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PeaceReporter Guerra alla Terra I conflitti nel mondo per la conquista delle risorse A cura di Maso Notarianni Hanno collaborato: Christian Elia, Matteo Fagotto, Alessandro Grandi, Cecilia Strada © 2009, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2009, PeaceReporter Per le immagini: © Vauro Senesi Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100%
Parte delle royalties sarà devoluta a Emergency per il centro chirurgico di Lashkar-gah in Afghanistan Finito di stampare nel mese di ottobre 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)
P EACE R EPORTER
GUERRA ALLA TERRA I conflitti nel mondo per la conquista delle risorse
indice
prefazione di Gino Strada
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introduzione di Maso Notarianni
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l’acqua del contendere: il conflitto israelo-palestinese di Christian Elia
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il litio boliviano: la guerra del futuro? di Alessandro Grandi
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guerra e ambiente nelle vignette di Vauro
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blood oil: la guerra dimenticata nel delta del fiume niger di Matteo Fagotto
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il territorio minato: la lunga guerra afghana di Cecilia Strada
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fonti
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prefazione di Gino Strada
Anni fa, nella corsia di uno dei nostri ospedali abbiamo ricoverato un contadino afgano. Il suo villaggio era stato colpito da un paio di razzi. Lui era abbastanza vicino all’esplosione, ma sufficientemente lontano da potersela cavare in un paio di giorni. Era disperato. All’infermiere che cercava di consolarlo (in fondo non era morto nessuno) aveva risposto che i razzi avevano distrutto il suo raccolto: ucciderlo sarebbe stato meglio, perché adesso la sua famiglia avrebbe sofferto la fame. Proviamo a guardarla dal punto di vista del contadino afgano. Che cosa significa, in un paese in guerra e oltretutto povero, perdere il raccolto, il gregge o un asino? La guerra distrugge le risorse. Campi bruciati, acqua inquinata e animali morti ne sono la naturale conseguenza, quando non sono parte della strategia: non c’è niente di meglio, infatti, per annientare un popolo che togliere loro la terra, l’acqua e le bestie. Magari minando il territorio, o irrorandolo di diserbanti. Ad ogni modo, che ne sia conseguenza o strumento, che si faccia per i diamanti, l’oppio, l’uranio o in nome di dio, il denominatore comune delle guerre è la distruzione della terra e dei
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suoi animali. E la prima vittima è proprio l’animale che la guerra l’ha inventata e la fa: l’uomo. Ma colpisce non solo il pastore afgano o il contadino cambogiano: la guerra è un boomerang che distrugge risorse che appartengono a tutti, a tutti noi che abitiamo questo pianeta. Le ultime foreste, i laghi e le montagne che incantavano i viaggiatori, tutti luoghi che con la guerra cancelliamo dalla carta geografica. Continuiamo a giocarci pezzi di pianeta, seppellendolo sotto le bombe e le mine, avvelenandolo con l’uranio e il petrolio, stravolgendone la fisionomia. Nessun trattato di pace potrà rimettere le cose a posto. E questo è uno dei tanti motivi per cui la guerra, oltre che essere uno strumento criminale (badate bene, né etico né disumano) è anche uno strumento tremendamente stupido.
introduzione di Maso Notarianni
Guerra. Lo stato permanente di guerra in cui versa il mondo ci dice che essa è legittima, è uno strumento sempre più normale da usare. Ogni giorno siamo bombardati da immagini, suoni, parole che in qualche modo ce la richiamano. Non solo dai film o dalle fiction. Ma dalla realtà. E la realtà che ci viene presentata è un incentivo alla violenza. Perché ogni giorno, con i notiziari, con l’informazione intrattenimento, ma anche con i reality show, il modello vincente che ci viene proposto è quello della guerra e della violenza. La legge giusta è quella del più forte. Non c’è più collettività. Lo Stato non è un modello, ma un nemico. E questo è più colpa di chi lo Stato gestisce che non di chi sullo Stato informa. Quando, e succede ormai da decenni, la cosa pubblica diventa affare privato, il modello che si propone è quello dell’arroganza, della furbizia, del proprio interesse sopra a ogni altra cosa. Gli individui sono soli di fronte al mondo. E gli eroi che vengono indicati sono quelli che fanno da soli, contano solo su loro stessi. Chi conta sulle proprie forze vince. Perché intorno a noi, questo affermano i modelli sociali, abbiamo solo furbi egoisti o addirittura cattivi nemici.
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Sono anni, ben prima dell’attentato alle torri gemelle, che i governanti, aiutati dai grandi mezzi di comunicazione, hanno adottato quella che gli analisti chiamano la “strategia del terrore”. Una strategia antica come il mondo: siamo sotto attacco, il nemico è alle porte ed estremamente feroce. Può arrivare in ogni momento e da ogni parte. Divide et impera. Questa strategia spesso funziona, e funziona proprio perché fa sentire le persone costantemente in pericolo. Se poi la strategia del terrore è costruita sul nemico “arabo” o “islamico”, poveri gli Azouz di tutto il “nostro” mondo. Questo ha reso dominante la cultura della guerra, e reso banale, ovvio, scontato che nel mondo ci siano sempre più conflitti. Perché la guerra, per i potenti del mondo, è uno strumento facile da usare, poco rischioso (per loro) al fine di mettere le mani sulle ricchezze altrui, sulle risorse naturali, dal petrolio al legno, all’acqua, come potrete leggere più avanti. I mercati crollano, le borse chiudono con perdite miliardarie. La crisi economica avanza, perché la reazione alla crisi finanziaria dei mesi scorsi non si è fatta attendere. Chiudono imprese costruttrici, in crisi il mercato dei consumatori. Nei prossimi mesi sarà davvero dura. Ma c’è invece, guarda caso, un mercato che non risente minimamente degli scossoni che fan tremare le borse di tutto il mondo. È quello delle armi. Nell’anno fiscale 2008, dice il Ministero della Difesa statunitense, il giro d’affari è stato di 32 mila miliardi di dollari contro i 12 mila del 2005. «Perché stiamo costruendo un mondo più sicuro» sostengono negli Usa. Invece se si guarda indietro nel tempo, si scopre che questa è una tradizione ormai consolidata. Già nel 1961, quando John
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F. Kennedy divenne presidente, gli Stati Uniti erano in una pesantissima crisi economica. Molti storici e molti analisti spiegano la rinascita dell’economia statunitense con il rilancio della spesa pubblica attuato dal presidente Kennedy per lo stato sociale, il welfare. Pochi invece sono quelli che fanno notare che l’82 percento di quell’aumento di spesa pubblica fu destinato all’industria militare, che con la guerra del Vietnam, preparata da Kennedy, fece registrare un’ulteriore crescita. Lo stesso Eisenhower, predecessore di Kennedy e repubblicano di tendenze assai conservatrici, nel suo ultimo discorso da presidente disse: «Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari e una enorme industria di armamenti è nuovo nell’esperienza americana. L’influenza è totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità; viene sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Nei concili di governo dobbiamo guardarci le spalle contro l’acquisizione d’influenze che non danno garanzie, sia palesi sia occulte, esercitate dal complesso militare industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro». Non è una grande novità, dunque, che alle crisi si risponda con la guerra. A questo abbiamo assistito negli ultimi dieci anni. E non ci stupisce che, oggi, quando il “toro” è in agonia, la Lockheed sia una delle poche società a mantenersi in attivo. La cultura della guerra ha preso il sopravvento e ha fatto saltare anche i paletti della logica, non solo quelli della convivenza civile. Su che base logica o lessicale, infatti, una bomba che esplode in una città europea facendo decine e decine di vitti-
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me civili si chiama terrorismo, mentre una che detona in un mercato del giovedì in un villaggio afgano si chiama deprecabile errore? Qualcuno crede ancora al fatto che non sia nei piani strategici (criminali), nelle intenzioni (criminali) e nella volontà (criminale) dei comandanti militari occidentali e dei loro mandanti politici l’ammazzare ogni giorno svariate decine di civili inermi? Ma quando anche un tribunale (penale, internazionale o divino per chi ci crede) giudicherà i reati di sangue di cui ci stiamo macchiando (perché l’indifferenza e l’omertà sono complici del terrorismo) sarà tardi per chiedere scusa alle migliaia di persone che abbiamo massacrato in questi primi e sanguinosi anni del nuovo millennio nel nome della giustizia e di dio. (Anche se, più realisticamente per bramosia di denaro e di risorse naturali da strappare con pochi quattrini ai popoli della Terra). Secondo il posto in cui ci si trova, queste parole, “guerra” e “terrorismo”, assumono significati opposti. Per la propaganda certamente. Ma anche perché queste parole, oggi, hanno confini assai labili. È facile comprendere come, secondo che si stia tra civili occidentali o tra civili che subiscono le guerre degli occidentali, la parola terrorista sia riservata agli appartenenti a schieramenti opposti. Se per un inglese la parola terrorista si associa ai kamikaze che si sono fatti esplodere nella metro e sugli autobus, per un afgano o un irakeno che si è visto bombardare il suo villaggio, o disseminare di cluster bomb i dintorni della scuola dei propri figli, la stessa parola si associa ai militari occidentali che occupano quel paese. Non solo perché sia qui sia lì la propaganda bellica ha ormai sostituito l’informazione, ma anche perché la guerra, oggi, è fatta con lo stesso criterio del ter-
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rorismo di sempre: quello di colpire in gran parte civili (il 97 percento delle vittime sono civili, il 30 percento bambini), quello di distruggere le infrastrutture civili (fabbriche e centrali, ma anche strade e ospedali). I dati sono quelli ufficiali, e le ambiguità delle parole “guerra” e “terrorismo” sono confermate dai trattati di strategia militare e dalle definizioni che persino il sito del Dipartimento di Stato Usa adotta per spiegare di cosa si tratta. La guerra fatta con i bombardieri causa stragi di civili, quella fatta con le donne e gli uomini bomba anche. Sono anni che i centri studi, i quartieri generali, i dipartimenti e i Ministeri della Difesa cercano di dare una definizione ufficiale di terrorismo. Ma non ci riescono. Perché? È persino banale dirlo, perché la guerra deve essere fatta, per sua stessa natura, in modo da ottenere il massimo risultato con le minime perdite. Ed è banale anche questo, perché la guerra è lotta per la vita o la morte, dunque pone tutto in gioco. E per questo non esclude nessun mezzo, perché in amore e in guerra tutto è lecito. E il disonore, così come la colpa, non esiste in guerra, se non per i vinti. E quindi la guerra, oggi, viene fatta con gli stessi strumenti, sia che la si combatta in uniforme, sia che la si combatta con vesti civili e ordigni sotto gli abiti. Non c’è convenzione, diritto umanitario, tribunale internazionale che tenga: vincitori e vinti ne hanno sempre fatto a meno. Del resto la durata media degli 8.400 trattati di pace siglati tra il 1550 avanti Cristo e il 1860 è stata di soli due anni. In 3.358 anni (dal 1496 avanti Cristo al 1861) ci sono stati 3.130 anni di guerra e 277 di pace, ovvero tredici anni di guerra per ogni anno di pace. E il motivo è sempre stato lo stesso. La conquista, la predazione di ricchezze altrui.
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Ma non è detto che un male, per quanto radicato, debba esistere per sempre. E l’uomo nella sua breve vita sulla Terra, si è evoluto non poco. Quindi è legittimo avere qualche speranza. La guerra va abolita. Non ci sono altre soluzioni: va resa tabù, orrenda nelle coscienze e punita nelle leggi così come oggi lo è l’incesto, che una volta era assai più diffuso e praticato di essa. Immaginiamo che ogni giorno, due aerei carichi di 450 bambini e ragazzini che vanno in viaggio premio, in gita scolastica, picchino contro una montagna avvolta da nuvole senza lasciare un solo superstite. Probabilmente qualcosa si farebbe per evitare che ogni giorno muoiano tutti questi bambini. Si arriverebbe a impedir loro di volare, o si spianerebbero le montagne. Succede ogni giorno, infatti, a causa della guerra, non lo dicono i pacifisti assoluti, i “pacifondai”. Lo dice l’Unicef: 450 piccole vittime ogni giorno. Non è il fato che li mette su un aereo. Né il destino che fa inceppare comandi e li fa abbattere sulle montagne. Li uccidiamo noi. Sono una parte, una piccola parte, di quello che ogni giorno l’umanità è costretta a sacrificare al nostro modo di vivere. Quel modo di vivere che ogni giorno i grandi capi delle grandi potenze proclamano di voler difendere a ogni costo. «Non ci faranno cambiare modo di vivere» dicono i ricchi del pianeta. Anche a costo di compiere, in onore di chissà quale dio, sacrifici umani. O forse no. Perché se considerassimo esseri umani i morti delle guerre forse cercheremmo di far tacere le nostre e le altrui armi. Immaginiamo una barca con centotrenta italiani, o inglesi, o francesi, o statunitensi, o tedeschi, o polacchi. Immaginiamo che
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questa barca affondi nel Mediterraneo. Immaginiamo le pagine dei giornali che ci raccontano la tragedia, che sondano tutte le possibili ipotesi del disastro. Interviste con esperti, chiacchierate con capitani di lungo corso che raccontano in ogni particolare le acque di quel mare e i loro pericoli. Immaginiamo le pagine di giornali e i servizi televisivi, piene d’immagini della tragedia. Piene delle foto ricordo dei naufraghi, delle loro fototessere. E le interviste ai familiari, strazianti, agli amici carichi di nostalgia e disperazione. E i brani delle loro ultime conversazioni. Qualcuno di loro magari aveva scritto una lettera prima di imbarcarsi, e di quello scritto leggiamo sulle colonne dei maggiori quotidiani. Ci vengono recitati da un famoso attore nello speciale che in prima serata si occupa della strage. Qualcuno di loro, ci dicono, non sarebbe dovuto partire, aveva preso quella nave all’ultimo momento, come ripiego. Qualcun’altro, invece, salvato dalla fortuna, aveva cambiato programma proprio il giorno prima della partenza, e adesso è vivo. Ogni mese, ogni settimana, forse ogni giorno nel Mediterraneo affondano imbarcazioni. Gommoni, carrette, a volte navi vere e proprie. Sempre cariche di persone. Ma di loro non sappiamo nulla. Nulla delle loro vite, nulla delle loro storie. Non ci fanno vedere le istantanee della disperazione che la loro morte ha lasciato. Nessun familiare, nessun amico viene intervistato. Non incuriosiscono. Perché, dicono nelle redazioni dei giornali, sono altro da noi, non interessano. Sono ormai esseri umani di serie B come i popoli cui muoviamo guerra direttamente o le cui guerre fomentiamo per fame di ricchezza. Perché i sacrificati, per quello che i grandi mezzi d’informazione ci fanno sapere e per come li raccontano, sono altro da noi.
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Non si raccontano, gli altri morti. Non si fanno conoscere al pubblico. Dei nostri morti sappiamo tutto. Delle vittime del World Trade Center ci hanno detto ogni cosa. Ma degli altri non mostriamo i volti, non sveliamo le storie. Se lo facessimo, se raccontassimo le vite e le morti di qualcuno di quei bambini o di quelle migliaia di migranti che hanno per tomba il Mediterraneo, i potenti della Terra, i difensori del nostro stile di vita sarebbero costretti dall’opinione pubblica a trovare una soluzione. Forse sarebbero costretti a ripensare i processi di produzione a partire dalle risorse, a bloccare il business dell’industria bellica sempre così affamata di profitto. Forse, sotto pressione, potrebbero ammettere l’inutilità delle guerre. Per questo ciascuno di noi è chiamato a fare la propria parte. E dobbiamo farlo in fretta perché ogni giorno costa la vita a 450 bambini. Maso Notarianni Direttore PeaceReporter
Quando avrete abbattuto l’ultimo albero, quando avrete pescato l’ultimo pesce, quando avrete inquinato l’ultimo fiume, allora vi accorgerete che non si può mangiare il denaro. Ta-Tanka I-Yotank (Toro Seduto)
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