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PAUL HAWKEN AMORY LOVINS L. HUNTER LOVINS
CAPITALISMO NATURALE LA PROSSIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna
Edizioni Ambiente
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Paul Hawken, Amory Lovins e L. Hunter Lovins
CAPITALISMO NATURALE
la prossima rivoluzione industriale realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it e-mail: redazione@reteambiente.it titolo originale Natural Capitalism Creating the Next Industrial Revolution Little, Brown and Company Boston, New York, London © 1999 Paul Hawken, Amory Lovins e L. Hunter Lovins traduzione: Anna Bruno Ventre, Fiamma Lolli, Carlo Modonesi, Marco Moro, Monica Oldani, Diego Tavazzi progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo
© copyright 2001, 2007, 2011 nuova edizione, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-6627-017-1
Finito di stampare nel mese di settembre 2011 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% i siti di edizioni ambiente
www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.verdenero.it
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sommario
verso un metabolismo socioambientale sostenibile
di Gianfranco Bologna
introduzione all’edizione per il decimo anniversario prefazione
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1. la prossima rivoluzione industriale
1 5 7 8 10 12 14
2. reinventare la ruota
17 21 23 23 25 29 30 31 35
3. non sprecare
39 41 43 46 47
4. costruire il mondo
51 51 52 53 54 55 56 59 62
Il capitalismo tradizionale Un capitalismo che tiene conto dei sistemi viventi La produttività delle risorse Bioimitazione Flussi e servizi Gli investimenti nel capitale naturale Sulla strada dell’efficienza Rendere sicura un’auto leggera L’economia dell’ultraleggero La propulsione ibrido-elettrica e la rivoluzione delle celle a idrogeno Oltre l’Età del Ferro Come arrivarci? Oltre l’efficienza: il miglior accesso al minor costo Dal pendolarismo alla vita di comunità I rifiuti in cifre Sprecare le persone La ricchezza perduta Lo spreco come sistema Produrre con maggior efficienza energetica Progettazione Nuove tecnologie Controlli Cultura aziendale Nuovi processi Risparmiare materiali Materiali che rinascono
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5. nuovi edifici, nuovi quartieri
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6. superare la barriera dei costi
91 92 94 96 97
Verde in entrambi i sensi Premiare ciò che desideriamo di più Trasformare gli immobili commerciali Edifici, materiali e suoli riciclati Anche la casa partecipa alla rivoluzione Elettrodomestici Ripensare le comunità La barriera dei costi Design integrato per vantaggi multipli Approfittare di ogni intervento Pensare all’indietro per fare un balzo in avanti 7. servizi e flusso al posto dei “muda”
101 105 106 108 111
8. capital gains
115 116 118 119 121 124 126
9. i filamenti della natura
133 136 138 141 143 146
10. cibo per la vita
149 156 160 163
11. soluzioni per l’acqua
169 170 171 172 174 175
Semplificazione e ridimensionamento di scala Il lean thinking in azione Servizio e flusso La nuova vita del leasing I servizi degli ecosistemi L’ambiente come fonte di qualità Il capitale naturale Sostituti o complementi? Fattori limitanti Investire nel capitale naturale Byte e neuroni al posto dei fogli di carta Moltiplicare sistematicamente i risparmi Nuovi materiali, nuovi progetti Chiudere il cerchio dei materiali Fibre alternative e altre innovazioni Più efficienza nelle aziende agricole Suolo e clima La natura modello e guida Restare a secco La soluzione dell’efficienza L’agricoltura Progettare il paesaggio L’edilizia
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L’industria Recuperare l’acqua piovana e le acque grigie Recuperare l’acqua con la depurazione biologica Implementazione
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12. clima: fare bene e fare soldi
187 192 195 197 199 202 204 205
13. far funzionare i mercati
209 211 213 216 218 219 220 221 222 223 224
14. capitalismo umano
Tessere la rete delle soluzioni: l’esempio di Curitiba Trasporti e uso del territorio Acqua, rifiuti e verde pubblico Industria e comunità Bambini e salute, rifiuti e alimentazione Scuola, accoglienza e lavoro Sbandati e nuovi arrivati Identità e dignità Conclusioni
227 229 232 235 237 239 241 242 244 244
15. c’era una volta un pianeta
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note bibliografia
259 285
Reimpostare il dibattito sul clima Noi confidiamo in Dio, gli altri forniscono dati Che fare se l’efficienza non basta Dall’azienda alla nazione Prezzi dell’energia, competitività nazionale e mercato Vincono quasi tutti Proteggere il clima divertendosi e guadagnando Libero mercato e altre fantasie Errate allocazioni di capitale Errori organizzativi Errori di regolamentazione Errori di informazione I rischi della catena di valore Quando i prezzi non danno segnali (o danno segnali falsi) Diritti di proprietà e mercati incompleti Scenari di politiche creative Le regole giuste fanno funzionare il mercato
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verso un metabolismo socioambientale sostenibile Gianfranco Bologna
È davvero un’ottima idea quella delle meritevoli Edizioni Ambiente di ristampare Capitalismo naturale, un libro che possiamo senza dubbio annoverare tra i “classici” della sostenibilità. In particolare è molto utile farlo in un momento come questo, che vede proseguire ancora in tutto il mondo i drammatici effetti della crisi finanziaria ed economica, scatenatasi nel 2008. In più, la comunità internazionale ha avviato il processo negoziale per la nuova conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (United Nations Conference on Sustainable Development, si veda il sito www.uncsd2012.org) che si terrà nel giugno 2012 a Rio de Janiero. La Conferenza avrà luogo esattamente 20 anni dopo il grande Earth Summit dell’ONU che si svolse sempre a Rio de Janeiro nel 1992, e che ha costituito una fondamentale base di partenza per tutte le iniziative sulla sostenibilità a livello mondiale. La particolare importanza della nuova conferenza ONU deriva dal fatto che il tema dominante sarà l’applicazione e la concretizzazione della Green Economy, quindi di un nuovo modo di condurre gli andamenti economici rispetto all’attuale che, ormai, ha palesato in maniera evidente tutti i suoi gravi difetti. Sin dal suo lancio Capitalismo naturale è stato un grande successo, tanto che gli si è dedicato contestualmente un sito web apposito, dal quale il libro si può “scaricare” liberamente (vedi www.natcap.org). Oggi questo è un fatto frequente per tutti i libri di successo ma, all’epoca della pubblicazione dell’opera (1999), lo era molto di meno. Inoltre, gli autori di Capitalismo naturale hanno avviato importanti e significative iniziative dedicate proprio all’applicazione concreta dei principi illustrati nel volume: basti pensare al Natural Capital Institute avviato da Paul Hawken (si veda www.naturalcapital.org) e al Natural Capital Solutions di Lee Hunter Lovins (si veda www.natcapsolutions.org). verso una green economy
La trasformazione dell’attuale sistema economico in un nuovo sistema fortemente orientato alla Green Economy è un tema ormai prioritario che si sta imponendo all’attenzione dell’agenda politica internazionale. Come passo importante e significativo del processo che condurrà alla Conferenza Rio + 20 del 2012, il Programma Ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme) ha reso noto agli inizi di quest’anno un ampio e articolato rapporto comune-
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mente definito GER, Green Economy Report (il lavoro dell’UNEP sulla Green Economy ha raggiunto, già nel 2008, una particolare visibilità attraverso le iniziative definite Global Green New Deal – GGND). Le iniziative GGND costituiscono una serie di proposte di investimenti pubblici, politiche complementari e riforme dei prezzi che mirano all’avvio di una transizione verso una vera Green Economy, rinvigorendo contestualmente le economie, l’occupazione e la riduzione dei livelli di povertà (l’economista inglese Edward Barbier ha diretto questa iniziativa e ha pubblicato anche un volume in merito, si veda Barbier, 2010). Il rapporto GER costituisce un documento molto utile che si inserisce autorevolmente nell’ampio dibattito internazionale, in atto ormai da tempo, sull’estrema necessità di impostare un nuovo modello economico. È stato diretto da Pavan Sukhdev, l’economista indiano che ha coordinato anche i lavori dell’affascinante programma internazionale TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity, si veda www.teebweb.org) i cui rapporti finali sono stati resi noti tra fine 2010 e 2011 (si veda Kumar, 2010; Ten Brink, 2011; Bishop, in prep.; Wittmer e Gundimeda, in prep.). Il GER ricorda che, negli ultimi due anni in particolare, il concetto di Green Economy è entrato fortemente nel dibattito politico internazionale. Capi di stato e ministri delle finanze ne hanno parlato e discusso e il tema è entrato nei documenti ufficiali dei comunicati delle riunioni del G20 ed è stato discusso anche anche nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2010. È evidente che il crescente interesse attorno alla Green Economy si è intensificato a causa della diffusa disillusione verso il paradigma economico attualmente dominante, che è andata incrementandosi con la profonda crisi finanziaria ed economica che ha attanagliato le nostre società a partire dal 2008. Inoltre appare sempre più evidente che l’attuale sistema economico ha accresciuto i rischi ambientali, le scarsità ecologiche e le disparità sociali. Il GER mira a dimostrare l’importanza di imboccare una nuova strada invitando i governi e il mondo imprenditoriale a partecipare attivamente a questa trasformazione economica. Le cause delle numerose e interrelate crisi con le quali dobbiamo confrontarci ormai quotidianamente, dalla crisi dei cambiamenti climatici alla crisi dell’insicurezza alimentare, dalla crisi della scarsità di acqua alla crisi della perdita della biodiversità, dalla crisi dei persistenti problemi sociali (come la disoccupazione, l’insicurezza socio-economica, l’instabilità sociale, ecc.) alla crisi finanziaria, secondo il GER possono essere ricondotte a una gigantesca ed errata allocazione del capitale. In particolare, nell’arco degli ultimi due decenni grandi quantità di capitale sono stati investiti, per esempio, nei combustibili fossili e negli asset finanziari strutturati con gli strumenti derivati a essi incorporati. In paragone invece, molto poco è stato investito nelle energie rinnovabili, nell’efficienza energetica, nei sistemi di trasporto pubblici, nei metodi di ecoagricoltura, nella conservazione e tutela degli ecosistemi, della biodiversità, dei suoli, delle acque, dei mari e degli oceani. Indebolire pesantemente il capitale naturale e la salute, la vitalità e la ricchezza dei sistemi naturali, spesso in maniera irreversibile, costituisce un pesante impatto negativo per il benessere delle generazioni attuali e presenta rischi e prospettive tremende per le generazioni future. Le recenti e multiple crisi sono appunto sintomatiche di questa situazione. Invertire questa errata allocazione di capitale richiede un forte miglioramento delle politiche pubbliche, incluse le misure di indicazioni dei prezzi, comprensivi della loro realtà
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ecologica e della loro regolazione, oltre che la modifica degli attuali sistemi di incentivazione perversa che guidano l’errata allocazione di capitale e ignorano le esternalità sociali e ambientali che si producono. Nello stesso tempo, politiche e regolamenti appropriati e investimenti pubblici che incoraggiano i cambiamenti anche negli investimenti privati stanno crescendo in tutto il mondo, anche nei paesi in via di sviluppo (si veda UNEP, 2011) Il GER propone l’investimento del 2% del prodotto globale lordo annuo, da ora al 2050, per una trasformazione in “verde” in 10 settori chiave dal punto di vista della sostenibilità (e cioè agricoltura, infrastrutture edilizie, rifornimenti energetici, pesca, prodotti forestali, industria, efficienza energetica, turismo, trasporti, gestione dei rifiuti e acqua) che avviino una transizione verso un’economia a bassa intensità di carbonio e a uso efficiente delle risorse. Si tratta di una cifra complessiva che si aggira intorno ai 1.300 miliardi di dollari annui. Per esempio, investendo circa l’1,4% del prodotto globale lordo annuo nell’efficienza energetica e nelle energie rinnovabili si avrebbe un taglio nella domanda di energia primaria del 9% entro il 2020 e di circa il 40% entro il 2050. Il 2% del GDP globale annuo dovrebbe essere così suddiviso nei dieci settori sopra ricordati: (1) 108 miliardi di dollari di investimenti nell’ecoagricoltura; (2) 134 miliardi di dollari di investimenti nell’edilizia con efficienza energetica; (3) oltre 360 miliardi di dollari in investimenti sui rifornimenti energetici; (4) intorno ai 110 miliardi di dollari in investimenti sulla pesca verde, eliminando l’overfishing e riducendo la capacità delle flotte pescherecce; (5) 15 miliardi di dollari in investimenti sugli ecosistemi forestali con importanti benefici relativi alla lotta al cambiamento climatico; (6) oltre 75 miliardi di dollari in investimenti nell’industria verde, inclusa l’industria manifatturiera; (7) circa 135 miliardi di dollari sul turismo verde e sostenibile; (8) oltre 190 miliardi di dollari sui sistemi di mobilità sostenibile; (9) circa 110 miliardi di dollari sui sistemi di riciclaggio e sui rifiuti; (10) circa 110 miliardi di dollari sul settore idrico, incluse le azioni per garantire i servizi sanitari. Il processo verso la Conferenza Rio + 20 dovrà far maturare la crescente consapevolezza, che sempre più si sta diffondendo a livello mondiale, sulla necessità di una nuova impostazione economica. l’insostenibile pressione sui sistemi naturali della terra
Secondo le Nazioni Unite il prossimo 31 ottobre 2011 raggiungeremo i sette miliardi di abitanti. Agli inizi di quest’anno è stato infatti reso noto il nuovo rapporto sulla popolazione mondiale delle Nazioni Unite (United Nations, 2011) Questo documento costituisce il più autorevole rapporto internazionale sullo stato della popolazione nel mondo e sugli scenari futuri, e viene realizzato dalle Nazioni Unite ogni due anni. Per quanto riguarda gli scenari futuri i demografi delle Nazioni Unite
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individuano tre varianti per la crescita della popolazione, definite alta, media e bassa. La variante media è quella che risponde maggiormente al dato che finora si è verificato nella realtà. La variante media della nuova Revisione 2010 indica una popolazione mondiale per il 2050 che dovrebbe essere di 156 milioni superiore a quella prevista nell’ultima Revisione, relativa al 2008, fornendo quindi un dato complessivo, per il 2050, di 9 miliardi e 310 milioni di persone (la precedente Revisione ne prevedeva 9 miliardi e 150 milioni). Buona parte di tale differenza scaturisce da un numero più alto di nascite previsto nella Revisione 2010, precisamente di 147 milioni in più nel periodo 2010-2050, e da un numero inferiore di decessi, 22 milioni in meno rispetto alla Revisione 2008, nello stesso periodo. Inoltre la popolazione del 2010 è risultata inferiore a quella prevista nella Revisione 2008 per una cifra di 13 milioni. Il nuovo World Population Prospect ricorda che l’attuale popolazione umana, che quest’anno raggiungerà i 7 miliardi di abitanti, dovrebbe arrivare entro il 2100 alla cifra di 10,1 miliardi. La maggior parte dell’incremento previsto si verificherà nei paesi ad alta fertilità, che comprendono 39 paesi africani, nove asiatici, sei in Oceania e quattro in America Latina. Sempre tenendo conto delle stime della variante media, a partire dai 7 miliardi del 2010 saranno necessari solo 13 anni per raggiungere l’ottavo miliardo, 18 anni per arrivare al nono e 40 anni per il decimo. Se invece si dovesse verificare un andamento di crescita prevista dalla variante alta, aggiungeremo un miliardo in più ogni 10-11 anni per il resto del secolo. È bene ricordare che la popolazione umana ha raggiunto il suo primo miliardo nei primi anni dell’Ottocento e il secondo nei primi decenni del Novecento, il terzo miliardo il 25 ottobre del 1959, il quarto il 27 giugno del 1974, il quinto il 21 gennaio del 1987, il sesto il 5 dicembre del 1998, il settimo dovremmo raggiungerlo il 31 ottobre 2010, l’ottavo il 15 giugno del 2025, il 9 il 18 febbraio del 2043 e il decimo il 18 giugno del 2083. Sette miliardi di abitanti costituiscono il doppio degli esseri umani che vivevano sulla Terra appena 50 anni fa. Chi ha oggi sorpassato la mezza età ha vissuto nell’arco della sua vita il raddoppio della popolazione mondiale. Più esseri umani si aggiungono alla comunità umana sul pianeta più diventa urgente e indifferibile trovare soluzioni agli incombenti problemi legati allo sfruttamento delle risorse, ai nostri crescenti impatti sui sistemi naturali, all’autentico sconvolgimento che abbiamo provocato nelle complesse sfere del sistema Terra, allo stato complessivo della salute fisica e psichica delle nostre società, ecc. Alla crescita della popolazione si affianca infatti la crescita dei livelli di consumo. Al miliardo e più di esseri umani che hanno già livelli molto elevati di consumo (i paesi della cosiddetta area OCSE e cioè Stati Uniti, Canada, Europa, Giappone, Australia e Nuova Zelanda) si è aggiunto, da diversi anni, più di un miliardo di abitanti di alcuni paesi di nuova industrializzazione (dalla Cina all’India, dalla Malesia, all’Indonesia, dal Brasile all’Argentina, dall’Ucraina al Sud Africa, ecc.) che presentano ormai livelli di consumo simili a quelli dei paesi dell’area OCSE (Myers e Kent, 2004). Nel loro splendido volume uscito agli inizi del 2011, Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani, due grandi studiosi delle questioni energetiche, ricordano alcuni dati sui nostri consumi energetici. Ogni secondo l’umanità consuma circa 1.000 barili di petrolio, 93.000 metri cubici di gas naturale e 221 tonnellate di carbone. I 2,3 miliardi di persone che popolavano la Terra nel 1950 consumavano 2,85 TW, corrispondenti a 1,1 TW per ogni miliardo di persone. Nel 2010 la popolazione mondiale di 6,8 miliardi di abitanti con-
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sumava 15 TW, cioè circa 2,2 TW per ogni miliardo di persone. Proseguendo su questo trend, nel 2050 il tasso di consumo potrebbe superare i 40 TW, con una popolazione di oltre 9 miliardi. Armaroli e Balzani ci ricordano che, per affrontare un incremento di circa 24 TW tra il periodo attuale e il 2050, dovremmo costruire l’equivalente di 48.000 centrali a carbone (da 500 MW ciascuna) oppure 24.000 centrali nucleari (da 1 GW a testa) oppure 150.000 chilometri quadrati di moduli fotovoltaici (che potrebbero coprire, in pratica, metà della superficie del nostro Bel Paese). È evidente che scenari di questo tipo sono totalmente insensati perché, in questo periodo, al contrario, dovremmo agire concretamente per ridurre in maniera drastica le emissioni di anidride carbonica, mentre non abbiamo ancora soluzioni valide al problema della sistemazione sicura delle scorie nucleari ed esistono ovvie ed evidenti limitazioni alla disponibilità di risorse, ambienti e territori. A fronte di tutto ciò appare evidente che la sola possibile risposta alla richiesta di espansione della domanda di energia non può più essere quella di prolungare l’incremento della produzione energetica, ma, piuttosto, la necessità di ridurre il consumo energetico. La dinamica naturale degli ecosistemi della Terra che costituiscono la base della nostra sopravvivenza è stata profondamente alterata negli ultimi 50 anni, come non è mai avvenuto nella storia dell’umanità e, se non si modificano i trend del nostro impatto sugli ecosistemi, la situazione peggiorerà significativamente nei prossimi 50 anni (come dimostrato dai 5 volumi del grande rapporto scientifico internazionale del Millennium Ecosystem Assessment pubblicato nel 2005 – si veda il sito http://www.millenniumassessment.org – e da tutte le ricerche internazionali dei più autorevoli programmi di ricerca sul cambiamento globale coordinati nell’Earth System Science Partnership, si veda www.essp.org). Ai ritmi attuali sarà sempre più difficile che gli ecosistemi, resi sempre più vulnerabili dal massiccio intervento antropico, forniscano i loro preziosi “servizi” al benessere umano (dalla rigenerazione del suolo al mantenimento del ciclo idrico, dalle capacità di purificazione dagli inquinanti alla composizione chimica dell’atmosfera, ecc.). Tutte le ipotesi di scenario per il nostro futuro elaborate da istituzioni e studiosi autorevoli, ci fanno profondamente riflettere sulla necessità di cambiare strada (si veda, per esempio, WWF, 2010), anche con una certa urgenza; basti pensare agli effetti che stiamo provocando nella complessa dinamica energetica del sistema climatico con l’incremento dei gas che alterano l’effetto serra naturale (si veda IPCC, 2007). la sfida dell’armonizzazione dei metabolismi sociali con quelli naturali
La grande sfida che l’umanità ha oggi davanti a sé riguarda quindi la capacità di integrare il più possibile il metabolismo dei nostri sistemi sociali con quello dei sistemi naturali dai quali deriviamo e senza i quali non possiamo vivere. Ricordano infatti William McDonough e Michael Braungart (2003) nel loro noto volume Dalla culla alla culla, una sorta di manifesto dell’ecoefficacia: “Considerate questo: le formiche del pianeta, nell’insieme, hanno una biomassa maggiore di quella degli esseri umani. Sono state incredibilmente industriose per milioni di anni, tuttavia la loro produttività nutre le piante, gli animali e il suolo. L’industria umana ha funzionato a pieno regime per poco più di un secolo e in questo pur breve lasso di tempo ha rovinato
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praticamente tutti gli ecosistemi della Terra. Non è la natura che ha un problema di progettazione. Siamo noi”. Scrivono ancora McDonough e Braungart: “Se gli esseri umani desiderano conservare l’attuale stato di benessere, dovranno imparare a imitare il sistema di flussi di nutrienti e il metabolismo altamente efficace della natura, ‘dalla culla alla culla’, in cui il concetto stesso di rifiuto non esiste. Eliminare il concetto di rifiuto significa progettare tutto – prodotti, imballaggi e sistemi – fin dall’inizio in base al principio che il rifiuto non esiste. Significa che saranno le preziose sostanze nutritive contenute nei materiali a modellare il progetto e a definirlo, che la sua forma sarà determinata dall’evoluzione, non solo dalla funzione. Siamo convinti che questa sia una prospettiva decisamente più valida rispetto a quella odierna. [...] Ci sono due distinti metabolismi sul nostro pianeta. Il primo è il metabolismo biologico o della biosfera, cioè i cicli della natura. Il secondo è il metabolismo tecnico o della tecnosfera, cioè i cicli dell’industria che comprendono anche il prelievo di materiali tecnici da luoghi naturali. Se progettati correttamente, tutti i prodotti e i materiali dell’industria alimenteranno senza rischi entrambi i metabolismi”. Raccogliere questa sfida e vincerla è uno degli obiettivi centrali della concretizzazione della sostenibilità per il nostro immediato futuro. Sostenibilità vuol dire proprio questo: riarmonizzare i nostri metabolismi sociali con quelli naturali (si veda Bologna, 2008). Questo concetto è stato richiamato da decenni da tanti autorevoli ecologi. Il grande ecologo Eugene Odum (1913-2002) riferendosi al lichene, un’associazione vivente specifica di funghi e di alghe, così intima in termini di interdipendenza funzionale e così morfologicamente integrata da farne derivare una sorta di nuovo organismo che non assomiglia a nessuno dei suoi componenti, ha scritto: “Il modello del lichene potrebbe essere simbolico per l’uomo. Fino a oggi l’uomo è vissuto come parassita del suo ambiente autotrofo, prendendo ciò che gli occorre senza preoccuparsi del benessere del suo ospite. Gli agglomerati urbani si accrescono e diventano parassiti della campagna circostante, che deve fornire cibo, acqua e aria e deve degradare enormi quantità di rifiuti. L’uomo deve evolvere verso uno stadio di mutualismo nelle sue relazioni con la natura. Se l’uomo non impara a vivere mutualisticamente con la natura, allora, proprio come un parassita ‘malaccorto’ o ‘inadatto’, sfrutterà il suo ospite fino a distruggere se stesso” (Odum, 1988). La necessità di armonizzare i nostri metabolismi con quelli naturali e le modalità per farlo sono ormai da vari anni oggetto di riflessioni, studi e proposte di diverse discipline come, per esempio, l’Industrial Ecology (l’ecologia industriale), rappresentata anche da un’apposita organizzazione scientifica, l’International Society for Industrial Ecology (si veda il sito http://www.is4ie.org). Non solo, ma da qualche decennio studiosi antesignani hanno sottolineato l’importanza dell’adeguamento del nostro modo di agire a quelli della natura sotto tutti i punti di vista: per esempio, il libro di Ian McHarg Design with Nature (1969) è diventato un classico e una fonte di ispirazione per numerosi tentativi mirati a pianificare nel rispetto delle caratteristiche naturali dell’ambiente. Ormai è veramente difficile pensare che possa continuare l’andamento di crescita materiale e quantitativa sin qui perseguito dalle società umane. Questa crescita ha permesso standard di vita che i nostri antenati non avrebbero nemmeno potuto immaginare, ma, come ben sappiamo, ha anche straordinariamente alterato, modificato e danneggiato i sistemi naturali grazie ai quali viviamo. Il modello economico che domina il mondo (pro-
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fondamente basato sullo spreco, sull’usa e getta e sull’utilizzo indiscriminato dei combustibili fossili come fonte di energia) è oggi in evidente difficoltà. Siamo entrati nel nuovo secolo e abbiamo un bisogno estremo di cambiare il modello economico; necessitiamo, con urgenza, di disporre di un’economia ecologicamente e socialmente “sostenibile” che consenta lo sviluppo umano senza distruggere le basi naturali su cui poggia e che riesca a offrire a tutti prospettive di vita eque (oggi 2,8 miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno; 1,2 miliardi con meno di un dollaro al giorno e più di 1 miliardo di persone è denutrito). Questa è la grande e straordinaria sfida che abbiamo di fronte. Affrontarla e risolverla significa impostare una transizione epocale, di portata pari a quella della Rivoluzione industriale, e cioè di quel processo che ci ha portato i dilemmi che oggi dobbiamo assolutamente risolvere. Nel primo capitolo di questo libro troviamo richiamata una nota frase di Albert Einstein (“I problemi non possono essere risolti dallo stesso atteggiamento mentale che li ha creati”) che, a mio avviso, delimita i confini della sfida che dobbiamo affrontare per trovare una via di uscita dalla grave situazione in cui ci troviamo. E questo libro si colloca senza alcun dubbio come un’utile e costruttiva risposta a tale sfida. Negli ultimi decenni questa sfida è stata fortunatamente raccolta da diverse persone e da diversi gruppi. Uno degli straordinari protagonisti di questa avventura è stato, ed è ancora, il Club di Roma. Una struttura informale creata a Roma nel 1968 dall’italiano Aurelio Peccei (1908-1984), figura dalle eccezionali doti umane e intellettuali, che ha coinvolto alcune delle menti tra le più innovative, curiose e impegnate di questi ultimi decenni in tutto il mondo, tutte profondamente preoccupate per il futuro dell’umanità. Al di là del famosissimo I limiti dello sviluppo che costituì il primo rapporto al Club di Roma nel 1972, e che scatenò, a livello internazionale, il dibattito sull’impossibilità di perseguire un’ininterrotta crescita materiale e quantitativa della nostra specie su una Terra con evidenti limiti biofisici (si vedano i tre rapporti sui limiti della crescita pubblicati da Meadows e altri), il Club di Roma ha pubblicato più di una cinquantina di rapporti tutti dedicati, con una spiccata impostazione innovativa (e con una metodica davvero innovativa, come illustrato nello splendido rapporto Imparare il futuro di Botkin, Elmandjra e Malitza) a trovare soluzioni ai problemi che incombono sul nostro futuro. Amory Lovins e Lee Hunter Lovins sono due figure che hanno colto molto bene la sfida presente nella frase di Einstein e nelle proposte dell’apprendimento innovativo presentate dal Club di Roma. Non è infatti un caso che uno dei loro libri più famosi, scritto nel 1995 insieme a Ernst Ulrich von Weizsacker (fondatore e, per anni, presidente del Wuppertal Institut, un noto think tank europeo sulla sostenibilità dello sviluppo), dal titolo Fattore 4, sia proprio un rapporto al Club di Roma. Von Weizsacker ha pubblicato recentemente, sempre come rapporto al Club di Roma, il nuovo libro Factor Five. I Lovins hanno fondato nel 1980 il Rocky Mountain Institute nel Colorado (si veda il sito http://www.rmi.org), uno dei centri di analisi e di proposte tra i più innovativi nel campo dell’efficienza tecnologica ed energetica. Agli inizi della sua carriera Amory Lovins, che ha operato per diversi anni nell’ambito dei Friends of the Earth, scatenò un ampio dibattito sulle strategie energetiche con un suo saggio sulla rivista Foreign Affairs nel 1976; in esso proponeva per le strategie energetiche l’approccio “usi finali/costi minimi” che partiva dalle seguenti domande: a che cosa ci serve l’energia, quanta ce ne vuole, di che qualità, su che scala e da quale fonte, per assolvere a ciascuno dei compiti che sono stati
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preventivamente identificati nel modo meno costoso. Un approccio totalmente diverso da quello dominante, che ha dato sempre per scontate le previsioni di incremento della domanda di energia. Nel 1977, proprio l’anno successivo alla pubblicazione del suo saggio sopra citato, Amory Lovins ha scritto un libro molto importante, dal titolo Energia dolce, con la prefazione della grande economista Barbara Ward, una delle principali animatrici della Conferenza ONU sull’ambiente umano del giugno 1972 a Stoccolma, conferenza che di fatto inaugurò l’epoca dell’esplosione dell’interesse internazionale alle problematiche ambientali. La Ward inoltre è stata fondatrice del prestigioso International Institute for Environment and Development (IIED, si veda il sito http://www.iied.org). Paul Hawken è un imprenditore molto attento alle problematiche ambientali e di sostenibilità dello sviluppo, autore di molti best seller e in particolare di The Ecology of Commerce. A Declaration of Sustainability, pubblicato nel 1993. Tra le sue ultime opere il bel volume Moltitudine inarrestabile (si veda il sito www.wiserearth.org). I Lovins e Hawken sono profondamente coinvolti in tutti gli sforzi che si devono e possono fare per dare concretezza a una vera e propria rivoluzione dell’efficienza nell’uso dell’energia e delle materie prime nel processo economico, nonché nel promuovere un modello economico che sia meno insostenibile dell’attuale dal punto di vista ecologico e sociale. Per fortuna non sono soli, e testi come il loro costituiscono le basi essenziali per affrontare questi problemi e avere chiavi di lettura ed elementi pratici validi per risolverli. L’ampio lavoro pionieristico di alcune figure significative in questi campi, come Friederich Schmidt-Bleek, ha avuto un ruolo straordinario. Schmidt-Bleek, che è stato uno dei padri delle norme tedesche che regolano la produzione e l’utilizzo delle sostanze chimiche (Chemikaliengesetz), ha operato in posizioni di rilevo nel dipartimento per l’ambiente della Germania federale e poi nell’OCSE e nel 1992 è divenuto vice presidente del già ricordato Wuppertal Institut per il clima, l’ambiente e l’energia (si veda il sito http:// www.wupperinst.org). Qui ha cominciato a lavorare sulla realizzazione di tabulati dei flussi dei materiali come misura ecologica dell’attività economica. Schmidt-Bleek ha inoltre creato una serie di istituzioni prominenti a livello internazionale sugli aspetti tecnici e sociali della sostenibilità, attivando un Club Fattore 10, il cui obiettivo è quello di dimostrare come il raggiungimento di un fattore 10 nella riduzione dell’input di materie prime ed energia per la produzione di beni e servizi sia un obiettivo plausibile e fattibile, nell’arco di un tempo di 30, massimo 50 anni, in cui le trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali possono dirigersi verso una minore insostenibilità del nostro modello di sviluppo. Oggi SchmidtBleek presiede il Factor 10 Institute con sede a Carnoules, in Francia, che opera proprio su questo obiettivo pratico (si veda il sito http://www.factor10-institute.org) e ha svolto un ruolo molto importante nell’organizzare gli interessantissimi World Resources Forum a Davos (www.worldresourcesforum.org). Tra i membri del Fattore 10 vi è un’altra figura significativa di queste tematiche; si tratta di Robert U. Ayres, dell’INSEAD francese, uno dei grandi esperti mondiali di ecologia industriale e metabolismo industriale. Per ecologia industriale si intende quella specifica strategia di riduzione degli impatti antropici sulle risorse naturali che prende a modello i processi ecosistemici di riciclo della materia. Un esempio concreto e sempre citato di ecologia industriale è quello della città danese di Kalundborg, dove il calore generato dagli impianti dell’azienda energe-
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tica e della raffineria viene recuperato per scaldare le serre, mentre i rifiuti della grande industria sono riciclati con successo come fertilizzanti per uso agricolo, materiali per l’edilizia, ecc. Nell’aprile del 1991 l’Accademia nazionale delle Scienze statunitense organizzò un seminario sull’ecologia industriale e nel 1992 si svolse un importante convegno sul tema a Snowmass, in Colorado dove ha sede anche il Rocky Mountain Institute, con l’obiettivo di avviare un nuovo campo di ricerca interdisciplinare su questo tema (dal 1996 viene anche pubblicata la rivista Journal of Industrial Ecology). Il termine “metabolismo industriale” è stato formalizzato nel settembre 1988 a un convegno dell’Università delle Nazioni Unite a Tokyo, cui ne sono seguiti altri (si veda Ayres e Simonis, 1994), che hanno riflettuto sul fatto che le cause primarie dei cambiamenti globali innescati dal nostro intervento nei sistemi naturali derivano dal sistema economico e produttivo e quindi dalle attività industriali, causa di interferenze continue negli equilibri dinamici dei cicli biogeochimici fondamentali, come quelli del carbonio, dell’azoto e dello zolfo. Si è quindi preso atto del fatto che oggi l’industria è inevitabilmente parte del “metabolismo” della biosfera. È perciò indispensabile cercare di far rientrare le attività industriali nei cicli della natura. Oggi le ricerche sul metabolismo socio-ambientale sono straordinariamente avanzate e feconde e in questo ambito hanno un ruolo importante i lavori del gruppo di Marina Fischer-Kowalski dell’Istituto di Ecologia Sociale dell’Università Klagenfurt in Austria e le tante ricerche attivate nell’ambito della già citata Earth System Science Partnership, in particolare nell’ambito dell’International Human Dimensions of Global Environmental Change Programme (IHDP). L’industria e, in genere, l’azione umana è ormai obbligata a imitare la natura (come ci ricorda un altro rapporto al Club di Roma, Blue Economy di Gunter Pauli, si veda www. blueeconomy.de). Questa è la grande sfida dell’immediato futuro. Sappiamo che il nostro centro di interesse deve essere spostato dal capitale umano ed economico a quello naturale e che il nostro sottosistema economico e produttivo può vivere e prosperare solo se si mantiene entro i limiti dell’ecosistema globale. Le ricerche e le applicazioni nei settori del metabolismo socio-ambientale costituiscono campi di approfondimento teorico e operativo fondamentali per il nostro futuro e la concreta applicazione di politiche di sostenibilità. Il libro di Hawken e dei Lovins costituisce una lettura importantissima da questo punto di vista. Si tratta di un volume piacevole, godibile, serio, informato, innovativo che non può mancare nella biblioteca di chiunque sia responsabilmente impegnato a riflettere sul nostro operato, sul nostro futuro e desideri contribuire all’innovazione e al cambiamento.
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bibliografia
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Five. The Global Economy Trough 80% Improvements in Resource Productivity, Earthscan, 2009. Wittmer H., Gundimeda H. (a cura di), The Economics of Ecosystems and Biodiversity in Local and Regional Policy and Management, Earthscan, in prep. World Wide Fund for Nature (WWF), Living Planet Report 2010, BiodiversitĂ , biocapacitĂ e sviluppo, WWF, 2010 (anche in edizione italiana scaricabile dal sito www.wwf.it). Gianfranco Bologna (Direttore scientifico WWF Italia e segretario generale Fondazione Aurelio Peccei, Club di Roma)
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Abbiamo scritto questo libro dieci anni fa. Inconsueto per il periodo e sempre più influente negli anni, aveva l’ambizione di ridefinire i modelli di business per il XXI secolo e di fondare un modo di fare affari che considerasse appieno la natura e le persone, senza però monetizzarle. Evidenziavamo come i circoli di retroazione, che in teoria avrebbero dovuto dare al mercato la capacità di autoregolarsi, in realtà non funzionassero. Pur accettando la definizione ortodossa di capitalismo – l’uso produttivo dei capitali e il loro reinvestimento – l’abbiamo allargata affinché includesse, oltre ai capitali fisici e finanziari (beni e denaro), anche quelli naturali e umani (l’ambiente e le persone, comprendendo gli individui, le comunità e le culture). L’uso produttivo e il reimpiego di queste quattro forme di capitale (quindi non più solo di due di esse) possono invertire una tendenza che da secoli sta distruggendo gli ecosistemi, creando una politica e un modo di fare affari capaci di risanare l’ambiente e la società e di dare prosperità economica. Quelli che nell’ambito del dibattito sulla globalizzazione vengono chiamati problemi ambientali e occupazionali sono in realtà il risultato della mancata considerazione del capitale umano e naturale dai bilanci della globalizzazione economica. Queste forme di capitale hanno infatti delle caratteristiche particolari: la natura affonda le sue radici nei biomi, gli esseri umani nelle comunità; non possono essere trasportati o commercializzati senza danneggiarli. I quattro principi che stanno alla base di ciò che Paul Hawken ha chiamato “capitalismo naturale” sono semplici. Primo principio: una radicale produttività delle risorse, cioè fare di più con meno, dall’estrazione agli usi finali. Si tratta di usare i combustibili, i minerali, l’acqua e le altre risorse con parsimonia, di dematerializzare i prodotti e di farli durare più a lungo. Vengono ampiamente ridotti i flussi estrattivi necessari per mantenere gli stock di beni fisici e i flussi di servizi. Secondo principio: bioimitazione, che chiude i cicli di estrazione e lavorazione, e trasforma i rifiuti in valore. Progetta senza tossicità, di modo che quella parte del flusso di materiali che torna alla natura senza aver generato valore comunque non inquina. Terzo principio: l’economia dei flussi e dei servizi ripaga per questi cambiamenti. Meno cose servono a un fornitore per effettuare un servizio (o il servizio che un bene è progettato per fornire), e più il produttore e il cliente guadagneranno denaro. Questo succede perché il produttore può affittare il servizio di un prodotto invece di venderlo, e ciò costituisce un notevole incentivo a migliorare la durata e la qualità del prodotto, oltre che a riutilizzarlo. Quarto principio: reinvestire nel capitale naturale, rinvigorendo e incrementando la fertilità naturale e la capacità degli ecosistemi di produrre cibo, fibre e altri servizi ecologici gratuiti, e con ciò migliorando la vita di tutti gli esseri viventi.
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Sebbene il primo principio abbia ricevuto l’attenzione e l’applicazione piÚ ampie, tutti e quattro sono fondamentali e interconnessi. Si consideri per esempio il flusso di materiali nell’economia statunitense a metà degli anni Novanta (le altre economie industriali differiscono meno di quanto ci si potrebbe aspettare): s IL FLUSSO GIORNALIERO DI MATERIALI PER PERSONA CHE ESTRAIAMO DALLE MINIERE FACCIAMO CREscere o coltiviamo è pari in media a 20 volte il peso di quella persona; s ALMENO IL DI QUESTO FLUSSO DI MATERIALI VIENE PERSO TRA ESTRAZIONE E LAVORAZIONE E solo il 7% viene effettivamente impiegato nei prodotti; s IL DI QUESTI PRODOTTI PER MASSA SONO BENI DI CONSUMO CHE VENGONO BUTTATI VIA senza essere stati utilizzati o dopo essere stati impiegati una sola volta. Di conseguenza, solo l’1% della massa originaria viene convertita in prodotti durevoli; s DEI MATERIALI IMPIEGATI IN QUESTI PRODOTTI DUREVOLI SOLO UN CINQUANTESIMO RITORNA IN seguito a generare valore, o come compost o in seguito al riciclo e al riutilizzo; s DI CONSEGUENZA NEGLI 3TATI 5NITI IL DEL FLUSSO DI MATERIALI Þ PURO SPRECO #ORreggere questo valore è la piÚ grande opportunità di business nella storia dell’economia globale; s COME SE TUTTO CI� NON BASTASSE GRAN PARTE DEI RIFIUTI SONO TOSSICI )L LORO SMALTIMENTO compromette la capacità degli ecosistemi di produrre il cibo, le fibre e gli altri servizi ecologici senza di cui non potremmo vivere. Il capitalismo naturale sfida sistematicamente un modo di progettare cosÏ scadente. Quando vengono applicati in un’azienda, i suoi quattro principi riducono i costi e aumentano la soddisfazione e la fedeltà dei clienti. Portano a pratiche e a risparmi che possono superare le regole convenzionali sul business. Nello stesso tempo, riescono a dare attuazione concreta agli obiettivi di business di Ray Anderson, il fondatore della Interface, e cioè non prelevare nulla, non sprecare nulla, non fare danni e fare bene a spese non del pianeta ma dei competitori meno pronti. Molte industrie, molti paesi e società hanno intrapreso questo viaggio da poco tempo. E sempre di piÚ, la loro inerzia sta compromettendo l’ambiente in cui operano, oltre alla loro prosperità e alla loro sicurezza. Il cambiamento climatico, per esempio, è diffusamente considerato dai vertici militari come una minaccia grave e autoinflitta alla stabilità globale. Via via però che sempre piÚ aziende ottengono risultati importanti nei settori dell’energia e dell’ambiente, la loro pressione competitiva sui rivali porta a modifiche nelle strategie di business, nelle politiche pubbliche e nelle richieste della società civile. Uno dei coautori di questo volume, Paul Hawken, ha descritto in Moltitudine inarrestabile (pubblicato nel 2009 da Edizioni Ambiente, www.blessedunrest.com) come in tutto il mondo la società civile si stia rapidamente organizzando in milioni di gruppi di cittadini, spesso connessi dall’emergente sistema nervoso globale che consente di condividere idee e di tradurle molto rapidamente in pressioni da parte degli elettori e dei consumatori. Anche i governi hanno iniziato a muoversi, prima a livello locale e sub-nazionale e poi a livello nazionale (come dimostrato dalla leadership dell’Europa nel settore del clima, dalle elezioni statunitensi del 2008 e dalla crescente preponderanza della Cina nei settori dell’energia e dell’ambiente). Inoltre, a sostegno di questa marea crescente, una miriade di aziende, grandi e piccole, a Nord e a Sud, stanno modificando le loro pratiche, le loro strategie, la loro cultura e i loro valori per rimuovere l’apparente contraddizione tra il ricompensare gli investitori e salvare il mondo. Spesso superano questo conflitto (lo ri-
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petiamo: apparente) applicando alcuni – e certe volte tutti – dei principi del capitalismo naturale. Grazie al nostro lavoro di consulenti abbiamo potuto verificare in prima persona l’impressionante crescita dell’alfabetizzazione ecologica ai vertici delle compagnie piĂš importanti. Ăˆ passato il tempo della contrapposizione tra le Ong e la comunitĂ scientifica e il mondo degli affari, distratto e disattento. Com’è ovvio, non tutti capiscono appieno la portata e la gravitĂ delle varie crisi che abbiamo di fronte. Uomini d’affari e politici continuano a lamentarsi dei (presunti) alti costi della protezione del clima, della scelta difficile tra posti di lavoro e ambiente, dello scarto tra benefici nel lungo o nel breve periodo, dei costi inevitabilmente elevati delle pratiche verdi o dei ritorni decrescenti degli investimenti in efficienza. Tutte queste assunzioni sono false, e palesemente contraddette dall’esperienza, dai risparmi effettivamente ottenuti e dalle analisi piĂš rigorose. Proteggere il clima non è costoso, è redditizio, dato che risparmiare energia costa meno che comprarla: l’efficienza è piĂš economica dei combustibili. Chiunque ricerca l’efficienza energetica lo dimostra ogni giorno; molte tra le aziende piĂš grandi stanno guadagnando miliardi di dollari incrementando radicalmente la loro efficienza (Dow, per esempio, ha risparmiato l’equivalente di 9 miliardi di dollari in energia con un investimento di un miliardo in efficienza). Le buone pratiche ambientali, se portate avanti con intelligenza, di solito costano meno e rendono di piĂš di quelle distruttive: le aziende che lo hanno capito prosperano, le altre arrancano. La progettazione integrata, e finalizzata a una radicale efficienza nell’uso dell’energia e delle risorse, ha dimostrato – in migliaia di edifici, in svariati veicoli e in un gran numero di aziende – che è possibile ridurre anche i costi del capitale, eliminando i presunti costi aggiuntivi necessari per ottenere risparmi nel lungo periodo. L’esperienza del design integrato, illustrata nel capitolo 6 di questo libro giĂ nel 1999, ha chiaramente dimostrato che l’ottimizzazione dell’intero sistema per ottenere benefici multipli può spesso fare in modo che i grandi risparmi di energia e risorse costino meno dei risparmi piĂš esigui, e può portare non a una diminuzione ma a un incremento del ritorno degli investimenti nella produttivitĂ delle risorse. Bastano pochi esempi per illustrare quali opportunitĂ si aprono: s I NUOVI EDIFICI DI GRANDI DIMENSIONI CHE RISPARMIANO FINO ALL DI ENERGIA DI solito costano meno di quelli inefficienti, perchĂŠ riducono le dimensioni, semplificano o addirittura eliminano i costosi equipaggiamenti meccanici necessari per scaldarli, raffrescarli e ventilarli. In Europa per esempio 20.000 case passive non hanno bisogno di riscaldamento, eppure giĂ adesso costano lo stesso prezzo (e a volte anche meno) delle case tradizionali, perchĂŠ gli investimenti in isolamento e ventilazione sono compensati dai costi evitati non installando il riscaldamento. Questi edifici passivi sono un obiettivo ufficiale in svariati luoghi, dalla California fino alle basi militari. Grazie alle ultime innovazioni nel settore, gli edifici possono addirittura produrre piĂš energia di quanta ne consumano, e risultare ancora piĂš appetibili dal punto di vista economico. s SI STIMA CHE IL NUOVO DATA CENTER DEL 2OCKY -OUNTAIN )NSTITUTE COMPLETATO DA %$3 (ora parte di Hewlett-Packard) alla fine del 2009 in Gran Bretagna, usi un quarto della normale quantitĂ di energia per una capacitĂ di calcolo quattro volte superiore, il tutto a paritĂ di costo. Future innovazioni potranno quadruplicare l’efficienza, e aumentare del 50% il risparmio di capitali. Il Rocky Mountain Institute ha operato in 29 settori industriali con interventi dal valore
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di 30 miliardi di dollari, che hanno però portato a risparmi di energia dal 30 al 60% solo con interventi di retrofit (consistenti cioè nel miglioramento dei vecchi impianti) che ripagano i loro costi in 2/3 anni, mentre con i nuovi impianti i risparmi oscillano tra il 40 e il 90% e il costo del capitale quasi sempre diminuisce. I principi che sottostanno a questi risultati, in settori diversi come gli edifici, le aziende e i veicoli sono stati definiti nel corso delle Stanford Engineering School Lectures del 2007 (www.rmi.org/stanford). Ovviamente, simili risultati sarebbero stati impossibili da raggiungere se i progetti originali fossero stati corretti, e il Rocky Mountain Institute sta elaborando un piano, chiamato 10xE (Factor Ten Engineering, www.10xE.org), per riformare i modi in cui la progettazione viene insegnata ed eseguita. automobili super efficienti
Il caso dell’efficienza delle automobili illustra in modo esemplare dieci anni di progressi nella progettazione ispirata ai principi del Capitalismo naturale, oltre che la loro diffusione (e le occasionali frustrazioni). Nel 1999 abbiamo scritto il capitolo 2 di questo libro, intitolato “Reinventare la ruotaâ€?: nove anni di analisi ci hanno convinti che automobili di efficienza tripla e senza compromessi sulla sicurezza erano fabbricabili e potenzialmente competitive. Mentre questo libro andava in stampa nel 1999, il Rocky mountain Institute stava trasformando il suo Hypercar Center in un’impresa di progettazione autonoma e a scopo di lucro, la Hypercar Inc. (che, giusto per dichiarare un interesse finanziario, è stata guidata da Amory fino al 2007, che adesso detiene una piccola partecipazione azionaria). Ecco cosa è successo da allora: s NEL L (YPERCAR 4EAM E DUE AZIENDE AUTOMOBILISTICHE PROGETTARONO UNA concept car chiamata Revolution. Si trattava di un Suv compatto, che sarebbe stato 6,3 volte piĂš efficiente di un suo corrispettivo tradizionale se alimentato con celle a idrogeno o 3,6 se alimentato a benzina. Sarebbe pesato il 53% in meno, avrebbe avuto un’accelerazione piĂš brillante e sarebbe stato anche piĂš sicuro; s LA (YPERCAR )NC INIZIĂ? LA RICERCA DEI CAPITALI PER LA PRODUZIONE NEL NOVEMBRE
proprio in coincidenza con il tracollo del mercato dei capitali. Tuttavia, molte industrie automobilistiche si dimostrarono interessate non solo agli avanzamenti progettuali, ma anche ai nuovi metodi costruttivi. Questi ultimi avrebbero potuto far risparmiare fino al 99% dei costi delle catene di montaggio, praticamente l’intero importo del reparto di carrozzeria ed eventualmente di quello di verniciatura (i due passaggi piÚ difficili e costosi nella filiera produttiva delle auto), riducendo altresÏ la dimensione degli organi di trasmissione di due terzi. Nel 2004 il Rocky Mountain Institute dimostrò che questi risparmi avrebbero compensato il costo piÚ elevato dei materiali compositi super leggeri, rendendo l’alleggerimento praticamente a costo zero; s SU RICHIESTA DEI PRODUTTORI AUTOMOBILISTICI L (YPERCAR 4EAM OMOLOG� IL PROCESSO PER realizzare strutture da materiali compositi ultraleggeri. Il sistema funzionava cosÏ bene che il team cambiò il nome dell’azienda in Fiberforge Corporation (www.fiberforge. com). Nel 2009 l’azienda era in notevole espansione, e operava nei settori automotive, aereospaziale, IT, militare, sicurezza, medico, sportivo, e i suoi processi stavano producendo prodotti commercializzati in ambito industriale; s NEL FRATTEMPO STUDI PIÂ APPROFONDITI CONFERMARONO CHE LE AUTO IPER LEGGERE POTEVANO
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essere sicure come quelle tradizionali, e in alcuni casi addirittura di più. L’elemento critico sono infatti le dimensioni, non il peso, e una progettazione e materiali migliori possono più che compensare la leggerezza. Anche i costruttori iniziarono ad accettare la leggerezza estrema. Nel 2007 la Toyota presentò la 1/X, una concept car con il volume interno di una Prius ibrida, metà dei suoi consumi e un terzo del suo peso. Anche se è vero che ben poche concept car arrivano sul mercato, è anche vero che le aziende stanno facendo sul serio: il giorno prima della presentazione della 1/X, Toray, il più grande produttore al mondo di fibra di carbonio, rese noto che avrebbe costruito uno stabilimento per produrre massicci quantitativi di parti in fibra di carbonio per la Toyota. La vicinanza dei due eventi indicava un chiaro intento strategico. Anche Honda e Nissan hanno stipulato accordi simili con Toray: il prossimo balzo in avanti del settore automotive è sul punto di accadere. Lo dimostra anche il fatto che Ford, Nissan, Audi e l’industria automobilistica cinese stanno adottando massicciamente l’alluminio, un materiale apprezzato per la sua leggerezza; s TRA IL E IL COME AVEVAMO PREVISTO FIN DALLA METÍ DEGLI ANNI .OVANTA UNA combinazione di gruppi dirigenziali incapaci, di strategie striminzite, di prezzi del petrolio molto volatili e di un mercato dei capitali asfittico ha colpito General Motors e Chrysler. Entrambe sono state costrette a dichiarare fallimento e sono state salvate dai contribuenti americani, che ora sono i loro principali azionisti. L’industria automobilistica sta adesso attraversando il suo periodo più turbolento e creativo da un secolo a questa parte, e stanno nascendo dozzine di start up. Una di queste, la Bright Automotive (la quinta spin off del Rocky Mountain Institute, www.brightautomotive.com), ha presentato nel 2009 IDEA, un prototipo funzionante di un van da una tonnellata con una capacità di carico di 5 metri cubi e consumi che oscillano tra un terzo e un dodicesimo del normale. A differenza di altri ibridi plug in, IDEA rappresenta uno straordinario modello di business: la sua leggerezza e la sua bassa resistenza aereodinamica eliminano gran parte delle costose batterie (il modo migliore per rendere convenienti le batterie e le celle a combustibile è quello di renderle meno necessarie – un concetto elaborato nel 1991 dal Rocky Mountain Institute che nel 2009 è stato messo alla base della strategia di elettrificazione del parco auto Audi); s UN ALTRA NOZIONE PROPOSTA DAL 2OCKY -OUNTAIN )NSTITUTE NEL Þ QUELLA DEI VEICOLI connessi alla rete. Si tratta di usare dei veicoli elettrici come piccole centrali elettriche su gomma: ricaricati durante la notte con gli eccessi di produzione di energia da fonte eolica, di giorno rivendono poi l’energia di riserva alle compagnie elettriche, che la usano nei pomeriggi più caldi, cioè proprio quando l’energia è più pregiata. Nel 2008, un gruppo di lavoro sullo “Smart Garage”, condotto dal Rocky Mountain Institute e che ha visto la partecipazione di svariate industrie del settore, ha impresso un’accelerazione al progetto delineando un percorso in cui i veicoli e gli edifici si scambiano energia e informazioni attraverso la rete, con vantaggi reciproci. Molti costruttori hanno iniziato ad apprezzare i vantaggi della tecnologia elettrica (potenziata da motori ibridi o dalle celle a combustibile), e stanno operando aggressivamente per diffonderla sul mercato. Molte città hanno poi iniziato a modificare le loro reti per renderle compatibili con questa nuova fonte di energia – che probabilmente sarà di un ordine di grandezza più ampia di quelle attualmente esistenti; s MENTRE I GRANDI COSTRUTTORI LOTTANO PER SOPRAVVIVERE E LE START UP SGOMITANO PER FARSI spazio, anche il panorama delle scelte politiche è attraversato da cambiamenti profondi.
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Molti paesi sussidiano la rottamazione delle automobili meno efficienti nel tentativo di stimolare le aziende automobilistiche nazionali. Il tentativo più radicale per incentivare la diffusione di auto superefficienti – chiamato “tassa o sconto”, a pagina 30 di questo libro – è stato effettuato nel 2008 in Francia: nel corso di un anno le vendite di mezzi inefficienti sono scese del 42% e quelle di auto efficienti sono salite del 50%. Nel 2009, una proposta simile è stata presentata al Senato americano. La rivoluzione nel settore automobilistico può essere immaginata così: prendete un’auto standard (8 litri per 100 chilometri di consumo medio). Sostituitela con un ibrido tipo Toyota Prius e risparmierete metà del carburante per chilometro. Poi alleggeritela e miglioratene l’aereodinamica, e risparmierete sull’altra metà del combustibile. Poi riempite il serbatoio con un carburante all’85% di etanolo coltivato in maniera sostenibile (o con un altro biocarburante che non impatti sulla produzione di cibo), e sarete arrivati a risparmiare tre quarti del combustibile rimanente, o al 6% dell’iniziale consumo per chilometro. Ancora: prendete la macchina e trasformatela in un ibrido plug in, e userete il 3% del combustibile originale. E alla fine, se volete eliminare quel 3% e forse anche il biocombustibile, passate a una macchina a idrogeno o a una 100% elettrica – entrambe, come gli ibridi plug in, hanno senso e sono convenienti se sono efficienti.
altri veicoli – e il viaggio intorno al petrolio La rivoluzione progettuale anticipata nel Capitolo 2 va oltre le automobili. Tra il 2002 e il 2004 il Rocky Mountain Institute elaborò una roadmap, guidata comunque dal business, per liberare gli Stati Uniti dalla dipendenza dal petrolio entro il 2040 (www.oilendgame. com). Metà del petrolio avrebbe potuto essere risparmiato a un costo medio di 12 dollari al barile raddoppiando l’efficienza degli impieghi del greggio, soprattutto grazie ad auto, camion pesanti e aeroplani a efficienza triplicata. L’altra metà avrebbe potuto essere rimpiazzata da da un mix di gas naturale e di biocombustibili avanzati a un costo medio di 18 dollari per barile. Questa strategia di uscita dal petrolio può facilmente essere adattata – e adottata – da qualsiasi altro paese, inclusa la Gran Bretagna. In ogni caso, la sua implementazione negli Stati Uniti è tuttora in corso. Dei sei settori che devono essere trasformati – auto, camion pesanti, aeroplani, combustibili, finanza, difesa – tre o quattro sono in prossimità (o hanno già oltrepassato) la soglia critica oltre la quale le cose si semplificano, anche se comunque rimane parecchio da fare. Nel 2009, il Wall Street Journal scrisse che secondo la ExxonMobil la domanda di petrolio statunitense stava diminuendo, e la Deutsche Bank dichiarò che la richiesta di greggio avrebbe raggiunto il picco nel 2016, per poi crollare drasticamente. Come Amory predisse vent’anni fa, il petrolio potrebbe davvero diventare non competitivo per i bassi prezzi piuttosto che non disponibile per i prezzi eccessivi. Il Pentagono sta guidando gli sforzi del governo statunitense per affrancare la nazione dal petrolio. Il combustibile risparmiato viene valutato 10-100 volte di più che in passato, dato che ora, a differenza di quanto avveniva un tempo, vengono calcolati anche i costi colossali del trasporto (in termini di vite umane e di impegno logistico). Sotto questo punto di vista, è probabile che dal Pentagono esca una fiumana di innovazioni che velocizzeranno i guadagni di efficienza dei veicoli civili – proprio come in passato il settore Ricerca e Sviluppo della difesa ci ha dato Internet, il GPS, i jet e i microprocessori. Allo stesso modo, nel 2005 Wal-Mart ha richiesto ai suoi fornitori camion a efficienza
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raddoppiata. Grazie a questa operazione il risparmio di carburante della flotta aziendale di Wal-Mart – la più grande del mondo – salirà dal 38% del 2008 al 50% del 2015. La gigantesca spinta di Wal-Mart renderà disponibili questi standard di efficienza a tutte le aziende sul mercato, con un potenziale di risparmio del 6% di petrolio. Il Rocky Mountain Institute ha dimostrato che l’efficienza dei camion può essere addirittura triplicata. Uno dei cambiamenti più straordinari è quello che è avvenuto nel settore dell’aviazione. La Boeing stava arrancando dietro ad Airbus nel 2004, quando presentò il 787 Dreamliner. Il 787 è un aereo di medie dimensioni, iper leggero (per metà del suo peso è costituito da fibre di carbonio), con motori e aereodinamica migliorati, e altre innovazioni che garantiscono risparmi di carburante fino al 20% senza costi aggiuntivi. Nonostante qualche ritardo nella produzione, è esaurito fino al 2018 con 866 esemplari prenotati, l’impennata negli ordini più rapida nella storia dell’aviazione civile. Boeing sta adottando le tecnologie usate sul 787 su ogni aeroplano che costruisce, una strategia molto competitiva, specie se si considera che Airbus non è ancora riuscita a risolvere i suoi problemi. Le innovazioni di Boeing stanno trasformando il settore dell’aviazione, e dimostrano che la strategia meno rischiosa non è quella del “sempre più grande” ma quella della trasformazione più intelligente. Sembra che anche la Ford Motor Company, che nel 2006 ha assunto il CEO della Boeing Commercial Airplanes, stia emulando la strategia della Boeing, come suggerito in Winning the Oil Endgame: sta andando oltre il fallimento di GM e Chrysler e sta guidando l’innovazione nei settori della leggerezza e dell’efficienza. Tutti questi cambiamenti sono facilitati da un nuovo atteggiamento della politica. Che uno sia preoccupato per la prosperità e i posti di lavoro, per la sicurezza nazionale, per il clima e l’ambiente, dovrebbe fare comunque le stesse cose per l’energia e per molte altre questioni. Così, concentrarsi sulla qualità e sui risultati delle nostre azioni, piuttosto che sui motivi che le ispirano, offre la possibilità di ottenere consenso, a prescindere da quanto sia frammentato l’ordinamento politico.
due rivoluzioni nell’elettricità È in corso una trasformazione nel settore della produzione dell’elettricità, l’altra grande parte del problema clima (la combustione del petrolio e la produzione di elettricità rilasciano rispettivamente il 43 e il 41% del carbonio emesso dagli Stati Uniti bruciando i combustibili fossili; in Gran Bretagna il secondo valore arriva al 30%). Questo elemento, assieme al trasporto del greggio, ha indotto il Rocky Mountain Institute a focalizzarsi su un nuovo progetto, denominato “Reiventing Fire”. La parte che riguarda l’elettricità è abbastanza complicata, ma non quanto qualcuno potrebbe aspettarsi, grazie in particolare a due rivoluzioni che si stanno rinforzando a vicenda. La prima è data dalla quantità di lavoro che riusciamo a ricavare da ogni kilowatt/ora. Le tecnologie per gli usi finali dell’energia sono migliori e costano parecchio meno di dieci anni fa, e stanno migliorando rapidamente via via che vengono adottate. Di conseguenza, i “negawatt” (i risparmi di elettricità) diventano sempre meno costosi, specialmente quando sono combinati con le tecniche di progettazione integrata a cui abbiamo fatto cenno in precedenza. La rivoluzione dei negawatt è ancora poco considerata dai governi e dalle analisi accademiche, e così i decisori politici si ostinano a ripetere che il risparmio dell’elettricità continuerà a fare meno, a richiedere tempi lunghi e a costare di più di quanto avviene adesso.
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Alcuni fornitori di elettricità hanno però iniziato a intuire che l’efficienza può essere trasformata in un’opportunità di business, mentre i consumatori hanno capito che possono risparmiare elettricità a costi molto inferiori rispetto a quelli che devono sostenere per comprarla. L’unica questione aperta è da chi possono comprare l’efficienza. L’ostacolo principale è che la politica dell’Unione Europea, modellata su quella inglese, premia le utility che vendono più energia e penalizza quelle che tagliano le bollette degli utenti. Su 50 stati americani, 48 usano lo stesso sistema, ma di recente almeno la metà hanno adottato o hanno considerato la possibilità di una riforma che allinei i fornitori di elettricità con i consumatori, di modo che entrambi possano guadagnare migliorando l’efficienza. Fino a quando la Gran Bretagna e la UE tarderanno ad approvare questa riforma, la loro efficienza e la loro competitività ne soffriranno. Una rivoluzione più visibile, guidata da Germania, Spagna e Cina e in cui Stati Uniti e Gran Bretagna stanno arrancando, riguarda i modi in cui l’elettricità viene prodotta. Amory è stato criticato per decenni perché insisteva sul fatto che le centrali per la produzione dell’elettricità avrebbero dovuto ridurre le loro dimensioni, ma la sua logica era chiara. Nel primo secolo dell’industria dell’elettricità, le centrali erano più economiche e più affidabili delle reti, e quindi era sensato costruire grossi impianti e lasciare che appoggiassero gli uni agli altri attraverso la rete. Ancora negli ultimi decenni le centrali erano più economiche e più affidabili delle reti, così che il 98 o il 99% delle cadute di potenza negli Stati Uniti avevano origine nelle reti stesse. Per rendere l’elettricità affidabile e conveniente, essa dovrebbe essere prodotta dagli (o vicino agli) utilizzatori. Allo stesso tempo, le centrali tradizionali non rientrano più nelle economie di scala. Attraverso la produzione di massa, le unità più piccole garantiscono risparmi maggiori rispetto alle unità più grandi che si affidano alle dimensioni. Allo stesso tempo, gli investitori hanno iniziato a capire che unità piccole, veloci e modulari comportano minori rischi finanziari rispetto a quelle più grandi (www.smallisprofitable.org). Gli esperti di sicurezza sanno che le reti sono particolarmente vulnerabili agli attacchi fisici o informatici. Il Defence Science Board del Pentagono ha incoraggiato tutti i militari a produrre la propria energia direttamente sul posto (e preferibilmente da fonti rinnovabili), in modo da non dover dipendere dalle reti. Così, oltre ad affrancarci dal petrolio, gli imperativi economici e della difesa determinano le nuove scelte più rapidamente di quanto possano fare i bisogni ambientali da soli. La generazione decentrata e spesso basata su fonti rinnovabili comincia ad avere una maturità tecnologica e una scala produttiva tali da renderla un competitore credibile delle fonti fossili. Il supposto ostacolo alla loro diffusione, cioè la loro intermittenza, si dissolve se sottoposto a un’analisi rigorosa. Qualunque tipologia di generazione elettrica è, in qualche misura almeno, discontinua o variabile, e la differenza è quanto, quanto spesso, per quanto a lungo, con quale predicibilità e per quali ragioni la fornitura si interrompe. Via via che le reti in Europa e altrove maturano (quattro stati in Germania e parti della Spagna e della Danimarca ricavano dal 30 al 47% della loro energia dal vento su base annua), si scopre che le reti basate interamente o in parte sulle rinnovabili hanno bisogno di meno sistemi di accumulo e di protezione di quelle che devono gestire l’intermittenza delle grosse centrali elettriche. L’Irlanda, che dispone di una rete piccola e isolata, entro il 2020 intende ricavare il 40% della sua elettricità da fonti rinnovabili, principalmente da quella eolica (per arrivare al 100% entro il 2035). La utility danese Dong, che adesso genera l’85% da fonti fossili e il 15% da fonti rinnovabili, entro una generazione progetta di rovesciare queste percentuali.
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La convergenza di queste forze ha rivoluzionato la microgenerazione – termine che The Economist usa per indicare le rinnovabili (escluso il grande idroelettrico) e la generazione di elettricità e calore – che da proposta marginale si è trasformata in una forza in grado di stravolgere il mercato globale dell’energia. Nel 2006, la microgenerazione produceva un sesto dell’elettricità totale nel mondo (poco più della fonte atomica), un terzo della nuova elettricità, e da un sesto alla metà di tutta l’elettricità in dozzine di paesi, escludendo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, parecchio lenti. Si considerino questi dati: s NEL IL NUCLEARE NEL MONDO HA AGGIUNTO MILIARDI DI WATT ALL INCIRCA IL VALORE di un grosso reattore), la maggior parte dei quali derivanti da aggiornamenti di vecchie unità, dato che le dismissioni hanno superato le nuove installazioni. Il fotovoltaico già nel 2006 ha aggiunto una potenza superiore; l’eolico ha contribuito 10 volte di più e la microgenerazione 30-41 volte di più. Su scala mondiale, la microgenerazione combinata con i negawatt probabilmente ha fornito più della metà dei nuovi servizi elettrici; s NEL LA QUANTITÍ DI ENERGIA EOLICA INSTALLATA SOLO NEGLI 3TATI 5NITI 3PAGNA E #INA HA superato quella nucleare installata a livello mondiale; sempre nello stesso anno, la quantità di energia eolica installata ha uguagliato quella degli impianti a carbone costruiti tra il 2003 e il 2007; s NEL LA #INA HA RADDOPPIATO LE SUE INSTALLAZIONI EOLICHE PER IL QUARTO ANNO CONSEcutivo e ha dichiarato che intende raggiungere entro il 2010 gli obiettivi che si era data per il 2020. L’energia da fonte eolica installata nel corso dell’anno ha superato quella degli impianti a gas tradizionali per la prima volta negli Stati Uniti, e per il secondo anno di fila in Europa. Per il primo anno dall’inizio dell’era nucleare, nel mondo non sono state connesse alla rete nuove centrali: la capacità netta del nucleare è scesa di 1,6 miliardi di watt, la produttività del nucleare è crollata, e l’energia atomica continua a non riuscire ad attrarre investimenti da fondi comuni. Nel frattempo, la microgenerazione nel mondo ha aggiunto 40 miliardi di watt e ha raccolto investimenti per 100 miliardi di dollari. Se a questa somma si aggiungono i 40 miliardi di dollari destinati al grande idroelettrico, risulta un totale che per la prima volta nella storia supera la cifra destinata alle centrali alimentate da fonti fossili (nel 2008 è stato di 110 miliardi di dollari). La maggioranza delle nuove unità di generazione nelle economie di mercato, dove contano le scelte dei privati e non quelle dei governi, hanno ridotto le loro dimensioni, passando da una scala di milioni di kilowatt, tipica degli anni Ottanta del secolo scorso, a una centinaia di volte più piccola (tipica degli anni Quaranta). Sta emergendo una decentralizzazione ancora più radicale persino a livello dei consumatori (in linea con quanto succedeva negli anni Venti), e sta dimostrando di essere assai vantaggiosa, specie se i sistemi di controllo vengono anch’essi distribuiti. La rivoluzione nella produzione dell’elettricità è ovviamente una buona notizia per il clima, dato che la microgenerazione e i negawatt rappresentano la soluzione più rapida, concreta e vantaggiosa della questione climatica. L’energia da fonte eolica negli Stati Uniti attualmente costa un terzo di quella dei nuovi impianti nucleari e metà di quella degli impianti a carbone (se il carbonio non viene tassato). Praticamente nessuno nega che il cambiamento climatico sia un problema, e quindi il mondo ha bisogno delle migliori soluzioni per ogni sterlina, euro, dollaro, yen o renminbi investiti. Installare nuove centrali
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atomiche è un modo controproducente di proteggere il clima: dalle stime condotte sulla base delle effettive performance sul mercato, il nucleare risparmia dalle 2 alle 20 unità di carbonio in meno per unità di investimento rispetto alla microgenerazione, oltre a essere dalle 20 alle 40 volte più lento a entrare in funzione. Il tentativo del governo britannico di ridare vigore al proprio piano nucleare, tentativo basato sull’esternalizzazione delle forniture, sul finanziamento del governo francese e sull’adozione delle politiche francesi per quanto riguarda la scelta dei siti e le trasparenza nelle operazioni è con ogni probabilità destinato a scontrarsi con gli stessi problemi finanziari, economici, politici e logistici che hanno vanificato i precedenti tentativi di far rinascere il nucleare. Inoltre, nell’ottobre del 2009 si è diffusa la notizia che il costo del kilowatt prodotto da reattori francesi, considerata l’inflazione, è tre volte e mezzo superiore a quello del trentennio 1970-2000, e ciò ha sollevato parecchie discussioni (www.iiasa. ac.at). I governi possono coccolare i propri favoriti e ostacolare i loro competitori, ma alla fine le migliori scelte tendono a prevalere.
molto di più da fare Le forniture e la domanda di energia sono cresciute enormemente da quando abbiamo scritto questo libro una decina di anni fa. La stessa cosa, seppure con ritmi più lenti, è successa all’industria, alle richieste d’acqua, all’agricoltura e alle attività forestali. A dire il vero, quella che H.G. Wells definiva “la lotta tra l’istruzione e la catastrofe” continua. Il collasso delle risorse ittiche procede inarrestabile, anche se sono stati trovati dei modi efficaci per proteggerle. La deforestazione avanza a ritmi scatenati, e non consola sapere che alcune foreste devastate in precedenza si sono riprese rapidamente dal punto di vista ecologico ed economico. Si continua a sprecare acqua, e si continuano a costruire opere superflue, anche se si conoscono parecchi modi per risparmiare l’oro blu: persino piccoli miglioramenti nella conservazione dell’acqua piovana, in modo da poterla poi impiegare per irrigare, possono valere di più dei grandi risparmi legati all’efficienza nell’uso delle tubazioni. Gli edifici sostenibili, un tempo considerati una bizzarria, sono adesso lo standard in molti luoghi e si stanno diffondendo rapidamente in mercati enormi come quello cinese e quello indiano. Nel 2006, i leader delle comunità dei progettisti e dei costruttori statunitensi hanno adottato il piano 2030 Challenge, con l’obiettivo di ridurre immediatamente le emissioni del 50%, e di arrivare al 100% nel 2030. Provate a indovinare qual era il gruppo che nel 2009 stava cercando di progettare edifici a zero emissioni o addirittura capaci di produrre energia per l’esercito. Era lo U.S. Army Corps of Engineers. Ci fa impressione pensare che la Cina possa arrivare a guidare gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico. Eppure sono molte le ragioni, incluso un forte interesse economico dei cinesi, che spingono proprio in questa direzione. Tre anni fa Amory, nel corso di un incontro sul clima tra Stati Uniti e Cina, stupì la delegazione cinese con queste parole: “La vostra civiltà ha cinque millenni di esperienza più della mia. Il vostro paese ha cinque volte i cervelli del mio, e probabilmente sono anche migliori. Circa il 90% delle tecnologie che hanno reso possibile la Rivoluzione industriale in Occidente sono state inventate in Cina. Il vostro paese è l’unico ad aver ridotto la propria intensità energetica per più del 5% all’anno per 25 anni (perlomeno fino al 2001, poi ha iniziato a risalire). La vostra nazione è l’unica ad aver posto l’efficienza energetica al primo posto delle priorità strategiche del suo sviluppo. Avete standard di efficienza per le automobili e per le energie rinnovabili migliori dei nostri. Il vostro paese è il numero uno in almeno tre tecnologie
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per la produzione di energia da fonti rinnovabili, è al secondo o al terzo posto nelle altre e mira a raggiungere il primato in tutte. Avete il programma nucleare più ambizioso al mondo, ma il vostro settore della microgenerazione ha una potenza sette volte superiore e cresce sette volte più velocemente. A dirla tutta, state iniziando a implementare una grandiosa trasformazione energetica. Avete di fronte sfide difficili e parecchi problemi, specie nelle province più remote, dove ‘il cielo è grande e l’imperatore molto lontano’. Ma avete leader migliori dei nostri, lavorate più di noi e siete molto più determinati. Per tutte queste ragioni, credo di poter dire che possiamo fidarci della Cina per uscire dal pasticcio climatico in cui ci siamo ficcati”. I delegati cinesi applaudirono a queste parole, la politica cinese in effetti si muove nelle direzioni indicate e la diplomazia statunitense riconosce, elogia e incoraggia questi cambiamenti. Con grande lentezza, proprio come una superpetroliera che debba cambiare rotta, il mondo sta passando da un atteggiamento distruttivo a uno più costruttivo, dallo spreco all’efficienza. Riusciremo a cambiare in tempo? Come ha detto Donella Meadows, “abbiamo abbastanza tempo, a partire proprio da adesso”. Dobbiamo usare al meglio il tempo che abbiamo a disposizione, mossi da una speranza fattiva – e non da un ottimismo superficiale – e dalla volontà di assumerci la responsabilità di creare il futuro che vogliamo. Come ha notato Frances Moore Lappé “la speranza è un atteggiamento, non un’opinione”. Buckminster Fuller si è domandato: “Se il collasso o la salvezza del pianeta dipendessero da quello che sono e da quello che faccio, chi dovrei essere e cosa dovrei fare?”. In un momento in cui la paura stava ancora soffocando la speranza, Raymond Williams disse: “Per essere davvero radicali bisogna rendere possibile la speranza, non rendere convincente la disperazione”. San Francesco d’Assisi, uomo d’azione e maestro dell’esempio, ha detto: “Predicate il Vangelo, e se è proprio necessario usate anche le parole”. E a tutti quelli che si preoccupano per i problemi che hanno di fronte, piuttosto che per le grandi opportunità che questi offrono, Michael C. Muhammad rivolge queste parole: “Alla fine tutto va a posto. Se non è andato a posto vuol dire che non si è ancora alla fine. Non fatevi disturbare, rilassatevi e non mollate”. La ricerca di forme di vita intelligenti prosegue, e vengono individuati diversi esemplari – specialmente nel Sud del mondo, dove si trova il maggior numero di persone (i cervelli sono distribuiti uniformemente, uno per persona). Un percorso plausibile per affrontare i problemi del pianeta, facendo in modo che non costi ma che al contrario sia redditizio, sta diventando sempre più chiaro, praticabile e appetibile. Capitalismo naturale offre un’utile guida a questo percorso. Chi applica i principi del capitalismo naturale nuota a favore di corrente, perché il capitalismo naturale è più redditizio del “capitalismo innaturale” che distrugge le due forme più preziose di capitale. Che siate uomini d’affari o cittadini, insegnanti o studenti, ricchi o poveri, giovani o vecchi, a prescindere da quale fase della vostra vita state attraversando, queste idee sono per voi, perché possiate criticarle, migliorarle, applicarle e diffonderle. Ogni giorno votiamo con il nostro denaro, con le nostre opinioni e con il nostro tempo. Qualunque cosa facciamo o diciamo, influenziamo le persone che ci circondano. Dobbiamo restare uniti, dotarci di una pazienza inflessibile, e connettere le nostre azioni e i nostri sogni in reti fluide e veloci ad apprendere. Il movimento per un futuro sano e vivibile è inarrestabile, e sta mobilitando le forze più potenti della nostra società – il mondo
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degli affari nei mercati più attenti e i cittadini nell’ambito della società civile – per fare quello che è necessario in questo passaggio fondamentale, il più importante da quando abbiamo iniziato a camminare fuori dall’Africa. È un passaggio in cui l’umanità ha ancora abbastanza tempo, a partire proprio da adesso. Siamo le persone che stavamo aspettando. E se qualcosa in questo libro sembra troppo bella per essere vera, ricordatevi la frase di Marshall McLuhan: “Solo i piccoli segreti vanno protetti. Per quelli grandi basterà l’incredulità della gente”. Amory B. Lovins Cofondatore, presidente e capo scienziato Rocky Mountain Institute (www.rmi.org) Old Snowmass, Colorado
Paul Hawken CEO Biomicry Technologies Sausalito, California
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