GRANDE MONDO PICCOLO PIANETA LA PROSPERITÀ ENTRO I CONFINI PLANETARI
JOHAN ROCKSTRÖM E MATTIAS KLUM
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Johan Rockström e Mattias Klum Grande mondo, piccolo pianeta La prosperità entro i confini planetari Big World Small Planet All Rights Reserved Copyright © Bokförlaget Max Ström 2015 Copyright sui testi © Johan Rockström © Testi pagina 130–131 e didascalie, Mattias Klum Per il copyright sulle fotografie si vedano le pagine dei ringraziamenti, che valgono quale estensione di questo copyright. Edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna Traduzione di Diego Tavazzi © 2015, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax 02 45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’Editore. ISBN 978-88-6627-171-0 Finito di stampare nel mese di dicembre 2015 presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta certificata FSC www.edizioniambiente.it
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SOMMARIO PER IL FUTURO DI NOI TUTTI PREFAZIONE
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I NOSTRI 10 MESSAGGI CHIAVE SEZIONE 1 LA GRANDE SFIDA 1. 2. 3. 4.
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A CHE PUNTO SIAMO 41 I CONFINI PLANETARI 71 SBERLONI PESANTI 95 IL PICCO DI OGNI COSA 117
SEZIONE 2 IL GRANDE CAMBIAMENTO DI MENTALITÀ
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5. “COME FAI A FARE AFFARI SU UN PIANETA MORTO?” 6. SCATENARE L’INNOVAZIONE SEZIONE 3 SOLUZIONI SOSTENIBILI
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7. RIPENSARE LA GESTIONE
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8. UNA DUPLICE STRATEGIA
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9. SOLUZIONI DALLA NATURA EPILOGO
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ALTRE INFORMAZIONI SULLE IMMAGINI FONTI
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RINGRAZIAMENTI
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PER IL FUTURO DI NOI TUTTI Gianfranco Bologna
Il mondo così come lo abbiamo conosciuto sino a oggi è a forte rischio. La situazione complessiva in cui versano i sistemi naturali e i sistemi sociali è ormai oggettivamente insostenibile. Tutte le ricerche scientifiche che indagano i significativi cambiamenti locali e globali che la nostra specie ha provocato nei sistemi naturali della Terra, documentano con chiarezza che li stiamo stravolgendo con gli stessi effetti che sino a oggi sono stati causati dalle grandi forze geofisiche che hanno plasmato e modellato il nostro pianeta nei suoi 4,6 miliardi di anni di vita. Tutto questo ci suggerisce, con altrettanta chiarezza, che dobbiamo urgentemente cambiare la rotta dei modelli di sviluppo sinora seguiti. Questo straordinario volume di Johan Rockström, uno dei più grandi esperti mondiali di Global Sustainability, con le bellissime foto di Matthias Klum, ci fornisce il quadro più innovativo e aggiornato della situazione e dei percorsi alternativi da intraprendere per vivere al meglio in questo mondo dominato dalla nostra specie. Già tra il 1871 e il 1873 Antonio Stoppani (1824 – 1891) geologo, naturalista e geografo, autore del noto volume Il Bel Paese sulle bellezze naturali e geologiche d’Italia, pubblicò il suo Corso di Geologia in cui fece presente che l’intervento umano sulla nostra Terra, per forza e ampiezza, poteva essere paragonato alle grandi forze geologiche, suggerendo così l’individuazione di una nuova era geologica attuale, definibile Antropozoica. Dopo oltre un secolo di ricerche e analisi scientifiche, durante un seminario del più importante programma di ricerca internazionale sui cambiamenti globali, l’International Geosphere Biosphere Programme (IGBP, www.igbp.net. Alla fine del 2015, l’IGBP si scioglie confluendo nel nuovo grande programma internazionale di ricerche sul sistema Terra, voluto dall’ICSU – International Council for Science, www.icsu.org – definito Future Earth: research for Global Sustainability, www.futureearth.org), tenutosi a Cuernevaca in Messico nel febbraio del 2000, Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica, fa pre-
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sente che la conoscenza scientifica acquisita ci induce a ritenere che ormai ci troviamo in un nuovo periodo geologico, l’Antropocene, un’epoca geologica dominata dall’intervento umano e dai suoi effetti. A partire dalla metà del secolo scorso si erano avviati in maniera significativa gli sforzi della comunità scientifica internazionale per comprendere al meglio le modalità di funzionamento del sistema Terra e per analizzare gli effetti del nostro intervento sui sistemi naturali. Nel 1952 l’International Council for Science (ICSU), la più grande organizzazione scientifica mondiale, propone di designare il 1957-1958 come Anno geofisico internazionale (International Geophysical Year). Inizia un’epoca di importante collaborazione internazionale tra tanti studiosi di discipline diverse che cercano di fare luce su come operano e interagiscono le sfere presenti sul nostro pianeta: la sfera dell’aria (atmosfera), la sfera dell’acqua (idrosfera), la sfera delle rocce (litosfera), la sfera del suolo (pedosfera), la sfera della vita (biosfera) e la sfera dell’uomo (antroposfera). Già nel 1957 due importanti geofisici, pionieri di queste ricerche, Roger Revelle e Hans Suess, pubblicano una ricerca sull’incremento dell’anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera e sottolineano il fatto che gli esseri umani stanno compiendo un esperimento sulla Terra di proporzioni planetarie di cui non sappiamo quali possano essere gli effetti (Revelle R., H. Suess, “Carbon Dioxide Exchange Between Atmosphere and Ocean and the Question on an Increase in Atmospheric CO2 during the Past Decades”, Tellus, 9; 18-27, 1957). Qualche decennio, dopo nel marzo del 1972, presso la prestigiosa Smithsonian Institution a Washington, un gruppo di giovani studiosi del System Dynamics Group dell’autorevole Massachusetts Institute of Technology (MIT) presenta un rapporto voluto dal Club di Roma, lo straordinario thinktank internazionale fondato nel 1968 dall’economista e dirigente industriale italiano, Aurelio Peccei (1908 – 1984). Il volume, intitolato I limiti dello sviluppo (Meadows D. H., D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens III, Mondadori, Milano 1972), riassume le analisi, le riflessioni e i risultati di una ricerca che – impiegando per la prima volta elaboratori elettronici per la costruzione di modelli di simulazione del sistema mondiale – cerca di comprendere le tendenze e le interazioni di cinque fattori dai quali dipende la sorte delle società umane nel loro insieme (l’aumento della popolazione, la disponibilità di cibo, le riserve e i consumi di materie prime, lo sviluppo industriale e l’inquinamento) in un periodo relativo ai successivi 130 anni. Nonostante le carenze che allora ancora si avevano sulle conoscenze della dinamica del Sistema Terra, il rapporto del MIT al Club di Roma scatena un dibattito internazionale di enormi proporzioni. Al di là di alcune intrinseche
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debolezze dovute alla semplificazione dell’intero modello mondiale in una simulazione elettronica certamente pionieristica, esso ha avuto, e manterrà sempre, il grande merito di aver colpito seriamente il mito della crescita indefinita del nostro modello di sviluppo dominante che ha sempre esercitato un ruolo egemone nella cultura delle nostre società, in particolare nell’ultimo secolo. Non è un caso che in quegli anni gli attacchi al rapporto provenissero da tutti quei fronti ideologici e politici che non mettevano minimamente in discussione il concetto di crescita economica materiale e quantitativa delle società umane e la nostra evidente impossibilità di sorpassare i limiti dei sistemi naturali del nostro pianeta. La ricerca del MIT si proponeva di definire infatti le costrizioni e i limiti fisici relativi alla moltiplicazione del genere umano e alla sua attività materiale sul nostro pianeta e, in maniera molto chiara, fa presente che nell’ipotesi di una crescita inalterata nei cinque settori fondamentali presi in esame (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali della crescita entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale. Il rapporto ritiene possibile modificare questa linea di sviluppo e determinare una condizione di stabilità ecologica ed economica in grado di protrarsi nel futuro, solo se si mira a una condizione di equilibrio globale, lasciando da parte il mito della crescita indefinita, che potrebbe corrispondere alla soddisfazione dei bisogni materiali degli abitanti della Terra e all’opportunità per ciascuno di realizzare compiutamente il proprio potenziale umano. Nel caso l’umanità opti per questa seconda alternativa, invece che per la prima, le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più presto essa comincerà a operare in tale direzione. Il team degli autori di I limiti dello sviluppo ha prodotto successivamente due importanti aggiornamenti del primo rapporto, che sono stati pubblicati nel 1992 e nel 2004 (Meadows D. H., D. L. Meadows, J. Randers, Oltre i limiti dello sviluppo, Il Saggiatore, Milano 1993; Meadows D. H., D. L. Meadows, J. Randers, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 2006). Nell’ultimo rapporto gli autori affermano: “Il risultato è che oggi siamo più pessimisti sul futuro globale di quanto non fossimo nel 1972. È amaro osservare che l’umanità ha sperperato questi ultimi trent’anni in futili dibattiti e risposte volenterose ma fiacche alla sfida ecologica globale. Non possiamo bloccarci per altri trent’anni. Dobbiamo cambiare molte cose se non vogliamo che nel XXI secolo il superamento dei limiti oggi in atto sfoci nel collasso”.
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In questi anni gli avanzamenti delle riflessioni e delle analisi di think-tank come il Club di Roma e il continuo incremento delle ricerche scientifiche sugli effetti della pressione umana sul sistema Terra, hanno contribuito in maniera significativa a capire che ci troviamo realmente in una dimensione nella quale l’intervento umano può essere paragonato alle grandi forze geofisiche che hanno plasmato e modellato l’intero pianeta Terra nell’arco della sua vita e che, in queste condizioni, noi siamo certamente attori del cambiamento globale perché lo inneschiamo, ma siamo anche coloro che ne subiscono pesantemente gli effetti, che colpiscono in primis le popolazioni e le comunità umane più vulnerabili e che già vivono in condizioni di forte indigenza. Come detto, ci troviamo in un nuovo periodo geologico, l’Antropocene (www.anthropocene.info), e la Commissione stratigrafica internazionale dell’International Union of Geological Sciences (IUGS) ha istituito un gruppo di lavoro ad hoc sull’Antropocene, per studiare in dettaglio la possibilità di formalizzare, secondo le modalità della scienza geologica, questo nuovo periodo nel Geological Time Scale ufficiale: il verdetto formale ci sarà nel 2016 (Philosophical Transactions A della Royal Society curato da Williams M., J. Zalasiewicz, A. Haywood, M. Ellis, “The Anthropocene: a new epoch of geological time”, 369, 1938, 2011; e anche il volume della London Geological Society curato da Waters C., J. Zalasiewicz, M. Williams, M. Ellis, A. Snelling, Stratigraphical Basis for the Anthropocene, special publication 395, 2014). Diventa quindi veramente difficile immaginare che una continua crescita economica, scontrandosi sempre più con i limiti ambientali, possa proseguire indisturbata, ed è francamente preoccupante che questa “visione” domini ancora nella politica e nell’economia mondiali. Siamo sempre più consapevoli che non può esistere una sostenibilità del nostro sviluppo sociale ed economico se cerchiamo continuamente di oltrepassare i limiti delle dimensioni biofisiche dei sistemi naturali e se indeboliamo la loro vitalità. Attualmente, ogni secondo l’umanità consuma circa 1.000 barili di petrolio, 93.000 metri cubi di gas naturale e 221 tonnellate di carbone. Un Avatar di Second Life, quindi una figura digitale creata in un mondo virtuale al computer, consuma oggi più elettricità di quella consumata da una persona reale in un paese in via di sviluppo. I 2,3 miliardi di persone che popolavano la Terra nel 1950 consumavano 2,85 TW (Terawatt), corrispondenti a 1,1 TW ogni miliardo di persone. Nel 2010 la popolazione mondiale di 6,8 miliardi di abitanti consumava 15 TW, cioè circa 2,2 TW per ogni miliardo di persone. Proseguendo su questo trend nel 2050, il tasso di consumo potrebbe essere di oltre i 40 TW, con una popolazione di oltre 9 miliardi (Armaroli N., V. Balzani, Energy for a Sustainable World. From the Oil Age to a Sun-Powered Future,
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Wiley-VCH, 2011; Armaroli N., V. Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli, Bologna 2011). L’ultimo World Population Prospects delle Nazioni Unite comunica infatti che la popolazione mondiale, nel luglio del 2015, è di 7,3 miliardi di abitanti (http://esa.un.org/undp/wpp), una cifra che è quasi 9 volte gli 800 milioni di abitanti che si stima vivessero nel 1750, agli albori della Rivoluzione industriale. Nel 2050 dovrebbe raggiungere, seguendo la variante media (che è la più attendibile), i 9,7 miliardi di abitanti. La popolazione mondiale continua a crescere a un tasso di circa 83 milioni l’anno. Anche assumendo che i livelli di fertilità continuino a declinare, la popolazione globale dovrebbe raggiungere gli 8,5 miliardi nel 2030, i 9,7 miliardi nel 2050 e gli 11,2 miliardi nel 2100, rispetto alle proiezioni relative alla variante media. La crescita della popolazione fino al 2050 è praticamente inevitabile, anche se il declino della fertilità dovesse accelerare. Oggi la scienza della sostenibilità e della Global Sustainability, basate sulle più avanzate ricerche interdisciplinari, ci stanno fornendo gli strumenti fondamentali per affrontare e risolvere questi gravi problemi che dovrebbero figurare, per l’importanza e l’urgenza che assumono per l’intera umanità, al primo punto delle agende politiche internazionali (Bologna G., Manuale della sostenibilità, Edizioni Ambiente, Milano 2008; Bologna G., Sostenibilità in pillole, Edizioni Ambiente, Milano 2013). Tra i maggiori protagonisti internazionali di questi innovativi campi di ricerca vi è senza alcun dubbio Johan Rockström, direttore dello Stockholm Resilience Centre (www.stockholmresilience.org, www.resalliance.org), già direttore dell’altrettanto autorevole Stockholm Environment Institute (SEI), studioso poliedrico, grande esperto di temi legati alla sostenibilità dell’uso dell’acqua, con una straordinaria capacità intellettuale di connessione dei risultati di tante discipline scientifiche e con notevolissime doti di comunicazione e divulgazione. E non è quindi un caso che questo sia veramente un libro eccezionale. Un libro fortemente innovativo, capace di fornire un quadro preciso, puntuale, chiaro e divulgativo di quanto oggi sappiamo della situazione che noi stessi abbiamo creato, mettendo in discussione gli equilibri dinamici che nel periodo geologico che abbiamo vissuto sinora, l’Olocene (che riguarda solo gli ultimi 11.000 anni di vita della Terra), ha consentito lo sviluppo della civiltà umana. Un libro capace, nel contempo, di fornire il quadro più avvincente di come cercare di realizzare un Antropocene positivo (www.goodanthropocenes. net), capace di riorientare il tragitto dell’umanità nell’ambito dei limiti biofisici che la natura indica bilanciandosi tra la resilienza e la vulnerabilità.
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Johan Rockström ha scritto diversi libri importanti, come l’affascinante volume scritto con Anders Wijkman, e presentato come un rapporto al Club di Roma (Rockström J., A. Wijkman, Natura in bancarotta, Edizioni Ambiente, Milano 2014), e numerosi lavori scientifici rilevanti, avviando insieme a tanti altri scienziati di spicco sin dal 2009 la riflessione e l’analisi sui Planetary Boundaries, i “confini planetari” che l’umanità non deve sorpassare, pena il superamento di punti critici, oltrepassati i quali l’umanità non ha la capacità di governare gli effetti a cascata che ne derivano causando una gravissima situazione di instabilità e vulnerabilità per il futuro di noi tutti. I confini planetari, eccellentemente illustrati in questo volume, sono un’importante derivazione delle riflessioni del Club di Roma sui limiti della crescita e ormai costituiscono un framework di riferimento che ha ispirato anche l’elaborazione dei Sustainable Development Goals (SDGs), gli Obiettivi di sviluppo sostenibile per l’agenda mondiale 2030 approvata dalle Nazioni Unite nel settembre 2015. Si tratta di individuare uno spazio sicuro operativo per l’umanità, entro cui definire i modelli di sviluppo e di benessere che si dovranno perseguire restando nei limiti biofisici della Terra, rispettando anche i limiti sociali di equità e giustizia, che ogni vita umana richiede (Raworth K., “A safe and just space for Humanity. Can we live within the doughnut?”, Oxfam Discussion Paper, 2012. Si veda anche il sito di Kate Raworth, www.kateraworth.com). Johan Rockström è un’autorità mondiale sulla resilienza, un concetto che sta diventando sempre più diffuso e utilizzato in diverse discipline e che viene illustrato molto bene in questo volume. Il concetto ecologico di resilienza è stato pionieristicamente introdotto da Crawford Holling, sin dai primi anni Settanta, e definisce la capacità dei sistemi naturali o dei Social- Ecological Systems (i sistemi socio-ecologici che sono l’oggetto dell’analisi della scienza della sostenibilità), di assorbire un disturbo e di riorganizzarsi mentre ha luogo il cambiamento, in modo tale da mantenere ancora essenzialmente le stesse funzioni, la stessa struttura, la stessa identità e gli stessi feedback. Il sistema ha la possibilità quindi di evolvere in stati multipli, diversi da quello precedente al disturbo, garantendo il mantenimento della vitalità delle funzioni e delle strutture del sistema stesso. La resilienza, ricorda Holling, è misurata dal grado di disturbo che può essere assorbito prima che il sistema cambi la sua struttura, mutando variabili e processi che ne controllano il comportamento. In altre parole, resilienza di un ecosistema costituisce quindi la propria capacità di tollerare un disturbo senza collassare in uno stato qualitativo differente. Il sistema che ha minore resilienza inevitabilmente accresce la pro-
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pria vulnerabilità. Perciò la gestione dei sistemi socio-ecologici deve essere indirizzata a mantenere alto il livello di resilienza e basso quello di vulnerabilità. La vulnerabilità è un concetto altrettanto significativo che possiamo invece considerare l’inverso della resilienza. La vulnerabilità ha luogo quando un sistema ecologico o sociale perde le sue capacità di resilienza divenendo quindi vulnerabile al mutamento che precedentemente poteva essere assorbito. In un sistema resiliente il cambiamento ha la potenzialità di creare opportunità di sviluppo, novità e innovazione. In un sistema vulnerabile persino piccoli cambiamenti possono risultare devastanti. La vulnerabilità si riferisce perciò alla propensione di un Social-Ecological System di soffrire duramente delle esposizioni agli stress e agli shock esterni. Meno resiliente è il sistema, minore è la capacità delle istituzioni e delle società di adattarsi e di affrontare i cambiamenti. Attuare politiche di sostenibilità vuol dire quindi apprendere come gestire l’incertezza, adattarsi alle condizioni mutevoli che si presentano ma, soprattutto, evitare di rendere sempre meno resilienti e più vulnerabili i sistemi naturali e i nostri sistemi sociali. Siamo in un mondo in cui, come abbiamo sin qui considerato, l’umanità sta giocando un ruolo preminente nel modificare i processi della biosfera, dal livello genetico alla scala globale. Abbiamo un’estrema necessità di mitigare il nostro impatto sui sistemi naturali e di essere in grado di adattarci alle nuove situazioni, con grandi capacità di apprendimento e flessibilità. Le politiche di sostenibilità basate sulle migliori conoscenze scientifiche transdisciplinari dovrebbero diventare la priorità delle agende politiche internazionali e l’applicazione concreta dei Sustainable Development Goals (SDGs), approvati nel settembre 2015 all’Assemblea generale delle Nazioni unite, obiettivi che tutti i paesi devono attuare entro il 2030, offrono una notevole opportunità di azione. Il costo ambientale, economico e sociale che potremmo pagare, se ciò non dovesse aver luogo, potrebbe infatti essere altissimo. Lo straordinario libro di Johan Rockström ci insegna proprio questo e ci insegna concretamente cosa fare per cambiare rotta.
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PREFAZIONE UNA PARTNERSHIP PER IL CAMBIAMENTO
Quella notte a Copenaghen il freddo pungeva. Il grande summit sul clima del 2009 era finito e tutti stavano tornando a casa. I saloni del Bella Center, dove i delegati di 192 nazioni avevano passato le ultime due settimane impegnati in aspre negoziazioni, erano vuoti. Nelle penombra si aggirava solo una moltitudine di operai, che avvolgevano i cavi per l’alimentazione e smontavano le apparecchiature. Le decine di migliaia di manifestanti che avevano riempito le strade della città se ne erano andati, e con loro gli elicotteri della polizia. Il presidente Obama e gli americani erano partiti. Il premier Wen Jiabao e i cinesi erano partiti. I diplomatici, i giornalisti e gli attivisti che erano arrivati a Copenaghen convinti di assistere a un momento storico della diplomazia e della politica, erano partiti. E – considerato che non vi era nulla che potesse essere ricordato come un successo – molti ripetevano la stessa parola: “Fallimento”. “Cos’è successo?”, mi chiese Mattias mentre eravamo fuori dal Bella Center. “Le persone con cui ho parlato erano piene di speranze.” Solo pochi giorni prima, a una mostra delle sue fotografie, davanti a un gruppo di alto livello, Mattias aveva tenuto una breve presentazione sugli effetti globali della deforestazione in Borneo. Tra i presenti l’ex primo ministro britannico Tony Blair, Vittoria, la principessa di Svezia, e Gro Harlem Brundtland, Special Envoy on Climate Change per le Nazioni unite. Mattias, fotografo naturalista e regista, era stato in Borneo diverse volte durante la sua quasi trentennale carriera, e aveva parlato in toni accorati delle devastazioni che avevano cancellato il 75% delle foreste tropicali di pianura, minacciando l’isolamento della tribù dei Penan e animali come gli oranghi e gli elefanti pigmei. “Tutti sembravano aver capito”, mormorò Mattias. Quella stessa settimana mi era successa una cosa simile. Avevo partecipato a un evento collaterale sul clima sponsorizzato dall’Unione europea. Come relatori, ci era stato chiesto di presentare degli scenari per stabilizzare le temperature globali a non più di 2 °C rispetto ai valori preindustriali – il valore su
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