetti in Brasile, Marocco e alle Seychelles. Nel mondo industrializzato sta anche diventando un’industria emergente, specialmente in paesi nordici come le Isole Færøer. Questi paesi stanno diventando un hub per la bioeconomia marina, non solo per quanto riguarda la pelle di pesce, ma anche per altri prodotti come alghe e altri vegetali marini. Alla Fao speriamo di trasferire queste tecnologie e questi processi, che sono emersi nei paesi nordici, in quelli in via di sviluppo così da poter coinvolgere più donne e giovani nella creazione di nuove industrie nel settore della moda marina.” Perché le donne avranno i maggiori benefici? “La cosa bella dell’industria ittica è che le donne si occupano di gran parte dei processi successivi alla pesca. Gli uomini prendono il pesce e poi le donne lo lavorano. Però, spesso il loro lavoro non viene ricompensato equamente. Così, se aggiungono altri processi, possono trarre maggiore guadagno dal loro lavoro. Questo può dar loro più potere e migliora il reddito delle loro famiglie. E le donne sono spesso quelle che gestiscono la casa. L’incremento del reddito delle donne si tradurrà in miglioramenti immediati nelle loro famiglie, come un aiuto per le spese universitarie e l’acquisto di cibi nutrienti. C’è dell’altro: la moda è spesso legata alle donne. Quindi, le donne nel settore ittico possono aprire piccole attività che producono nuovi indumenti o formare cooperative in modo da potersi ritrovare per lavorare e vendere la pelle, ricavando un reddito da ciò che altrimenti verrebbe buttato via. Questo può ispirare particolarmente le donne giovani a creare accessori con gli scarti del pesce in modo da risvegliare la consapevolezza del bisogno di usare e riutilizzare in modo sostenibile le nostre risorse marine. Fa tutto parte dell’economia circolare in costruzione.” Qual è il potenziale della bioeconomia nei paesi emergenti? “Penso che il potenziale della bioeconomia sia fantastico, considerato quello che abbiamo visto negli ultimi dieci anni. Parallelamente alla pelle di pesce abbiamo usato altre parti per produrre
Pacifico Nord Orientale
0,0
Canada
Stati Uniti
-13,8
Atlantico Centro Occidentale
Messico
9,7
-17,4 Venezuela Colombia
Pacifico Centro Orientale
Ecuador Perù
Pacifico Sud Orientale
Brasile
Cile
Argentina
-5,5
-21,4 Atlantico Sud Occidentale
integratori alimentari, macinando tutti gli scarti in una polvere che viene utilizzata dalle mamme per l’allattamento e per la nutrizione dei bambini, dato che favorisce lo sviluppo cerebrale. Ha un potenziale in molti settori: nell’industria ittica e in agricoltura, e per la creazione di prodotti, materiali e fonti alternative di cibo. L’innovazione non ha confini: per esempio, c’è un gruppo in Islanda che usa la pelle di pesce per rimpiazzare quella umana, per le persone affette da diabete o vittime di ustioni. È importante notare che questi neo-prodotti non creeranno problemi alla sicurezza alimentare perché utilizzano ciò che viene scartato dall’industria alimentare. In realtà, la bioeconomia può giocare un ruolo nella lotta alla fame attraverso lo sviluppo di alimenti mediante l’acquacoltura. Usare le alghe come fonte alimentare può
Policy
Grandi pescatori per aree di pesca impoverite Isole Færøer Groenlandia Norvegia Islanda
Atlantico Nord Orientale
Gran Bretagna
Svezia Danimarca
Finlandia
Irlanda Olanda Polonia Gemania Francia Spagna
-21,1 Portogallo Marocco
Russia
Lettonia Pacifico Nord Occidentale
Ucraina Cina
Italia Turchia
Mediterraneo e Mar Nero
Corea del Sud Pakistan
Mauritania
Oman
Nigeria
Atlantico Centro Orientale
Vietnam
India Birmania Maldive
Sri Lanka
Oceano Indiano Occidentale
Filippine Pacifico Centro Occidentale
Cambogia Malesia
11,5 Papua Nuova Guinea
Indonesia
38,7
Mozambico
Namibia
Thailandia Singapore
Oceano Indiano Orientale
1,9
Angola
Taiwan
Bangladesh
Yemen
Ghana Sierra Leone 14,3
8,0
Giappone
Iran -13,3
Senegal Guinea
Corea del Nord
-17,7
-10,0
Pesca marittima, per Stato Milioni di tonnellate, 2013
Sudafrica
Pacifico Sud Occidentale
10
Atlantico Sud Orientale
1 0,5 0,1
Atlantico Antartico e Artico 25,4
Australia
Pesca
Acquacoltura
Nuova Zelanda
Aree di pesca internazionale definite dalla Fao -1,0 Percentuale di incremento o diminuzione del pescato dal 2002 al 2012 Nota: sono rappresentati solo i paesi con una produzione superiore a centomila tonnellate e solo la pesca di specie marine
rimediare alla mancanza di cibo attraverso l’acquacoltura. Il settore ittico è generalmente uno degli ambiti in cui abbiamo il potenziale maggiore per aumentare la produzione di cibo dato che le terre emerse sono limitate. Dobbiamo essere sicuri che tutto ciò che viene coltivato sia utilizzato e niente venga buttato via. Gli scarti del pesce dovrebbero essere riciclati nel sistema agricolo per migliorare la qualità del suolo o trasformati in un materiale utile.” La produzione globale di alghe è più che raddoppiata tra il 2000 e il 2014 raggiungendo un totale di oltre 30 milioni di tonnellate (in peso umido), secondo la Fao, con la Cina al primo posto nella produzione mondiale. Ma, è solo un additivo nutriente per una zuppa di tofu, una guarnizione per
un’insalata croccante e un ingrediente per il sushi o può diventare una piattaforma di lancio per la rivoluzione della bioeconomia? “Stiamo solo cominciando a vedere usi alternativi per le alghe oltre al semplice uso alimentare. Possiamo trasformarle in materiali. Le loro sostanze attive hanno anche catturato l’attenzione di una serie crescente di settori industriali – dalla produzione di carta e tessuti a prodotti cosmetici e parafarmaceutici. Ci sono aziende che stanno utilizzando le alghe per gli imballaggi perché si decompongono nell’ambiente sia in acqua che nei sistemi di compostaggio: alcuni materiali ricavati dalle alghe cominciano a farlo in meno di una settimana. Questi usi alternativi dei prodotti marini possono veramente avere un impatto sulle economie dei paesi in via di sviluppo.”
La bioeconomia può giocare un ruolo nella lotta alla fame attraverso lo sviluppo di alimenti mediante l’acquacoltura.
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Focus circular food
Ritorno al futuro,
riscoprire i saperi tradizionali per vincere la sfida alimentare Intervista a Danielle Nierenberg di Emanuele Bompan
850 milioni di persone patiscono la fame, mentre circa 2 miliardi sono sovrappeso o obese: per risolvere questo paradosso occorre ripensare l’intero sistema agroalimentare. L’opinione di Danielle Nierenberg, ideatrice di Food Tank, uno dei principali centri di documentazione per la promozione di modelli di produzione e alimentazione sostenibili. Da commodity a bene comune, riscoprendo le tradizioni agricole e applicando le tecnologie al servizio della natura. Danielle Nierenberg è un’attivista, autrice e giornalista, esperta di sostenibilità nel settore agroalimentare. È attualmente Presidente di Food Tank, un’organizzazione no-profit nella quale lavora per la creazione di una comunità globale che assicuri alle persone cibi sicuri, salutari e nutrienti.
Cosa è diventato il cibo? Cosa significa per la società occidentale nutrirsi? Quale la collocazione, metaforica, nel piatto di una pietanza di carne? Cosa s’intende per sicurezza alimentare? Domande, a volte semplici, su cui però raramente ci soffermiamo a riflettere. Non sappiamo cosa abbiamo nel piatto, ma soprattutto perché. Nutrire 7 miliardi di persone è un’operazione complessa, che si svolge in maniera radicalmente differente da come si faceva solo 50 anni fa. Una trasformazione antropologica e culturale di cui ancora non si conosce la reale estensione. Ne abbiamo discusso con la studiosa statunitense Danielle Nierenberg, presidente e fondatrice di Food Tank, un centro di ricerca volto a promuovere modelli di produzione e alimentazione sostenibili. Quest’anno ha pubblicato con il Barilla Center for Food and Nutrition, Nourished Planet per Island Press con l’obiettivo di ripensare i sistemi
Policy
Non c’è una soluzione universale per aggiustare il sistema alimentare. Non c’è una bacchetta magica. Abbiamo bisogno di molteplici soluzioni che affrontino le sfaccettature del problema.
agroalimentari, cercando una vera sostenibilità globale.
Food Tank, foodtank.com
Cerchiamo costantemente soluzioni alle problematiche legate al cibo. Ma la situazione non migliora, l’agricoltura impatta sempre di più sui limiti del pianeta mentre la produzione rimane stagnante. Il nostro sistema agroalimentare è sull’orlo del collasso? Possiamo aggiustarlo? “Una cosa che emerge chiaramente dal nostro lavoro qui a Food Tank è che non c’è una soluzione universale per aggiustare il sistema alimentare. Non c’è una bacchetta magica. Abbiamo bisogno di molteplici soluzioni che affrontino le sfaccettature del problema. Dobbiamo smetterla di focalizzarci esclusivamente sul rendimento e sull’apporto calorico. Questo approccio ha favorito il rendimento a breve termine, dando vita a conseguenze serie, anche se spesso involontarie. Abbiamo un sistema agroalimentare che si concentra sulla vendita del raccolto senza garantire cibo sano e nutriente: dobbiamo cambiare questo paradigma. La maggior parte di ciò che si coltiva nel mondo, incluso il grano, il mais, il riso e altri tipi di alimenti di base ricchi di amido non contengono abbastanza nutrienti. Queste colture sono ideali quando vengono convertite in mangime per animali, ma non garantiscono una catena alimentare sana, richiedono molte risorse e in tanti casi fanno uso di input artificiali come i fertilizzanti chimici. Oltretutto, sono spesso accompagnate da conseguenze ambientali, economiche e per la salute pubblica anche gravi. Parte del paradosso alimentare globale – che vede 850 milioni di persone patire la fame, mentre circa 2 miliardi
sono sovrappeso o obese – è radicato nel nostro utilizzo di commodity crops che non sono ricche di nutrienti. Ci dobbiamo concentrare sulla produttività, sulla biodiversità e su come nutrire il mondo a lungo termine. Quindi dobbiamo affidarci al sapere tradizionale e alle soluzioni intelligenti, oltre a dover ripensare il modo in cui usiamo e proteggiamo il suolo.” Che ruolo avranno le colture tradizionali nella trasformazione del modello agroalimentare? “Il ruolo delle piante indigene e tradizionali è spesso trascurato. Ci dimentichiamo di considerare colture che in realtà sono ottime per la fertilità del terreno, come i legumi. Abbiamo dimenticato tante pratiche tradizionali come quelle agroforestali e l’agricoltura consociata (coltivazione contemporanea di piante di specie diversa sullo stesso appezzamento di terreno, nda), che ci consentono di salvaguardare il terreno, l’utilizzo di colture perenni come il sorgo, che a differenza della coltivazione intensiva meno attaccabili da insetti e malattie, e di colture più resistenti alle inondazioni, alla siccità e alle temperature alte. Gli alimenti tradizionali, che spesso hanno un alto potenziale nutritivo, non ricevono sufficienti attenzioni, ricerca e investimenti. Non sono ad alto rendimento e spesso vengono considerati alimenti adatti solo alle persone povere. Credo che ci siano modi molto interessanti di unire metodi di coltivazione ad alta e bassa tecnologia. Stiamo vivendo la nascita di nuove e semplici tecnologie, come per esempio app per smartphone che aiutano gli agricoltori nella raccolta di informazioni relative ai mercati; droni per lavorazioni agricole di precisione; intelligenza artificiale come strumento utilizzato da piccoli e grandi produttori per stabilire affari migliori e incrementare i guadagni, ma anche aiutando a proteggere le risorse naturali e favorire l’uguaglianza sociale.” Il tema dell’acqua richiede un connubio tra metodi tradizionali e quelli hi-tech. Qual è il giusto rapporto tra questi due fattori nel gestire il problema della scarsità idrica? “I cambiamenti climatici stanno riducendo le nostre risorse idriche. Sarà fondamentale stabilire sistemi di gestione idrica adeguati, specialmente nell’agricoltura che è responsabile per il 70% del consumo globale d’acqua. Dobbiamo proteggerci dalla scarsità idrica, ma anche in questo caso non si tratta di trovare una soluzione universale. Detto questo, sappiamo che alcune pratiche – come le monocolture di verdure, noci, grano e soia in luoghi come la California – portano a un aggravamento dei casi di siccità. Dobbiamo comprendere che le colture di oggi potrebbero non essere le stesse tra 10 o 15 anni. Dobbiamo essere in grado di diversificare i sistemi agricoli, e imparare a a lavorare con colture differenti
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materiarinnovabile 22. 2018 che insieme possono contribuire a trattenere l’acqua, prevenire l’erosione del suolo, creare ombra naturale e anche assorbire grandi quantità di CO2. La tecnologia deve migliorare: irrigazione a goccia, tecniche di precisione che consentono ai contadini di utilizzare una certa quantità d’acqua lì dove serve di più, misurazione accurata dell’evaporazione in modo da non sprecare acqua. Tutto ciò sarà fondamentale. Ci arriveremo. Ma quello di cui abbiamo realmente bisogno è avere maggiore diversità nel sistema agroalimentare e di allontanarci dall’ideologia della monocultura.”
Se il cibo non è visto come un diritto, ma come una merce da scambiare sui mercati internazionali dei futures, c’è un problema. […] Basta che i prezzi fluttuino e un’intera nazione si può trovare sull’orlo della fame. Non è una merce su cui speculare. Attualmente nel mondo c’è cibo a sufficienza per nutrire tutti. Non è un problema di quantità prodotta. È un problema di distribuzione e di valore.
Oggi viviamo in una strana epoca dove il cibo è assolutamente costoso e simultaneamente super-economico, scarso e allo stesso tempo talmente abbondante che viene sciupato senza vergogna. “Sussiste un’inspiegabile schizofrenia intorno al cibo, oggi. Consumatori danarosi pagano cifre assurde per design food, prodotti bio, prodotti di affermati chocolatiers, vini pregiati, formaggi di lusso. Ma in Usa e Europa il cibo comune è incredibilmente economico: in questi paesi si spende per il cibo anche meno del 10% (in Italia è circa il 15%, nda) del reddito. Noi ci aspettiamo, pretendiamo, che il cibo al supermercato abbia prezzi veramente contenuti. E quando i prezzi salgono protestiamo con forza, come accaduto in Usa negli anni ’70, con le proteste delle madri di famiglia nel reparto carni per l’aumento di bistecche e braciole. La più recente legge americana sull’agricoltura (il Farm Bill) – similmente a quanto accade in Europa, – ha confermato ingenti sussidi, al fine di mantenere artificialmente bassi i prezzi del cibo. Se però andiamo nei Paesi in via di sviluppo, il costo del cibo, specie a partire dal 2007-2008, è salito a dismisura, fino a rappresentare l’80% del reddito pro capite. E parliamo di colture primarie, non di un’alimentazione completa, parliamo di ‘cibo che riempie’, ma che spesso non è nemmeno sufficientemente nutriente, vista la scarsa varietà di colture dettata dall’agrobusiness. Questo squilibrio di prezzi ha dato avvio a numerosi scontri in Mozambico, Tunisia e altri paesi. Oggi i giovani sono hangry (crasi tra hungry, affamato e angry, arrabbiato, nda).” Insomma, diamo valore al cibo e allo stesso tempo lo neghiamo. “Una parte del mondo paga il cibo troppo e un’altra troppo poco. Una contraddizione cui si aggiunge la questione della speculazione. Non è un caso che la crisi alimentare e quella finanziaria si siano scatenate simultaneamente. Se il cibo non è visto come un diritto, ma come una merce da scambiare sui mercati internazionali dei futures, c’è un problema. I prodotti alimentari non sono né diamanti, né altre materie prime che possono essere vendute sui mercati finanziari, né tanto meno
azioni. Non possiamo avere derivati e prodotti finanziari sofisticati su riso e grano. Basta che i prezzi fluttuino e un’intera nazione si può trovare sull’orlo della fame. Non è una merce su cui speculare. Attualmente nel mondo c’è cibo a sufficienza per nutrire tutti. Non è un problema di quantità prodotta. È un problema di distribuzione e di valore. Pensiamo all’obesità, un accumulo esagerato di risorse non certo per nutrirti.” Come possiamo dunque ricostruire un valore reale del cibo, lontano da speculazioni economiche e interessi del mondo dell’agrobusiness? “Olivier De Schutter, Special Rapporteur sul diritto al cibo delle Nazioni Unite, ha ufficialmente dichiarato che ci vuole una netta divisione tra i mercati alimentari e il mercato finanziario. Inoltre, bisogna definire il diritto all’alimentazione come un diritto fondamentale dell’uomo. Secondo, dobbiamo ripensare allo spreco di 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti alimentari buttati ogni giorno, una cifra che secondo le nostre stime è ancora più alta considerando le perdite post-raccolto, il deperimento degli stock e il semplice spreco domestico. Questo accade nei paesi industriali dove il costo del cibo è come detto molto basso perché il cibo viene privato del suo reale valore. Non consideriamo importanti gli sprechi, ma dovremmo imparare a preservare il cibo, come fa un contadino in Ruanda o Malawi: lui e la sua famiglia non sprecano nemmeno un grammo di cibo. Non è un problema solo morale: è una questione ambientale, visto le emissioni legate alla produzione del cibo e quelle della gestione dei rifiuti.” Possiamo creare un’economia circolare del cibo? “Oggi possiamo ricavare dagli scarti alimentari diversi prodotti: carta, tessuti, materiali compostabili come sacchetti o cannucce. Quello che non abbiamo ancora fatto è guardare alla questione in maniera sistematica e olistica. Politici, imprese e cittadini stanno comprendendo che un sistema integrato può veramente dare spazio all’economia circolare, che porterà a soluzioni migliori.”
Roma ©NASA
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Focus future-proof cities
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Focus future-proof cities
Le città, catalizzatrici per un’economia circolare Le città sono in una posizione privilegiata per accelerare lo sviluppo sostenibile visto che ospitano metà della popolazione mondiale, producono oltre l’80% del PIL globale e il 70% di tutti i gas serra. L’economia circolare fornisce una chiara roadmap per la transizione necessaria. La città circolare del futuro ha il potenziale per realizzarla grazie ai tre principali propulsori: i sistemi di innovazione urbana, il mercato per le piattaforme digitali e apparati di governo radicati nel territorio. di Joke Dufourmont
Prodock, www.prodock.nl
Nel XXI secolo l’urbanizzazione ha preso il volo. Oggi oltre metà della popolazione mondiale risiede nelle città, e si prevede che entro il 2050 questa quota arriverà almeno al 70%. Anche l’attività economica è concentrata nelle città e raggiunge l’80% del PIL globale. Non sorprende dunque che le città siano al centro delle principali sfide cui ci troviamo di fronte oggi: le aree urbane producono il 70% di tutti i gas serra e consumano due terzi del totale dell’energia prodotta. Le città sono gli hot spot per quanto riguarda l’inquinamento dell’aria, il sovraffollamento, il consumo di risorse e spesso vi si trovano condizioni di segregazione, disoccupazione e diseguaglianza. Questi problemi possono peggiorare esponenzialmente se continuiamo a gestire
le aree urbane come stiamo facendo. Nelle città quello che pianifichiamo, progettiamo e costruiamo oggi continuerà a esistere e a influenzare altri sviluppi per molti anni a venire. Gli edifici nell’ambiente urbano tradizionalmente hanno un periodo di vita che va da due a quattro generazioni. Le infrastrutture, poi, definiscono i confini dei sistemi in cui questi edifici sono inseriti (basti pensare alla mobilità e alla gestione dei rifiuti). Questi sistemi urbani creano interdipendenze e pongono vincoli, e la loro concezione ha effetti sul lungo termine. Quindi, le città devono affrontare i problemi di ieri, di oggi e di domani per evitare di creare condizioni insostenibili per le future generazioni. Gli agglomerati urbani hanno però il potenziale per diventare elementi
Policy
Dopo aver lavorato come ricercatrice sul patrimonio urbano e delle comunità in Ecuador e sull’istruzione allo sviluppo sostenibile in Irlanda, Joke Dufourmont si è concentrata sull’economia circolare. Si è laureata in Politiche Pubbliche e Sviluppo Umano svolgendo una tesi sulla transizione verso il modello economico circolare nelle città europee.
propulsivi di uno sviluppo sostenibile: le “città circolari” catturano questo potenziale attraverso soluzioni sistemiche che danno una risposta alle sfide sociali, ambientali ed economiche. Se le città sono costituite dai sistemi che rispondono a bisogni della società come mobilità, salute, abitare, alimentazione e comunicazione, le città circolari fanno tutto questo in un modo radicalmente nuovo e sostenibile. I loro sistemi costitutivi rendono circolare il modo in cui viviamo, mangiamo, viaggiamo e lavoriamo ideando prodotti circolari, adottando modelli “prodotto-come-servizio” e politiche che mettono al centro l’essere umano. Poiché questi sistemi funzionano contemporaneamente, essi interagiscono reciprocamente e i loro effetti si moltiplicano. Una città circolare è più della somma dei suoi sistemi circolari. Oggi il mondo è circolare solo al 9%. Le città possono colmare questa lacuna sfruttando la loro incredibile capacità attraverso tre propulsori: i sistemi di innovazione urbana, un mercato per le piattaforme digitali e gli apparati di governo radicati nel territorio. Sistemi di innovazione urbana Le barriere tecnologiche che l’economia circolare si trova di fronte possono essere superate con i sistemi di innovazione urbana. Le città sono caratterizzate da economie che richiedono un elevato livello di competenza e concentrano le attività economiche più innovative, le industrie creative e le istituzioni della cultura e della ricerca. Questa concentrazione si traduce in potenziale di innovazione. È quindi nelle città che vengono sviluppate le innovazioni circolari, sia in termini di prodotti circolari che di nuovi modelli di finanziamento. Allo stesso tempo, le città hanno spesso una densità di popolazione eccessiva e regolamenti troppo restrittivi per accogliere processi industriali su vasta scala. E questo
richiede di interagire con un’area territoriale più estesa. La transizione verso l’economia circolare richiede sia lo sviluppo di nuove tecnologie sia l’adeguamento di scala delle soluzioni innovative che nascono dall’interazione della città con i suoi dintorni. Prodock è un acceleratore nel porto di Amsterdam che si concentra sullo sviluppo di un’economia decarbonizzata, biobased e circolare. L’hub offre infrastrutture per quelle start-up diventate troppo grandi per il loro ambiente di prova. Questo succede per esempio con start-up che provengono dall’Innovation Chemistry Lab di Amsterdam. Questo laboratorio è situato nel locale Science Park, che ospita diverse università, istituti di ricerca e attività commerciali. Offre uno spazio di sperimentazione per imprenditori e ricercatori che vogliono commercializzare le proprie innovazioni. Tra queste ci sono 30 MHz, che fornisce soluzioni basate su sensori intelligenti per ottimizzare le lavorazioni in agricoltura; NPSP che utilizza materie prime naturali come fibre di lino e canapa per ridurre l’impatto ambientale dei composti usati nella produzione di veicoli, mobili e macchinari e The Calcite Factory che ha sviluppato una tecnologia per riutilizzare il pellet di calcite per l’addolcimento dell’acqua. In questo modo Amsterdam si propone come “terreno di coltura” per innovazioni circolari che possono essere poi sviluppate su scala più ampia. La città serve come laboratorio, i suoi dintorni come territorio di crescita. Piattaforme digitali per le città-come-servizio Le piattaforme digitali che permettono l’implementazione di modelli basati su una trasformazione da prodotto a servizio trovano nelle città il loro contesto ideale perché permettono la tracciabilità dei beni e sono essenziali per i servizi proposti in
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Le amministrazioni cittadine possono svolgere un ruolo fondamentale nel favorire lo sviluppo di una nuova mentalità essenziale per promuovere una trasformazione a lungo termine.
regime di sharing e leasing. I modelli di servizio cambiano il nostro rapporto col consumo di materiali e quindi contribuiscono alla realizzazione della città-come-servizio. Se la tracciabilità dei beni non è un’esigenza peculiare del solo ambiente urbano (tenere traccia delle risorse è fondamentale tanto in una città quanto in un’area industriale o agricola) il successo dei modelli prodottocome-servizio peer-to-peer o B2C si basa su piattaforme digitali in contesti urbani densamente popolati. Adottati da attività commerciali e produttive, dalle istituzioni e dai cittadini, questi modelli di business si affidano moltissimo a una logistica efficiente. Snappcar e Turo permettono a singoli individui di affittare l’auto, riducendo quindi il numero di auto che è necessario produrre. Peerby consente il prestito di beni tra persone dello stesso quartiere, lavorando in modo simile alle app per il car sharing. TooGoodToGo permette a negozi, ristoranti e ditte di catering di fare pubblicità ai loro pasti invenduti, per venderli a prezzo ridotto all’ultimo minuto, riducendo così lo spreco di cibo. Parallelamente a queste piattaforme peer-to-peer, i modelli B2C impiegano piattaforme digitali in un modo simile per la condivisione e l’affitto, e quindi facilitano il passaggio dalla proprietà all’utilizzo. Queste piattaforme proliferano nelle città; il loro successo spesso dipende dalla vicinanza fisica degli utenti, il fondamentale “effetto network” delle città. Strutture di governo radicate nel territorio Le amministrazioni cittadine possono svolgere un ruolo fondamentale nel favorire lo sviluppo di una nuova mentalità essenziale per promuovere una trasformazione a lungo termine: implementando politiche radicate nel territorio e svolgendo un ruolo di “consumatore pilota” per innescare la transizione verso l’economia circolare. Le amministrazioni locali sono in stretto contatto con i cittadini e con i settori dell’economia e di conseguenza godono generalmente di maggior fiducia rispetto ad altri livelli di governo. Questo stretto contatto gioca anche a favore della formulazione di
politiche in grado di dare risposte a specifiche domande che si manifestano a livello locale: l’economia circolare si realizza in diversi modi e forme e non può certo essere scambiata per un paradigma che applica a tutto e ovunque le stesse soluzioni. Inoltre i governi locali spesso hanno mandati che impattano direttamente sui flussi di risorse, basti pensare agli appalti pubblici e alla pianificazione dell’uso dello spazio e dello sviluppo territoriale. L’amministrazione di una città ha la possibilità di “comprendere” la realtà che governa meglio di chiunque altro e può quindi sviluppare politiche innovative per promuovere il tipo di circolarità più appropriato per quello specifico contesto. Dal 2013 il Bogotà Zero Waste Programme ha ridotto la produzione di rifiuti e incrementato i tassi di riciclo: elemento chiave, dal punto di vista politico, del programma è stata la formalizzazione dello statuto dei lavoratori del settore dei rifiuti, migliorandone la sicurezza e i salari. Il Green and Digital Demonstration Programme sviluppato dalla Commissione per l’Economia di Vancouver permette di avere accesso a beni pubblici come strade, edifici e infrastrutture digitali per testare e promuovere prodotti e servizi. Una iniziativa pensata per attirare i talenti globali nella città e accrescere la sua attrattività economica in generale. In conclusione, le città forniscono la conoscenza per sviluppare e diffondere le innovazioni circolari, possiedono i mercati per le piattaforme digitali grazie alle quali è possibile adottare modelli di business circolari e hanno un’amministrazione radicata localmente che ha la possibilità di creare le condizioni favorevoli per la transizione verso l’economia circolare. Quando tutti i soggetti attivi in un determinato contesto urbano si allineano e si coinvolgono per la realizzazione di una “città circolare”, possono effettivamente dare vita a politiche e pratiche in grado di trasformare il rapporto tra risorse, società e territorio, diventano luoghi di vita prosperi e inclusivi.
Policy
Focus future-proof cities: 4 CASE STUDIES
Circular Glasgow di Rebecca Ricketts Senior project manager e membro fondatore di Circular Glasgow, Rebecca Ricketts si occupa del coinvolgimento degli operatori in grado di accelerare il passaggio di Glasgow all’economia circolare. Ha una formazione in marketing, media e sviluppo commerciale e spesso lavora alla mediazione tra l’ambito del business e le organizzazioni no-profit.
Meno emissioni, maggiore crescita e nuova occupazione. Questi i vantaggi che la città scozzese avrà adottando il modello circolare secondo l’analisi compiuta dalla Camera di Commercio. Le grandi potenzialità della filiera del cibo e delle bevande.
Circular Glasgow, www.circular glasgow.com
La visione di Glasgow è quella di diventare una delle prime città circolari al mondo. Nel 2015 ha compiuto i primi passi verso la creazione di un’economia molto più sostenibile dando inizio a un’analisi riguardante l’economia circolare. Commissionata attraverso una partnership guidata dalla Camera di Commercio di Glasgow con esperti a livello globale come l’olandese Circle Economy o Zero Waste Scotland e con il Consiglio Comunale di Glasgow, l’analisi ha dimostrato che adottare la circolarità può portare alla creazione di moltissimi posti di lavoro e alla riduzione delle emissioni di CO2 in tutta la città. Analizzando il panorama economico e politico e mappando i flussi di risorse della città, dal consumo ai rifiuti, l’acquisizione di dati ha portato a identificare industrie grazie alle quali l’economia della città può diventare più “circolare”. Lo studio ha anche evidenziato i modi in cui la Camera di Commercio potrebbe dare un supporto diretto alle organizzazioni locali nell’adozione di modelli circolari; tra i quali nuove collaborazioni, opportunità di mercato, notevoli risparmi finanziari e generazione di maggiori profitti. Il settore manifatturiero è quello che ha mostrato il maggior potenziale circolare lavorando inizialmente nell’ambito del cibo e delle bevande.
Di conseguenza sono stati identificati alcuni studi pilota pratici e adattabili su diverse scale, tra i quali la produzione di una nuova birra locale ricavata dai panini rimasti invenduti. La ditta Aulds Bakers distribuisce il suo pane utilizzando un modello di vendita che permette di rendere l’invenduto, che viene poi consegnato al birrificio Jaw Brew, così da permetterne il riutilizzo. In seguito al riconoscimento del World Economic Forum per la fase iniziale del suo lavoro, la Camera di Commercio di Glasgow sta ora lavorando direttamente con le aziende locali di tutti i settori, sostenendo l’adozione dei loro progetti circolari. Sia che le organizzazioni abbiano appena intrapreso il loro viaggio verso la circolarità o che abbiano processi circolari già implementati, la suite di programmi e strumenti di “Circular Glasgow” è stata ideata per facilitare ogni organizzazione nella realizzazione delle proprie idee e dei propri piani. Non importa in quale settore, la gamma delle opzioni di supporto offre alle attività commerciali infinite possibilità in termini di integrazione della circolarità nelle loro pratiche lavorative quotidiane. Alison McRae, Senior Director della Camera di Commercio di Glasgow afferma: “Dal 2015 abbiamo visto molte attività commerciali locali adottare modelli di business circolari che comprendono innovazione tecnologica e una progettazione che pensa al futuro. Il riciclo e il riutilizzo dei materiali è solo una parte dell’equazione per le aziende. Non ci sono dubbi sul fatto che uno dei più importanti motori del successo della città sia stato una coalizione di volenterosi creata all’interno delle nostre solide partnership.” Questo pensiero non ha solo ispirato le
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materiarinnovabile 22. 2018 aziende locali, ha anche avuto un importante ruolo nel coinvolgere soggetti chiave a livello urbano esplorando le politiche pratiche relative all’economia circolare come priorità e obiettivo per il futuro. Glasgow vede questo nuovo approccio – il passaggio da un modello economico lineare a uno circolare – come soluzione attraverso la
quale migliorare la qualità dei prodotti, la crescita economica, l’occupazione, e quindi creare una città a prova di futuro, più resiliente e inclusiva. Attraverso la leadership e la visione, il desiderio della città di trasformare i risultati del Circle City Scan in cambiamenti tangibili e pratici evidenzia il suo status di pioniera e può fornire esempi utili alle città di tutto il mondo.
Maribor, una città circolare di Igor Kos
Dopo aver lavorato allo sviluppo della Strategia di pianificazione della Mobilità e dello Sviluppo Urbano Integrato nella municipalità di Maribor, dal 2017 Igor Kos è consigliere del Wcycle Institute di Maribor. Si occupa di sviluppare strategie nel campo dell’economia circolare sia a Maribor in Slovenia sia nell’Ue.
Nella città slovena che per prima ha delineato una strategia per il passaggio a un’economia circolare, il Wcycle Institute ha realizzato un innovativo modello ambientale e di business per la gestione di tutti i flussi di materiali e risorse disponibili in città. E con il suo coinvolgimento, Maribor sta implementando progetti legati al trattamento dei rifiuti urbani, all’uso degli scarti C&D, al riutilizzo delle acque depurate, alla gestione del surplus di calore e all’energia rinnovabile. Con circa 110.000 abitanti Maribor è la seconda città della Slovenia. Sebbene non sia la capitale del paese, è la capitale dell’economia circolare nella regione. Nel giugno del 2018 la Municipalità di Maribor è stata la prima città slovena a delineare una Strategia per il passaggio a un’economia circolare poi adottata e formalmente approvata dal Consiglio comunale. Il suo contenuto è coerente con i Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite, ed evidenzia il ruolo centrale delle città nel raggiungimento di uno sviluppo sostenibile. La strategia, attualmente in corso di implementazione a Maribor, è stata sviluppata dal Wcycle Institute for Circular Economy di Maribor che è stato creato nel 2017 da
cinque aziende di servizi di Maribor. Il suo obiettivo è implementare e coordinare un nuovo e innovativo modello ambientale e di business chiamato Wcycle. L’idea alla base di questo modello è la creazione di un sistema per la gestione di tutti i flussi di materiali disponibili in città. Si basa sul lavoro di imprese compartecipate a maggioranza pubblica che forniscono servizi ai residenti. Quindi lo scopo della strategia e del progetto Wcycle è la cooperazione trans-settoriale nella gestione, nella lavorazione, nel riuso e sviluppo di risorse legate all’economia circolare di Maribor, tra sette settori selezionati che sono i cardini della gestione delle risorse: rifiuti urbani, rifiuti da costruzione e demolizione (C&D), energia, mobilità, pianificazione dello spazio, economia collaborativa. Maribor, con il coinvolgimento attivo del Wcycle Institute, sta preparando e implementando numerosi progetti legati al trattamento dei rifiuti urbani, all’uso nell’edilizia urbana di rifiuti C&D lavorati, al riutilizzo delle acque depurate, alla gestione del surplus di calore e all’energia rinnovabile. Il primo progetto completato consiste nell’ampliamento di impianto di differenziazione dei rifiuti urbani completamente automatizzato: entrato in funzione nel giugno del 2018, avrà un periodo di prova di un anno.
Policy
Wcycle Insitute, www.wcycle-maribor.si
Le aziende della città, al fine di creare un ambiente urbano rigenerativo e offrire ai cittadini servizi di qualità, stanno condividendo informazioni e lavorando per raggiungere il massimo tasso possibile di riutilizzo dei rifiuti, del calore in eccesso e delle acque di scarico in modo da utilizzarli come nuove risorse. Tutto questo rispettando la qualità del suolo usato, lo sviluppo della mobilità urbana sostenibile e i principi di un’economia cooperativa. In pratica questo significa che effettivamente la produzione generata in un settore deve essere utilizzata come materiale, prodotto, energia o servizio in un altro settore. La conseguenza positiva di queste pratiche è la nascita di nuove opportunità di business per la municipalità, i suoi abitanti e l’economia
locale, come pure la creazione di posti di lavoro di alta qualità – prevalentemente green – che daranno spinta all’economia. Le città sono in una posizione privilegiata per guidare la transizione verso un’economia circolare. Questo è dovuto all’alta concentrazione di risorse, capitali, dati e talenti in un’area geografica ristretta. Maribor ha compreso il peso del suo impatto sull’ambiente ed è stata riconosciuta l’importanza del suo ruolo dall’Ue, che ha premiato la città con (fino a ora) l’approvazione di quattro progetti relativi all’economia circolare, che hanno tutti lo scopo di realizzare con successo la transizione verso l’economia circolare e di rendere Maribor la città più circolare in questa regione dell’Europa.
Perché Portland è una città resiliente? di Daniel Lerch
Direttore dell’istruzione e delle pubblicazioni del Post Carbon Institute, responsabile del lavoro di istruzione del Pci sulla resilienza della comunità e sui limiti alle risorse energetiche, Daniel Lerch è stato il presidente fondatore della Sustainable Communities Division dell’American Planning Association. È l’autore di Post Carbon Cities (2007).
Il segreto della città dell’Oregon sta nella sua lunga storia che insegna come la resilienza urbana inizia concentrandosi sulla consapevolezza della comunità e su adeguati strumenti governativi/gestionali. *La ridondanza, nell’ingegneria dell’affidabilità, è definita come l’esistenza di più mezzi per svolgere una determinata funzione, disposti in modo tale che un guasto di un sistema possa verificarsi solo in conseguenza del guasto contemporaneo di tutti questi mezzi, ndr.
Portland, nell’Oregon (con una popolazione di 2,3 milioni di persone) è regolarmente in cima alla lista delle “città più sostenibili” degli Stati Uniti. Per decenni Portland è stata leader a livello nazionale nelle iniziative che riducono l’uso di energia e salvaguardano l’ambiente, come lo sviluppo transit-oriented (Tod – Transit-oriented development), le infrastrutture per favorire l’uso della bicicletta, la salvaguardia dei terreni fertili e il compostaggio del cibo. Ma, Portland non è una città realmente sostenibile. Malgrado tutti gli obiettivi raggiunti dalla città, i suoi abitanti ancora usano molte più risorse
– e creano molto più inquinamento – di quanto l’ambiente riesca a gestire in maniera rinnovabile. Questo naturalmente vale per qualsiasi città industrializzata. Non è teoricamente impossibile per una città moderna essere letteralmente sostenibile (cioè in grado di perdurare in eterno); ma avrebbe bisogno di funzionare in modo decisamente diverso persino rispetto alla città attualmente “più verde”. Nella nostra civiltà globalizzata la vera sostenibilità non è un risultato raggiungibile semplicemente ottenendo un punteggio alto riguardo ai parametri giusti. È un ideale che possiamo solo cercare caparbiamente di raggiungere, e a ogni scala. Portland viene spesso definita una città “resiliente”, e anche questo non è completamente vero. La resilienza urbana riguarda la capacità di adattarsi alle difficoltà preservando l’essenza della città. Sicuramente Portland possiede molte delle qualità generalmente associate alla resilienza: preparazione ai cambiamenti climatici; ridondanza* nei sistemi critici; ha una forte cultura civica e
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Post Carbon Institute, www.postcarbon.org American Planning Association, www.planning.org
coesione sociale. Ma c’è un grande problema nel definire una città resiliente legato al fatto che non sappiamo effettivamente che aspetto abbia la resilienza urbana! Il problema è che la scienza della resilienza dei sistemi socio-ecologici (la base ideologica della resilienza urbana) è stata sviluppata studiando le comunità rurali e le risorse naturali di cui fanno uso. Abbiamo una certa idea di come una piccola comunità agricola possa costruire la propria resilienza riguardo a fattori come il cambiamento della salinità del suolo e la diminuzione delle precipitazioni piovose adeguando certe strutture di governo e norme culturali. Ma come si possono applicare queste idee alle comunità del 21° secolo, globalizzate, industrializzate e composte da milioni di persone? Semplicemente non lo sappiamo ancora; gli scienziati della resilienza hanno cominciato ad affrontare questo tema solo in anni recenti. Portland sicuramente non può funzionare all’infinito nel suo stato attuale, e soffrirebbe enormemente per eventi come un terremoto catastrofico o una depressione economica globale. E tuttavia, quando si tratta di sostenibilità e resilienza, Portland si trova su una traiettoria migliore rispetto alla maggior parte delle altre città negli Stati Uniti – in gran parte grazie al fatto che ha semplicemente lavorato a questi ideali più a lungo di qualunque altra. Come ha fatto Portland? Io penso che ciò derivi da due prerequisiti: la presenza di una intenzione adeguata all’interno
della comunità, e di adeguati meccanismi nello spazio di manovra del governo. Portland e l’Oregon effettivamente hanno una lunga storia di intento rivolto a quella che ora chiamiamo sostenibilità e resilienza. Questo fatto potrebbe avere le sue origini nel relativo isolamento della regione: la lussureggiante Williamette Valley, dove i coloni bianchi fondarono le loro città e paesi a metà dell’Ottocento, è separata dal resto degli Stati Uniti da centinaia di chilometri di montagne e deserto. Forse è stato il senso viscerale dei limiti geografici, insieme alla prontezza da pioniere nell’ideare soluzioni locali, che ha portato gli abitanti dell’Oregon del tardo 20° secolo a insolite (per gli Stati Uniti di quell’epoca) iniziative politiche come un governo regionale, la conservazione del territorio, la rimozione di autostrade e la creazione di spazi pubblici. Quando il bisogno di sostenibilità urbana divenne chiaro nel corso degli ultimi 30 anni, per l’Oregon – e per Portland – i pezzi erano già al loro posto pronti per funzionare. Se è così, questo significa che qualsiasi comunità può raggiungere i risultati di Portland. Invece di andare a caccia di unità di misura della sostenibilità e di strutture per la resilienza, le città possono coltivare una sostenibilità a lungo termine, e la resilienza inizia concentrandosi prima sulla consapevolezza della comunità (che viene prima dell’intento e della volontà politica) e sugli strumenti governativi/gestionali.
Tai-Pay: più butti via più paghi di Nate Maynard Laureato in politiche ambientali internazionali al Middlebury Institute of International Studies in California, Nate Maynard attualmente è consulente della Chung-Hua Institution for Economic Research (CIER): il suo lavoro riguarda l’economia degli oceani, lo sviluppo di energie alternative e le politiche per l’economia circolare.
In 18 anni a Taipei la produzione pro capite di rifiuti è diminuita del 31% mentre la percentuale di riciclo è passata dal 2% al 57%. È il risultato dell’introduzione dei piani Pay As You Throw e di programmi per educare la popolazione cittadina al corretto smaltimento degli scarti.
Passeggiando per Taipei, a Taiwan, si vedono raramente rifiuti o persino cestini per i rifiuti. Invece si può vedere gente che lava bottiglie di plastica, separa accuratamente componenti di computer, o anche famiglie che aspettano di notte i camion della raccolta rifiuti con sacchi blu pieni di spazzatura. Questa trasformazione nella raccolta dei rifiuti
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Rifiuti prodotti giornalmente pro capite (kg)
1,15 1,10 1,05 1,00 0,95 0,90 0,85 0,80 0,75 0,70
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Rifiuti riciclati (%)
45 40 35 30 25 20 15 10 5
99 20 00 20 01 20 02 20 03 20 04 20 05 20 06 20 07 20 08 20 09 20 10 20 11 20 12 20 13 20 14
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Fonte: Taiwan EPA.
è un fenomeno recente. Nel 1993 Taiwan aveva un tasso di raccolta dei rifiuti fermo al 70%. Questo significa che il 30% finiva nell’ambiente perché buttato via o bruciato. Nell’arco di 10 anni, Taipei non solo ha incrementato il suo tasso di raccolta – tanto che ora è considerata una delle cinque città migliori in fatto di riciclo – ma ha anche ridotto considerevolmente la produzione di rifiuti. Come ci sono riusciti? Mediante la tassazione dei rifiuti e adottando progetti urbani per il riciclo finanziati da un’imposta sui rifiuti. Paga per quanto butti via A Taipei City oltre ad aver introdotto piani Pay As You Throw (Payt, paga per quanto butti via) hanno anche adottato programmi pubblici di istruzione. Insieme, queste strategie hanno fatto diminuire la produzione giornaliera di rifiuti: da 1,08 kg pro capite nel 2001 a 0,86 kg pro capite, eliminando quasi del tutto la necessità di ricorrere alle discariche. Il piano di tassazione per lo smaltimento di rifiuti Payt riduce la produzione totale di rifiuti da parte di cittadini e industria applicando una sanzione finanziaria. Nel 1991 Taipei City ha cominciato a sperimentare le tasse sui rifiuti imponendo ai residenti tasse sull’acqua, presupponendo che se i cittadini usano più acqua creano anche più rifiuti. Avendo fallito nel tentativo di ridurre i rifiuti, Taipei
ha allora deciso nel 2000 di cominciare a far pagare in rapporto al volume di rifiuti prodotto. All’avvio del programma, i cittadini tentarono di aggirare queste misure gettando i rifiuti nei cestini lungo le strade. Questo ha portato a parecchie multe, alla rimozione dei cestini dei rifiuti e all’avvio di programmi di istruzione per educare la popolazione al corretto smaltimento degli scarti. Poco dopo l’avvio del programma i residenti si lamentavano del fatto che dovevano smaltire troppi rifiuti organici, il che faceva lievitare i costi. La città ha prontamente risposto nel 2003 mettendo a punto un sistema di compostaggio dei rifiuti organici che ha permesso ai residenti di smaltirli gratuitamente. Questa politica ha preceduto di sei anni l’acclamata legge sul compostaggio dei rifiuti organici di San Francisco, anche se poche persone al di fuori di Taiwan lo sanno. Successivamente la città ha implementato un programma incentrato sui sacchi blu: sacchi per la spazzatura che i cittadini devono acquistare il cui prezzo contiene già una tassa sullo smaltimento. Gli articoli riciclabili non hanno sovrapprezzi e questo incoraggia il riuso. Dall’avvio del piano PAYT la produzione pro capite di rifiuti è diminuita del 31% in 18 anni, da 1,26 kg al giorno nel 1997 a 0,87 kg nel 2015. Inoltre il piano di sanzioni finanziarie ha stimolato il riciclo, facendone aumentare i tassi dal 2% al 57%. Se Taipei City ha adottato il programma per prima, in tutta Taiwan si sta riscontrando una tendenza analoga. Grazie ai programmi Payt ed Epr Taipei vanta un tasso di riciclo del 56%, il più alto di Taiwan. Oggi a Taiwan si inceneriscono meno rifiuti rispetto al 2000, nonostante si sia verificato un picco nel 2007. Di fatto molti inceneritori presenti sull’isola lavorano ben al di sotto della loro capacità. L’utilizzo di discariche, che un tempo minacciavano di coprire l’intera isola, è diminuito del 98%. Oggi Taiwan produce più rifiuti riciclabili che inutilizzabili e ha compiuto un notevole progresso verso una “società senza rifiuti”. Attualmente Taipei ha approvato una normativa per bandire totalmente i sacchetti di plastica monouso e le cannucce di plastica monouso per le bibite. Come hanno risolto il problema dei sacchetti? Semplicemente distribuendo sacchi per la spazzatura regolamentari ai negozi, così che i cittadini che dimenticano di portarsi una borsa riutilizzabile comprino un sacco per la spazzatura riutilizzabile per lo smaltimento dei loro rifiuti non riciclabili. Nel complesso da Taipei viene una chiara lezione: imporre delle tariffe per lo smaltimento dei rifiuti e sviluppare un piano Epr fa diminuire la produzione di scarti, favorisce la creazione di infrastrutture e fa aumentare il tasso di riciclo. Il risultato è che Taiwan ha creato un’industria del riciclo con un giro d’affari multi miliardario ripulendo al contempo le strade. Taiwan ci ha dimostrato che, dovendo rispondere all’aumento della produzione di rifiuti, esiste il potenziale per sviluppare politiche efficaci per la loro gestione.
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Focus future-proof cities
100 città resilienti
Intervista a Lina Liakou Architetto e urban designer, Lina Liakou è direttore regionale per l’Europa e il Medio Oriente presso “100 Resilient Cities”. È stata vicesindaco e Chief Resilience Officer di Salonicco, guidando la strategia di resilienza della città e avviando collaborazioni con la Commissione Ue, la Banca europea per gli investimenti e la Banca mondiale.
100 città selezionate per insegnare a tutte le altre sparse nel mondo come essere resilienti. di Emanuele Bompan, da Londra
Come possiamo implementare una vera economia circolare senza che le città siano attrezzate per rispondere con resilienza a stress e shock? Questo è un tema fondamentale di riflessione quando si discute del futuro delle città e in particolare di “città circolari”. Per saperne di più al riguardo siamo volati a Londra per visitare gli uffici del Progetto 100 Resilient Cities. 100 Resilient Cities (100RC) è stato creato nel 2013 dalla Rockefeller Foundation, nel centenario della fondazione. Nel dicembre dello stesso anno ha iniziato a lavorare con un primo gruppo di 32 città. Nel 2014 ha ricevuto più di 330 richieste da 94 paesi per il secondo turno e a dicembre ha annunciato i nomi delle 35 città scelte. Ora si stanno avvicinando a 100 città selezionate. Per saperne di più incontriamo Lina Liakou, Regional Director dell’Ue, che supervisiona il lavoro di 100 Resilient Cities con città europee
e mediorientali, in un luminoso ufficio non lontano dalla St. Pancras Station. Prima di entrare a far parte di 100RC, Lina è stata vicesindaco e funzionario capo per la resilienza della città di Salonicco, in Grecia. Da questa posizione istituzionale ha guidato lo sviluppo della Strategia di resilienza della città. Come è partito il progetto 100RC? “Nel 2013 la Rockefeller Foundation voleva festeggiare i 100 anni dalla sua fondazione facendo qualcosa che mettesse insieme le lezioni apprese da altri progetti. Il presidente della Rockefeller Foundation, Judith Rodin, ha proposto di dar vita a un’organizzazione che selezionasse 100 città in tutto il mondo e le aiutasse a sviluppare la loro resilienza. Questo avrebbe portato a un progresso nella pratica e nella discussione sulla resilienza. Inoltre, queste città sarebbero state un esempio per migliaia di città in tutto il mondo.”
Policy
100 Resilient Cities, www.100resilientcities.org
Qual è la missione di 100 Resilient Cities? “Il contributo fondamentale del progetto consiste nell’aiutare le città selezionate a nominare un funzionario capo per la resilienza (Chief Resilience Officer, Cro) all’interno del loro consiglio comunale: il suo ruolo è mettere in ordine le diverse priorità e rendere le città resilienti a shock e stress. Per prima cosa i Cro devono definire le priorità delle loro città e stabilire una strategia per la resilienza. Questa viene poi implementata grazie al contributo di soggetti provenienti da organizzazioni private e non-profit che aiutano le città a progredire. È importante non solo avere il sostegno pubblico, ma anche un ruolo per il settore privato che può sviluppare strumenti e servizi per la resilienza urbana. Questo permette una più rapida diffusione di questi strumenti.” Come possiamo definire una città davvero resiliente, concetto considerato cruciale
nella disposizione mentale necessaria per un’economia sostenibile e circolare? “Noi definiamo la resilienza urbana in una maniera molto più ampia di come viene considerata di solito. Una città resiliente non è solo una città che sopravvive agli shock, ma è in realtà una città che si adatta e si sviluppa addirittura meglio, nonostante gli shock e gli stress. Per riuscirci è essenziale comprendere come gli stress sono collegati agli shock e viceversa: si tratta di un approccio davvero integrato. In passato ci concentravamo solo sul rischio di disastri o sulla resilienza. Abbiamo invece bisogno di una visione più ampia che colleghi il clima, le risorse naturali, il tessuto sociale e l’economia, e al tempo stesso dobbiamo avere pronti dei piani di azione efficaci contro gli shock.” Cosa deve fare un Cro? “Le città hanno bisogno di qualcuno con un mandato riguardante la resilienza. I Cro pensano in maniera integrata e orizzontale,
Le città associate Seguendo procedure molto selettive (più di 1.000 adesioni), 100RC ha selezionato un primo gruppo di città nel dicembre del 2013, ha annunciato il secondo nel dicembre 2014 e il terzo a maggio del 2016
ROUND ONE CITIES ROUND TWO CITIES ROUND THREE CITIES
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materiarinnovabile 22. 2018 e sono in grado di identificare chi, dall’interno o dall’esterno della città, li può aiutare a raggiungere i loro obiettivi. Applichiamo una metodologia che ci permette di comparare diverse città e diverse strategie. In questo modo possiamo imparare reciprocamente, unire i bisogni, raccogliere le lezioni apprese e passarle a tutti i Cro. La fondazione crea molte opportunità e spazi per l’apprendimento peer-to-peer a loro dedicati. La prima schiera di ‘eroi’ è riuscita a insegnare alla seconda e a ispirarla, e le lezioni apprese dalla seconda sono passate alla successiva. Abbiamo comunità di apprendimento, discussioni online o offline e eventi chiave per la divulgazione.”
I Cro pensano in maniera integrata e orizzontale, e sono in grado di identificare chi, dall’interno o dall’esterno della città, li può aiutare a raggiungere i loro obiettivi.
Lei è stata Cro a Salonicco, in Grecia. Qual era il suo lavoro? “Per prima cosa ho delineato una strategia per la resilienza come una narrativa olistica, definendo dove la città vuole andare nei prossimi 50 anni. Salonicco non aveva una strategia a lungo termine. Così l’ufficio del Cro ha creato un’unità che lavorava orizzontalmente collegando gli uffici della Pubblica Amministrazione con il settore non-profit, le comunità, il settore privato e l’università. Li abbiamo portati a discutere di come sarebbe dovuta apparire la città. Attraverso questo processo sono emersi molti nuovi temi e collegamenti a vari progetti. Abbiamo migliorato la fiducia nei mezzi pubblici e nelle metropolitane; abbiamo creato il progetto Strade sicure per le scuole; lavorato sullo sviluppo economico della baia in relazione alle previsioni meteorologiche per il Golfo Termaico. Quest’ultimo progetto è stato molto sistematico e siamo riusciti a ottenere risorse dalla European Investment Bank e dalla Banca mondiale. Ci hanno dato assistenza tecnica per progredire con le priorità contemplate dalla strategia. Abbiamo anche presentato, insieme ai soggetti coinvolti, il primo programma Horizon sulla resilienza.” Come fa un Cro a stabilire una strategia per la resilienza? “Ogni città ha le sue priorità. La resilienza per Milano può essere maggiormente collegata a come il clima si connette alla pianificazione urbana. A Parigi bisogna collegare i problemi sociali e l’integrazione con i progetti di adattamento al clima. Davvero, dipende.” Quanto è importante rimodellare i budget cittadini per diventare resilienti? “Parte del lavoro di un Cro consiste nel capire il budget e cercare di rendere resiliente il modo in cui la città pianifica le spese. Inoltre il Cro deve attirare finanziamenti dall’esterno: per esempio ci sono vari fondi dell’Ue che possono essere utilizzati per la resilienza urbana. Come ultima cosa, ma non meno importante, abbiamo creato un team specifico che lavorerà per la resilienza dei finanziamenti. Il team istruirà i Cro su come lavorare con le
banche multilaterali e gli investitori generici per supportare la città nei suoi bisogni. Spesso i funzionari hanno i fondi, ma manca loro una serie di progetti oppure hanno progetti che non vengono finanziati. Dobbiamo colmare questi vuoti e aiutare le città a reperire risorse. Allo stesso modo dobbiamo aiutare gli investitori a comprendere il valore della resilienza e della pianificazione a lungo termine.” Perché lavorare al livello delle città e non implementare semplicemente strategie nazionali? “Bisogna lavorare sulle città. Il 21° secolo è il secolo delle città. Stress, shock, vulnerabilità e rischi sono in aumento nelle aree urbane.” Quali macro-tendenze stanno emergendo nelle strategie per la resilienza? “Specialmente in Europa l’economia circolare rappresenta una tendenza importante e in rapida espansione. È importantissimo cercare di reinventare il settore economico a causa della crisi finanziaria generalizzata che l’Europa sta attraversando e per l’impatto prodotto dall’economia industriale lineare sull’ambiente e sulla salute. L’economia circolare si collega alla resilienza in termini di importanza della gestione dei rifiuti e dell’acqua. Globalmente, altre tendenze comprendono: 1) l’acqua sia in relazione alle inondazioni, sia al suo consumo, scarsità e qualità; 2) flussi di popolazione e cambi di popolazione nelle città (è fondamentale adattarsi ai diversi cambiamenti della popolazione sia in termini di bisogni che di numeri, adeguando le infrastrutture); 3) giovani e invecchiamento della popolazione: i primi come centro dello sviluppo economico e sociale, il secondo tema in termini di adattamento delle nostre città a una popolazione crescente di cittadini anziani. Tutte le macro-tendenze devono essere collegate. Per esempio, abbiamo visto molti progetti che sono correlati al riutilizzo di spazi pubblici, progetti che collegano l’adattamento ai cambiamenti climatici e l’aumento delle migrazioni, creando nello stesso tempo un ambiente sicuro per i bambini. Questo problema può essere affrontato con un approccio integrato. Che rappresenta il più importante tipo di pensiero che un Cro deve adottare.”
Policy
Focus future-proof cities
Noi siamo resilienza Intervista a Piero Pelizzaro
Milano nei prossimi dieci anni si trasformerà sia sotto il profilo sociale sia dal punto di vista economico. Vorrebbe farlo mutando pelle e diventando resiliente. di Sergio Ferraris
Piero Pelizzaro, dal 1° dicembre 2017 è Chief Resilience Officer (Cro) del Comune di Milano.
Sergio Ferraris è direttore di QualEnergia.
Che cosa state facendo, ora, come struttura per la resilienza? “Oggi stiamo mappando i rischi della città – di oggi e di domani – sia in termini di shock, sia di stress. Quelli catalogabili come eventi di stress sono quegli eventi improvvisi, come quelli alluvionali che un tempo erano estremi ed episodici che però oggi hanno una certa regolarità a causa dei cambiamenti climatici. Gli eventi di shock, invece, sono quelli improvvisi come l’incidente ferroviario del 25 gennaio 2017 a Pioltello (dove persero la vita tre donne, nda). Questa mappatura ci porterà a definire la strategia metropolitana di resilienza. Oltre a ciò mi sto occupando della definizione delle linee guida per l’adattamento ai cambiamenti climatici che saranno contenute nel Piano d’azione sul clima del Comune di Milano. Infine sono coinvolto nel gruppo di lavoro sull’economia circolare poiché essa è una delle chiavi per ridurre uno dei principali stress sociali degli ultimi anni: la disoccupazione.” Nel concreto? “Negli ultimi mesi abbiamo lavorato in sinergia con l’urbanistica, all’interno del processo di revisione del PGT (Piano di Governo del Territorio) inserendo una norma attuativa, l’articolo 10, sulla resilienza e sostenibilità che definisce, nei futuri interventi di manutenzione ordinaria e quelli sul nuovo costruito (se ci sarà, visto che il comune ha definito una riduzione del 4% dell’occupazione di suolo) una serie di progetti di rinaturalizzazione. Diciamo che abbiamo codificato elementi di resilienza all’interno del PGT.” Il concetto di resilienza, quindi, non è solo ecologico, ma anche sociale. Giusto? “Sì esatto. Punteremo parecchio sul rapporto tra le politiche d’adattamento al cambiamento climatico e l’inclusione sociale. Per esempio la sicurezza del territorio penso che vada gestita non solo attraverso il controllo delle forze dell’ordine, ma anche puntando sulla qualità dello spazio pubblico e la sua vivibilità. Con qualità e vivibilità si possono creare dialogo e partecipazione. Per noi vulnerabili sono le persone, migranti o cittadini, non facciamo distinzioni. Chiaro, ci sono alcune situazioni critiche come la scuola, nella quale la differenza può essere problematica. Uno dei temi della
strategia di resilienza guarda anche ai processi d’inclusione in ambito scolastico dove spesso si creano fratture. Queste per noi sono possibilità al fine di lavorare sui processi d’inclusione. In questo quadro stiamo facendo, in collaborazione con la rete delle città resilienti, dei percorsi educativi che non guardano solo ai bambini ma anche alle famiglie e ai genitori che sono spesso i portatori d’esperienze problematiche e complesse nel loro passato. Inoltre per noi, sociale, clima e migrazione sono interconnessi sotto un profilo metodologico: se creassimo gli ennesimi compartimenti stagni, non staremmo praticando la resilienza.” Tantissime tematiche. Non è che state mettendo troppa carne al fuoco? “Direi di no giacché si tratta di questioni tutte interconnesse. Troppa carne al fuoco la mette chi affronta queste tematiche come se fossero separate. Il nostro lavoro è mettere a sistema queste soluzioni. Nelle città non si può più lavorare separando le questioni. Economia circolare, per esempio, vuol dire minore utilizzo delle risorse, efficientamento dei processi economici, ma anche difficoltà o opportunità legate ai cambiamenti climatici. In questo quadro è necessario analizzare l’attivazione di politiche economiche in ambito urbano affinché si possano affrontare questioni come la riduzione dell’occupazione, creando nuove forme d’innovazione economica. In tale scenario vogliamo verificare se possiamo guidare processi d’innovazione che non guardino solo al profitto, ma abbiano anche come obiettivo l’impatto sociale. Quindi penso che, nella creazione della visione e nella messa a punto dei processi, affrontare in questa maniera la complessità non significhi ‘mettere troppa carne al fuoco’.” Mi può fare un esempio circa connessioni di questo tipo? “Milano è una città che ha tredici fablab, abbiamo una policy molto spinta sul riportare la manifattura in ambito urbano, non solo quella digitale ma anche quella tradizionale, una percentuale del 63,35% di raccolta della frazione organica, attività di rigenerazione urbana che riguardano anche i processi d’innovazione. Queste sono tutte tessere connesse dall’economia circolare, dall’innovazione economica, dall’inclusione sociale. E anche dalla
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materiarinnovabile 22. 2018 *Con questo termine derivato dalla parola inglese gentrification, letteralmente “borghesizzazione”, si intende la riqualificazione urbanistica e il recupero di quartieri storici e popolari di una città da parte del ceto emergente, con conseguente trasformazione della tipologia degli abitanti: un cambiamento che coinvolge allo stesso tempo identità urbanistica e tessuto sociale, ndr.
salute perché, per esempio, una grande firma della moda come Ferragamo utilizza un tessuto naturale ottenuto dai sottoprodotti della lavorazione degli agrumi che riduce le allergie.” Quali trasformazioni vi aspettate nel tessuto urbano? E come state agendo? “Da qui al 2030 avremo un incremento annuo di 30.000 persone che arriveranno in città ogni anno, avremo 15.000 nuovi over 85 ogni anno. Già oggi abbiamo un flusso importante di giovani dal Sud Italia. Abbiamo aumentato del 20% i passeggeri nel trasporto pubblico, del 4% il chilometraggio fatto dai mezzi Atm, 16.000 biciclette in condivisione, 7 operatori del car sharing, una nuova linea di metropolitana che sarà completata nei prossimi due anni, aumentiamo le piste ciclabili, anche se il numero delle autovetture private aumenta, perché aumenta la popolazione. Altre città si spopolano noi cresciamo. E la forte migrazione verso la città non è solo sul fronte economico ma anche per interesse. Quindi o siamo capaci a gestire gli ambiti territoriali in maniera sostenibile, con quelli sociali ed economici oppure falliamo.” Riportare la manifattura in ambito urbano. Non è un rischio ambientale questo? “Stiamo parlando dei laboratori che sono un grande patrimonio della città e dobbiamo lavorare sui processi di produzione attraverso tecnologie che siano rispettose dell’ambiente. Se si riesce a mantenere i lavoratori in città senza inquinare, si risolve anche il problema della mobilità degli addetti e si ha un impatto complessivo ridotto. Non parliamo di grandi industrie, ma del grande patrimonio del Paese che è rappresentato dalle pmi. Insomma non stiamo pensando di riportare le acciaierie nella metropoli, ma di sfruttare quello che è il know-how diffuso che c’è in città, come il design e la moda e che fan parte della storia della città.” Parliamo di urbanistica. Ci sono state grandi polemiche sugli ultimi passi urbanistici di Milano. Come si sta muovendo l’attuale amministrazione nella gestione dell’urbanistica rispetto a resilienza e clima? “Il PGT attuale prevede 29 parchi, una riduzione dell’indice di consumo di suolo dal 74 al 70%, un nuovo piano di forestazione urbana che ha l’obiettivo di piantumare 300.000 nuovi alberi entro il 2030, tutti i nuovi interventi di costruzione dovranno impiegare il 10% di materiali circolari e devono usare materiali che favoriscano la riflettenza solare (i tetti bianchi per prevenire le bolle di calore, ndr), puntiamo su una diffusione del verde anche in verticale, e abbiamo delle norme con le quali il Comune si riserva il diritto riprendere i manufatti edili lasciati nell’abbandono per oltre 5 anni, per evitare il formarsi di buchi urbanistici e relitti urbani. Tutti questi elementi rendono il PGT molto resiliente e anche legato ai cambiamenti climatici. Inoltre abbiamo un assessore, Pierfrancesco Maran, che caso unico nel contesto italiano raggruppa le deleghe sull’urbanistica, verde e agricoltura.”
300.000 cittadini in più in dieci anni, sono il 20% in più di popolazione come state affrontando ciò? Non potrebbero innescarsi effetti per niente resilienti come l’aumento dei prezzi immobiliari e la gentrificazione*? “Dobbiamo recuperare gli spazi abbandonati, sfruttando meglio il costruito, favorendo chi investe in innovazione, nei servizi di prossimità e sui servizi di natura economica e provare a ridurre il numero dei centri commerciali, incrementando i consumi di prossimità. Il tutto anche con strumenti urbanistici.” Sulle questioni energetiche come agirete? “Stiamo valutando l’autoproduzione di elettricità per esempio, attraverso la quale si può affrontare la povertà energetica e ci stiamo chiedendo se l’autosufficienza energetica può essere un elemento per combatterla, verificando se ci sono tecnologie che possano andare a sostenere il lavoro che c’è da fare a livello sociale. Perché le tecnologie devono rispondere a domande sociali, non viceversa. Su questo fronte, però, bisogna capire cosa può fare la pubblica amministrazione con il proprio patrimonio pubblico e cosa possono fare i privati. Questi due soggetti devono parlarsi e andare di pari passo, con la necessaria distinzione dei ruoli. Io, che sono una pubblica amministrazione, devo capire come nei miei edifici posso generare queste soluzioni che poi possono essere adottate autonomamente dai privati. Poi il pubblico ha anche altri strumenti. Atm, l’Azienda dei Trasporti Milanese, per esempio, ha come piano al 2030 quello di sostituire tutti gli autobus alimentati a gasolio con quelli elettrici, investendo due miliardi di euro. Anche questa è resilienza sia sul fronte delle emissioni, sia su quello dell’adattamento, poiché si diminuisce il calore disperso dai motori endotermici che contribuisce alla formazione delle bolle di calore.” Tutto ciò che mi ha descritto va in contrasto con una cultura politica che vede nella crescita del Pil e dell’edilizia i due indicatori principali del benessere. Non vede delle contraddizioni? “Penso che le città debbano fare delle scelte coraggiose e condivise con i propri cittadini. In questa maniera si possono fare scelte che magari non ripagano in tempi brevi sotto il profilo politico, ma di sicuro su tempi medio lunghi dal punto di vista ambientale e culturale. L’ascolto dei cittadini è una condizione essenziale in questo quadro. Ogni municipio di Milano stanzia un milione di euro l’anno per la partecipazione dei cittadini. Abbiamo un bilancio partecipativo per l’apertura dei Navigli, i canali d’acqua della città: abbiamo fatto sei mesi d’incontri, ci sono consultazioni pubbliche, c’è una piattaforma per la partecipazione e stiamo lavorando su una maggiore accessibilità dei dati da parte dei cittadini. Si tratta di elementi che potranno in futuro scardinare l’equazione aumento del Pil, dell’edilizia, uguale benessere.”
Focus future-proof cities
Il parco giochi della rivoluzione blu Dalle vasche e scivoli abbandonati di una vecchia piscina a polo d’innovazione e sperimentazione per l’economia circolare. Dall’Olanda il caso BlueCity che grazie a imprenditori intraprendenti e flussi di materiali in circolo sta forgiando la Rotterdam del futuro. di Antonella Ilaria Totaro
1. Vedi anche Femke Groothuis, “Aggiornare il sistema fiscale: una strategia circolare”, Materia Rinnovabile n. 21, maggio-giugno 2018.
“Per avere un impatto reale e risolvere i problemi attuali più urgenti, abbiamo bisogno di imprenditori.” È questo il mantra che continuano a ripetere da anni Siemen Cox e Wouter Veer, ideatori e fondatori della Rivoluzione blu iniziata e tuttora in corso a BlueCity, nel cuore di Rotterdam. Se Amsterdam è in costante lotta con problemi di spazio e di affitti, a Rotterdam lo spazio non manca. BlueCity ne è uno degli esempi più evidenti. Metri e metri di spazi riscattati dall’abbandono per arrivare a essere oggi un vero e proprio parco giochi per aziende innovative e perno della trasformazione circolare della seconda città olandese. Si respira aria di sperimentazione costante nei 12.000 metri quadrati dell’ex acqua-park Tropicana, struttura architettonica iconica per la città e sogno di migliaia di bambini e famiglie negli anni ’90, abbandonata e poi ripensata, riprogettata, ricostruita e riaperta parzialmente a fine marzo 2017 come incubatore di aziende e uffici circolari. La riqualificazione, condotta sotto la guida delle aziende olandesi Coup, Superuse Studios e Workspot, è stata fatta usando per il 90% materiali trovati all’interno della stessa Tropicana o provenienti da edifici abbandonati nell’area
circostante. Come le cornici di legno di cedro rosso che sono state riutilizzate e attraverso un lavoro di incastri su due piani oggi separano le postazioni lavorative di BlueCity e, al tempo stesso, permettono di ammirare il panorama sul fiume Mosa. Per il restante 10% della ristrutturazione sono stati scelti materiali riutilizzabili e sostenibili. Questo recupero di materiali è risultato in un risparmio di 60 tonnellate di C02 rispetto alle emissioni prodotte in un tradizionale processo di costruzione realizzato usando materiali nuovi. La rigenerazione però non è costata meno rispetto al costruire un nuovo edificio. La principale ragione? Le tasse… Come illustra Sabine Biesheuvel, cofondatrice e managing director di BlueCity: “È assurdo che un edificio realizzato con il 90% di materiali riciclati sia più costoso rispetto a un edificio fatto con materiali nuovi”. Secondo Biesheuvel è necessario cambiare il sistema fiscale, spostando le tasse dalla manodopera alle materie prime e al consumo.1 Al di là del costo economico e dell’impatto ambientale, la trasformazione è in corso. Dove prima si trovava la discoteca Club Tropicana oggi sorgono uffici e sale conferenze; i laboratori al piano interrato hanno preso il posto degli ex
Policy spogliatoi della piscina, mentre l’Aloha Bar con terrazza sulla Mosa è collocato tra ex vasche e scivoli. Si sta ora lavorando al rinnovamento della “cupola”, la parte più iconica di BlueCity, ma è un processo che richiede tempo e soldi. L’apertura ufficiale al pubblico è programmata per marzo 2019. Le aziende “Servono cervelli, tanto coraggio e un piano divertente e di rottura radicale per sviluppare un mondo in cui i rifiuti diventano preziosi.” Tra vecchi scivoli, piastrelle, sassi e piante decorative, reminiscenze di quello che l’acquapark Tropicana fu, si sono insediate negli ultimi cinque anni tante start-up, oggi sono in tutto 25, che hanno come minimo comune denominatore l’essere impegnate nella Rivoluzione blu teorizzata da Gunter Pauli. Si lavora, quindi, con i materiali a disposizione a livello locale, basandosi sulla collaborazione e non sulla competizione, e generando diversi flussi di entrate, utilizzando gli output di un processo come input per un’altra azienda. Si tratta di un continuo lavoro di
creazione di rete e di connessione di attori locali con l’obiettivo di creare innovazione e lavoro, guardando ai rifiuti come merce e creando capitale sociale senza impoverire l’ambiente. BlueCity accoglie start-up impegnate nel riutilizzo di materiali come Better Future Factory, studio ingegneristico di design focalizzato sulla creazione di progetti (come Perpetual Plastic) e start-up (come Refil) che danno vita a nuovi oggetti da scarti di plastica e imballaggi o a filati riciclati di vari colori per stampanti 3D. Alla base del lavoro di Okkehout, invece, c’è la seconda vita del legno. I pali da ormeggio, che hanno avuto una prima vita nelle acque della Mosa e che periodicamente devono essere sostituiti per ragioni di sicurezza, sono lavorati e trasformati da Okkehout in tavoli e altri oggetti da arredo, spesso modulari. Sono gli stessi tavoli e arredi che si possono utilizzare e ammirare negli spazi e nelle sale di BlueCity, trattati utilizzando la cera d’api dell’azienda apistica presente nella struttura.
BlueCity, www.bluecity.nl Blue economy, www.theblueeconomy.org
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Wouter Veer
Sabine Biesheuvel. Credits: Daphne van Drenth
Fruitleather Rotterdam è, invece, impegnata nel convertire gli scarti della frutta, per esempio la buccia del mango, in materiali similpelle duraturi e resistenti utilizzabili nella moda o nell’arredamento.
Siemen Cox, Mark Slegers
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Tutte queste start-up, tuttavia, non sarebbero a BlueCity senza Rotterzwam e la creatività del suo fondatore Siemen Cox, il primo a vedere in Tropicana uno spazio a disposizione per la sperimentazione. Dopo aver valutato l’acquacultura e l’agricoltura verticale, Cox ha visto nel seminterrato umido della vecchia piscina il posto ideale per coltivare funghi. Dal 2013, con Mark Slegers, ha dato vita a Rotterzwam, azienda che raccoglie fondi di caffè da bar e ristoranti della città e, partendo da questi, coltiva funghi che vengono poi venduti a ristoranti e panetterie per produrre le bitterballen, tipico snack olandese, al ragù di funghi. La coltivazione e produzione di funghi dai fondi di caffè è accessibile a tutti. Chiunque può acquistare il kit per coltivare a casa il Pleurotus ostreatus, seguendo i semplici tutorial online dell’azienda. Sempre nell’ottica di sfruttare i flussi in uscita da una produzione come risorse, il diossido di carbonio prodotto dai funghi aiuta Spireaux a produrre alghe, mentre vanno a Rotterzwam gli scarti organici dell’Aloha Bar, che a sua volta serve le bitterballen ai funghi ai clienti. Trasformare una vecchia piscina in un centro di sperimentazione e innovazione non è stato – e non è – facile. Nel 2013 la polizia ha fatto irruzione in Tropicana, nei locali di Rotterzwam, pensando coltivassero funghi illegali e dovendo, invece, prendere atto che i funghi prodotti fossero edibili e legali. A maggio 2017 un incendio è scoppiato nei locali sotterranei di BlueCity causando gravi perdite di materiali e attrezzature. All’incendio è seguita, però, una campagna di crowdfunding che ha raccolto in due mesi 22.000 euro da parte di 470 finanziatori, oltre alla donazione di frigoriferi, telefoni e altre attrezzature.
Numerose sono le start-up e le aziende che lavorano nella produzione e valorizzazione del cibo. Come Spireaux, che produce l’alga spirulina come proteina alimentare o UglyFoodRescuers Club impegnata a ridurre lo spreco di cibo e servire il cibo recuperato durante gli eventi ospitati a BlueCity e all’Aloha Bar. Vet&Lazy è il birrificio situato nel seminterrato di BlueCity che riutilizza spezie di altre lavorazioni (per esempio chicchi di caffè dell’Aloha Bar) e mette in circolo i propri output, come il malto d’orzo usato che diventa ingrediente per la produzione di granola e l’acqua di raffreddamento che è conservata e riutilizzata in altri processi all’interno di BlueCity.
Nella nascita di BlueCity, inoltre, non è da sottovalutare il ruolo pubblico e la volontà di supportare soluzioni originali e dirompenti. Lo stesso comune di Rotterdam ha capito nel tempo il valore e l’impatto del progetto BlueCity, mostrando flessibilità sulle innovazioni e le sperimentazioni introdotte in un edificio che sulle carte era una piscina. Gemeente Rotterdam è stato un attore importante al momento nel passaggio di proprietà della piscina. Tropicana, infatti, costruita nel 1988 e chiusa al pubblico nel 2010, voleva essere trasformata da altri acquirenti in albergo, ristorante o campi da tennis. Dopo mesi di incontri con istituzioni, possibili partner e fondi, nell’ottobre 2015 Tropicana ha iniziato ufficialmente la transizione verso BlueCity. Nel corso di un’asta pubblica (Roger Lips, il proprietario precedente, aveva dichiarato fallimento) la vecchia piscina è stata acquistata per un milione e 700.000 euro dalla fondazione iFund, con a capo Wouter Veer,
Policy impact investor e centrale attore finanziario nell’operazione. Il Lab del futuro In questa città circolare modello in cui gli imprenditori connettono i propri flussi in uscita e trasformando i rifiuti in una materia prima preziosa, un ruolo importante è ricoperto dal BlueCityLab dove si sperimentano e si sviluppano i materiali. Essendo tutto partito dai funghi, BlueCityLab sta inevitabilmente sperimentando con il micelio per sviluppare materiali per imballaggi sull’esempio dell’americana Ecovative.
Il Lab si trova nei vecchi spogliatoi della piscina e consiste in un laboratorio umido e in uno asciutto. Grazie a questa particolare combinazione, unica nei Paesi Bassi, i materiali possono crescere nel laboratorio umido ed essere poi trasformati nel prodotto finale nel laboratorio asciutto. Così nel Lab si può sviluppare e produrre materiale da imballaggio dai miceli dei funghi o pelle di kombucha (materiale fermentato fatto da batteri e lieviti) colorata con inchiostro prodotto dai batteri. In quanto incubatore di start-up e laboratorio, BlueCity è animato da corsi di formazione, programmi di accelerazione, challenge rivolte al pubblico di giovani e innovatori ed eventi come la Living University, incontro annuale dei pionieri dell’economia blu, tenutosi qui lo scorso ottobre. Per conoscere il futuro, insomma, vale la pena fare un salto a BlueCity, il laboratorio che sempre di più sta trasformando Rotterdam, la Manhattan sulla Mosa, la New York d’Europa, la città di Erasmo, ma soprattutto, il più grande porto europeo, minacciata dall’innalzamento delle acque (si trova a sei metri sotto il livello del mare), in un terreno di sperimentazione e innovazione pronta a diventare una città resiliente e a prova di futuro.
Rotterzwam, www.rotterzwam.nl Ecovative, www.ecovative design.com The Living University, www.livinguniversity.com
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In Depth
Perché le città devono diventare circolari
La popolazione urbana è in costante crescita: se nel 1950 soltanto 700 milioni di persone vivevano nelle città in tutto il mondo, oggi nelle aree urbane vivono circa 4,2 miliardi di persone (il 55% della popolazione mondiale), rispetto ai 3,4 miliardi che risiedono ancora in campagna o nei piccoli centri. E il trend non sembra volersi fermare. Si prevede
infatti che nel 2050 le città raccoglieranno ben 6,4 miliardi di persone. In testa per numero di abitanti le metropoli asiatiche e del sud America. Per sostenere questa urbanizzazione crescente e pressante è fondamentale ripensare le città, le forme di produzione, le modalità di consumo, i flussi di materiali, la mobilità degli abitanti e molto altro.
infografica di Michela Lazzaroni, testi di Antonella Ilaria Totaro
2,3 1,3
1,0
0,7 1950
1,7
1960
1970
1980
1990
POPOLAZIONE URBANA Miliardi di persone che vivono nelle città nel mondo (1950 - previsioni 2050) 80 ANNI DI CRESCITA
Abitanti: 40.000.000
Le trenta maggiori città più popolose del mondo nel 2018 (n . = posizione nella top 30):
30.000.000 20.000.000
abitanti nel 1950
10.000.000
abitanti nel 2018
1.000.000
previsioni per il 2030
n . CITTÀ
1 . TOKYO
Paese
3 . SHANGHAI Cina
10 . DHAKA Bangladesh
17 . GUANGZHOU Cina
25 . JAKARTA Indonesia
4 . BEIJING Cina
11 . KARACHI Pakistan
18 . MANILA
5 . MUMBAI
6 . SAN PAULO
India
7 . CITTÀ DEL MESSICO
Brasile
12 . BUENOS AIRES Argentina
9 . IL CAIRO
15 . ISTANBUL
16 . CHONGQING
Giappone
Messico
13 . KOLKATA India
14 . LAGOS Nigeria
20 . MOSCA
21 . TIANJIN
22 . BANGALORE
26 . CHENNAI
27 . LONDRA
28 . LIMA
29 . BOGOTÀ
30 . JOHANNESBURG
India
Regno Unito
Perù
Cina
Colombia
India
Sudafrica
Egitto
Turchia
19 . RIO DE JANEIRO
Russia
India
8 . OSAKA
Filippine
Brasile
2 . DELHI
Giappone
23 . PARIGI Francia
Cina
24 . SHENZHEN Cina
Fonte: worldpopulationreview.com
In Depth
e
ri l futuro
Pr
vis
6,4 5,7
ioni pe
5,0 4,2
3,5 2,9
2000
2010
2020
2030
2040
2050
Fonte: UN, Department of Economic & Social Affairs, Population Division.
DEVIAZIONE CLIMATICA Una città raggiunge la “deviazione climatica” quando si prevede che la temperatura media del suo anno più freddo da quel momento in poi sarà più alta della temperatura media del suo anno più caldo tra il 1960 e il 2005
Helsinki
Oslo Vancouver San Jose San Diego
Toronto Chicago Austin Houston
Honolulu
Mosca Minsk Budapest Istambul
Berlino
Dublino Parigi
Roma
Madrid
Philadelphia
Rabat
Orlando Port-au-Prince Santo Domingo
Santiago
Rio de Janeiro Buenos Aires
Kuala Lumpur
Nairobi Dar es Salaam
Jakarta
Antananarivo Johannesburg Durban
Perth
Brisbane Sydney
Città del Capo
Previsione degli anni in cui avverrà la “deviazione climatica” Fonte: Mora C, et al. “The projected timing of climate departure from recent variability”. Nature, vol 7470, pp 183-187. 2013. Rosenzweig C et al. “ARC3.2 Summary for City Leaders”. 2nd ed. New York. Urban Climate Change Research Network, Columbia University. 2015. Underfunded, Underprepared, Underwater? Cities at Risk. 2015.
Manila
Bangalore Chennai
Abuja
Luanda
Lima
Tokyo
Shanghai Taipei
Dhaka
Amman
Quito
Seoul
Lahore
Karachi
Conakry
La Paz
Beijing Baku
2023 - 2033 2033 - 2043 2043 - 2053 2053 - 2063 Dopo il 2063
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Dossier
IRLANDA Dublino punta sulla bioeconomia come leva per realizzare una crescita economica sostenibile. Il che permetterà di decarbonizzare l’economia, creare occupazione – in particolare nelle aree rurali – e accrescere la competitività del paese. E in questo scenario ricerca e innovazione ricoprono un ruolo fondamentale.
Policy
L’Irlanda è sempre più verde con la bioeconomia di Mario Bonaccorso
Arcaion_Pixabay_CC0
Mario Bonaccorso è giornalista, fondatore del blog Il Bioeconomista.
Sviluppare nuovi prodotti a base biologica, favorire l’accesso ai finanziamenti europei e agli investimenti privati, promuovere maggiore coerenza tra i settori interessati: queste le direttrici di azione del governo di Dublino. Il verde è il colore dell’Irlanda. Motivi storici, culturali, geografici e persino religiosi sono alla base di questo binomio che sembra indissolubile. E il verde oggi esprime anche pienamente la vocazione ambientalista del paese, che ha posto la bioeconomia e la sostenibilità ambientale in generale al centro della propria strategia di sviluppo nazionale fino al 2040. Non esiste ancora in Irlanda una strategia focalizzata sulla bioeconomia, ma il governo ha presentato lo scorso febbraio una “Dichiarazione di politica nazionale sulla bioeconomia”, che le si avvicina molto, delineando tre azioni principali da intraprendere nei prossimi anni: la promozione di una coerenza maggiore tra i numerosi settori che compongono la bioeconomia, lo sviluppo di nuovi prodotti a base biologica con la creazione dei relativi mercati, l’accesso ai finanziamenti disponibili a livello di Unione europea e agli investimenti privati. Questa dichiarazione è stata accompagnata dall’iniziativa Progetto Irlanda 2040, che mette sul tavolo 116 miliardi di euro con l’ambizione di guidare lo sviluppo dell’Irlanda per i prossimi ventidue anni. L’azione contro i cambiamenti climatici rappresenta uno dei punti fondamentali del piano, con ben 22 miliardi di euro – circa un quinto del totale – che saranno destinati agli investimenti in quest’area, in settori chiave come i trasporti, l’energia e l’edilizia.
L’azione contro i cambiamenti climatici Nello specifico, Irlanda 2040 istituisce un fondo da 500 milioni di euro per agire contro i cambiamenti climatici, introduce il divieto di vendere autovetture alimentate con fonti fossili dopo il 2030 puntando a non averne più in strada dopo il 2045, fissa l’obiettivo di ridurre le emissioni di carbonio dalla generazione elettrica con 4.500 megawatt addizionali di energia da fonti rinnovabili entro il 2030 e con nuovi investimenti per l’isolamento termico e il retrofit di scuole, edifici pubblici e 45.000 abitazioni all’anno, a partire dal 2021. “Il riconoscimento del cambiamento climatico come una seria questione globale e locale sta vedendo l’emergere di un nuovo modello economico incentrato su due pilastri principali: crescita a basse emissioni di carbonio ed efficienza delle risorse”, scrive il primo ministro (Taoiseach) Leo Varadkar nella prefazione della Dichiarazione di politica nazionale sulla bioeconomia.” L’Irlanda deve andare oltre il semplice obiettivo di conformità e attenzione alla mitigazione del carbonio, per integrare lo sviluppo economico sostenibile nel nostro modello economico mentre passiamo a un’economia a basse emissioni di carbonio. Basarsi meno sulle risorse fossili e aumentare il nostro uso di materiali biologici rinnovabili è un modo significativo per realizzare questo cambiamento,
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materiarinnovabile 22. 2018 e questo è un settore in cui l’Irlanda gode di importanti vantaggi comparativi”. La visione irlandese oltre la Brexit Il piano irlandese punta in alto: fare dell’Irlanda un leader globale nella bioeconomia attraverso un approccio coordinato capace di sfruttare pienamente le risorse naturali del paese, rispettando quattro principi guida. Il primo si riferisce alla sostenibilità, per cui l’attività economica non deve avere conseguenza sulla resilienza e sulla biodiversità dell’ecosistema. Il secondo prevede l’uso a cascata della biomassa, preferendo le applicazioni con maggior valore aggiunto rispetto all’uso energetico. Il terzo riguarda la precauzione e mette al centro la salvaguardia dell’ambiente e della popolazione. Il quarto, infine, dà la priorità alla sicurezza alimentare e alla nutrizione e vuole quindi evitare qualsiasi conflitto con l’offerta di cibo.
Bioéire, www.teagasc.ie/ publications/2017/bioeireresults-launch.php
Dublino crede fortemente nella bioeconomia come leva per realizzare una crescita economica sostenibile, a partire dalle aree rurali e costiere. Ciò significherà – secondo il governo guidato da Varadkar – decarbonizzare l’economia e soprattutto creare occupazione e accrescere la competitività del paese. È un tema centrale per l’Irlanda che teme le conseguenze della Brexit sulla propria economia. Secondo uno studio pubblicato a febbraio da Copenhagen Economics, una delle principali società di consulenza economica nordeuropea, gli effetti della Brexit sull’economia irlandese potrebbero incidere con una contrazione tra il 2,8% e il 7% del Pil entro il 2030. Il quadro macroeconomico fotografa un export dall’Irlanda al Regno Unito che oggi vale il 13,5% del Pil (il Regno Unito è il secondo paese dopo gli Stati Uniti). L’approccio “Ireland first” che ha detto di seguire l’Unione europea nei negoziati con Londra potrebbe non bastare a rasserenare Dublino. Del resto il paese che in un passato neppure molto lontano è stato definito la “Tigre celtica”, per poi essere costretto a inizio decennio a chiedere aiuti internazionali per 67,5 miliardi, entrando in un piano di salvataggio triennale costato una dolorosa austerity e povertà crescente, è riuscito a risollevare la propria economia proprio grazie alle esportazioni verso Stati Uniti e Regno Unito. Le previsioni della Banca centrale d’Irlanda danno un Pil in crescita del 4,4% nel 2018. L’istituto guidato da Philip Lane prevede anche che nei prossimi due anni saranno creati 89 mila nuovi posti di lavoro, con un incremento annuo del 2,2% e dell’1,8%, per raggiungere un livello di occupazione di 2,3 milioni, superiore al picco raggiunto nel 2007, alla vigilia della crisi. Ma nel 2007 un impiego su nove in Irlanda era nel settore delle costruzioni, imploso con lo scoppio della bolla immobiliare. Oggi invece – e la Banca centrale lo sottolinea – il quadro è cambiato e nel 2019 si prevede che solo un lavoratore su 16 sia impiegato direttamente nell’edilizia. La bioeconomia può essere una via per stabilizzare
questo quadro economico positivo, rendendolo anche meno dipendente dalla presenza delle multinazionali sul territorio irlandese. È la convinzione dei relatori del documento “BioÉire – A Bioeconomy for Ireland” pubblicato nel febbraio del 2017, un progetto propedeutico alla Dichiarazione di politica nazionale e supportato dal Dipartimento dell’Agricoltura, dell’Alimentazione e della Marina del governo irlandese: “Sebbene molto del boom della ‘Tigre celtica’ fosse collegato alle costruzioni e che molti posti di lavoro persi per la recessione fossero in questo settore, l’attuale periodo di ripresa offre un’opportunità per trovare vie sicure e sostenibili per ristabilire l’economia irlandese nel suo complesso. Un primo esempio di come questo potrebbe essere realizzato è incrementando l’uso di materiale organico locale, ottenendo maggior valore dai sottoprodotti e dagli scarti degli attuali processi produttivi, ed esplorando e sviluppando nuovi prodotti e opportunità di processo da risorse sottoutilizzate”. Il ruolo dell’agroalimentare Il settore agricolo e alimentare irlandese, inclusi quelli della pesca e forestale, oggi impiega l’8% della forza lavoro ed è responsabile del 7,6% del valore aggiunto lordo totale, con un export che supera i 10 miliardi di euro ogni anno. Un aspetto importante di questa occupazione – come sottolinea il progetto BioÉire – è la sua natura decentrata: mentre gran parte dell’attività di trasformazione alimentare avviene nei centri urbani, l’agricoltura, la pesca e la silvicoltura si verificano prevalentemente nelle aree rurali, che rappresentano una priorità per lo sviluppo nell’ambito della strategia sulla bioeconomia dell’Unione europea. Pur non esistendo ancora una strategia specifica che consideri l’agroalimentare come un sub-settore della bioeconomia nel suo insieme, in Irlanda sono stati messi in campo negli ultimi anni una serie di piani per aumentare l’output del settore agricolo e dell’industria alimentare. Tra questi: Food Harvest 2020 e Food Wise 2025. Quest’ultimo, pubblicato nel luglio 2015, identifica una serie di obiettivi ambiziosi e sfidanti per il settore agroalimentare irlandese: la crescita delle esportazioni dell’85% fino a 19 miliardi di euro, l’incremento del valore aggiunto del 70% fino a 13 miliardi, aumento del 60% della produzione primaria a 10 miliardi e la creazione di 23.000 nuovi posti di lavoro lungo l’intera catena di valore, dal livello della produzione fino alla commercializzazione del prodotto. Per raggiungere questi scopi, Food Wise 2025 identifica oltre 400 raccomandazioni di crescita sostenibile con un approccio concertato tra settori primario, industria e istituzioni statali. Il settore forestale Alla fine del 2015, le foreste coprivano il 10,7% del territorio complessivo dell’Irlanda, con una produzione di 3,2 milioni di metri cubi di legno
Policy ogni anno, che si prevede possa crescere fino a 8 milioni entro il 2035. L’intero settore forestale contribuisce per 2,3 miliardi di euro all’economia irlandese, con 12.000 posti di lavoro. Si comprende quindi come non possa esistere un piano sulla bioeconomia che non consideri il ruolo strategico svolto dal settore forestale. “Growing the Irish Forest Bioeconomy” è il titolo di un rapporto reso pubblico a fine 2017 da Coford, il Consiglio per la ricerca forestale e lo sviluppo, che analizza proprio questo contributo del settore forestale all’emergente bioeconomia irlandese. “Non c’è dubbio – ha detto il ministro dell’Alimentazione, delle Foreste e dell’Orticoltura Andrew Doyle – che il settore forestale abbia già un ruolo di primo piano nella bioeconomia emergente. Tuttavia, esiste un potenziale molto significativo per farlo progredire attraverso l’uso di nuovi prodotti in legno e sistemi di costruzione, nonché il crescente impiego della fibra di legno su una gamma di prodotti innovativi identificata dal rapporto. Pertanto accolgo con favore questo rapporto, sottolineando l’importanza del settore forestale nella decarbonizzazione della nostra economia, ora e nel futuro”.
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Tra i prodotti a maggior valore aggiunto sviluppati è previsto che ci siano ingredienti per alimenti e mangimi, prodotti farmaceutici, prodotti chimici naturali e plastiche biodegradabili. Per restare al campo marittimo, a Monaghan la società biotech BioMarineIngredients ha costruito la prima bioraffineria su scala pilota in Irlanda. Inoltre, un parco per l’innovazione marina, Páirc Na Mara, è stato fondato in Connemara per guidare la crescita sostenibile dell’economia marina a livello locale. E non è tutto: il governo irlandese ha fornito attraverso Science Foundation Ireland un finanziamento di 14,2 milioni di euro per un centro di ricerca sulla bioeconomia (Beacon) che esplorerà come convertire le risorse marine e gli scarti della produzione alimentare in prodotti di valore più elevato. Il Beacon Bioeconomy Research Centre ha il proprio quartier generale alla University College Dublin, ma è il frutto di una collaborazione di ricerca tra la stessa università, il Trinity College di Dublino, le Università di Limerick e di Galway (NUI), l’Agenzia per lo sviluppo agricolo e alimentare (Teagasc) e il mondo industriale.
Coford, www.coford.ie Beacon, www.beaconcentre.ie
Secondo il rapporto pubblicato da Coford, praticamente tutto ciò che può essere fatto con le risorse fossili può anche essere fatto con quelle biologiche. La sostituzione dell’impiego delle fonti fossili con il legname prodotto in modo sostenibile potrà facilitare la decarbonizzazione e la continua crescita economica, migliorando la resilienza del territorio e sviluppando le economie rurali.
In questo scenario di politiche che vogliono realizzare la decarbonizzazione del paese e la crescita della bioeconomia, il governo irlandese ha attribuito alla ricerca un compito fondamentale. Lo stesso documento di politica nazionale sulla bioeconomia ricorda come negli ultimi anni siano stati creati in Irlanda diversi centri di ricerca focalizzati sulla bioeconomia, supportati finanziariamente. Uno di questi è l’Irish Bioeconomy Foundation, che ha sede nel campus National Bioeconomy di Lisheen, nella contea di Tipperary. Si tratta di un sito minerario convertito su una superficie di 455 ettari che vanta un’infrastruttura da 80 milioni di euro. Alla fine dello scorso anno, l’IBF ha ottenuto un finanziamento di 4,6 milioni di euro da parte del Fondo di sviluppo rurale di Enterprise Ireland per costruire un impianto pilota nazionale per l’innovazione e lo scale-up industriale. Questo impianto, che dovrebbe essere completato nel primo trimestre del 2019, punta a diventare un punto di riferimento per l’ecosistema irlandese della bioeconomia, facendo da catalizzatore per lo sviluppo delle tecnologie provenienti dall’industria e dal mondo accademico e consentendo la valorizzazione di flussi e residui secondari provenienti dal settore agroalimentare e marittimo.
Oxalis acetosella, Otto Wilhelm Thomé, “Flora von Deutschland Österreich und der Schweiz”, 1885/WikimediaCommons
La ricerca
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materiarinnovabile 22. 2018 Intervista
di M. B.
Agricoltura, cibo e mare gli elementi fondamentali della nostra bioeconomia Maeve Henchion, direttrice del Dipartimento Business Agroalimentare e Analisi Spaziale del Teagasc
Il Teagasc – l’Autorità Irlandese per lo Sviluppo Agroalimentare – è l’ente nazionale responsabile della ricerca integrata, come pure dei servizi di consulenza e istruzione, per l’agricoltura e l’industria alimentare e le comunità rurali. Gli interessi di Maeve Henchion nella ricerca coprono l’intera catena di rifornimento e solitamente agiscono come interfaccia tra l’ambito sociale e quello tecnico. Includono l’innovazione alimentare, la produzione e il consumo di cibo sostenibili, l’accettazione da parte di consumatori e industria di nuove tecnologie alimentari, la qualità del cibo e il marketing strategico in campo alimentare. Dal suo punto di vista, quali sono i punti forti e quelli deboli della bioeconomia in Irlanda? “L’Irlanda ha molti vantaggi naturali tra cui un suolo sano e produttivo, un clima ideale per la produzione di foraggio (e un solido settore agroalimentare che si basa su questo), un ambizioso settore forestale e un’estesa linea costiera che la mette in una posizione ottimale per lo sviluppo di catene di valore basate sulle biomasse marine, in aggiunta a quelle terrestri. L’Irlanda possiede anche un sistema di finanziamento coordinato della ricerca e dell’innovazione e un consistente gruppo di organizzazioni che fanno ricerca, studiosi e aziende attivamente coinvolti nell’innovazione. Una politica nazionale di supporto rappresenta un altro punto di forza sul quale si costruirà il futuro della bioeconomia irlandese.” Quali sono i principali attori della bioeconomia nel suo paese? “L’Irlanda ha sviluppato un ambiente per la bioeconomia che include decisori politici, business, investitori, ricercatori, consumatori e comunità locali. A livello politico, la leadership del Department of the Taoiseach (l’Ufficio del Primo Ministro), oltre a coinvolgere tutti i ministeri del governo tramite il Gruppo interdipartimentale, mette i decisori politici in una posizione chiave. In aggiunta, alcune delle grandi aziende agroalimentari, tra le quali le aziende casearie (per esempio AgriChemWhey), quelle produttrici di funghi (come Fungus Chain) e aziende bio-marine (BioMarine Ingredients), sono attivamente coinvolte in progetti legati alla bioeconomia. Per quanto riguarda la ricerca, una parte considerevole dei fondi nazionali per la ricerca è stata destinata alla bioeconomia da Science Foundation Ireland e dall’industria attraverso il BEACON Bioeconomy Research Centre, che pur avendo il suo quartier generale all’University College Dublin è in realtà una partnership tra University College Dublin, Teagasc, Trinity College Dublin, NUI Galway, University of Limerick e industria. BEACON è unico per il modo
in cui combina scienza, tecnologia, scienze sociali e business per affrontare le sfide legate allo sviluppo di una bioeconomia sostenibile. Oltre alle università, anche gli istituti tecnologici sono attivi. Per esempio, l’Ue ha finanziato il progetto Agriforvalor che, in Irlanda, coinvolge IT Tralee e Teagasc (l’Associazione degli Agricoltori Irlandesi e l’Associazione Irlandese per le Foreste e i Prodotti Forestali). Questo progetto è stato avviato per sviluppare centri di progettazione per l’innovazione della bioeconomia in Irlanda e anche in Ungheria e Spagna. Anche le autorità locali sono importanti. Per esempio, il Tipperary County Council è stato determinante nello sviluppo di un Campus nazionale per la bioeconomia che comprende una bioraffineria pilota in una zona rurale dell’Irlanda. La valorizzazione dei rifiuti agricoli e il collegamento tra economia circolare e bioeconomia sono aspetti importanti. Il progetto AgroCycle, diretto dall’Irlanda e finanziato dall’Ue, ha l’obiettivo ambizioso di aumentare del 10% la valorizzazione dei rifiuti agricoli entro il 2020. L’azienda pubblica-privata Coillte che opera nel business forestale, è un importante soggetto del settore e ha collaborato con COFORD (DAFM), Teagasc e con l’industria per produrre un documento strategico per il settore forestale in relazione alla bioeconomia, intitolato ‘Growing the Irish Forest Bioeconomy’. Recentemente è stata anche fondata la Irish Bioeconomy Foundation (IBF) per fornire un forum ai soggetti interessati (tra i quali decisori politici, accademici e rappresentanti dell’industria) perché possano ritrovarsi sotto un unico ombrello della bioeconomia.” Lo scorso febbraio il governo irlandese ha presentato la Dichiarazione sulle politiche nazionali per la bioeconomia. Eppure alcune persone si lamentano ancora per la mancanza di una strategia specifica per la bioeconomia. È un argomento che rientra nell’agenda del governo? Dal suo punto di vista, quali misure dovrebbe contenere il piano per dare un supporto concreto alla bioeconomia? “Non sono ancora sicura che serva una strategia nazionale. La Dichiarazione sulle politiche, provenendo dal Department of the Taoiseach e dall’InterDepartmental Group, ha dato un forte segnale dell’impegno del governo riguardo alla bioeconomia e l’indicazione che varie strategie devono allinearsi a sostegno della dichiarazione. Con l’implementazione della dichiarazione sulle politiche – che coinvolge il già citato Inter-Departmental Group, co-diretto dal Dipartimento dell’Agricoltura, Cibo e Attività Marittime, e dal Dipartimento delle Comunicazioni, Azione Climatica e Ambiente – la visione è chiara e sono state
Policy delineate le prossime priorità assolute per l’Irlanda e le strutture di supporto necessarie. I prossimi passi per l’implementazione della bioeconomia irlandese, definiti indispensabili da tutti i soggetti coinvolti, comprendono: la creazione di network adeguati; la concentrazione sulla ricerca e sulla sua traduzione in innovazione per ampliare e intensificare le opportunità commerciali; l’analisi di processi regolatori intelligenti; e una maggiore comunicazione ai soggetti coinvolti nella bioeconomia. Dopo questo processo sarà più chiaro se sia necessaria una strategia nazionale che crei un contesto globale per le strategie correlate esistenti, per esempio FoodWise 2020, e di questo si discuterà con tutti i soggetti interessati. Lo sviluppo di modelli di business per assicurare che i principali produttori non siano solo fornitori di biomasse a basso costo rappresenterà un’importante ambito che richiede supporto. Inoltre, sarà anche importante assicurarsi che i consumatori e i cittadini siano consapevoli e comprendano la bioeconomia e i prodotti di origine biologica. Questi elementi saranno cruciali per creare una bioeconomia sostenibile.” Project Ireland 2040 è l’iniziativa politica globale del governo per rendere l’Irlanda un paese migliore. In che modo questo piano è collegato alla bioeconomia? “Project 2040 e il processo strutturale di pianificazione nazionale evidenziano le opportunità generate dalla bioeconomia circolare. Le tre aree regionali esamineranno ulteriormente le opportunità offerte negli anni a venire dalla bioeconomia, per sviluppare approcci più focalizzati a livello regionale. A sua volta il governo creerà opportunità di finanziamento attraverso il piano di sviluppo nazionale, che si focalizzerà sul presentare l’economia circolare e lo sviluppo economico sostenibile in termini di cambiamenti climatici. La pubblicazione della dichiarazione sulle politiche nazionali per la bioeconomia evidenzia che le opportunità della bioeconomia sono tenute in grande considerazione. In particolare, riguardo al suo potenziale contributo per il raggiungimento degli obiettivi politici della de-carbonizzazione, della mitigazione dei cambiamenti climatici, dello sviluppo economico sostenibile, dell’occupazione, della crescita e dello sviluppo di aree regionali e rurali. La bioeconomia irlandese creerà notevoli opportunità economiche nelle aree rurali, dove risiede una parte importante dei suoi protagonisti industriali.” Quanto è rilevante il ruolo dell’agricoltura e dell’industria alimentare nella bioeconomia irlandese? Inoltre, quanto è importante il ruolo delle biotecnologie marine? “L’agricoltura, il cibo e il mare sono elementi fondamentali della bioeconomia irlandese. In aggiunta alla produzione principale, la valorizzazione dei prodotti secondari e dei rifiuti agricoli rappresenta un ambito di valore sempre più importante per l’Irlanda. La Dichiarazione nazionale sulle politiche raccomanda specificamente al gruppo preposto all’implementazione di ‘sviluppare le importanti indicazioni della catena di valore principale identificate nel progetto BioÉire creando le condizioni necessarie per la loro realizzabilità commerciale, e la comprensione di come
tali condizioni possano essere soddisfatte’. Le principali catene di valore identificate in BioÉire per lo sviluppo da breve a medio termine sono l’uso di materie prime di seconda generazione per la produzione di sostanze chimiche di origine biologica; i flussi secondari nella lavorazione casearia per prodotti nutritivi per sportivi; i sottoprodotti dell’orticoltura per packaging bio-compostabile; gli scarti marini per cibi salutistici e impieghi alimentari; i rifiuti agricoli e alimentari per la produzione di bioenergia; l’utilizzo di alghe per usi alimentari e sanitari; gli scarti della silvicoltura per la produzione decentralizzata di calore.” Senza la collaborazione della popolazione è veramente difficile de-carbonizzare realmente. Come viene percepita dall’opinione pubblica irlandese la bioeconomia? Ci sono piani per l’istruzione e l’addestramento? “Come succede altrove, l’opinione pubblica irlandese non si relaziona con facilità col termine bioeconomia. È un termine impegnativo persino per i cosiddetti ‘esperti’. I passi per l’implementazione nel prossimo anno cominceranno a far crescere la consapevolezza della popolazione riguardo alla bioeconomia. Il già citato centro BEACON ha come obiettivo principale un programma specifico per l’istruzione e il coinvolgimento della popolazione per rendere partecipi tutti i livelli della società, dalla scuola primaria in su. Il miglioramento della comprensione dei consumatori della bioeconomia e dei termini associati, della consapevolezza e della loro potenziale predisposizione verso i prodotti bio-based, e lo sviluppo di un lessico che aiuti a comunicare il concetto saranno punti fondamentali del lavoro che sto svolgendo al BEACON. Infatti attualmente in quest’ambito offriamo l’opportunità di un dottorato di ricerca di quattro anni totalmente finanziato. Attraverso lo sviluppo di un ‘hub della conoscenza’, BEACON sta integrando il punto di vista di consumatori, business, investitori, ricercatori, autorità di controllo, decisori politici e comunità locali per migliorare nei cittadini la comprensione della bioeconomia, del suo valore e delle opportunità che offre.” Lisheen è il primo cluster irlandese dedicato alla bioeconomia. Qual è il suo ruolo nel supporto alla bioeconomia? È possibile replicarlo in altre aree del paese? “Nel 2017, Enterprise Ireland (EI) ha annunciato il finanziamento, mediante il fondo regionale EI per lo sviluppo dell’azienda, di una bioraffineria pilota da ubicare a Lisheen Mines, nella contea di Tipperary. Il Tipperary County Council sta sviluppando un Campus Nazionale della Bioeconomia a Lisheen Mines. Il Tipperary County Council sta anche per ricevere la nomina di Regione Dimostratrice del Modello Chimico, grazie a un premio creato dalla Commissione Europea, ed è attualmente al centro di una consultazione finanziata per contribuire allo sviluppo del progetto Lisheen. Vedanta, l’azienda che opera attualmente a Lisheen Mines, sta intrattenendo un rapporto di lavoro con il Prof. Kevin O’Connor nell’UCD (la Direzione di BEACON) e sta collaborando strettamente con il Tipperary County Council per migliorare le attività imprenditoriali svolte nel sito e trovarne di nuove.”
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La Slovenia si propone come circular hub per l’Europa Con Circular Change la giovane nazione ha lanciato la propria tabella di marcia verso l’economia circolare. Con l’obiettivo di diventare un punto di riferimento e un hub sperimentale per tutta Europa. di Rudi Bressa
Circular Change, www.circularchange.com 1. ec.europa.eu/ commission/sites/betapolitical/files/circulareconomy-factsheetgeneral_en.pdf
Rudi Bressa, giornalista freelance e naturalista, scrive di ambiente, scienza, energie rinnovabili ed economia circolare per varie testate nazionali.
In alto: La transizione verso un’economia circolare è un processo complesso e a lungo termine. Per comprendere meglio questo processo, la roadmap utilizza il principio chiamato “triangolo circolare”.
Una transizione circolare. È questa la sfida lanciata dalla Slovenia in occasione della 3° Circular Challenge Conference tenutasi il 10 e 11 maggio 2018 a Kostanjevica na Kriki e Maribor, e sottoscritta da Circular Change, organizzazione senza scopo di lucro nata con l’obiettivo di creare una rete di competenze e trainare l’intera nazione attraverso una transizione economica, sociale e ambientale. Un vero cambio di paradigma, che potrebbe portare la piccola nazione europea a diventare un laboratorio permanente di buone pratiche, di scambi internazionali, di dibattito pubblico e politico. Nella prima roadmap slovena per la circular economy si percepisce tutto il fermento e l’ispirazione tipica di una giovane nazione, aperta all’innovazione e capace di cogliere al volo le opportunità di un nuovo modello economico, figlio anche del recente Pacchetto europeo sull’economia circolare approvato ad aprile. Un’apertura, quindi, verso un nuovo modello di produzione e di consumo, che porterebbe a risparmiare a livello europeo almeno 600 miliardi di euro entro il 2030 e a creare 170.000 nuovi posti di lavoro entro il 2035.1 “Ho fondato Circular Change tre anni fa, quando mi sono resa conto che il tema dell’economia circolare era un treno che non potevamo perdere”, racconta Ladeja Godina Košir, fondatrice e direttrice di Circular Change. “Venendo dal mondo dell’industria e dell’innovazione è stata una scelta logica, perché da sempre sono stata interessata alla sostenibilità. E questo modello finalmente dà l’opportunità di collegare i vari settori industriali e non del nostro paese e creare finalmente qualcosa di nuovo”. Un entusiasmo contagioso il suo: “Inizialmente è nata come
una piattaforma per fare rete tra varie realtà, e creare consapevolezza a riguardo. Il passaggio successivo è stato quello di creare un board internazionale che è tuttora in evoluzione. L’obiettivo è quello di creare una società inclusiva, creativa e capace di divertirsi”. Agricoltura sostenibile e moda circolare Produrre cibo in modo efficiente e sostenibile, lungo tutta la filiera, sarà la sfida di questo secolo. E un paese a forte vocazione agricola come la Slovenia sta già lavorando in tal senso: ne è un esempio il progetto Paradajz d.o.o., che produce i pomodori Lust a basso impatto ambientale. L’azienda ha sviluppato un metodo di coltivazione delle Solanacee considerato tra i più innovativi al mondo: le piccole piantine, selezionate da semi locali, vengono fatte crescere su un substrato di torba e fibra di cocco, utilizzando l’acqua piovana per l’irrigazione, la geotermia per riscaldare le serre e la lotta integrata per la protezione dai parassiti. Ne nasce un pomodoro di alta qualità, venduto in tutto il paese. Da Lubiana, invece arriva una stilista di alta moda classificatasi nel 2017 tra i finalisti della Green Carpet Talent Competition a Milano, e che ha fatto della moda circolare e sostenibile il suo marchio di fabbrica: Matea Benedetti. Un’intera linea di abbigliamento realizzata con materiali di riciclo o biobased abiti in pelle prodotta dalle foglie d’ananas o cuciti con le fibre ottenute dal riciclo delle bottiglie in Pet. Non solo, la lana e il cotone impiegati sono di origine esclusivamente biologica. “La Slovenia è una piccola nazione – siamo circa due milioni di abitanti – ma può rappresentare il perfetto campo per sperimentare questo modello”, racconta Ladeja Godina Košir. “La nostra ambizione è quella di diventare un hub per l’economia circolare. Collaboriamo attivamente con il governo che ci sta supportando e stiamo lavorando per mettere in pratica la roadmap.”
World Spazio alla bioeconomia Oggi la Slovenia importa il 71% delle materie prime, mentre è coperta per il 60% da boschi: da un lato è il quarto paese europeo per copertura forestale, dall’altro deve affrontare una continua dipendenza dalle importazioni. La chiave di volta? Puntare sulla bioeconomia: il legno, abbondantemente sottoutilizzato, è una risorsa circolare per natura, e ha tutte le carte in regola per diventare materia prima d’elezione ed essere Sotto: La tavola rotonda “Circular Europe – What is next”.
usato in edilizia, nel comparto energetico e in quello industriale propriamente detto. Per questo è nato il consorzio Celcycle, coordinato dal Pulp and Paper Institute di Lubiana, con l’obiettivo di sviluppare un modello di economia circolare basato sulla biomassa come risorsa rinnovabile. Oltre venti partner collaborano attivamente in tutti i settori, da quello della carta alla chimica, dalle costruzioni all’automotive, per fare della bioeconomia il fiore all’occhiello della Slovenia.
A destra: Ladeja Godina Košir, fondatrice e direttrice di Circular Change.
Sopra: La presentazione della Circular Economy Roadmap a Maribor.
L’opinione di Anders Wijkman Secondo Anders Wijkman, co-presidente del Club di Roma e presidente del Climate-Kic, presente alla tavola rotonda “Circular Europe – What is next”, l’Europa avrà bisogno di normative ed incentivi per sviluppare un modello industriale capace di valorizzare le materie prime seconde. E passare così dal modello lineare a quello circolare. Anders Wijkman, Co-Presidente del Club di Roma e presidente di Climate-Kic.
www.clubofrome.org www.climate-kic.org
Il nostro modello economico è basato sull’idea di una crescita infinita, con risorse infinite. Crede che l’economia circolare possa avere un ruolo nel cambiamento di questo paradigma? “Ancora oggi viviamo come non ci fosse un domani o come se il pianeta avesse risorse infinite. E non è così. Una situazione descritta nel concetto di ‘economia in un mondo pieno’: abbiamo ancora lo stesso modello economico di quando eravamo 1-2 miliardi di persone, mentre oggi siamo quasi 8 miliardi. Per questo dobbiamo ripensare a come gestiamo le nostre risorse, sia in termini di domanda, che di inquinamento. L’idea di un’economia circolare è certamente un approccio semplice e di buon senso, ma avrà bisogno di molti sforzi perché venga attuata. Questo perché ad esempio la maggior parte degli investimenti vengono fatti nel modello lineare, e questo continuerà finché avranno profitto. La Commissione europea ha preso qualche iniziativa, ma è ancora
troppo poco perché ciò accada. Il sistema non cambierà da solo.” Certo di esempi positivi già ne esistono. Ma non manca ancora un mercato capace di intercettare le materie prime seconde e quelle di recupero? “Oggi esistono ancora problemi di qualità, causati da una progettazione sbagliata. Finché non pagheremo di più per usare le risorse naturali, tutto questo continuerà. Abbiamo bisogno di un cambiamento radicale, ad esempio pagando di più le risorse naturali. Le aziende ancora oggi pagano troppo poco per le materie prime, che rimangono a buon mercato, mentre le materie prime seconde non trovano sbocchi. Dobbiamo pensare ad un nuovo sistema di incentivi per questo tipo di mercato.” L’Europa, con il nuovo pacchetto sull’economia circolare, pare voglia puntare a questo risultato. “Qualcosa di buono è stato fatto, ma non è ancora sufficiente. Ancora non si parla di nuovi standard, di nuovi criteri per la progettazione, di incentivi. L’Europa è grande abbastanza e ha grandi gruppi industriali che lavorano a livello internazionale. Nonostante sia complicato in un mercato globalizzato, l’Europa è abbastanza grande per imporre nuovi standard.”
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materiarinnovabile 22. 2018
Bandiera delle Nazioni Unite. Credit Sanjitbakshi
Agenzie di sviluppo nell’economia circolare Attività di consulenza, campagne di sensibilizzazione, trasferimento di conoscenze, sviluppo di strategie: così si favorisce la transizione alla circolarità. di Irene Baños Ruiz
Irene Baños Ruiz è una giornalista freelance spagnola che si occupa di temi ambientali. Attualmente vive a Bonn, in Germania, dove collabora regolarmente con Deutsche Welle.
The Cascading Materials Vision, www.worldwildlife. org/projects/cascadingmaterials-extendingthe-life-of-our-naturalresources
In molti paesi industrializzati il riciclo è entrato nella routine quotidiana e il trattamento dei rifiuti non è un grosso problema. Almeno non lo è a prima vista. Questo, però, non succede ovunque nel mondo. In media i paesi più ricchi del mondo consumano una quantità di materiali dieci volte superiore rispetto a quelli più poveri, che a loro volta sono la fonte della maggior parte delle materie prime utilizzate poi nei processi produttivi. Quindi è necessario uno sforzo globale per passare a un’economia circolare e trattare la maggior parte delle risorse in modo sostenibile. Le organizzazioni non governative (Ong) sono state i primi soggetti impegnati nell’accrescere la consapevolezza sociale e ambientale e favorire i cambiamenti nei comportamenti. Greenpeace che organizza campagne per rendere gli smartphone durevoli e riciclabili. Il World Wildlife Fund (Wwf) che crea una piattaforma per l’economia circolare – la Cascading Materials Vision – che mette insieme aziende come Coca-Cola, Nestlé e McDonalds con decisori politici e Ong. Il gruppo Friends of Earth che lavora per aiutare le persone a ridurre i consumi, incrementando al tempo stesso il riuso e il riciclo: in Spagna ha creato un elenco delle attività commerciali per trovare dove riparare, affittare, barattare o comprare prodotti di seconda mano. In questo scenario anche le agenzie di sviluppo e cooperazione hanno un ruolo importante. Promuovono il finanziamento di progetti, danno consulenze alle autorità locali e ai soggetti coinvolti e contribuiscono a migliorare le capacità e la conoscenza tecnica delle comunità. La United
States Agency for International Development (Usaid) e l’agenzia per lo sviluppo tedesca Giz sono dei buoni esempi al riguardo, così come lo sono diverse iniziative per lo sviluppo avviate dal Ministero degli Affari Esteri olandese. Anche il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) rappresenta un’importante tessera del puzzle; ha dichiarato il 2018 “l’anno della sostenibilità nel consumo e nella produzione, un’opportunità per chiudere il ciclo e portare circolarità nei nostri comportamenti relativi agli acquisti e ai consumi”. Trasferimento della conoscenza e finanziamento Con il supporto scientifico dell’International Resource Panel, l’Unep fornisce consulenze – tra gli altri – a politici e uomini d’affari, per creare circolarità in diverse catene di valore e quindi arrivare a uno sviluppo sostenibile. Giz India ha replicato il modello e fondato l’Indian Resource Panel affinché dia consigli al governo e a importanti attori dell’efficienza nell’uso delle risorse e delle materie prime di seconda generazione, a partire dal settore edile e da quello automobilistico. Come agenzia per la collaborazione tecnica, Giz fornisce assistenza e promuove la cooperazione col settore privato per migliorare le competenze a livello locale, il trasferimento di conoscenze, l’aggregazione in network e lo sviluppo di strategie. Giz non è responsabile del finanziamento, che viene solitamente erogato da partner locali o da altri donatori come la banca di sviluppo tedesca KfW. Con un approccio simile, il governo olandese dichiara la sua intenzione di portare la
World
“conoscenza ed esperienza olandese” all’estero, specialmente in quegli “Stati e comunità locali che hanno difficoltà nel far fronte all’impatto sociale e ambientale dell’attuale sistema economico lineare, e nei quali un’economia circolare potrebbe contribuire a un’economia locale sostenibile e alla sicurezza delle scorte di materiali critici”, recita il rapporto ufficiale “Un’economia circolare in Olanda entro il 2050”. L’Usaid, a sua volta, si concentra sul finanziamento di progetti che portano a una maggiore efficienza nell’uso delle risorse e, quindi, alla riduzione degli impatti ambientali e dei costi correlati; tuttavia precisa che non cerca in alcun modo di promuovere approcci politici specifici.
Credit Ciclofactoria
Credit Ciclofactoria
A sinistra: Ciclofactoria, un’azienda produttrice di biciclette inclusa nell’elenco spagnolo dei Friends of the Earth.
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Se continuiamo con i ritmi attuali, entro il 2050 il pianeta avrà bisogno di 180 miliardi di tonnellate di materiali l’anno.
Gestione dei rifiuti Creare un sistema adeguato di gestione dei rifiuti è senza dubbio un obiettivo di primaria importanza per le agenzie di sviluppo. Questo servizio di base è fondamentale per avere accesso ad acqua pulita, arrestare la diffusione di malattie e migliorare la protezione contro i cambiamenti climatici riducendo al contempo le emissioni di gas serra. In aggiunta a tutto questo, l’uso di materiali di scarto può contribuire a creare nuovi modelli di business e offrono opportunità di guadagno e di occupazione nell’economia circolare. “È un importante obiettivo per lo sviluppo”, dice Ellen Gunsilius, consigliera anziana sulla gestione sostenibile dei rifiuti solidi. L’agenzia Giz sostiene in maniera significativa programmi per la gestione dei rifiuti nell’Europa sudorientale. In paesi come Albania, Serbia
I paesi più ricchi del mondo consumano in media dieci volte la quantità di materiali utilizzati da quelli più poveri.
70 22
1970
2010
La quantità di materie prime estratta dalla Terra è cresciuta dai 22 miliardi di tonnellate del 1970 ai 70 miliardi di tonnellate nel 2010.
Fonte: International Resource Panel.
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materiarinnovabile 22. 2018 Tasso annuale di estrazione di materiali*
Aumento nell’utilizzo di risorse pro capite 1905
2005
1900: 7 mld di tonnellate
2005: 60 mld di tonnellate
di risorse usate annualmente pro capite
2050: 180 mld di tonnellate (stima)
Fonte: International Resource Panel.
4,6 tonnellate
* Materiali = combustibili fossili, minerali, metalli e biomasse.
e Kosovo offre consulenze ai soggetti interessati sulla struttura normativa dell’economia circolare; li supporta nella creazione di istituzioni pubbliche e ad aumentare la collaborazione col settore privato; inoltre organizza campagne per incrementare il livello di consapevolezza. Per esempio in Albania la struttura legislativa e la strategia per la gestione dei rifiuti solidi puntano al raggiungimento degli standard dell’Ue, ma l’obbiettivo è ancora lontano. Il paese possiede solo tre discariche controllate e la maggior parte dei rifiuti finisce nei corsi d’acqua o viene bruciata. Giz offre aiuto nella revisione delle strategie e delle normative vigenti, sviluppa un piano per finanziare i costi delle operazioni di gestione dei rifiuti e incoraggia le persone a separare i rifiuti solidi da quelli organici e ad accettare di pagare le tariffe correlate. Altri progetti riguardano l’Africa settentrionale. In Algeria la Giz lavora alla gestione dei rifiuti solidi con municipalità locali e fornisce consulenze al governo nazionale e alle amministrazioni locali riguardo agli imballaggi di plastica; in Giordania l’agenzia sostiene una migliore raccolta dei rifiuti e genera preziosi posti di lavoro nelle catene di valore del riciclo e della gestione dei rifiuti, non solo per la popolazione locale ma anche per i molti rifugiati siriani che il paese ospita. L’inquinamento da plastica ha una posizione di rilievo nell’ambito della gestione dei rifiuti. L’Unep ha “dichiarato guerra alla plastica negli oceani”, attraverso vaste campagne di sensibilizzazione e studi approfonditi sull’argomento. L’Usaid elargisce donazioni e fornisce assistenza tecnica a organizzazioni locali in Indonesia, Filippine, Sri Lanka e Vietnam per incrementare gli sforzi
8,5-9,2 tonnellate di risorse usate annualmente pro capite
2015 2 tonnellate di risorse usate annualmente pro capite in alcuni paesi in via di sviluppo più di 30 tonnellate di risorse usate annualmente pro capite in alcuni paesi sviluppati
In basso: Combinato con un piano cottura, un sistema biodigestore crea in cucina un ambiente privo di fumo, apportando effetti benefici sia alla salute sia alla sicurezza.
Credit USAID PFAN
DOMANDA DI RISORSE
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World
dai 7 miliardi ai 9 miliardi entro il 2050
Sviluppo economico
e aumento del commercio globale
Aumento del
consumo di biomasse
Classe media in espansione con cambiamento dei
pattern di consumo
Aumento dell’estrazione
Emissione di gas serra
Aggravamento della
Degrado del suolo
Aumento e
volatilità dei prezzi
Inquinamento dell’acqua
Perdita di biodiversità
Inquinamento atmosferico
di risorse
scarsità di risorse
Credit MatHelium
nel campo del riciclo e ridurre la quantità di plastica che finisce negli oceani. I paesi asiatici sono responsabili di più della metà dei rifiuti plastici negli oceani del mondo. Per questi paesi l’inquinamento dei mari non rappresenta solo una minaccia per gli ecosistemi marini, ma significa anche la perdita di mezzi di sostentamento per la popolazione che vive lungo le coste, e determina problemi di salute pubblica e di occupazione dato che l’inquinamento dei mari impedisce lo sviluppo di commercio e turismo locali. In Kosovo l’azienda Izolimi Plast utilizza rifiuti plastici riciclati come materiale isolante: con il supporto di Usaid ha incrementato la sua capacità di riciclo passando da 300 tonnellate all’anno nel 2015, a 1.200 nel 2017.
In alto: Rifiuti in Albania.
Tuttavia c’è ancora molto da fare. Elisa Tonda, direttrice della Responsible Industry and Value Chain Unit nella Division of Technology, Industry and Economics dell’Unep dichiara: “Stiamo replicando questo tipo di approccio in altri settori”. I rifiuti costituiti da capi di abbigliamento di bassa qualità e le apparecchiature elettroniche buttate via sono i prossimi nemici da combattere. I rifiuti elettronici, per esempio, potrebbero passare dall’essere una minaccia a un’opportunità per recuperare risorse. “Parecchi di questi prodotti contengono ancora materiali molto preziosi, la cui rilavorazione e l’estrazione potrebbe offrire opportunità di impiego in paesi dove attualmente i rifiuti elettronici rappresentano un grave problema ambientale”, aggiunge Tonda. Energia pulita I rifiuti possono anche generare energia con ridotte emissioni di carbonio. Giz sta realizzando
un progetto in Messico che offre consulenza al governo proprio sul valore energetico dei rifiuti. L’Usaid ha finanziato la produzione di biodigestori in Cambogia, composti da un grande serbatoio che converte letame e rifiuti organici in biogas pulito da utilizzare per cucinare e fertilizzanti organici per le coltivazioni. In questo modo una tipica famiglia rurale cambogiana con tre capi di bestiame potrà soddisfare il proprio fabbisogno di gas. Come parte del programma “Securing Water for Food: A Grand Challenge for Development”, l’agenzia degli Stati Uniti supporta anche la produzione di compost per la coltivazione di verdure in India riciclando le acque nere domestiche e le acque grigie. Come in molti ambiti della cooperazione e dello sviluppo, ci sono ancora numerosi problemi da affrontare per continuare a supportare un sistema circolare: finanziamenti, mancanza di capacità e scarsa consapevolezza sono solo alcuni di questi. Nonostante ciò, queste iniziative stanno prendendo slancio. Nel 2017 il direttore dell’Unep ha avviato una partnership pubblico-privato con la Philips e la Global Environment Facility con l’obiettivo di eliminare gli ostacoli all’economia circolare. Gli esperti concordano sul fatto che un’economia circolare non riguarda solo il finanziamento di nuove tecnologie, ma anche – e principalmente – il cambiamento dei nostri pattern di consumo. E, naturalmente, la collaborazione e l’unione degli sforzi. “Se non ci uniamo per agire collaborando, in un modo che ci permetta di identificare le lacune e di colmarle e di vedere quali ambiti non sono idonei ad assicurare la circolarità del sistema, è molto difficile che questo funzioni”, conclude Tonda.
salute umana
Crescita demografica
Conseguenze della domanda di risorse
Impatto sulla
I Driver della domanda di risorse
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Tutti i segreti del tappo in sughero,
circolare per natura I tappi in sughero sono oggi la migliore soluzione in termini di impatto ambientale, consumo di risorse e valore sociale. Una materia rinnovabile, profondamente legata al territorio e alla tradizione, capace di racchiudere in un solo tappo mezzo secolo di storia. di Rudi Bressa
Quaranta milioni di cellule e un peso di soli 0,16 grammi per ogni centimetro cubo. Circa il 90% di aria. Sono queste alcune delle caratteristiche che rendono unico ogni singolo tappo di sughero. Un materiale di origine naturale che ha un legame antico con l’uomo, fatto di attesa, di conoscenza, di tradizione. Il sughero, per essere impiegato nella produzione dei tappi, deve “maturare” almeno 43 anni prima di poter avere le caratteristiche chimico fisiche adatte alla chiusura di una bottiglia, relegando al tempo il ruolo di miglioratore. Estratto dalla parte più esterna della corteccia della quercia da sughero (Quercus suber L.) è composto principalmente da suberina, lignina, polisaccaridi, ceroidi e tannini, che lo rendono un materiale impermeabile, estremamente flessibile, elastico e praticamente incorruttibile. Prodotto dal fellogeno, uno strato di cellule che dividendosi creano questa barriera, nella quercia da sughero è in grado di rigenerarsi a ogni decortica e produrre nuova corteccia, o meglio nuovi strati di sughero. Per avere la prima decortica bisogna aspettare che l’albero
abbia almeno 25 anni, un’altezza di 1,30 metri e una circonferenza di 0,70 centimetri, mentre le successive si hanno a intervalli di circa nove anni, per dare il tempo alla corteccia di rigenerarsi. Ed ecco che nel rapporto tra la quercia da sughero e l’uomo torna il motivo del tempo, in un tipico detto portoghese che vuole che si pianti “un eucalipto per sé stessi, un pino per i figli e una quercia da sughero per i nipoti”. Una quercia da sughero può infatti sopravvivere per due secoli, un’eredità assicurata per le generazioni future. L’industria del sughero tra tradizione e innovazione La quercia da sughero cresce spontanea nel bacino del Mediterraneo, in particolare in Portogallo, Spagna, Marocco, Algeria e Tunisia. Senza scordare il sud della Francia, la costa occidentale italiana, la Sardegna e la Sicilia. La superficie totale occupata dalle sugherete è di circa 1,44 milioni di ettari in Europa – di cui la metà si trova nella penisola iberica – e 700.000 ettari nel Nord Africa. Il Portogallo è la terra del sughero, con oltre 730.000 ettari, concentrati per lo più nell’area geografica dell’Alentejo. “Oggi il Portogallo produce circa la metà del sughero mondiale, ma la densità media è di sole 50 piante per ettaro, in una propagazione che è spontanea”, spiega Carlos Veloso dos Santos, direttore generale di Amorim Cork Italia, filiale del grande gruppo portoghese tra i leader del mercato delle chiusure in sughero. Non esiste una coltivazione del sughero così come la si può immaginare per altre specie arboree impiegate in silvicultura, almeno fino a oggi. E di conseguenza la produzione è legata ai cicli naturali delle piante. Si è scoperto però, quasi per caso, che una quercia da sughero irrigata costantemente con il sistema a goccia, può diventare adulta in soli otto anni, invece che 25. “Ciò significa che la prima decortica può avvenire già a otto anni, e di conseguenza il sughero adatto per la produzione
World di tappi lo si ha in 21 anni, invece che 43”, spiega Carlos Veloso dos Santos. “Vorrebbe dire che in circa 50.000 ettari si potranno avere circa 30 milioni di piante nuove, il che farebbe incrementare la produzione del 30%”. Incremento che porterebbe un giovamento non solo all’occupazione, che vede oggi impiegati già 9.000 addetti, ma anche al territorio lusitano, sempre più soggetto a desertificazione e a devastanti incendi: dopo un incendio i rami della quercia da sughero, protetti da questo materiale, rimangono vivi e capaci di far ricrescere rapidamente nuovi germogli e la chioma dell’albero, a differenza delle altre specie arboree.
Emissioni di CO2 in grammi per ogni 1.000 tappi
Il sughero, sostenibile per natura
gas ad effetto serra 10 volte maggiori di quelli del sughero, mentre per quanto riguarda l’alluminio i valori risultano più grandi di ben 26 volte. Lo studio inoltre mostra come il tappo di sughero sia la migliore alternativa in termini di consumo di energia non rinnovabile, di contributo alle emissioni di CO2 e all’eutrofizzazione delle acque superficiali, nell’acidificazione dell’atmosfera (con produzione di ossidi di azoto e biossido di zolfo) e infine nella produzione di rifiuti. Solo per quanto riguarda i consumi idrici, l’alluminio è meno impattante, seguito dal sughero e infine dalla plastica. Senza contare il fine vita: il sughero è un materiale naturale, biodegradabile in natura. Plastica e alluminio devono essere correttamente
Negli anni, soprattutto nel settore vitivinicolo, si è sviluppato un nuovo mercato delle chiusure, specializzato nell’utilizzo di alluminio (le chiusure a vite) e di polimeri plastici. Ma se si va ad analizzare l’intero ciclo di vita (Lca, Life cycle assestment) dei materiali, dall’estrazione delle materie prime, alla lavorazione, fino al fine vita, il sughero è ancora oggi la soluzione che offre il minor impatto ambientale. Secondo i risultati di uno studio effettuato da Pricewaterhouse Coopers ed Ecobilan1 e patrocinato da Amorim, un tappo di plastica, quindi proveniente da fonte fossile e non rinnovabile, fa registrare livelli di emissioni di
MATERIALE
EMISSIONI DI CO2 (g)/1.000 tappi
Sughero
1.437
Plastica
14.716
Alluminio
37.161
Fonte: risultati studio PricewaterhouseCoopers ed Ecobilan.
Non esiste una coltivazione del sughero così come la si può immaginare per altre specie arboree impiegate in silvicultura, almeno fino a oggi. E di conseguenza la produzione è legata ai cicli naturali delle piante.
1. Pricewaterhouse Coopers/ECOBILAN, “Evaluation of the environmental impacts of Cork Stoppers versus Aluminium and Plastic Closures” (2008).
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2. www.apcor.pt/wpcontent/uploads/2016/01/ Manual_Rolhas_IT.pdf 3. www.oecd. org/newsroom/ governments-need-toact-to-encourage-plasticrecycling-markets.htm
raccolti per essere avviati, nella migliore delle ipotesi, a riciclo. Esiste poi un valore assoluto che assume un’importanza sostanziale, soprattutto nell’epoca in cui viviamo: la capacità di stoccaggio di CO2 da parte della biomassa vegetale. Ciò significa che la quercia da sughero, durante la crescita, assimila anidride carbonica, trattenendo il carbonio durante tutto il ciclo di vita. Si stima che il sughero lavorato continui a trattenere circa 1,7 grammi di carbonio per tappo, o l’equivalente di 6,2 grammi di CO2. Secondo Filipe Costa y Silva, dell’Istituto superiore di agronomia portoghese (Isa), “in un’estensione di sugherete della regione centrale del Portogallo avente una buona produttività, per ciascuna tonnellata di sughero estratto, può essere catturata dalla foresta una quantità di carbonio equivalente a 73 tonnellate di CO2”.2 Le alternative sul mercato Nel mondo oggi solo il 15% della plastica viene raccolta e avviata a riciclo. Va meglio in Europa, dove si toccano tassi di riciclo del 30%, ma globalmente più della metà della plastica finisce in discarica, mentre il 25% viene avviata a recupero energetico.3 Di fronte a questi numeri,
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©Apcor
World
molte aziende stanno lavorando, anche con successo, nel trovare alternative per sostituire i polimeri plastici provenienti da fonti fossili con quelli derivati da fonti rinnovabili, come le biomasse. Anche nel mondo delle chiusure per
La questione TCA Il TCA (2,4,6-tricloroanisolo) è un composto chimico naturalmente presente in natura, nel legno, nel vino, nell’acqua, nel suolo, negli ortaggi, nella frutta e anche nel sughero. Questo composto è uno dei principali fattori responsabili del problema legato alle muffe che si possono sviluppare nel sughero e dare al vino il cosiddetto “sapore di tappo”. L’industria del sughero ha lavorato duramente per ridurre la presenza di questo composto, arrivando oggi a garantire la quasi totalità dei tappi prodotti. “Oggi ad esempio col sistema NDtech siamo in grado di analizzare un singolo tappo ogni dieci secondi, per arrivare ad un potenziale di 125 milioni di tappi garantiti all’anno”, spiega Carlos Veloso dos Santos. “Contando che nel mondo si producono 150 milioni di bottiglie di vino di alta gamma, vogliamo arrivare a stappare un potenziale di 125 milioni di bottiglie, entro il 2020, garantite”. Questo però è un metodo dedicato ai tappi di alta gamma. Cosa accade per gli altri? “Amorim – continua Carlos Veloso dos Santos – ha messo in piedi un progetto per eradicare completamente il TCA nei nostri prodotti entro il 2020. Saremo così in grado di garantire che il 99% dei nostri tappi non avrà TCA rintracciabile e solo l’1% con 1 nanogrammo al massimo. Il che significa che quel vino avrà una probabilità pari a zero di essere alterato”.
4. assets.publishing. service.gov.uk/media /57a08a03e5274a31e0 00039a/130520_ENV_ BraEthPro_BRIEF4.pdf 5. wwf.panda. org/?22255/Sugarand-the-EnvironmentEncouraging-BetterManagement-Practicesin-Sugar-Production-andProcessing 6. www.manitese.it/wpcontent/uploads/2017/10/ Dossier_La_Filiera_ Amara_della_Canna_ da_Zucchero_Mani_ Tese_2017-1.pdf
il vino è accaduto e oggi esiste sul mercato una cospicua offerta di tappi in bioplastica, realizzati a partire dall’etanolo prodotto dalla canna da zucchero. Negli anni però una folta letteratura scientifica ha dimostrato che il costante aumento delle aree agricole sottoposte alla coltura intensiva di canna da zucchero ha prodotto seri danni ambientali. Secondo un rapporto dell’istituto Evidence and Lessons from Latin America (ELLA), che lavora per sviluppare piani di sviluppo e cooperazione nel Sud America, Asia e Africa, “l’espansione della canna da zucchero in Brasile si è dimostrata insostenibile a causa della mancanza di conoscenza della biodiversità e di leggi severe per proteggerla. Ricercatori come Martinelli, Smeets, Bernard e Almeida, tra gli altri, specialmente in Brasile, hanno dimostrato che gli impatti ambientali associati alla produzione di etanolo in Brasile sono stati importanti ostacoli alla produzione sostenibile dei biocarburanti”.4 Anche associazioni ambientaliste come il Wwf riportano come la produzione di canna da zucchero produca “impatti ambientali attraverso la perdita di habitat naturali, l’uso intensivo di acqua, l’uso pesante di prodotti chimici agricoli, lo scarico e il deflusso di effluenti inquinati e l’inquinamento atmosferico”,5 con evidenti danni per la fauna selvatica, il suolo, e per interi ecosistemi. Non solo, spesso l’intera filiera racconta storie di sfruttamento e di condizioni di lavoro al limite del rispetto dei diritti umani. In un recente rapporto pubblicato dall’associazione Mani Tese emergono “rapporti di lavoro non contrattualizzati e sommersi, salari al di sotto dei minimi legali, negazione di diritti sindacali, sfruttamento di lavoro minorile e dinamiche di land grabbing con impatti fortemente negativi sulla salute e l’ambiente”.6 Dimostrando che l’etanolo prodotto a queste condizioni è tutt’altro che sostenibile e scevro da impatti ambientali e sociali.
Foreste da conservare Un singolo tappo racconta una storia lunga quasi mezzo secolo. E proviene da uno degli habitat con il più alto valore naturalistico del bacino del Mediterraneo, la foresta da sughero. di Rudi Bressa
1. eunis.eea.europa.eu/ habitats/10221
Guardando una qualsiasi mappa della distribuzione geografica della quercia da sughero (Quercus suber L.), ciò che salta subito all’occhio è la precisa area in cui questa si è diffusa nel corso del tempo: il bacino del Mediterraneo. Il suo clima caldo e umido, caratterizzato da estati secche e inverni miti influenzati dalle correnti atlantiche, rendono questo il luogo ideale per la crescita e la prosperità di questa particolarissima specie vegetale. La quercia da sughero si inserisce infatti in quello che è definito come un vero e proprio ecosistema, unico al mondo. Sì perché il Montado, così viene chiamato il sistema agroforestale tipico del Portogallo, è un mosaico estremamente complesso, in equilibrio tra specie vegetali e animali. Uomo compreso. Composto da un esiguo numero di specie arboree, intervallate da arbusti, prati e campi coltivati, il Montado ospita intere comunità di esemplari di leccio (Quercus rotundifolia), di quercia dei Pirenei (Quercus pyrenaica) e per la maggior parte di quercia da sughero. Secondo i dati dell’Inventario forestale nazionale portoghese (Ifn), in Portogallo si concentra il 34% dell’intera copertura forestale
di sugherete a livello globale, corrispondenti a circa 736.000 ettari, e pari al 23% della copertura arborea totale del Paese, secondo solo all’eucalipto. Un paesaggio inserito anche all’interno della Rete Natura 2000 (habitat 9330),1 strumento europeo utilizzato in ambito comunitario per la protezione della biodiversità e la conservazione della natura. Serbatoio di biodiversità Basta passeggiare per qualche chilometro all’interno di una sughereta per comprenderne il valore ecologico. Qui condividono spazio e risorse decine di specie vegetali e animali, e non di rado è possibile incontrare non solo piccoli allevamenti bradi e semibradi, ma vere e proprie specie endemiche, ovvero esclusive di questo territorio in qualche modo simile alle savane africane. Come la lince pardina (Lynx pardinus), oggi inclusa nella Lista Rossa della Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) e a rischio estinzione. Nelle chiome eterogenee delle querce da sughero possono invece trovare dimora l’aquila imperiale (Aquila adalberti), o altri rapaci come il biancone (Circaettus gallicus), l’aquila minore (Hierattus pennatus) o l’aquila di Bonelli (Hierattus fasciatus). Presenti ovviamente grazie ad una catena trofica ben rifornita di piccoli mammiferi e uccelli, che spesso si annidano tra gli arbusti. In un clima particolare come quello mediterraneo, soggetto anche a lunghi periodi di siccità, si instaurano varie comunità di specie vegetali, supportate dai diversi microclimi presenti nelle vicinanze degli alberi
World da sughero, che sostengono a loro volta intere comunità di insetti e altri piccoli animali. Ma tra i servizi ecosistemici, ovvero tutte quelle funzioni naturali in grado di supportare le attività umane, la sughereta è in grado di influire positivamente anche nei cicli idrogeologici. Le querce da sughero sono alleati perfetti contro la desertificazione e la degradazione del suolo. Le loro radici infatti intercettano l’acqua più in profondità delle altre specie, riducendo la competizione per le risorse. Sono inoltre in grado di intercettare in media il 26,7 % delle precipitazioni totali,2 riducendo la quantità di deflusso dell’acqua e prevenendo di conseguenza l’erosione del suolo. La caduta del materiale organico inoltre non fa che aumentare la disponibilità di humus del terreno, che si mantiene stabile e in salute. Per riconoscere il valore economico e sociale che la conservazione e la gestione responsabile delle foreste di sughero comporta, a oggi circa 100.000 ettari di querceti in Portogallo sono certificati Fsc (Forest Stewardship Council) – su un totale di 150.000 tra Spagna, Italia e Portogallo. In questo modo non solo si è certificata la riduzione degli impatti sugli habitat naturali, ma si è dato ulteriore valore al miglioramento delle condizioni dei lavoratori e dei rapporti con le comunità locali.
2. www.apcor.pt/wpcontent/uploads/2015/09/ Cork-EnvironmentalImportance_EN_VF.pdf
Distribuzione della copertura forestale di sugherete NAZIONE
SUPERFICIE
PERCENTUALE
Portogallo
736.775
34
Spagna
574.248
27
Marocco
383.120
18
Algeria
230.000
11
Tunisia
85.771
4
Francia
65.228
3
Italia
64.800
3
Totale
2.139.942
100
Fonte: Portogallo: IFN6, 2013; Spagna: MARM, 2007; Italia: FAO, 2005; Francia: IM Liége, 2005; Marocco: HCEF Marroc, 2011; Algeria: EFI, 2009; Tunisia: Ben Jamaa, 2011.
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Un cerchio (quasi) perfetto: il riciclo della carta in Italia Il rapporto annuale di Comieco, il Consorzio per il recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica, conferma il trend positivo del Paese. La filiera italiana della carta è tra le eccellenze europee in materia di circolarità. Ma ci sono ancora delle sfide da affrontare per rendere il cerchio perfetto. Come la compostabilità del packaging per alimenti. di Giorgia Marino
Laureata in Scienze della Comunicazione a Torino, Giorgia Marino – giornalista freelance e web editor – scrive di cultura, ambiente e innovazione. In passato direttore del magazine Greenews.info oggi lavora per diverse testate tra cui La Stampa.
Fare di necessità virtù. In Italia, sul fronte dell’industria cartaria, è sempre stata questa la parola d’ordine. Paese di boschi “poveri”, non particolarmente produttivi in termini di biomassa, la penisola si è dovuta adattare al riciclo per alimentare la produzione di carta e cartone. Un’abitudine che oggi, in tempi di necessaria accelerazione dell’economia circolare, è diventata una delle qualità più apprezzate, per cui l’Italia è tra le eccellenze in Europa. E se i nuovi obiettivi di sostenibilità dell’Unione impongono standard via via più stringenti per la raccolta differenziata, la filiera italiana della carta marcia spedita verso i traguardi fissati. Lo conferma, anche quest’anno, il rapporto di Comieco, il Consorzio italiano per il recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica. La raccolta differenziata di carta e cartone continua a crescere, registrando nel 2017 un +1,6% rispetto all’annata precedente. Un risultato che si inserisce nel trend positivo degli ultimi anni
e che ha avuto una spinta decisiva soprattutto dal Sud, dove la raccolta è aumentata di oltre il 6%, riducendo significativamente il divario con le regioni del Nord. Quantificando, i Comuni italiani hanno raccolto durante tutto l’anno quasi 3,3 milioni di tonnellate di materiale cellulosico, ovvero più di 54 kg per abitante. Di questi, il 45% (circa 1,5 milioni di tonnellate) è gestito direttamente da Comieco. Aggiungendo alla raccolta comunale quella industriale e gli scarti di produzione, la filiera cartaria recupera oltre 6,5 milioni di tonnellate di macero da reimmettere in produzione, portando l’Italia al quarto posto nella graduatoria europea per il reimpiego nei processi produttivi con oltre 5 milioni di fibre usate. Se già i livelli sono alti, non bisogna però adagiarsi sugli allori. Comieco guarda dunque al futuro prossimo: “L’apertura di nuove cartiere, due già operative – dicono dal Consorzio – potrà aumentare la richiesta di macero, garantendo
World così un importante sbocco interno al materiale raccolto dai Comuni”. Del resto il trend crescente non può arrestarsi, visti i target fissati per i prossimi anni dall’Unione europea: un tasso di riciclo di imballaggi cellulosici dell’85% entro il 2030. Percezione ed etichette È fuor di dubbio, insomma, che l’Italia sia una nazione virtuosa nel riciclo di carta e cartone. Eppure gli italiani non lo sanno. Circa l’80% degli abitanti del Bel Paese ritiene ancora la carta responsabile della deforestazione e più della metà non ha idea degli elevati tassi di riciclo ormai raggiunti. Per aiutare l’informazione e insieme per dare agli operatori uno strumento oggettivo ai fini di migliorare l’eco-design e la progettazione circolare, Aticelca– l’Associazione tecnica italiana per la cellulosa e la carta – ha messo a punto un metodo analitico per stabilire l’effettiva riciclabilità di qualsiasi prodotto in carta o cartone, anche stampato, incollato, accoppiato o laminato. Già a partire dal 2011, ci ha lavorato insieme a Comieco, Assocarta, Assografici, Innovhub e Lucense, arrivando nel 2017 all’attuale versione, che presto diventerà uno standard UNI. Il metodo, in pratica, riproduce in laboratorio le fasi di lavorazione del macero, dallo spappolamento fino al foglio di carta finito: si valutano fase per fase le quantità di scarto non cellulosico e la qualità della materia ricavata e infine si esaminano i fogli di prova ottenuti, anche per quanto riguarda la resa estetica e le disomogeneità ottiche. In base a tutte queste caratteristiche, viene poi attribuito un livello di riciclabilità su quattro gradi (da A+ a C). E, a chi ne faccia richiesta, viene rilasciato il marchio “Riciclabile con la carta”: semplice e chiaro. La sfida della compostabilità per il packaging alimentare Il futuro degli imballaggi in carta, e del loro riciclo, passa dal commercio online. Si è parlato anche di questo, in giugno, al convegno di Lucca organizzato dal Centro Qualità Carta. Con la crescita esponenziale dell’e-commerce e del consumo di cibo da asporto (oppure ordinato sul web e consegnato a domicilio) sarà sempre più cruciale infatti, per la filiera del riciclo cartario ma anche per quella del compost, l’eco-design del packaging. Se da un lato, per l’e-commerce, si va verso una maggiore “sobrietà” e leggerezza degli imballi (per evitare sprechi e per ridurre i costi di trasporto e magazzino), sul fronte delle confezioni alimentari la partita si gioca tutta sulla compostabilità. È chiaro che il packaging se contaminato da cibo non possa poi prendere la strada della riciclabilità “meccanica” e finire in cartiera: dovrà essere smaltito per altre vie e sarebbe meglio che lo fosse insieme ai resti di cibo, nel compost. Le innovazioni in questo settore si stanno
perciò concentrando sulla sostituzione delle parti in plastica (quelle che in genere ricoprono il cartoncino e sono a contatto diretto con gli alimenti) con biopolimeri, che mantengano le proprietà igieniche prescritte e siano nello stesso tempo compostabili. I packaging biobased, lo ha verificato una recente ricerca dell’Università Bocconi di Milano, potrebbero migliorare la qualità della raccolta differenziata sia della carta che dell’organico. L’impegno, però, deve partire dai produttori di imballaggi e soprattutto da chi li progetta. Anche a questo, dunque, mira l’annuale bando lanciato da Comieco Factory per l’innovazione sostenibile del packaging in carta e cartone. La commissione composta da Comieco, Assocarta, Assografici e Aticelca esaminerà tutte le invenzioni presentate entro il 30 settembre 2018 e assegnerà premi in denaro ai tre migliori brevetti. La circolarità comincia dalle idee.
Consorzio nazionale per il recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica, www.comieco.org
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Ecodesign per l’alluminio Linee guida per la progettazione ecosostenibile del packaging in alluminio: le ha realizzate CiAl – il consorzio italiano che si occupa di recuperare/riciclare questa tipologia di imballaggi. Un inedito esempio di simbiosi industriale. di Sergio Ferraris
CiAl, Imballaggi in alluminio. Linee guida per una progettazione ecosostenibile. Design for recycling.
Pensare circolare. Sembra semplice ma quando si ha a che fare con processi industriali l’approccio di avere un “filo rosso” che leghi i prodotti dalla culla alla tomba, tenendo conto fin dalla fase del design il riciclo a fine vita è tutt’altro che scontato. La cultura industriale del 20° secolo, infatti, non ha mai affrontato un approccio di questo tipo e il destino del prodotto a fine vita è stato visto per lungo tempo dalla manifattura come un “non problema”. Chi produce beni non si occupa di “rifiuti” è stato il mantra dell’economia lineare, con poche eccezioni, rappresentate dai paesi, come l’Italia, poveri di materie prime. Carta, acciaio, oli esausti ed alluminio sono alcuni dei materiali che il Bel Paese ha imparato a riciclare da decenni, con ottimi metodi che oggi fanno scuola all’estero e producono profitti, facendo di necessità virtù. E in Italia sull’alluminio CiAl (Consorzio imballaggi alluminio) ha prodotto delle linee guida sulla progettazione per la riciclabilità del packaging in alluminio, inedite almeno a livello europeo, per “rendere evidenti le relazioni esistenti tra le scelte effettuate nella fase di progettazione degli imballaggi in alluminio e la gestione degli imballaggi post-consumo in alluminio”, si legge nella prefazione del documento a firma di Gino Schiona, Direttore generale di CiAl che aggiunge: “Queste nostre linee guida, quindi, nascono con il fine di promuovere una sempre maggiore sensibilità, tra le imprese della filiera, circa l’impatto dei prodotti. E nello specifico degli imballaggi”. Insomma si tratta di un’operazione di informazione/formazione rivolta ai progettisti degli imballaggi affinché considerino nella loro attività il fine vita dell’imballaggio stesso e il suo riciclo. Il documento parte con l’affermare l’importanza della compatibilità degli imballaggi con tutta la filiera del riciclo a partire dalla raccolta differenziata. Il foglio d’alluminio usato livello domestico, per fare un esempio, deve essere appallottolato prima di essere messo nel contenitore specifico, pena la sua esclusione dai sistemi di selezione. Un piccolo gesto che però è fondamentale per assicurare il riciclo dell’alluminio.
Il documento parte con la descrizione delle leghe d’alluminio e i loro utilizzi specifici che vanno da quelle usate per le bombolette, la serie 1000 dove l’alluminio è puro al 99,5%, alla serie 8000 che contiene ferro ed è utilizzata, in virtù della sua malleabilità, per i fogli sottili, le vaschette e i tappi a vite, passando per la serie 5000, dove all’alluminio viene aggiunto magnesio per dare maggiore durezza alla lega che viene utilizzata per i coperchi delle lattine e le aperture facilitate. Quindi non esiste una sola lega d’alluminio ma diverse in base all’utilizzo, così come è variabile anche la quantità del materiale. Per gli imballaggi flessibili si utilizza uno spessore tra i 5 e i 40 µm, per quelli semirigidi tra i 30 e i 170 µm e per quelli rigidi tra i 90 e i 300 µm. Il solo incrocio tra leghe e spessore offre, come è evidente, una grande serie di combinazioni nella realizzazione degli imballaggi. A seguire nelle linee guida sono illustrate le fasi di lavorazione dell’alluminio, dalla produzione primaria del materiale che è molto energivora, in alternativa alla quale si può utilizzare quella secondaria, o da riciclo, con la quale si risparmia parecchia energia, visto che per produrre un chilogrammo di alluminio dal riciclo servono 0,7 kWh conto i 14 kWh della produzione primaria. E ciò solo parlando d’energia, tralasciando la differenza tra l’impiego di materia prima visto che la bauxite necessaria per la produzione primaria contiene al massimo il 54% di allumina, mentre l’alluminio proveniente da riciclo è praticamente puro. Visti questi conti economici non è un caso che a livello mondiale la produzione di alluminio al processo secondario sia il 52% del totale, con l’Italia che è dal 2013 al 100%. E se da un lato abbiamo una virtuosità intrinseca del processo di produzione dell’alluminio è netto anche l’impegno sul fronte dell’ottimizzazione del prodotto finale visto che la lattina per bibite classica, quella da 33 cl, ha diminuito l’alluminio impiegato del 30% nel periodo dal 1990 al 2017 passando da 16,58 a 11,60 grammi, mentre abbiamo assistito anche a un miglioramento della capacità tecnologica di produzione visto che dal 1977 al 2014 lo spessore del laminato utilizzato si è ridotto del 37%. Il tutto a parità di prestazioni.
World Segue, nelle linee guida, la descrizione dettagliata delle tipologie d’imballaggio a base d’alluminio, nella quale se ne illustrano le caratteristiche, gli utilizzi e le metodologie di selezione e riciclo. Quindi viene affrontato il tema della progettazione degli imballaggi in alluminio che, secondo CiAl, deve seguire questi quattro criteri di progettazione: essere adatta allo scopo; puntare all’efficienza delle risorse; con materiali a basso impatto; per il recupero delle risorse. E ognuno di questi criteri ha una sua declinazione, sia sotto il profilo manifatturiero, sia dal punto di vista del riciclo, ma non mancano indicazioni di fisica, applicata all’utilizzo. Come il criterio dove viene segnalato al progettista, nel caso dei contenitori a vite, di ridurre al minimo la forza rotazionale necessaria alla rottura del sigillo iniziale perché forze rotazionali maggiori di 1,1 Nm
(newton/metro) possono mettere in crisi disabili e anziani poiché superano le loro capacità funzionali. Oppure il punto dove si consiglia di adottare altre strategie, rispetto all’utilizzo di cartone in aggiunta all’alluminio, al solo scopo di fornire al consumatore delle informazioni aggiuntive circa il prodotto. Così come è ampiamente consigliato, con motivazioni approfondite, il fatto che ci si assicuri circa la compatibilità dei componenti secondari rispetto i sistemi di raccolta e riciclo, visto che i componenti di plastica rigida possono dare dei problemi nel processo di raccolta e riciclo dell’alluminio. Fino ad arrivare a un esempio concreto di progettazione di una bomboletta spray in alluminio, racchiuso in una scheda sintetica nella quale c’è tutto il necessario per realizzare un oggetto di questo tipo, puntando al massimo della sostenibilità ambientale.
I QUATTRO CRITERI
CiAl, www.cial.it
Progettazione adatta allo scopo 1° CRITERIO Progettare per: • migliorare l’accessibilità • resistere e facilitare l’impilamento
• ridurre al minimo il materiale di scarto da parte dei consumatori • raggiungere un compromesso tra imballaggi primari, secondari e terziari
Progettazione per l’efficienza delle risorse 2° CRITERIO Progettare per: • ridurre al minimo lo spessore del laminato di alluminio • ridurre al minimo gli imballaggi primari • ridurre al minimo gli imballaggi secondari
• utilizzare imballaggi secondari riutilizzabili o a rendere • recuperare le perdite di imballaggi sulla linea di riempimento • massimizzare il rapporto di peso/ volume tra prodotto e imballaggio • massimizzare l’efficienza di trasporto
Progettazione con materiali a basso impatto 3° CRITERIO Progettare per: • massimizzare il contenuto di riciclato nell’imballaggio primario • massimizzare il contenuto
di riciclato nell’imballaggio secondario • ridurre al minimo l’uso di sostanze chimiche problematiche in inchiostri e laccature
Progettazione per il recupero delle risorse 4° CRITERIO Progettare per: • assicurare la compatibilità dei componenti secondari ai sistemi di raccolta e riciclo
• fornire informazioni chiare ai consumatori • massimizzare il valore del materiale recuperato • stampare direttamente sull’imballaggio di alluminio
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materiarinnovabile 22. 2018
Startup
Nome: Settore: Plus: Caratteristiche:
CupClub, la startup delle tazze come servizio CupClub Prodotto come servizio nel packaging Servizio di packaging riutilizzabile per bevande CupClub aiuta i negozi a ridurre gli imballaggi monouso attraverso la creazione di un sistema di confezioni tracciabili e con uno schema di fidelizzazione integrato
di Antonella Ilaria Totaro
cupclub.com
CupClub è la prima azienda al mondo a fornire packaging come servizio nel settore della ristorazione. La startup londinese offre, infatti, un sistema di tazze di plastica riutilizzabili pensato per bar, rivenditori e aziende distributrici di bevande. CupClub affronta il problema delle confezioni monouso, proponendo un servizio di packaging pluriuso, in cui le tazze una volta utilizzate dal cliente vengono riconsegnate nei negozi aderenti al sistema o in uno dei punti di raccolta, lavate e riportate ai bar, rivenditori e aziende. L’idea delle tazze come servizio è venuta all’architetto Safia Qureshi, che ha disegnato
una tazza semplice, resistente e riutilizzabile più volte, neutra così da poter essere brandizzata dai diversi marchi ma non troppo bella in modo da essere riconsegnata e non portata a casa. Con CupClub si passa dall’idea di possedere una tazza a pagare per la bevanda un costo totale che comprende anche i costi della tazza, della manutenzione e dell’infrastruttura creata. Il cliente non paga un costo aggiuntivo per il servizio, l’accordo è fatto con le aziende che distribuiscono bevande, con i bar e in futuro con gli uffici, i proprietari di immobili e i campus universitari. Secondo gli studi effettuati, questo sistema permetterebbe di ridurre l’utilizzo di confezioni monouso del 40%, semplicemente tracciando i prodotti grazie a tecnologie IoT e costruendo un sistema di fedeltà per far tornare indietro le confezioni. CupClub mette in circolazione un packaging che dura più a lungo ed è di migliore qualità rispetto ai monouso. Ogni tazza CupClub, realizzata in polipropilene riciclabile e da un coperchio di polietilene a bassa densità, è pensata per essere utilizzata fino a 132 volte prima di essere riciclata. CupClub è tra i vincitori della Circular Design Challenge della New Plastics Economy della Ellen MacArthur Foundation.
Startup
Startup
Nome: Settore:
ecoBirdy: nuovi giocattoli da plastica riciclata ecoBirdy Nuovi materiali e prodotti da materiali riciclati
Plus:
Oggetti di arredamento e design per bambini ottenuti dal riciclo di rifiuti di plastica
Caratteristiche:
Vecchi giocattoli e altri rifiuti di plastica sono raccolti, smistati, macinati, selezionati, controllati per dare vita a collezioni di arredamento e design per bambini che aumentino la consapevolezza sul tema dei rifiuti di plastica e il loro riciclo
di Antonella Ilaria Totaro
www.ecobirdy.com
ecoBirdy è una startup belga che crea oggetti di arredamento per bambini da plastica riciclata. Tutto è nato dalla presa di coscienza, da parte dei designer Vanessa Yuan e Joris Vanbriel, che i giocattoli per i bambini utilizzano più plastica di altri beni di consumo – un solo giocattolo può contenere lo stesso quantitativo di 500 tappi di bottiglie di plastica – e hanno un periodo di vita medio di soli sei mesi. Nel 2018, dopo uno studio approfondito durato circa due anni sul riciclo sostenibile dei giocattoli di plastica, i due fondatori hanno sviluppato un nuovo materiale: l’ecothylene, realizzato al 100% da plastica
riciclata e a sua volta interamente riciclabile, da cui sono creati nuovi prodotti senza il bisogno di aggiungere coloranti o altre sostanze chimiche. I due designer di ecoBirdy, azienda con sede ad Anversa, oltre ad aver disegnato la collezione, hanno ideato un intero sistema che va dalla raccolta dei vecchi e rotti giocattoli di plastica al riciclo, alla macinazione, alla selezione di precisione e al controllo di qualità in laboratorio fino ad arrivare alla produzione dei pezzi di arredamento. EcoBirdy ha, inoltre, sviluppato un programma scolastico sia per raccogliere giocattoli di plastica vecchi e danneggiati, sia per sensibilizzare i più piccoli e incoraggiarli a contribuire a un futuro più sostenibile anche attraverso la pubblicazione del volume “Journey to a new life” (“Viaggio verso una nuova vita”), la storia di un motorino di plastica e dei suoi amici giocattoli. Per la prima collezione di oggetti di arredo, che include un tavolo, una sedia, un contenitore di oggetti e una lampada, ecoBirdy si è avvalso per quanto riguarda il riciclo della plastica della collaborazione di Van Werven, partner olandese con diverse sedi in tutta Europa, mentre la stampa finale dei prodotti è realizzata in Italia.
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Startup
Nome: Settore: Plus: Caratteristiche:
di Antonella Ilaria Totaro
www.instock.nl
500 tonnellate di cibo recuperato con InStock InStock Servizio di ristorazione da cibo recuperato InStock trasforma il surplus di cibo in piatti e prodotti serviti in ristoranti, catering e food truck Cibo invendibile per diverse ragioni e destinato a essere sprecato è utilizzato nei menu di ristoranti, da servizi di catering e food truck e per la creazione di nuovi prodotti con l’obiettivo di coinvolgere nuovi chef e allargare il movimento di recupero di cibo
470.000 chili di cibo recuperato e messo in tavola dal 2014 a oggi. Con questo numero si presenta InStock, nata dall’idea di Frekevan Nimwegen, Merel Laarman, Selma Seddik e Bart Roetert, tutti ex dipendenti di Albert Heijn, la più grande catena di supermercati olandese. Circa un terzo del cibo prodotto viene oggi sprecato nelle diverse fasi di lavorazione. Ogni giorno, grazie al supporto di alcuni partner, tra cui soprattutto lo stesso Albert Heijn, InStock preleva circa l’80% di quello che servirà a pranzo e cena tra i cibi che, pur rispettando gli standard di sicurezza, per diverse ragioni non possono essere venduti come, per esempio, carne vicina alla data di scadenza, pane del giorno precedente, eccedenze di pesce da parte dei produttori fino a rimanenze di magazzino come bottiglie di vino in quantità troppo esigue per essere collocate negli scaffali dei supermercati. Sono recuperati anche prodotti come pasta,
bibite e cioccolata non vendibili per confezioni danneggiate o per un packaging valido soltanto per determinate ricorrenze dell’anno, per esempio San Valentino o Natale. I prodotti recuperati vengono il più delle volte donati a InStock che così abbatte i costi del cibo, dovendo al tempo stesso sostenerne altri come i costi di trasporto e quelli del personale che deve selezionare i prodotti da utilizzare. Instock è oggi un’impresa sociale con tre ristoranti permanenti ad Amsterdam, L’Aia e Utrecht, che produce birra e granola dai prodotti recuperati e ha un proprio servizio di catering e un food truck. Per allargare il movimento di ristoranti e catering che utilizzano cibo “salvato”, nel 2017 InStock ha aperto il Food Rescue Center, un centro di smistamento dove i prodotti invenduti, per la maggior parte frutta e verdura, sono raccolti e selezionati: ogni ristoratore può acquistare questi prodotti nello shop online e riceverli gratuitamente il giorno dopo.
Startup
Startup
Nome: Settore: Plus:
Evoware, il packaging a base di alghe che scompare Evoware Nuovi materiali bioplastici Packaging biodegradabile ed edibile da alghe per contenere cibi e altri prodotti
Caratteristiche:
Progettazione e produzione di confezioni a base di alghe, come alternativa al packaging di plastica monouso, con ricadute positive a livello ambientale e economico per i coltivatori indonesiani
di Antonella Ilaria Totaro
Nata in Indonesia, Evoware è un’azienda a responsabilità sociale che sfrutta l’abbondanza locale e la facilità di coltivazione delle alghe per creare un packaging brevettato biodegradabile al 100% e in grado di dissolversi in acqua calda.
www.evoware.id
Il materiale, pensato per creare involucri e sacchetti alimentari, è realizzato partendo direttamente dalle alghe così che l’imballaggio risultante è commestibile e nutriente, fonte di fibre, vitamine e minerali. I sacchetti così ottenuti possono contenere cereali, caffè istantaneo e anche condimenti per noodles che si sciolgono a contatto con liquidi caldi senza bisogno di essere aperti. Possono racchiudere anche zucchero, hamburger, stuzzicadenti e assorbenti. Il packaging a base di alghe si mantiene per due anni senza bisogno di conservanti, è personalizzabile dalle aziende stampandovi logo e altre indicazioni e, a fine vita, può essere
utilizzato come fertilizzante o cibo per animali. Evoware nasce come risposta al problema dei rifiuti marini. L’Indonesia, infatti, è seconda soltanto alla Cina per l’inquinamento da plastica, che impatta fortemente sul mercato ittico locale. Inoltre, è il più grande produttore mondiale di alga rossa, una varietà ideale per ottenere bioplastica e imballaggi. Oltre a risolvere il problema ambientale, Evoware favorisce anche lo sviluppo locale: i coltivatori di alghe indonesiani, che hanno un problema di surplus e produzione non usata, trovano così un nuovo canale di vendita incrementando così il proprio reddito. Attualmente il team di Evoware – che ha a capo David Christian, 23enne amministratore delegato e fondatore – sta lavorando per rendere il materiale resistente all’acqua in modo da contenere prodotti liquidi come shampoo e sapone. L’azienda è tra i vincitori della Circular Design Challenge, all’interno dell’iniziativa New Plastics Economy della Ellen MacArthur Foundation.
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materiarinnovabile 22. 2018
Rubriche Circular by law
L’Ue vuol chiudere la partita con la plastica Francesco Petrucci in collaborazione con Rivista “Rifiuti – Bollettino di informazione normativa” e Osservatorio di normativa ambientale su www.reteambiente.it
L’Unione europea sembra volere chiudere prima delle elezioni del 2019 la partita della lotta alla plastica monouso, un tema che non è solo ambientale ed economico, ma anche “politico”. Forse è questa la ragione per cui la proposta di direttiva sulla plastica monouso presentata dalla Commissione europea il 28 maggio 2018 (vedi n. 21/2018 di MR) è già stata votata il 10 luglio dalla Commissione Ambiente del Parlamento europeo. La proposta legislativa, tra le altre cose, vieta il commercio di determinati prodotti di plastica (tra cui cotton-fioc, forchette, coltelli, cucchiai, bacchette, piatti, cannucce). Rispetto al testo della Commissione Ue, i parlamentari europei hanno votato il divieto entro il 2020 per le plastiche oxo-degradabili, nonché per le microplastiche contenute nei cosmetici, nei prodotti per l’igiene personale, detergenti e prodotti per la pulizia. Il voto del Parlamento europeo arriverà a ottobre e poi partiranno i negoziati col Consiglio dell’Ue con l’intenzione di chiudere l’accordo prima delle elezioni europee di maggio 2019. Azioni incisive sulla plastica, anche tramite sostegni finanziari, sono state chieste anche dall’Ocse in un Rapporto diffuso il 24 maggio 2018. L’Unione europea (che comunque ricicla in media il 30% della plastica rispetto al 10% degli Usa) è conscia di quanto l’industria “circolare” abbia bisogno di sostegno ed è per questo che la Commissione europea ha approvato a fine maggio 2018 tre proposte di regolamento sulla finanza sostenibile con l’obiettivo di spingere gli investimenti privati nella direzione dell’economia circolare. Come accennato nello scorso numero, il 4 luglio 2018 sono entrate in vigore le nuove direttive Ue sui rifiuti che fanno parte del “pacchetto economia circolare” e che dovranno essere recepite dagli Stati membri entro il 5 luglio 2020. Non si è trovato invece l’accordo sull’allargamento delle regole della direttiva sull’ecodesign per includere altri prodotti oltre a quelli legati all’energia. Il Parlamento europeo in una risoluzione del 31 maggio 2018 ha chiesto che tra i prodotti obbligati ad avere un design ecocompatibile ci siano anche gli smartphone, attualmente tra i prodotti meno riciclabili e recuperabili. In materia di classificazione dei rifiuti c’è una data importante per le imprese: dal 5 luglio 2018 si applica la nuova definizione della caratteristica di pericolo dei rifiuti “HP 14 Ecotossico” stabilita dal regolamento 2017/997/Ue. Grosse novità anche sul fronte energia: dal 9 luglio
2018 è in vigore la direttiva 2018/844/Ue che aggiorna la direttiva sull’efficienza energetica in edilizia del 2010; lo scopo è arrivare alla decarbonizzazione del parco immobiliare europeo al 2050. Il 27 giugno 2018 è stato invece raggiunto l’accordo sulla nuova direttiva sulle energie rinnovabili con il target obbligatorio del 32% di energia rinnovabile al 2030, mentre il 20 giugno 2018 quello sulla proposta di direttiva sull’efficienza energetica che ne fissa il target al 32,5% al 2030. Ora manca solo il voto formale di Parlamento e Consiglio Ue. Sulle emissioni di gas serra il quadro normativo si è arricchito col regolamento 2018/841/Ue sulle emissioni delle foreste e col regolamento 2018/842/ Ue che disciplina le emissioni dei settori non coperti dalle regole dell’Emission Trading System (Ets) come edilizia, agricoltura e gestione rifiuti. Sempre in materia di emissioni dal 29 luglio 2018 è in vigore il regolamento 2018/956/Ue sul monitoraggio e la trasmissione delle informazioni sulle emissioni di camion, tir e autobus. Restando in tema di automotive è interessante la proposta di regolamento della Commissione del 17 maggio 2018 sul rinnovo dell’etichetta degli pneumatici diretta a migliorare le informazioni ai consumatori su consumi, sicurezza e rumore per spingerli a scelte ambientalmente consapevoli. Nel frattempo il Consiglio Ue sta discutendo la proposta di direttiva volta a promuovere gli appalti pubblici di veicoli “puliti” migliorando le norme attualmente vigenti che sono del 2009 con lo scopo di introdurre obiettivi minimi di appalti pubblici di veicoli “green” al 2025 e al 2030. Ancora novità sui sistemi di certificazione: dal 5 ottobre 2018 sarà operativa la guida della Commissione europea per la certificazione Emas di migliori pratiche ambientali per il settore agricolo. Infine due segnalazioni sul Reach (il regolamento del 2006 relativo alla autorizzazione, registrazione e restrizione delle sostanze chimiche). La prima riguarda la proposta di vietare l’immissione sul mercato di articoli contenenti percentuali di “ftalati” superiore allo 0,1% in peso. La seconda riguarda le nuove tariffe a carico delle imprese per le domande di autorizzazione di sostanze chimiche approvate con regolamento 2018/895/Ue e in vigore dal 16 luglio 2018.
Rubriche
Il circolo mediatico
A volte i cattivi siamo noi Roberto Giovannini, giornalista, scrive di economia e società, energia, ambiente, green economy e tecnologia.
Sempre più spesso il cinema e la televisione trattano i temi dell’ambiente e come abbiamo tante volte raccontato su questa rubrica, la modalità prevalente è quello del disastro ambientale. Ma come illustra una recente ricerca dell’Università californiana UCLA – “Existential risk due to ecosystem collapse: Nature strikes back”, pubblicata su Futures – nella maggior parte dei casi la catastrofe descritta in modo più o meno spettacolare o di successo ai botteghini non nasce dal rifiuto o dall’ignoranza – così come avviene nella realtà quando si parla di disastri ambientali. Al contrario, si preferisce sempre dare la colpa del disastro all’avidità umana o all’egoismo di pochi “cattivi”. Una scelta, dice la ricerca ma anche il buon senso, che non aiuta certo a mettere in moto le contromisure giuste per evitare i disastri.
P. Kareiva, V. Carranza, “Existential risk due to ecosystem collapse: Nature strikes back”, Futures; www.sciencedirect. com/science/article/pii/ S0016328717301726
La paura dell’Apocalisse è vecchia come l’umanità. Già nell’epopea mesopotamica di Gilgamesh, scritta intorno al 2100 a.C., troviamo la storia di un’alluvione voluta da un Dio vendicativo. A quanto pare, in quattromila anni e più non è cambiato granché nella cultura popolare, almeno così come viene rappresentata da Hollywood. Peter Kareiva e Valerie Carranza, gli studiosi dell’Institute of the Environment and Sustainability dell’UCLA autori della ricerca, hanno esaminato i blockbusters catastrofici usciti nelle sale cinematografiche tra il 1956 e il 2016, escludendo per definizione quelli in cui le catastrofi sono decise da Dio. La prima osservazione è che nella maggior parte dei casi l’apocalisse avviene per invasioni aliene, virus geneticamente modificati, intelligenze artificiali, per una guerra globale o per un qualche meccanismo che rende la tecnologia incontrollabile. Solo in 10 dei film considerati – il 17% – i disastri sono collegati a catastrofi ambientali. In 4 film la colpa viene data all’avidità finanziaria delle grandi corporations: ne “La Sindrome Cinese”, “Silkwood”, “Erin Brokovich, e “The Lorax” ci sono infatti grandi aziende che volontariamente inquinano l’ambiente per ricavare profitti. Negli altri sei – “Interstellar”, “The Adventures of the Wilderness Family”, “Star Trek VI: The Undiscovered Country”, “Waterworld”, “The Day After Tomorrow”, “Wall-E” – viene prospettato un futuro in cui la Terra è diventata invivibile a causa di una società miope che deliberatamente
non ha preso le iniziative necessarie per evitare la catastrofe ambientale. Di norma, in questi film il disastro che incombe viene percepito da qualcuno dei protagonisti; ma il nostro eroe non viene creduto o viene ascoltato quando ormai è troppo tardi. Quel che conta, dicono gli studiosi, è che la responsabilità della catastrofe non viene mai attribuita al colpevole più plausibile: l’ignoranza dei fattori di rischio ecologico che possono provocare la catastrofe stessa. “A Hollywood – scrivono Kareiva e Carranza – i disastri ambientali sono sempre conseguenza di fallimenti umani individuali, mai la conseguenza di ignoranza nella comprensione scientifica di certi fenomeni”. E non è un caso che nessuno di questi film riesca a definire un futuro possibile a partire da una consistente e reale scienza ambientale o da una seria comprensione dei meccanismi ecologici. Per certi versi non è un problema molto serio. I film sono film, liberi dall’esigenza di rispettare le regole del mondo reale. Però si tratta di rappresentazioni popolari del fattore disastro. E da questo punto di vista l’elemento interessante che emerge dallo studio è che i disastri “pop” sollecitano le persone del mondo reale a guardare nel posto sbagliato quando si tratta di capire dove stanno veramente i cosiddetti “pericoli esistenziali”. Ed anche se è assodato che il cambiamento climatico è provocato dai comportamenti umani, è molto più facile dare la colpa a pochi crudeli “capitani d’azienda”, piuttosto che a tutti noi quando scegliamo di prendere l’automobile per andare in ufficio piuttosto che il mezzo pubblico o la bicicletta. Sappiamo benissimo che danni gravissimi all’ambiente vengono prodotti da certe politiche aziendali o economiche, o da atti puramente criminali, come spargere deliberatamente sostanze tossiche in un fiume. Ma fatichiamo a immaginare che più spesso il rischio di catastrofe ambientale deriva da piccoli comportamenti individuali, magari in buona fede. O peggio, da una “ignoranza di massa” di conseguenze potenziali di fenomeni che conosciamo ancora poco e male. Insomma, a volte il “cattivo” siamo noi. O la nostra incapacità di comprendere la realtà in cui viviamo.
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27-28 SEPTEMBER TURIN (ITALY) Organized by
JOIN US TO SHAPE THE WORLD CIRCULAR BIOECONOMY Info and Registration: https://ifib2018.b2match.io Venue: Cavallerizza Reale, via Verdi 9
Among the speakers: Jennifer Holmgren (LanzaTech), Tony Duncan (Circa Group), Philippe Mengal (BBI JU), Liesbet Gooverts (EIB), Sandy Marshall (Bioindustrial Innovation Canada), Bernardo Silva (ABBI Brazil), Elisabetta Balzi (EU Commission), Mathieu Flamini (GFBiochemicals), Alit Fasce Pollicelli (Ministry of Economy, Argentina), Paolo Corvo (Clariant), Niklas von Weymarn (Metsä Spring), Henri Colens (BraskemBio), Giulia Gregori (Novamont), Andrea Pipino and Vito Guido Lambertini (Fiat Chrysler Automobiles), Mieke De Schoenmakere (EEA), Jean-Marie Chauvet (Foundation Jacques de Bohan), Vander Tumiatti (SEA Marconi), Susanne Braun (University of Hohenheim), Luca Cocolin (University of Turin), Mauro Fontana (Ferrero Group), Veerle Rijckaert (Flanders’ Food), Simão Soares (SilicoLife), Christian Hübsch (UPM Biochemicals)