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9 MILIARDI DI POSTI A TAVOLA LESTER R. BROWN
LA NUOVA GEOPOLITICA DELLA SCARSITÀ DI CIBO EDIZIONE ITALIANA A CURA DI GIANFRANCO BOLOGNA QUESTO VOLUME È RACCOMANDATO DA WWF ITALIA
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Lester R. Brown 9 miliardi di posti a tavola la nuova geopolitica della scarsità di cibo Edizione italiana a cura di Gianfranco Bologna realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it titolo originale
Full Planet, Empty Plates. The New Geopolitics of Food Scarcity Copyright © 2012 Earth Policy Institute Approfondimenti, dati e ulteriori risorse sono disponibili sul sito dell’Earth Policy Institute, www.earth-policy.org traduzione: Dario Tamburrano coordinamento redazionale: Paola Cristina Fraschini progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina: Photocuisine / Alamy
© 2012, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’editore. ISBN 978-88-6627-050-8 Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% i siti di edizioni ambiente
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sommario
imparare a vivere nei limiti di un solo pianeta: la sfida del cibo di Gianfranco Bologna premessa 1. il cibo, l’anello debole
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2. l’ecologia della crescita demografica
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4. cibo o carburante?
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3. salire lungo la catena alimentare
5. l’erosione dei suoli incombe sul nostro futuro 6. il picco dell’acqua e le carestie alimentari
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7. le rese cerealicole verso il limite
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9. la cina e la sfida della soia
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11. siamo in grado di prevenire il collasso del sistema alimentare?
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8. temperature e prezzi degli alimenti in aumento
10. la corsa globale ai terreni agricoli
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premessa
Abbiamo iniziato a scrivere questo libro nella primavera del 2012, durante la stagione di semina del mais. Negli Stati Uniti le piantagioni si estendono per quasi 40 milioni di ettari, il massimo raggiunto in 75 anni. Una calda primavera anticipata aveva portato a una partenza eccezionale nei campi, gli analisti prevedevano il più grande raccolto di tutti i tempi. Gli Usa sono i principali produttori ed esportatori di mais al mondo: a livello nazionale, il granoturco da solo rappresenta i quattro quinti dell’intero raccolto di cereali e a livello internazionale supera il raccolto complessivo cinese di riso e frumento. Ma mentre il frumento e il riso sono i principali cereali per l’alimentazione umana, il mais è quello più usato per la preparazione di mangimi animali. I campi di mais negli Stati Uniti sono molto produttivi, ma anche molto vulnerabili. Il mais è una coltivazione a rapido sviluppo che ha molto bisogno di acqua ed è sensibile sia al caldo estremo sia alla siccità: a temperature elevate il mais, che in condizioni normali ha un alto rendimento, va in shock termico. Come dalla primavera si è entrati nell’estate, all’interno della cintura del mais (corn belt) il termometro ha cominciato a salire. La temperatura rilevata tra fine giugno e inizio luglio a Saint Louis, nello stato del Missouri, nella parte meridionale della cintura del mais, è balzata oltre i 37 °C (100 °F) per dieci giorni di fila. L’intera cintura del mais è finita sotto una cappa di caldo soffocante. E l’estate era appena all’inizio. Le temperature erano in crescita e non accennava a piovere. Il caldo record, o comunque vicino ai massimi mai registrati, combinato con le
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scarse precipitazioni, stava disidratando il terreno. La mappa settimanale della siccità pubblicata dall’Università del Nebraska mostrava le aree colpite che si andavano allargando sempre di più, sino a che, all’inizio di luglio, erano arrivate a comprendere virtualmente l’intera cintura del mais. I valori dell’umidità del suolo avevano raggiunto i livelli più bassi mai registrati. Mentre la temperatura, le precipitazioni e la siccità servono da indicatori di massima e indiretti sull’andamento dello sviluppo del raccolto, ogni settimana il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti diffonde un rapporto sul reale stato delle coltivazioni del mais. Quest’anno i primi dati erano stati promettenti. Il 4 giugno, il 72% delle coltivazioni di mais statunitensi erano classificate come buone o eccellenti, un’ottima partenza. Ma l’11 giugno la percentuale era passata al 66%, e da allora è scesa ogni settimana: il 9 luglio era calata al 40% e il restante 60% del raccolto era valutato tra il pessimo o il sufficiente. Tutto questo mentre le colture sui campi continuavano a deteriorarsi. Anche nel corso dei pochi mesi durante i quali abbiamo lavorato su questo libro, abbiamo constatato come la sicurezza alimentare possa essere minacciata dagli eventi atmosferici più estremi che sono connessi ai cambiamenti climatici. Tra l’inizio di giugno e la metà di luglio, i prezzi del mais sono cresciuti di un terzo. Sebbene il mondo intero sperasse in un buon raccolto negli Stati Uniti, in grado di reintegrare le riserve cerealicole pericolosamente scarse, questo non sembra possibile. Alla fine di questa stagione di raccolta le riserve strategiche mondiali di cereali si ridurranno, rendendo la situazione alimentare sempre più precaria. I prezzi del cibo, già elevati, saliranno ancora, probabilmente verso nuovi record. Non è solo l’attuale situazione alimentare che si va deteriorando, ma anche lo stesso sistema globale del cibo. Ne abbiamo visto i segni premonitori nel 2008, quando i prezzi mondiali dei cereali hanno subito un brusco raddoppio. Con l’aumentare delle quotazioni, i paesi esportatori hanno cominciato a limitare le esportazioni per tenere bassi i prezzi nei propri paesi. Di conseguenza i governi delle nazioni importatrici sono andati nel panico, e alcuni di loro hanno reagito cominciando a com-
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prare, o a prendere in affitto, terreni in altre nazioni sui quali produrre cibo per il proprio consumo interno. Questo fenomeno ha dato il via a una nuova geopolitica della scarsità alimentare. A mano a mano che gli approvvigionamenti di cibo si riducono, andiamo verso una nuova era alimentare in cui ciascun paese farà per sé. Dal punto di vista alimentare il mondo si trova davvero nei guai. Ma non sembra che i leader politici abbiano colto la portata di quello che sta accadendo. I progressi degli ultimi decenni nella riduzione della fame sono stati annullati. Nutrire la parte affamata del mondo dipende dalle nuove politiche demografiche, idriche ed energetiche che sapremo adottare. Fino a che non ci muoveremo verso nuove strategie politiche, l’obiettivo della eradicazione della fame rimarrà un miraggio. Lo scopo di questo libro consiste nell’aiutare gli esseri umani a prendere coscienza che il tempo scarseggia. Il mondo potrebbe essere molto più vicino di quanto comunemente si creda a un’ingestibile carestia alimentare, con conseguenti prezzi in ascesa, rivolte per il pane e instabilità politica. Con il presente volume il gruppo di ricerca dell’Earth Policy Institute vuole far prendere coscienza della portata della sfida che abbiamo di fronte e spingere all’azione.
Lester R. Brown luglio 2012
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10. la corsa globale ai terreni agricoli
Tra il 2007 e la metà del 2008 i prezzi mondiali di cereali e soia sono più che raddoppiati. Con i prezzi del cibo che salivano in ogni parte del mondo, alcune nazioni esportatrici cominciarono a ridurre le spedizioni di cereali nel tentativo di limitare al proprio interno l’inflazione dei prezzi dei generi alimentari. Il panico si diffuse tra i paesi importatori e alcuni di essi provarono a ottenere forniture cerealicole a lungo termine ma, nell’ambito di un mercato le cui regole sono dettate dai venditori, i successi furono scarsi. Tutto d’un tratto le nazioni importatrici si resero conto che una delle possibilità per produrre il cibo per soddisfare il proprio fabbisogno risiedeva nel reperire terreni agricoli all’estero. Andare alla ricerca di territori oltre frontiera non è un fenomeno del tutto nuovo. Gli imperi si sono espansi con le acquisizioni territoriali, le potenze coloniali gestivano le piantagioni e le industrie dell’agribusiness è in questo modo che tentano di incrementare le loro potenzialità. L’analista di politiche agricole, Derek Byerlee, ha condotto un’analisi retroattiva che parte dalla metà del secolo 19°, esaminando gli investimenti in terre straniere spinti dal mercato. Negli ultimi 150 anni, gli investimenti agricoli su vasta scala da parte dei paesi industriali si sono concentrati principalmente su prodotti tropicali come la canna da zucchero, il tè, la gomma naturale e le banane. Ciò che oggi rappresenta una novità è la corsa ad accaparrarsi terre all’estero per coltivare alimenti di base o da destinare al nutrimento animale, tra cui il frumento, il riso, il mais e la soia o per coltivazioni dalle quali produrre biocarburanti. Queste acquisizioni territoriali degli ul-
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timi anni, o land grabs (sottrazioni territoriali) come sono state qualche volta definite, rappresentano un fenomeno nuovo all’interno della geopolitica della scarsità alimentare e si stanno verificando a una scala e un ritmo mai visto prima. Tra i paesi che sono principalmente responsabili nel comprare o prendere in affitto territori all’estero, sia direttamente attraverso istituzioni governative sia per mezzo di aziende dell’agribusiness nazionali, troviamo l’Arabia Saudita, la Corea del Sud, la Cina e l’India. La popolazione dell’Arabia Saudita ha semplicemente esaurito i propri terreni e le risorse idriche, sta rapidamente perdendo le riserve di acqua a uso irriguo e presto dipenderà completamente per le forniture cerealicole dagli acquisti sul mercato mondiale, o da progetti agricoli oltre frontiera. La Corea del Sud, che importa il 70% dei cereali, è il maggiore investitore in terre all’estero. Nel tentativo di acquistare entro il 2018 oltre 380.000 ettari di terreno agricolo da destinare alla produzione di mais, frumento e soia, il governo coreano a quanto pare aiuterà le aziende nazionali a prendere in affitto terreni coltivabili in paesi come la Cambogia, l’Indonesia e l’Ucraina. La Cina, che si trova a dover fronteggiare l’esaurimento degli acquiferi e una pesante perdita di superficie coltivabile a causa dell’urbanizzazione e dello sviluppo industriale, mostra anch’essa segni di nervosismo circa il futuro dei propri approvvigionamenti alimentari. Sebbene per i cereali si sia resa essenzialmente autosufficiente dal 1995 in poi, durante gli ultimi anni, ne è diventata un grande importatore. Per quanto riguarda la soia, ne importa più di tutti gli altri paesi sommati insieme. Anche l’India, con una popolazione da nutrire numerosa e per giunta in aumento, è diventata un importante soggetto nelle acquisizioni territoriali. Con i pozzi irrigui che si vanno prosciugando, il previsto incremento di 450 milioni di persone entro la metà del secolo e con la prospettiva di una crescente instabilità climatica, l’India è realmente preoccupata circa la propria sicurezza alimentare futura. Tra le altre nazioni che hanno intenzioni di assicurarsi territori all’estero troviamo l’Egitto, la Libia, il Bahrain, il Quatar e gli Emirati Arabi Uniti. Per esempio, all’inizio del 2012, la Al Ghurair Foods, un’azienda con sede
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negli Emirati Arabi, ha annunciato che avrebbe preso in affitto per 99 anni oltre 100.000 ettari di terra in Sudan sui quali coltivare frumento, altre tipologie di cereali e soia. Il progetto prevede che i raccolti ottenuti saranno trasferiti negli Emirati e in altre nazioni che si affacciano sul Golfo Persico. È difficile reperire informazioni dettagliate sul fenomeno dilagante dell’accaparramento territoriale. Forse a causa della natura politicamente delicata delle sottrazioni territoriali, è molto arduo separare le voci di corridoio dalla realtà. Al principio, la frequenza crescente di report su nuovi contratti sembrava indicare che il fenomeno stesse montando, ma nessuno si preoccupava di aggregare e verificare i dati in arrivo relativi a questo importante sviluppo dell’economia agricola. Molti gruppi facevano affidamento sul Grain, una piccola organizzazione non governativa con un budget ristretto, e la sua lista di notizie sulle sottrazioni territoriali. Un report iniziale della Banca Mondiale, rilasciato dapprima nel settembre 2010 e poi aggiornato nel gennaio 2011, ha impiegato la lista disponibile online stilata da Grain per aggregare le informazioni relative al fenomeno, sottolineando che quello di Grain era l’unico tentativo di analisi che avesse un orizzonte globale. Nel suo report la Banca Mondiale ha identificato 464 acquisizioni territoriali che erano a vari livelli di sviluppo nell’arco di tempo che va dall’ottobre 2008 all’agosto 2009. L’analisi afferma che la produzione agricola si era avviata solo in un quinto dei progetti, probabilmente perché in parecchi casi si trattava solo di speculazione territoriale. Il report ha elencato molte altre ragioni per spiegare questa partenza difficoltosa, tra cui “obiettivi irrealizzabili, variazioni dei prezzi, infrastrutture, tecnologie e istituzioni inadeguate”. L’estensione dei territori interessati è nota solo per 203 dei 464 casi in esame, e finora ammonta a 56 milioni di ettari, più di quelli che, sommati insieme, sono coltivati a mais e frumento negli Stati Uniti. Particolarmente degno di nota è che dei 405 casi per i quali le informazioni relative alla coltivazione erano disponibili, il 21% era destinato a coltivazioni per la produzione di biocombustibili, un altro 21% per prodotti a fini industriali o commerciali, come gomma naturale e legname, e solo il 37% dei progetti prevedeva coltivazioni a scopo alimentare.
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Quasi la metà di questi contratti, e quasi i due terzi delle terre, si trovavano nell’Africa subsahariana, probabilmente perché in quei luoghi il terreno è molto più economico che in Asia. In un’attenta analisi del fenomeno del land grabbing avvenuto tra il 2005 e il 2011 nell’Africa subshariana, George Schoneveld del Center for International Forestry Research ha rivelato che i due terzi della superficie interessata ricadeva in solo sette nazioni: Etiopia, Ghana, Liberia, Madagascar, Mozambico, Sudan del Sud e Zambia. In Etiopia per esempio, un ettaro di terreno può essere affittato per meno di 50 centesimi di dollaro l’anno, mentre nell’Asia, ove la terra scarseggia, può arrivare facilmente a costare 50 dollari o più. La regione che occupa il secondo posto per area coinvolta è il Sudest asiatico con la Cambogia, il Laos, le Filippine e l’Indonesia. Alcuni paesi hanno anche cercato territori nell’America Latina, specialmente in Brasile e Argentina. La Chongqing Grain Group, azienda di proprietà dello stato cinese, per esempio, ha dichiarato di aver coltivato nello stato brasiliano di Bahia oltre 200.000 ettari a soia per inviarla in Cina. Questa compagnia ha annunciato all’inizio del 2011 che, come parte di un pacchetto di investimenti multimiliardari in Bahia, avrebbe sviluppato una zona industriale con macchinari capaci di macinare 1,5 milioni di tonnellate di soia l’anno. Sfortunatamente, i paesi che stanno vendendo o affittando il proprio territorio per la produzione di merci agricole da spedire all’estero sono tipicamente nazioni povere e molto di frequente, come in Etiopia e nel Sudan del Sud, luoghi in cui la fame è cronica. Entrambi questi paesi sono importanti destinatari di aiuti alimentari da parte del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite. In alcuni casi le acquisizioni territoriali sono dei veri e propri acquisti di terreno, ma nella stragrande maggioranza si tratta di affitti a lungo termine, in genere di 25 o 99 anni. Come risposta all’aumento dei prezzi petroliferi e a un crescente senso di insicurezza, le politiche energetiche che incoraggiano la produzione e l’uso dei biocarburanti sono anche corresponsabili del fenomeno del land grabbing. Ciò porta alla deforestazione di nuovi terreni o alla sottrazione di quelli esistenti destinati alle colture alimentari. Per esempio, la legge dell’Unione europea sull’energia rinnovabile, che richiede che il
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10% dell’energia per i trasporti provenga entro il 2020 da fonti rinnovabili, sta incoraggiando le aziende dell’agribusiness a investire in terreni per la produzione di biocarburanti destinati al mercato europeo. Nell’Africa subsahariana molti investitori hanno piantato la jathropa (un arbusto che produce semi oleosi) e palme da olio, entrambi fonti di biodiesel. Una compagnia con sede nel Regno Unito, la Gem BioFuels, ha affittato mezzo milione di ettari in 18 comunità del Madagascar sui quali coltivare la jathropa. Alla fine del 2010 aveva piantumato 57.000 ettari con questo arbusto, ma dall’aprile 2012 sta riconsiderando la situazione a causa degli scarsi risultati del progetto. Numerose altre aziende che avevano in programma di produrre biodiesel dalla jathropa non sono andate molto meglio. L’entusiasmo iniziale sta svanendo dato che i rendimenti della jathropa sono inferiori al previsto e non vi sono ritorni economici. Sime Darby, una compagnia con sede in Malesia e che ha un ruolo importante nell’economia dell’olio di palma, ha affittato quasi 220.000 ettari in Liberia per lo sviluppo di piantagioni di palma da olio e di gomma naturale. Nel maggio 2011 ha avviato la prima piantumazione di palma da olio sul terreno interessato e l’azienda conta entro il 2030 di avere l’intera area in produzione. Stiamo quindi assistendo a una corsa ai terreni agricoli oltre frontiera senza precedenti. Spinte dall’insicurezza energetica e alimentare, le acquisizioni territoriali sono oggi viste come un’opportunità di investimento speculativo. Fatou Mbaye di ActionAid in Senegal osserva, “i terreni stanno diventando il nuovo oro e la corsa all’accaparramento è in atto proprio ora”. I capitali investiti giungono da più parti, incluse banche, fondi pensione, donazioni universitarie e persone benestanti. Molti grandi fondi d’investimento stanno inserendo l’attività agricola nei loro portafogli. Oltre a ciò, esistono molti fondi dedicati esclusivamente a investimenti di tipo agricolo. Dal 1991 al 2010, questi tipi di fondi hanno generato un tasso di ritorno che è stato approssimativamente doppio di quello dell’investimento in oro o dell’indice S&P 500, e di sette volte rispetto agli investimenti nel mattone. La maggior parte dei guadagni in queste attività sono iniziati a partire dal 2003.
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Molti investitori hanno in progetto di usare i terreni acquisiti, ma ve ne è anche un folto gruppo che specula sui terreni non avendo né l’intenzione né la capacità di produrre raccolti. Ci si è accorti che i recenti rialzi nei prezzi del cibo probabilmente continueranno, facendo aumentare ancora di più il valore dei terreni sul lungo periodo. Ed è vero che i prezzi della terra sono in salita quasi ovunque. Le acquisizioni territoriali sono in realtà anche acquisizioni idriche. Sia che la terra venga irrigata, o bagnata dalle piogge, un diritto di rivendicazione sulle terre equivale a una rivendicazione sulle risorse idriche del paese ospitante. Ciò significa che questi accordi sono una questione particolarmente delicata nei paesi con difficoltà idriche. In un articolo pubblicato su Water Alternatives, Deborah Bossio e colleghi analizzano gli effetti delle acquisizioni territoriali in Etiopia sulla domanda di acqua a uso irriguo, e quindi le conseguenze sulla portata del fiume Nilo. Mettendo insieme i dati provenienti da 12 progetti confermati, con un’area complessiva di oltre 138.000 ettari, è stato calcolato che se tutta questa specifica area dovesse essere irrigata, come appare probabile, la superficie irrigata dell’intera regione aumenterebbe di sette volte. Ciò ridurrebbe approssimativamente del 4% la portata annuale del Nilo. Le acquisizioni in Etiopia, dove si trovano la maggior parte delle sorgenti del Nilo, o nei paesi del Sudan, i quali anche attingono dalle risorse idriche del Nilo, significano che l’Egitto avrà meno acqua e pertanto ridurrà il suo raccolto di frumento e aumenterà ulteriormente la sua già notevole dipendenza dalle importazioni. Le estese acquisizioni territoriali sollevano molte questioni. Dato che spesso le superfici interessate dal land grabbing non sono libere, questi accordi significano che molti agricoltori e pastori locali verranno semplicemente allontanati. I loro terreni possono essere espropriati o comprati a un prezzo non concordato, causando spesso conflitti. Inoltre, questi accordi sono quasi sempre negoziati in segreto. In genere vengono coinvolti solo pochi ufficiali di alto grado e in via confidenziale. Non solo i portatori di interessi come gli agricoltori locali non siedono al tavolo delle trattative, ma spesso non sono nemmeno informati degli accordi presi fino a che non vengono sottoscritti e loro si trovano a
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essere sfrattati. Questo è spesso quello che avviene nei paesi in via di sviluppo, nei quali è lo stato e non l’agricoltore ad avere il possesso formale dei terreni. Di fronte a questo scenario, il contadino può essere facilmente costretto dal governo ad abbandonare la terra. I residenti allontanati saranno lasciati senza terra o mezzi minimi di sostentamento, in una situazione dove la pratica agricola è diventata estremamente meccanizzata e quindi crea scarsa occupazione. La principale conseguenza sociale di queste acquisizioni territoriali è che contribuiscono notevolmente all’incremento del numero di affamati nel mondo. L’Oakland Institute, think-tank californiano, riporta come in Etiopia l’affitto ad aziende estere di immense aree ha causato “violazioni dei diritti umani e lo spostamento forzato di più di un milione di etiopi”. La prospettiva è che, dal momento che il governo dell’Etiopia sta procedendo con il suo programma di locazione territoriale, molti più residenti verranno spostati con la forza. In un articolo pubblicato sull’Observer, che è diventato un punto di riferimento sul fenomeno delle sottrazioni territoriali in Africa, John Vidal riferisce le parole di un etiope, Nykaw Ochalla, della regione di Gambella: “ le compagnie straniere sono arrivate numerose, privando le persone della terra che avevano utilizzato per secoli. Non esiste alcuna consultazione con la popolazione locale. Gli accordi vengono presi in segretezza. La sola cosa che i residenti vedono sono persone che arrivano con numerosi trattori per invadere le loro terre”. Parlando del suo villaggio, Ochalalla racconta, “i campi sono stati requisiti senza riconoscere alcuna compensazione. I residenti non potevano credere ai loro occhi”. L’ostilità da parte della popolazione locale verso il land grabbing è la regola, non l’eccezione. La Cina per esempio, ha firmato nel 2007 un accordo con il governo delle Filippine per l’affitto di un milione di ettari di terreno sul quale produrre raccolti che sarebbero poi stati portati in patria. Una volta che la notizia trapelò, la protesta pubblica, per lo più da parte degli agricoltori filippini, ha costretto il governo a sospendere l’accordo. Una situazione analoga si è verificata in Madagascar, dove un’azienda sudcoreana, la Daewoo Logistics, ha tentato di acquisire diritti su più di un milione e mezzo di ettari di territorio, una superficie pari al-
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la metà del Belgio. Ciò ha alimentato una rivolta politica che ha portato alla caduta del governo e alla cancellazione dell’accordo. Come possono essere resi produttivi i terreni che al momento non vengono coltivati? Probabilmente fornendo conoscenze e tecnologie con le quali, nella maggior parte dei casi, possono essere raggiunti notevoli miglioramenti della resa. Come dimostrato in Malawi (vedi il capitolo 7), semplicemente somministrando fertilizzanti a un suolo impoverito e utilizzando semi migliorati, grazie alle piogge è possibile raddoppiare le rese cerealicole. Forse la domanda più importante è: quali saranno gli effetti sulla popolazione locale? L’approccio del programma seguito in Malawi nell’aiuto diretto agli agricoltori locali è in grado di incrementare fortemente la produzione alimentare, di innalzare il reddito degli abitanti, di ridurre la fame, di guadagnare dagli scambi con l’estero: è una situazione quattro volte vincente. Ciò contrasta con quella invece tre volte perdente che segue alle sottrazioni territoriali: gli abitanti perdono le proprie terre, il proprio cibo e i loro mezzi di sostentamento. In alcuni paesi ci saranno degli spettacolari incrementi produttivi, ma ci saranno certamente anche dei fallimenti. Alcuni progetti sono già stati abbandonati. Molti di più lo saranno semplicemente perché il ritorno economico non c’è. La coltivazione a lunga distanza, con la necessità di viaggi e trasporti, può essere costosa, in modo particolare quando i prezzi del petrolio sono alti. Prima di tutto, mentre le notizie di nuove acquisizioni territoriali sono comparse a un ritmo crescente, oggi lo sviluppo dei terreni interessati va a rilento. Gli investitori tendono a concentrarsi sui costi della produzione del raccolto senza considerare adeguatamente quelli della costruzione di una moderna infrastruttura agricola, necessaria a supportare con successo lo sviluppo della porzione del territorio acquisito. La maggior parte dei paesi subsahariani sono in questo molto deficitari, il che significa per gli investitori che il costo per le necessarie implementazioni potrebbe essere insostenibile. In alcune nazioni ci vorranno anni per costruire le strade necessarie a trasportare verso l’interno i materiali necessari alle coltivazioni, come i fer-
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tilizzanti, e i prodotti verso l’esterno. Oltre a ciò, vi è necessità di forniture locali di energia elettrica e di gasolio, per azionare le pompe di irrigazione, e di un ben dotato sistema di supporto per il mantenimento dell’attività agricola, nel caso i macchinari siano lasciati inattivi nell’attesa che il personale addetto alla riparazione e i ricambi arrivino da tanto lontano. La manutenzione di una flotta di trattori, per esempio, richiede non solo meccanici esperti, ma anche la presenza sul luogo di scorte per pneumatici o accumulatori. Silos ed essiccatori per i cereali sono essenziali in questo tipo di attività. Devono essere costruiti anche magazzini per i carburanti e i fertilizzanti. Un altro fattore che complica le cose sono le svariate regole e procedure governative. Per esempio se quasi tutto l’equipaggiamento e i materiali necessari alla moderna pratica agricola devono essere importati, ciò richiede una certa familiarità con le pratiche di dogana. In aggiunta, potrebbero essere necessari numerosi permessi per la trivellazione di pozzi e la costruzione di canali irrigui o l’allacciamento alla rete elettrica locale, sempreché ne esista una. Quando l’Arabia Saudita ha deciso di investire nelle attività agricole creò la King Abdullah’s Initiative for Saudi Agricultural Investment Abroad, un programma per semplificare le acquisizioni territoriali e l’agricoltura in altri paesi quali il Sudan, l’Egitto, l’Etiopia, la Turchia, l’Ucraina, il Kazakistan, le Filippine, il Vietnam e il Brasile. Il ministro del Commercio e dell’industria saudita diede avvio a un’indagine per comprendere il motivo per il quale i progetti si stessero muovendo a un ritmo così lento: impararono che l’acquisire terreni all’estero è solo il primo passo. L’agricoltura moderna dipende da grandi investimenti nelle infrastrutture, e ciò risultava costoso anche per i ricchi sauditi. Altra notevole difficoltà legata all’avvio di nuovi progetti agricoli in paesi ove i suoli, il clima, le precipitazioni, le infestazioni da insetti e le malattie vegetali sono profondamente differenti da quelle del paese investitore, è la mancanza di conoscenze. Quando vengono introdotte nuove colture ci saranno certamente perdite impreviste per malattie delle piante o infestazioni da parte di insetti, specialmente perché molti degli accordi hanno come oggetto terre in regioni tropicali e subtropicali.
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Una mancanza di familiarità con l’ecosistema locale può comportare un ampio ventaglio di rischi. L’azienda indiana Karuturi Global è il più grande produttore mondiale di rose da taglio che coltiva in Etiopia, Kenya e India per i mercati ricchi. L’azienda si è recentemente lanciata nella corsa all’accaparramento delle terre, accettando subito nel 2008 l’offerta di 300.000 ettari da coltivare nella regione etiope di Gambella. Nel 2011, la compagnia ha seminato il suo primo campo di mais nel fertile terreno presso il fiume Baro. Consapevole delle possibili inondazioni, la Karuturi ha investito pesantemente nella costruzione di argini lungo il fiume, che però non si sono dimostrati sufficienti e 50.000 tonnellate di mais sono andare perse in una piena improvvisa. Per sua fortuna l’azienda era abbastanza solida da sopravvivere a questa grave perdita. Alla fine dei conti, la verità è che gli investitori nel rendere produttive queste aree si trovano a dover affrontare dei costi sempre crescenti. Persino nei casi in cui il terreno sia relativamente economico, il cibo coltivato a queste condizioni e trasportato ai paesi di destinazione risulterà essere estremamente costoso. Sebbene questa raffica di acquisizioni territoriali su larga scala sia cominciata nel 2008, al 2012 si hanno relativamente pochi risultati da valutare. I sauditi hanno raccolto il primo riso in Etiopia, sebbene in piccola quantità, sul finire del 2008. Nel 2009, la Hyundai Heavy Industries della Corea del Sud, su una coltivazione di 10.000 ettari che rilevò da proprietari russi, approssimativamente 160 chilometri a nord di Vladivostok, ha prodotto circa 4.500 tonnellate di soia e 2.000 di mais. La Hyundai aveva progettato di espandere rapidamente la produzione a 100.000 tonnellate di mais e soia entro il 2015. Ma nel 2012 il suo primo raccolto è stato di sole 9.000 tonnellate, allontanandola di gran lunga dalle previsioni per il 2015. Il vantaggio per la Hyundai è stato che quel luogo era sede di una fattoria già funzionante e l’infrastruttura di supporto già esistente. Ma anche se la Hyundai dovesse raggiungere l’obiettivo delle 100.000 tonnellate riuscirebbe a coprire solamente l’1% del consumo sudcoreano di questi prodotti. Un’altra delle acquisizioni che sembra procedere è nel Sudan del Sud, dove la compagnia di private equity Citadel Capital ha affittato 100.000
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10 | la corsa globale ai terreni agricoli
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ettari di terreno agricolo. Nel 2011 ha dato il via alla produzione con un campo pilota di ceci da 600 ettari. Il progetto è di estendere l’area destinata a questa coltura in cinque anni fino a 50.000 ettari. L’obiettivo complessivo finale è la produzione di quelle colture, anche di mais e sorgo, per le quali esiste un vasto mercato locale e di produrle molto al di sotto dei prezzi d’importazione. Questo specifico progetto apparentemente è diretto al consumo locale. Ma purtroppo lo stesso non può dirsi della maggior parte degli accaparramenti oltrefrontiera. Le acquisizioni territoriali, che siano finalizzate alla produzione di alimenti, di biocarburante o di altre tipologie di coltivazioni, sollevano la questione di chi ne trae beneficio. Quando in pratica tutti i materiali, i macchinari agricoli, i fertilizzanti, i pesticidi, i semi, sono portati da fuori e tutto il prodotto va all’estero, vi è uno scarso contributo all’economia locale e nullo all’approvvigionamento alimentare del paese ospitante. Queste sottrazioni di territorio non solo vanno a vantaggio dei più ricchi, ma lo fanno a scapito dei più poveri. Una delle variabili più difficili da valutare è la stabilità politica dei paesi ove sono localizzate le terre oggetto di acquisizioni. Nel caso i partiti di opposizione dovessero salire al governo, questi possono cancellare gli accordi, sostenendo che le trattative erano state mantenute riservate senza una partecipazione o una consultazione pubblica. Particolarmente a rischio sono le acquisizioni territoriali in Sudan del Sud e nella Repubblica Democratica del Congo, entrambi nella lista degli stati in fallimento. Poche cose sono in grado di scatenare insurrezioni come la sottrazione della terra ai popoli. I macchinari agricoli sono facilmente sabotabili. Se viene appiccato il fuoco ai campi di cereali giunti a maturazione, questi bruciano rapidamente. In Etiopia, l’opposizione locale al land grabbing sembra che stia passando dalla protesta alla violenza. Alla fine di aprile 2012, uomini armati hanno attaccato i lavoratori nei campi di riso acquisiti dal miliardario saudita Mohammed al-Amoudi nella regione di Gambella. Cinque persone sono morte e nove altre ferite. L’azienda di al-Amoudi, la Saudi Star Agricultural Development, stava coltivando riso su appena 350 ettari dei 10.000 affittati dalla metà del 2012 e intendeva ottenere altri
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290.000 ettari nella regione, con la maggior parte del riso raccolto da esportare in Arabia Saudita. La Banca Mondiale, in collaborazione con l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), e altre agenzie collegate, ha stabilito una serie di regole per le acquisizioni territoriali. Queste linee guida sono ben concepite, ma purtroppo non esiste alcun meccanismo che le faccia rispettare. La Banca Mondiale non sembra intenzionata a contrastare i paesi che acquisiscono i territori sostenendo che ciò porterà dei benefici alle popolazioni che vivono nei paesi ospitanti. Una coalizione di oltre cento Ong, nazionali e internazionali, si sta opponendo strenuamente al fenomeno delle acquisizioni territoriali. Questi gruppi affermano che il mondo non ha bisogno di multinazionali che portino nei paesi in via di sviluppo un’agricoltura di larga scala, altamente meccanizzata e con ingenti capitali. Piuttosto queste nazioni necessitano di supporto internazionale per un’agricoltura locale di piccole dimensioni, a grande impiego di manodopera nelle fattorie familiari e che producano per i mercati locali e regionali creando il lavoro di cui hanno disperatamente bisogno. A mano a mano che i terreni coltivabili e l’acqua diventano scarsi, la temperatura della Terra sale e si deteriorano le basi per la sicurezza alimentare, va emergendo una pericolosa geopolitica della scarsità alimentare. Le condizioni che hanno dato luogo a questo fenomeno sono state latenti per molti decenni, ma solo negli ultimi anni la situazione è diventata oggetto di reale attenzione. Le acquisizioni territoriali di cui si è parlato in questo capitolo sono parte integrante di una lotta di potere planetaria per il controllo delle risorse idriche e territoriali del pianeta.
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