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L’ECONOMIA DELL’ABBASTANZA
gestire l’economia come se del futuro ci importasse qualcosa
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DIANE COYLE
ECONOMIA DELL’ ABBASTANZA GESTIRE L’ECONOMIA COME SE DEL FUTURO CI IMPORTASSE QUALCOSA
Prefazione di Enrico Giovannini
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Diane Coyle L’ECONOMIA DELL’ABBASTANZA gestire l’economia come se del futuro ci importasse qualcosa realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it titolo originale
The Economics of Enough: How to run the economy as if the future matters Copyright © Diane Coyle, 2011 Published by Princeton University Press, 41 William Street, Princeton, New Jersey 08540 traduzione: Laura Coppo coordinamento redazionale: Anna Satolli progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina: Julee Holcombe, Babel Revisited, copyright © 2004
© 2012, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’editore ISBN 978-88-6627-032-4 Finito di stampare nel mese di maggio 2012 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% i siti di edizioni ambiente
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sommario
prefazione di Enrico Giovannini
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introduzione
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sfide
parte prima 1. 2. 3. 4. 5.
felicitĂ natura futuro giustizia fiducia
35 71 103 135 167
parte seconda
ostacoli
6. misure 7. valori 8. istituzioni
parte terza
205 235 265
manifesto
9. il manifesto dell’abbastanza
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note ringraziamenti bibliografia crediti fotografici
327 341 343 359
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prefazione
Scrivo questa prefazione sull’aereo per New York, dove domani si terrà, presso le Nazioni Unite, una conferenza internazionale dal titolo “Felicità e benessere”. Promossa dal governo del Bhutan, la conferenza sarà aperta dal segretario generale delle Nazioni Unite, vedrà la partecipazione di oltre 600 tra politici, economisti, esperti di questioni sociali e ambientali, nonché molti rappresentanti di organizzazioni non profit provenienti da tutto il mondo. L’obiettivo della conferenza è quello di immaginare un nuovo “paradigma” per le nostre economie e le nostre società, attraverso il quale migliorare in modo duraturo il benessere del genere umano e la felicità delle persone. Non so se l’esito della conferenza sarà quello atteso dagli organizzatori, ma è indubbio che essa testimonia (se ce ne fosse ancora bisogno) come il mondo sia alacremente (forse bisognerebbe dire disperatamente) alla ricerca di nuovi modelli analitici e politici che aiutino tutti i paesi, quelli più ricchi come i più poveri, a rispondere alle attese dei cittadini e degli elettori. In questo momento, infatti, le classiche “ricette” economiche e politiche non sembrano più in grado di promettere alle persone una vita nella quale il miglioramento del benessere materiale e spirituale non sia una favola da bambini o una condizione cui è destinata solo una minoranza, ma una prospettiva storica concreta per ampie fasce di popolazione, se non per tutti. Le crisi che si sono susseguite a partire dal 2007 (alimentare, finanziaria, economica, ora sociale, senza dimenticare quelle generate dal cambiamento climatico) hanno mostrato quanto il mondo che abbiamo co-
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struito sia interdipendente, vulnerabile e fondamentalmente “ingiusto”, un mondo nel quale alcuni pagano gli errori di altri, magari commessi a migliaia di chilometri di distanza. Nel quale molti di quelli che hanno sbagliato sono comunque “caduti in piedi”, mentre altri sono stati precipitati in difficoltà di cui avevano sentito parlare solo nei film e nei libri. Nel quale “cambiare il sistema” (come si sarebbe detto una volta) richiede ancora il sacrificio di persone che si danno fuoco o cadono sotto i colpi di fucile. Nel quale chiamiamo “catastrofi naturali” anche gli eventi dovuti a errori umani, di cui Madre Natura e migliaia di persone porteranno i segni per decenni. È in questo scenario che si colloca il libro di Diane Coyle, il quale riprende alcuni dei temi da lei già trattati nel passato, sviluppandoli ulteriormente alla luce della crisi e del dibattito in corso sui cambiamenti necessari per evitare che la storia si ripeta uguale a se stessa, ivi compreso quello dedicato alla misura del successo delle nostre economie e delle nostre società, meglio noto come la necessità di andare “oltre il Pil”. Ed è forse proprio per il ruolo che negli ultimi dieci anni ho personalmente svolto per promuovere nuove misure del benessere (a cui l’autrice, peraltro, fa cenno nell’ultimo capitolo) che l’editore mi ha gentilmente proposto di scrivere questa prefazione. D’altronde il sottotitolo del libro tocca proprio la questione chiave della dimensione politica (nonché di quella individuale) delle scelte quotidiane, cioè la presunta capacità di decidere come se il futuro contasse davvero. Non a caso la Coyle mette (giustamente) in dubbio la capacità degli statistici di misurare senza errori lo stato e l’evoluzione dell’economia, della società e dell’ambiente incorporando anche i costi e i benefici futuri delle attività che svolgiamo quotidianamente, e cita proprio le problematiche della misurazione come il primo ostacolo alla realizzazione del futuro che prefigura nel libro, basato sui concetti di felicità, natura, posterità, giustizia e fiducia. La costruzione di una “economia della sufficienza” come quella proposta dalla Coyle nasce dal riconoscimento delle sfide che la società odierna si deve porre rispetto a questi cinque concetti: come essere in disaccordo sul fatto che la società che vogliamo debba tendere a consentire agli individui di ricercare la felicità (come scritto nella costituzione america-
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prefazione
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na), debba condurre al rispetto della natura, all’attenzione per chi verrà dopo di noi, alla giustizia e alla fiducia? Ma come dissentire da chi ci ricorda che non sempre le nostre società e le nostre economie mettono in pratica azioni concrete che vanno in questa direzione? In un saggio recente, il politologo tedesco Claus Offe ci ricorda che: Mentre le élite politiche determinanti, insieme ai loro consulenti tecnocratici e agli staff amministrativi, possono rappresentare se stesse come coloro che guidano la marcia verso il progresso e vantarsi di avere conseguito risultati quantitativi di riferimento su tassi di crescita, impieghi, bilance dei pagamenti, ripartizione del reddito, finanze dello Stato, ecc., la questione di ciò che bisogna evitare e impedire deve, al contrario, essere risolta tenendo conto della situazione dei cittadini normali e della loro valutazione degli effetti secondari negativi del progresso economico... ...Il primo dilemma del progresso consiste dunque nel fatto che noi continuiamo a fare cose di cui è evidente che in futuro, a posteriori, ci dovremo pentire – e questo tanto sul piano tecnico-materiale quanto su quello della prospettiva morale. Se proseguiamo ad applicare simili criteri obsoleti, continueremo e fare cose che in coscienza non possiamo fare, cioè che non possiamo fare con un giudizio imparziale sulle conseguenze prevedibili del nostro agire... Ovviamente, la Coyle si schiera dalla parte di chi pensa che un mondo diverso sia possibile, anzi indispensabile per assicurare alla razza umana un futuro degno di questo nome, e soprattutto alle cosiddette “economie industrializzate”, cioè alla parte più ricca del pianeta. In questo mi sento molto vicino all’autrice, tanto più che, ormai trent’anni fa, decisi di fare l’economista proprio dopo aver letto un libro che descriveva i rischi che il mondo avrebbe corso intorno al 2020 in termini di crisi economiche, rivolgimenti sociali, guerre per il possesso delle risorse scarse, ecc. E in questi trent’anni, vissuti da studioso e cittadino del mondo, ho avuto modo di vedere come l’umanità sia stata capace di grandi cose, di gravi errori e di orrori indicibili, anche nella ricca e colta Europa (si pen-
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si al dramma della ex Jugoslavia). Tutto ciò mi ha portato a concordare con quanto sostenuto da Massimo Salvadori: Il Progresso in cui possiamo sperare se intendiamo perseguire un vivere e un ordine civile è unicamente un Progresso difficile, non garantito se non da ciò che siamo capaci di mettere nella sua bilancia, è un Progresso i cui lumi – e qui dobbiamo pagare un immenso tributo ai Padri illuministi – possono essere accesi o spenti da noi stessi... Sta alla nostra ragione e al nostro senso di responsabilità evitare di essere trascinati in una notte da noi stessi creata che potrebbe essere senza ritorno. Se, dunque, sta a noi evitare il baratro e costruire un mondo migliore, la Coyle ci propone un percorso difficile e complesso, in cui i cinque punti prima citati devono essere affrontati insieme, in un quadro coerente fatto di profonde innovazioni in tre ambiti, tra loro interconnessi: i sistemi di misurazione del progresso delle nostre società, il sistema di valori, il funzionamento delle istituzioni. Nel primo ambito, si tratta di superare i limiti degli attuali concetti economici e statistici di “produzione”, “mercato”, “ricchezza”, sviluppando nuovi strumenti statistici in grado di dar conto di tutti gli aspetti del funzionamento delle nostre economie e delle nostre società, affiancando al Pil indicatori affidabili (per citare solo alcuni aspetti) del contributo che il lavoro domestico fornisce al benessere delle persone, del valore effettivo dei servizi e dei cosiddetti “beni immateriali”, che così tanto contribuiscono allo sviluppo delle persone (si pensi alla conoscenza e alle relazioni interpersonali), del “capitale sociale”, cioè delle attività e delle relazioni che garantiscono il funzionamento di una società. In questo campo molto si sta facendo, ma molto di più si deve fare, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Il vincolo principale, lo ricorda la Coyle, sono le risorse destinate alla statistica – bene pubblico e strumento di conoscenza aperta a tutti – decisamente insufficienti, soprattutto in quei paesi. Particolarmente limitata è la disponibilità di indicatori delle diverse forme di capitale (economico, umano, naturale e sociale), attraverso cui le-
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introduzione
A metà settembre 2007 mia sorella mi telefonò per chiedermi se avesse dovuto chiudere il proprio conto corrente e mettere altrove i propri risparmi e, in questo caso, dove sarebbero stati al sicuro. Era cliente della Northern Rock e in quei giorni si era scatenata una vera e propria fuga dalla banca. L’istituto non riuscì a soddisfare le richieste dei propri clienti e dovette chiedere contante in prestito alla Banca d’Inghilterra. I telegiornali mostravano file di correntisti terrorizzati che speravano di riuscire a ritirare i propri risparmi. Si trattò della prima fuga da una banca nella storia del Regno Unito. Le dissi che lo stato avrebbe rimborsato i correntisti e che qualsiasi altra azione sarebbe stata un suicidio politico. Mia sorella ignorò il mio consiglio (che alla fine si rivelò giusto) e si unì alla coda davanti alla sua filiale locale. Per quanto riguarda la Northern Rock, alla fine lo stato britannico ne assunse il controllo. Nel settembre del 2008 fallì la banca di investimenti Lehman Brothers. Nel giro di un paio d’anni, mentre i mercati finanziari crollavano in tutto il mondo, divenne chiaro che questa bancarotta minacciava di far collassare l’intero mercato finanziario mondiale come un castello di carte. Le banche non sapevano se sarebbero state rimborsate per le transazioni nelle quali si erano impegnate e che attraverso una serie di collegamenti estremamente complessi potevano ricondurre alla Lehman. La fiducia tra le banche stesse svanì nel giro di una notte. Il mercato interbancario, motore del sistema finanziario, si bloccò. Per una settimana intera mi recai al bancomat per prelevare quanto concesso dal mio massimale giornaliero. Dato che il mercato interbancario aveva smesso di funzionare, era plausibile che la
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stessa cosa potesse accadere a quel sistema di compensazioni e accordi fra le banche che rende possibili i pagamenti quotidiani attraverso le carte di credito, i bancomat o gli assegni. Andare a fare la spesa, fare acquisti online o pagare le bollette sarebbe diventato impossibile. Le aziende non sarebbero state in grado di pagare reciprocamente le merci ordinate. Gli stipendi non sarebbero stati accreditati sui conti correnti. L’economia si sarebbe arrestata. Un anno dopo la Banca d’Inghilterra confermò che si era andati terribilmente vicino a questa catastrofe. Il sistema finanziario è all’apice della fiducia che presidia al buon funzionamento di tutte le economie e di tutte le società. Quella fiducia era quasi svanita. Questo non è un libro sulla crisi finanziaria, ma la crisi ha portato molte persone a porsi domande fondamentali sull’organizzazione dell’economia e su quali siano i legami fra economia e il tipo di società in cui vorremmo vivere. L’Economia dell’abbastanza si occupa di come far sì che le politiche dei governi e le azioni degli individui e delle imprese private siano più utili a tutti nel lungo termine, e di come assicurarci che le conquiste del presente non siano raggiunte a spese del futuro. Tratta di come gestire l’economia tenendo in considerazione il futuro. Per almeno una generazione le cose non sono andate esattamente così. Le economie occidentali si trovano di fronte a una sconcertante serie di problemi, tutti politicamente difficili da affrontare. In più, queste difficoltà si sommano a un contesto di incertezza globale, a un mondo instabile in cui gli equilibri di potere stanno cambiando mentre, ovunque volgiamo lo sguardo, sembrano sorgere nuove minacce. Al momento, non disponiamo né di analisi della situazione in atto né di realtà istituzionali che ci permettano di affrontare queste sfide economiche e sociali apparentemente irrisolvibili. Ma quello che è ancora più importante, manca il contesto politico nel quale discutere cosa fare. Mentre in molti paesi la maggioranza degli intervistati nei sondaggi di opinione dichiara di non fidarsi dei politici e delle istituzioni, non esistono un processo o una visione politica che possano aiutarci a raggiungere un accordo democratico sulle azioni da intraprendere. La politica sembra ridurre tutto a una questione di competenza manageriale (quale partito o leader sarà il più capace?) oppure tende a inasprire il contrasto tra i partiti, per
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cui ciascuno attacca gli altri indipendentemente dalle questioni pratiche. Mi occuperò quindi anche della politica dell’abbastanza, ossia del tipo di dibattito che dovremmo condurre sulle sfide economiche e sui modi per risolverle. Affrontare quest’ultimo aspetto è per certi versi ancora più urgente di quanto sia l’analisi delle questioni economiche. L’esperienza del passato suggerisce infatti che, se la politica non è in grado di proporre una via di uscita dalle difficoltà in tempi di grande cambiamento e incertezza, possono prendere piede risposte irrazionali e violente. Le similitudini economiche tra l’attuale recessione post-crisi e la Grande depressione non sono certo incoraggianti, specie se dovesse rivelare possibili paralleli politici. È ormai un luogo comune affermare che la divisione tra schieramenti politici di destra e di sinistra è superata. Io non sono certa che sia completamente vero, ma è certo che né la destra né la sinistra hanno al momento una chiara visione di quello che potrebbe essere un nuovo percorso politico. Comunque, prima della fine di questo libro, la portata radicale di alcune delle scelte politiche che ci aspettano sarà un po’ più chiara. la sfida dell’economia Anche se mentre scrivo ci sono timidi segnali (forse provvisori) di ripresa, il sistema bancario continua a reggersi sulle misure di aiuto varate dagli stati e promosse insieme a una parziale nazionalizzazione. La crisi finanziaria potrebbe ancora aggravarsi, dato che dipende per esempio da fattori quali la capacità di stati europei (come la Grecia) di ripagare i propri debiti, o da quanto sono alti i tassi di disoccupazione e per quanto tempo si manterranno su livelli elevati. Dire che l’economia è in grossi guai è dire poco. Qualsiasi recessione è indesiderabile anche perché comporta la perdita di posti di lavoro, e quella attuale non è stata una recessione qualsiasi. La crisi del sistema bancario l’ha resa la più grave dai tempi della Grande depressione. Il processo di ripresa sarà lento e faticoso, comporterà tagli nella spesa pubblica, aumenti delle tasse e un enorme debito pubblico che graverà su molti paesi. Non si discute sulla bontà
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dei tagli alla spesa pubblica, piuttosto occorre riflettere sulla loro portata e sui tempi della loro applicazione. È difficile capire come fare a creare posti di lavoro nei prossimi anni. La storia del capitalismo è costellata di crisi finanziarie. Molte sono state brevi e di scala ridotta, mentre altre sono finite nei libri di storia come grandi catastrofi, dalla South Sea Bubble del 1720 alla crisi del 1929, fino a quella che stiamo ancora attraversando.1 Parte dell’attuale dibattito sul valore del capitalismo riguarda esattamente questa sua costante vulnerabilità alle crisi e l’alternarsi di momenti di espansione e di contrazione. Le economie di mercato sono instabili. Il prezzo da pagare per la corsa continua al benessere è l’incertezza sul futuro. In realtà, sebbene la crisi finanziaria abbia spinto molti a riflettere sulla pericolosità di questa instabilità, vi sono oggi molti seri problemi che tutte le maggiori economie del mondo devono fronteggiare. Come se non bastassero le ricadute della crisi finanziaria, la popolazione mondiale sta invecchiando rapidamente, per cui le pensioni e le spese sanitarie peseranno ancor di più sulle spalle di chi lavora. La percentuale della popolazione lavorativa è in diminuzione in molti paesi. Indipendentemente dalla specifica struttura finanziaria e dal fatto che le pensioni e l’assistenza sanitaria siano finanziate dallo stato o dal settore privato, le persone che non lavorano devono essere sostenute da quelle che lo fanno. In ogni paese dell’Ocse l’invecchiamento della popolazione farà inesorabilmente crescere le spese degli stati, perché il sostegno alla popolazione anziana è universale, che avvenga attraverso il pensionamento, il sovvenzionamento dell’assistenza sanitaria, o attraverso altre forme di assistenza sociale. La generazione che ha combattuto la Seconda guerra mondiale è stata giustamente ricompensata per i sacrifici compiuti e questa ricompensa comprende molti servizi offerti dallo stato. I loro figli, la generazione del baby boom, hanno esteso questo sistema di pensioni e assistenza sanitaria e ne stanno traendo ampi vantaggi. I benefici di cui godono vengono pagati grazie a un crescente indebitamento pubblico, parte del quale è dichiarato, mentre molto è invece implicito nelle promesse dei servizi che verranno pagati dallo stato. Queste promesse verranno quasi certamente disattese.
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La prima parte di questo libro ha messo in evidenza le molteplici sfide che le principali economie industrializzate dovranno affrontare. Il grande pubblico ha acquisito consapevolezza di questa crisi incombente soprattutto riguardo al cambiamento climatico, anche se perfino rispetto a questo tema ci sono ben pochi segnali dell’intenzione di cambiare strada. Oltre alla potenziale influenza dei cambiamenti climatici ci troviamo ad affrontare la crisi del debito, risultato di una concezione insostenibile del sistema di previdenza sociale nelle nostre società in rapido invecchiamento; l’impatto del salvataggio delle banche che hanno causato la crisi finanziaria; il forte sentimento di ingiustizia causato dalla disuguaglianza e dall’impossibilità da parte di alcuni gruppi sociali di godere in parte o del tutto dell’accresciuta prosperità; la perdita di capitale sociale, sullo sfondo di una crisi di fiducia nelle autorità e nelle istituzioni. Questi problemi, connessi fra loro, formano un insieme di sfide di dimensioni impressionanti. Nonostante ciò le persone desiderano che l’economia cresca, ed è illusorio pensare che la crescita economica non ci renda più felici. Configurare le politiche pensando che ai cittadini non dispiacerà sacrificare lo sviluppo pur di fare il bene dell’ambiente e della coesione sociale potrebbe rivelarsi molto pericoloso e compromettere la possibilità di ottenere il consenso politico necessario per il cambiamento. Inoltre, i paesi poveri devono poter continuare a prosperare per uscire dalla loro situazione e soddisfare la loro naturale aspirazione al raggiungimento degli standard di vita delle economie dominanti. I paesi ricchi hanno bisogno di crescere
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perché altrimenti non sarà possibile evitare la trappola del debito e creare le condizioni politiche per una società meno diseguale e più fiduciosa. Nelle economie avanzate la natura della crescita economica sta comunque cambiando e le nuove tecnologie hanno portato a significativi mutamenti strutturali: oltre che una sfida, questa è un’opportunità. L’aumento della produttività dovuto all’adozione di nuove tecnologie a partire dalla metà degli anni Novanta porta con sé la promessa dei reali benefici della crescita, che nelle economie avanzate non sono più costituiti da ulteriori oggetti materiali ma piuttosto da una varietà di esperienze possibili e opportunità di realizzazione personale. L‘economia senza peso sta diventando più interessante e soddisfacente rispetto a quella materiale. I consumatori spendono una crescente percentuale del proprio reddito in cose che in passato si sarebbero collocate al di fuori dell’economia formale, e sempre più professioni consistono di attività che fino alla scorsa generazione fa nessuno avrebbe considerato lavori veri e propri. Alcuni critici del capitalismo considerano deplorevole la commercializzazione di attività che in passato erano relegate alla sfera personale, ma da un altro punto di vista la ricchezza portata dalla tecnologia fornisce maggiori possibilità di svolgere lavori significativi e piacevoli. Un fatto che già in sé contribuisce al benessere delle persone se si considera l’importanza attribuita in psicologia al “flusso”. Quindi, anche se le sfide che i governi e i cittadini dovranno affrontare nella prossima generazione sono enormi, il dinamismo della crescita economica nelle democrazie occidentali fa sperare che potranno essere affrontate con successo. Nella seconda parte di questo libro si sono esposti alcuni degli ostacoli da superare per poter affrontare i problemi complessi e interconnessi che affliggono le società occidentali. I passi necessari per uscire dalla sensazione che i problemi siano un magma indifferenziato e impossibile da superare sono diversi: innanzitutto una gamma più ampia di indicatori, tra cui gli indicatori di ricchezza, che ci permettano di dare un orizzonte temporale più lungo alle decisioni politiche. Servono poi riflessioni più approfondite sulla natura della produttività, specie in un’economia in cui una porzione crescente delle attività riguarda ambiti immateriali e
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il confine tra i diversi tipi di attività si sta facendo meno netto, e considerando che la produttività propriamente intesa è la base su cui i mercati misurano il valore, ma è anche un elemento del valore sociale in senso ampio. Infine, è necessario un profondo ripensamento delle istituzioni su cui l’economia e le nostre società sono organizzate. Questo capitolo conclusivo si occuperà dei passi concreti da compiere, tenendo conto di cosa comporta in termini reali il cambiamento delle politiche pubbliche. L’aspetto più arduo di questa sfida potrebbe essere la ricerca di un accordo sulle dolorose trasformazioni necessarie nelle politiche e nelle istituzioni. Oltre alla complessità dei problemi da analizzare risulta particolarmente difficile anche identificare i processi che possono portare al cambiamento, soprattutto alla luce dell’attuale livello di sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche tradizionali. Come ho sottolineato lungo le pagine di questo libro, le società moderne, le economie moderne, sono miracoli di organizzazione collettiva. “Governo” è il nome che diamo alla parte formale della struttura di regole all’interno della quale conviviamo. Altre istituzioni, tra cui le imprese e le organizzazioni di volontariato, costituiscono la parte meno formale o informale della struttura, cui si aggiungono le norme di comportamento e le aspirazioni culturali. L’efficacia delle regole intese in questo senso più ampio dipenderà dalla loro legittimità. Nelle economie occidentali quando si considera il discorso della legittimità generalmente si pensa alle istituzioni democratiche (le elezioni, i partiti, la legislatura). I risultati dei sondaggi di opinione che abbiamo citato in precedenza rivelano che oggi non è su questo che ci si deve focalizzare, perché le istituzioni politiche formali sembrano aver perso gran parte della propria legittimità.1 Non ci si può aspettare consenso pubblico per una riforma solo perché è stata approvata dal Congresso o dal Parlamento, mentre, per contro, politiche dotate di grande appeal verso l’opinione pubblica potrebbero non arrivare mai a essere promulgate attraverso un processo politico guidato da uno schieramento piuttosto che da un altro. Inoltre, anche se molte persone sono scontente della politica e del tipo di società in cui viviamo, difficilmente accoglieranno con favore alcuni dei cambiamenti
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che ho dimostrato essere necessari. Sicuramente non saranno bene accolti i tagli alla spesa e ai posti di lavoro pubblici che i governi dovranno introdurre, o la limitazione del diritto al pensionamento e all’assistenza sanitaria. In molti paesi occidentali le persone non hanno molta stima dei politici, ma considerata la loro riluttanza ad affrontare i difficili cambiamenti necessari, sembra che anche i politici abbiano un’opinione abbastanza bassa degli elettori. Per questa ragione la proposta che segue mette in rilievo l’importanza di meccanismi che generino dibattito pubblico e consenso. Un cambiamento di rotta nei comportamenti e nelle policy di centinaia di milioni di persone è un traguardo difficile da raggiungere, anche in una situazione di crisi. L’ultima volta che la struttura della governance e del processo di definizione delle policy sono cambiate nella misura in cui oggi sarebbe necessario è stato nel decennio successivo alla Seconda guerra mondiale. L’attuale crisi dell’Abbastanza è fortunatamente un processo meno estremo dell’enorme trauma causato da una guerra globale, e abbiamo tempo a sufficienza per digerire il cambiamento e adattarci. Ma ciò significa anche che non possiamo sottrarci al difficile compito di mettere maggiore impegno nel dare impulso al dibattito pubblico e nella ricerca del consenso necessario al cambiamento. misurazioni Non cerco scuse per la scelta di cominciare dalla questione delle misurazioni. La comprensione sia della società umana sia del mondo naturale ha inizio da un’attenta osservazione e da misurazioni appropriate. La rivoluzione della tecnologia dell’informazione (con il potere di elaborazione dei computer, i database online, i social network) offre l’opportunità di raccogliere dati di qualità e quantità superiore sulle nostre società ed economie, per poi analizzarli e agire su di esse. Il premio Nobel Herbert Simon fece notare: “Nelle scienze fisiche quando vengono riscontrati errori di misurazione e altre interferenze che sono dello stesso ordine di grandezza dei fenomeni oggetto di studio, non si risponde cercan-
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do di spremere altre informazioni dai dati attraverso strumenti statistici, ma piuttosto trovando tecniche per osservare i fenomeni a un livello di risoluzione più elevato. La strategia corrispondente per l’economia è ovvia: ottenere nuovi tipi di dati al livello micro”.2 Il problema delle misurazioni presenta aspetti diversi. Uno consiste nella necessità di integrare al Pil, la misura del flusso di entrate generate ogni anno dall’economia, una gamma più ampia di statistiche in grado di misurare il progresso sociale ed economico. La crescita è essenziale per il welfare sociale, ma vi contribuiscono anche altri aspetti che senza alcun dubbio i governi dovrebbero monitorare. Inoltre, il modo in cui il Pil viene misurato non ha tenuto il passo con i cambiamenti della struttura dell’economia e con la natura immateriale della crescita. Un’appropriata misurazione del Pil dovrebbe includere attività esterne al mercato, come i meccanismi di assistenza all’interno delle famiglie e altri modi di utilizzare il tempo. Non si può ritardare oltre l’integrazione degli indicatori di reddito con una misura della ricchezza nelle sue diverse forme (il capitale naturale, umano e sociale); il bilancio dell’economia è importante quanto i cambiamenti che si verificano nel corso dell’anno. In linea di principio, migliorare le statistiche che vengono utilizzate per orientare l’economia è la riforma più semplice tra quelle che suggerisco, ma comunque è piuttosto complessa da mettere in pratica. In gran parte le difficoltà riguardano la ricerca. Gli economisti e gli statistici devono lavorare al concetto di ricchezza inclusiva e ai suoi componenti per ricondurre all’interno del processo decisionale gli effetti futuri delle politiche di oggi, e devono occuparsi del bilancio generazionale, affinché il peso delle pensioni e del welfare futuri venga reso esplicito. Devono poi occuparsi del concetto di produttività nei servizi e negli immateriali, per muoversi in direzione di una misurazione migliore del valore. Devono creare un’appropriata struttura statistica, sviluppare nuovi tipi di indagini sulle attività che sostituiscano quelle attuali e iniziare a raccogliere i dati. Tutto ciò implica che le risorse degli istituti di statistica vengano spostate su ricerche rivolte ad aspetti sempre più dettagliati delle contabilità nazionali, con l’obiettivo di:
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s investire in ulteriore ricerca statistica e innovazione per colmarne le lacune concettuali, in particolare per quanto riguarda la ricchezza inclusiva e la misurazione dei beni e servizi immateriali; s fino a che non sarà disponibile una contabilità della ricchezza inclusiva, sviluppare una serie più ampia di indicatori del progresso, attuando una capillare consultazione pubblica secondo il modello australiano; s realizzare e divulgare un’accurata stima del debito pubblico reale, correggendo i trucchi contabili frequentemente utilizzati e tenendo conto delle pensioni e degli obblighi del welfare futuri; s investire in nuove contabilità “satellite” che comprendano l’impatto ambientale, le attività domestiche e l’utilizzo del tempo, collegandoli alle statistiche economiche convenzionali; s tutto ciò richiede la completa dismissione delle attuali modalità di raccolta e pubblicazione di statistiche che hanno un significato sempre minore. Già questo singolo ultimo passaggio risulterà sorprendentemente difficile, perché alcuni dei soggetti che fanno utilizzo di questi strumenti si lamenteranno di aver perso le “proprie” statistiche. Abbandonare il tradizionale ritratto statistico dell’economia è importante quanto l’identificazione di un nuovo modo per descriverla. Le statistiche storiche ci mostrano come ogni diversa epoca economica presenti caratteristiche proprie. Le statistiche dell’ultimo periodo dell’epoca Vittoriana riportano una grande quantità di dati sui prodotti agricoli, eredità di un’economia che fino a poco tempo prima era dominata dalla produzione alimentare, e pochi dati sugli indicatori della nuova economia industriale, come la lunghezza delle linee ferroviarie, il numero di stabilimenti e l’esportazione di carbone. Entro gli anni Trenta le statistiche sulle attività di produzione industriale di massa avevano sostituito questo scenario rurale, ma l’attuale struttura del bilancio dello stato non fu istituita fino agli anni Quaranta e Cinquanta. Questa struttura necessita ora di una significativa evoluzione, e per liberare le risorse necessarie gli istituti di statistica dovranno eliminare alcune delle attuali aree di lavoro e introdurne di nuove.
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