Nicholas Lucchetti
La Spezia e il colonialismo italiano
EDIZIONI CINQUE TERRE
PAESE MIO Alla ricerca delle nostre radici
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Prima edizione: ottobre 2011 © 2011 Copyright EDIZIONI CINQUE TERRE Seconda edizione: dicembre 2012 © 2012 Copyright EDIZIONI CINQUE TERRE Viale S. Bartolomeo, 169 - 19126 La Spezia Tel. 347-4431628 Copertina: 24 giugno 1924, Ras Tafari Maconnen a Spezia, da “Il Comune della Spezia. Bollettino mensile”, aprile-giugno 1924, p. 110. Grafica: Salvatore Di Cicco Il simbolo della collana, Paese mio, è un disegno di Edy Duranti
ISBN 9788897070030 internet: www.edizioni5terre.com e-mail: amministrazione@edizioni5terre.com
Nicholas Lucchetti
La Spezia e il colonialismo italiano
EDIZIONI CINQUE TERRE
INDICE Prefazione ............................................................................ Pag. Introduzione ........................................................................ Pag.
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Capitolo 1: La prima guerra d’Africa .................................. Pag. Capitolo 2: I vincitori dei Boxer ........................................ Pag. Capitolo 3: Opposizione e sostegno alla guerra di Libia .... Pag. Capitolo 4: Ras Tafari Maconnen a Spezia ......................... Pag. Capitolo 5: I conquistatori dell’impero etiopico ................ Pag. Capitolo 6: Il medico – funzionario e il guerrigliero .......... Pag. Capitolo 7: Tentazioni e “danni” coloniali ......................... Pag. Capitolo 8: Toponomastica “coloniale” .............................. Pag.
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Fonti consultate .................................................................. Pag. Bibliografia ......................................................................... Pag. Cronologia del colonialismo italiano. 1869-1960 ................. Pag.
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Prefazione
Uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, l’Italia fu privata del proprio impero d’oltremare all’indomani della successiva pace del 1947; ciò ha poi permesso al nostro paese di non doversi confrontare con i travagli e le tragedie che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, segnarono in Asia e in Africa il processo di decolonizzazione. Così, mentre in Inghilterra e in Francia (ma anche in Belgio e in Portogallo), l’esperienza coloniale continuò ad essere una tematica ampiamente dibattuta dall’opinione pubblica, in Italia per decenni su quella stessa esperienza cadde una sorta di impenetrabile silenzio. Dopo l’orgia di retorica patriottarda che aveva caratterizzato il ventennio fascista, l’Italia della ricostruzione e del successivo boom economico rimosse dalla propria memoria storica la pagina coloniale di cui pure era stata una protagonista importante. Ciò comportò, fra l’altro, un grandissimo ritardo nella nascita di una moderna storiografia italiana sul colonialismo. Bisognò attendere la seconda metà degli anni Settanta perché, grazie al lavoro intenso e appassionato di Angelo Del Boca, venisse fornita una ricostruzione attendibile e completa delle vicende che ci videro coinvolti massicciamente in Eritrea, Somalia, Etiopia e Libia aprendo la strada a tutta una serie di successive e più affinate riflessioni critiche. Oggi possiamo quindi affermare di posse-
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dere una sempre maggiore consapevolezza di cosa il colonialismo italiano fu e cosa esso rappresentò per la nostra coscienza nazionale. Manca invece a tutt’oggi un’analisi soddisfacente di quanto e come quella stagione condizionò le varie realtà locali della Penisola. Qualche passo è stato di certo fatto: possiamo ricordare, per citare un solo esempio, il volume di Fabio Giannelli (Pistoiesi alla prima guerra d’Africa, Editrice C.R.T., Pistoia, 1997); ma siamo ancora ben lontani dal dominare tutta quella miriade di fatti, dibattiti, persone che, nella variegata provincia italiana, accompagnarono l’espansione italiana d’oltremare. In questa cornice ampiamente incompleta, viene ad inserirsi l’informatissimo lavoro di Nicholas Lucchetti. Già autore di alcuni articoli scientifici dedicati all’esperienza coloniale italiana nel Corno d’Africa, Lucchetti, che di recente ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia con un’apprezzata tesi concernente la vicenda dell’Eritrea negli anni immediatamente successivi all’ultimo conflitto mondiale, ripercorre in questo suo libro i riflessi che il colonialismo ha via via avuto sulla realtà spezzina. La prima guerra d’Africa con i suoi disastri sanguinosi (Dogali, Adua), la conquista della Libia, l’aggressione fascista all’Etiopia furono grandi eventi che ebbero tutti riverberi più o meno consistenti anche alla Spezia e che Lucchetti ricostruisce con dovizia di particolari. Ben resi sono, ad esempio, i termini dell’acceso dibattito che contrappose le forze politiche spezzine circa l’impresa di Tripoli (1911-1912). Interessante la descrizione della memorabile visita compiuta in città da Ras Tafari Maconnen (il futuro Hailé Selassié, ultimo imperatore
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d’Etiopia) nel giugno 1924. Accurato il resoconto dell’ampio coinvolgimento cittadino nella campagna d’aggressione voluta da Mussolini contro l’Etiopia (1935-1936). Numerosi gli aneddoti e preziose le curiosità biografiche che il lettore potrà reperire nel testo. Quanti spezzini – ad esempio – sanno oggi che un loro conterraneo, l’arcolano Domenico Rolla, militante comunista, operò in Etiopia nel 1939-1940 per organizzarvi la resistenza al dominio italiano su incarico del suo partito? Insomma questo lavoro è davvero una fonte di infinite notizie per chi sia interessato a conoscere aspetti nuovi e inattesi della storia spezzina tra Otto e Novecento. Sarebbe davvero encomiabile che l’esempio di Lucchetti fosse seguito da altri studiosi per altre località italiane. Un augurio che è anche un apprezzamento per un lavoro meritevole d’ogni attenzione. Marco Lenci Docente di Storia dell’Africa - Università di Pisa
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Introduzione
Poco tempo fa, aprendo casualmente un vecchio “Tuttocittà”, la mia attenzione è stata attirata da una piccola via, una traversa alla fine di Via Napoli, tra Via Bezzecca e Viale Aldo Ferrari: Via Dogali, che ricorda il primo rovescio subito dalle truppe italiane in terra d’Africa. Successivi approfondimenti non mi hanno purtroppo consentito di appurare maggiori dettagli in merito all’intitolazione della via in questione, oggi Via San Fermo. Pur tuttavia questa vicenda mi ha spinto ad applicare l’interesse per la storia del colonialismo italiano maturato durante gli anni degli studi universitari al contesto locale, cercando di tratteggiare i legami intercorsi tra il nostro territorio e la parabola imperialista dell’Italia. Il lavoro non ha alcuna pretesa di completezza, né vuole essere una storia generale del colonialismo italiano. Piuttosto ha l’obbiettivo di aprire una piccola finestra su un tema, quello appunto dell’espansione coloniale italiana, che rappresenta una delle tematiche più significative del nostro passato. Fornendo le coordinate storiche salienti di ogni vicenda citata, il lavoro mira a descrivere come il territorio spezzino abbia vissuto l’ascesa e la caduta della parabola coloniale italiana dai timidi inizi di fine Ottocento alla guerra d’Etiopia, passando per la spedizione in Cina ai primi del Novecento, la guerra di Libia, per finire con la singolare stagione dell’amministrazione coloniale al tempo della Repubblica sociale quando, con le colonie perse in guerra già da alcuni anni, si volle co-
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munque mantenere una certa attenzione sul tema africano. Città militare, La Spezia ha visto la partenza, e in taluni casi anche il ritorno, di parte delle truppe impiegate dall’Italia per la conquista di territori funzionali all’acquisizione dello status di grande potenza. La città fu visitata in due occasioni da due illustri personalità etiopi, accolse la Squadra navale di ritorno dalla repressione della rivolta dei Boxer in Cina; parte dei suoi abitanti si divisero sull’opportunità dell’impresa libica; la provincia si mobilitò quindi per la conquista dell’Etiopia. Tutti questi elementi ci consentono di affermare che il nostro territorio ha avuto un passato coloniale tutt’altro che inconsistente, che ha comportato una partecipazione “in prima linea” ai principali momenti dell’espansione imperialista. Per affrontare i temi oggetto di questo breve studio sono state prese in esame fonti giornalistiche coeve, documenti d’archivio e la letteratura. Il presente lavoro è strutturato in otto capitoli. Nel primo vengono descritte alcune vicende connesse alla cosiddetta “prima guerra d’Africa”, dalla partenza da Spezia1 di parte delle forze impiegate dall’Italia per la presa di Massaua, ai riflessi sulla stampa spezzina dell’eccidio di Dogali e della disfatta di Adua. Tra le due citate sconfitte la città è stata onorata dalla visita di un’importante personalità quale Maconnen Uolde Micael, alla guida della prima missione diplomatica etiope in Europa, fatto che in vero la cittadinanza pare non aver colto in tutta la sua importanza, dal momento che, nelle cronache giornalistiche del tempo, si registrano molti luoghi comuni della propaganda colonialista volti a mettere in risalto la presunta inferiorità 1 - Come è noto Spezia divenne La Spezia solo nel 1930.
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delle popolazioni africane, un elemento spesso portato a giustificazione della stessa penetrazione europea in Africa. Nel secondo si narra dell’approdo nel golfo della Squadra navale allestita dall’Italia per partecipare alla spedizione internazionale in Cina, sconvolta da una rivolta nazionalista xenofoba ai primi del Novecento. Nel terzo viene trattata la reazione della cittadinanza all’impresa libica. Una parte di spezzini decise di opporsi alle scelte dell’esecutivo, mentre altri le appoggiarono apertamente, in una dialettica che trovò una colorita esemplificazione anche sulla stampa locale. Il quarto capitolo è incentrato sulla visita a Spezia di Tafari Maconnen, figlio del citato Maconnen Uolde Micael nonché futuro imperatore d’Etiopia, nel giugno 1924; proprio contro di lui il regime fascista scatenò la guerra del 1935-36 trattata per la sua parte “locale” (e non) nel capitolo quinto. A questo riguardo molte notizie sono state rintracciate sulle colonne del quotidiano “Il Telegrafo” che, sebbene del tutto organico al regime, si è rivelato un utile strumento per appurare come il nostro territorio ha vissuto quella mobilitazione sempre più imponente cui il fascismo sottopose gli italiani. Il sesto capitolo è dedicato a due figure molto particolari: Alberto Denti di Pirajno e Domenico Rolla (detto Bruno). Il primo, nato a Spezia da famiglia siciliana, ha vissuto un’impressionante carriera che lo ha portato più volte al vertice dell’amministrazione coloniale italiana, mentre totalmente differente è stata la vicenda del secondo, nato ad Arcola. Antifascista convinto, ricercato dalle forze di sicurezza del regime per la sua attività “sovversiva”, Rolla, sul finire degli anni Trenta, si recò in Etiopia per contribuire con altri all’orga-
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nizzazione della resistenza abissina contro il dominio coloniale italiano, quasi a voler scardinare il fascismo là dove aveva trionfato con la forza delle armi raggiungendo il massimo del consenso. Nel settimo capitolo sono affrontati alcuni piccoli episodi successivi alla conquista dell’impero etiopico, alla perdita delle colonie a seguito della guerra mondiale e concernenti il tema coloniale al tempo della Repubblica sociale, tutte questioni che hanno avuto riflessi e protagonisti “locali”. Da ultimo, nell’ottavo capitolo, viene segnalata quella che è possibile identificare come l’eredità coloniale a livello di toponomastica spezzina. Completa il lavoro una cronologia del colonialismo italiano che abbraccia il periodo compreso tra il 1869, anno dell’acquisto della baia di Assab da parte di Giuseppe Sapeto per conto della Compagnia di navigazione Rubattino, ed il 1960, conclusione dell’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia. L’Autore
Desidero ringraziare: il Prof. Marco Lenci, Franco Bertolucci della Biblioteca “F. Serantini” di Pisa, Gian Carlo Stella, Giuseppe Bramanti dell’Ufficio toponomastica del Comune della Spezia, il personale della Biblioteca Civica “U. Mazzini”, dell’Archivio di Stato della Spezia e dell’Archivio Centrale dello Stato. N.L.
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Capitolo 1 La prima guerra d’Africa
Il legame di Spezia con la vicenda coloniale cominciò sul finire dell’Ottocento quando l’Italia, pochi anni dopo l’unificazione nazionale, allestì una spedizione militare avente come obbiettivo l’occupazione di Massaua, cittadina costiera affacciantesi sul Mar Rosso. Questa azione seguiva i due veri e propri smacchi patiti dalla diplomazia italiana appena pochi anni prima, quando aveva dovuto subire nel 1881 l’imposizione del protettorato francese sulla Tunisia (ove era presente una consistente comunità di italiani), e non aveva voluto raccogliere nel 1882 l’invito dell’Inghilterra a partecipare alla repressione di una serie di manifestazioni xenofobe scoppiate in Egitto, un intervento che, nei fatti, avrebbe portato all’imposizione del protettorato britannico sul paese nordafricano. Nel luglio 1882, Roma aveva comunque provveduto a rilevare dalla Compagnia di navigazione Rubattino, che l’aveva acquistata nel 1869 per impiantarvi una base commerciale, Assab, tecnicamente il primo, sia pur inconsistente, possedimento oltremare italiano, e, animata dalla volontà di assurgere al rango di potenza internazionale, e beneficiando del sostegno dell’Inghilterra intenzionata ad arginare l’espansionismo francese nella regione del Corno d’Africa, si decise quindi a imprimere una qualche accelerazione alla propria espansione coloniale.
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Il 9 e 10 gennaio 1885 partirono da Spezia le due navi Amerigo Vespucci e Giuseppe Garibaldi, facenti parte della squadra navale allestita per l’azione militare nel Mar Rosso1. A questo invio, seguì la mattina del 20 febbraio la partenza di un ulteriore contingente per Roma, quindi per Napoli ed infine per l’Africa: una Compagnia del 37° Reggimento di Fanteria. Nonostante la pioggia incessante, la cittadinanza si produsse in una “simpatica dimostrazione” per la compagnia partente, cui non mancarono di partecipare tutte le autorità. La sera prima della partenza, in particolare, gli ufficiali comandanti erano stati invitati per un brindisi presso il Club Quintino, che “ebbe fine augurando future glorie alla nazional bandiera ed un addio ai partenti”2. In quel particolarissimo frangente della storia nazionale, un’impresa spezzina aveva fatto in qualche modo la propria fortuna. Le cronache del tempo informano infatti che la Ditta Costa e Comp., fornitrice dell’impresa viveri della Regia Marina, si era messa in evidenza “per il modo sollecito e puntuale con cui ha provveduto alle 100 mila razioni imbarcate sul piroscafo Principe Amedeo [partito poi da Napoli alla volta del Mar Rosso il 17 gennaio 1885] e destinate pei nostri soldati in Assab”3. La Commissione che aveva sovrinteso all’imbarco dei viveri aveva ritenuto opportuno “assaggiare 1 - Cfr. La partenza dalla Spezia della Divisione Navale, “Il Telegrafo”, 19 gennaio 1936, e M. GABRIELE, G. FRIZ, La politica navale italiana dal 1885 al 1915, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 1982, pp. 53 e ssg. 2 - Cronaca in città e fuori, “Il Lavoro”, 22 febbraio 1885. 3 - Ibidem. Non siamo in grado di stabilire con precisione la data di partenza del piroscafo da Spezia. Insieme al Principe Amedeo, partì da Napoli il mercantile Gottardo. Le due navi furono poi affiancate dalle citate Amerigo Vespucci e Giuseppe Garibaldi, cfr. A. DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale. Dall’Unità alla marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza, 1976, p. 185.
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tutto quanto di cibaria veniva imbarcato”, salvo poi far “risultare da apposito verbale la buona qualità dei generi alimentari”4 in questione. Negli ultimi scorci di febbraio, partì poi da Spezia anche la Conte Cavour con tre torpediniere5. La lettura degli inizi coloniali italiani da parte della stampa spezzina appare in verità alquanto edulcorata, dal momento che nell’organizzazione della spedizione si scontarono impreparazione e fretta di agire, come dimostrato dal fatto che l’artiglieria venne caricata nel fondo delle navi, così da renderla inutilizzabile in caso di incidenti al momento dello sbarco sulla sponda africana del Mar Rosso, e dalle divise invernali indossate dalle truppe italiane, del tutto inadatte al clima massauino6. Un’inesperienza che l’Italia pagò amaramente. Appena due anni dopo la presa di Massaua (5 febbraio 1885), nel corso delle operazioni di ampliamento delle posizioni conquistate dopo lo sbarco, una colonna italiana veniva massacrata (oltre 400 furono i morti) nei pressi di Dogali dalle forze di Ras7 Alula, il governatore della regione per conto dell’imperatore d’Etiopia Yohannes IV. A Spezia il fatto ebbe una certa eco. La redazione del settimanale “Il Lavoro” si fece interprete dello sconforto di molti rilevando, amaramente, come “quella parte di Africa che gli indigeni 4 - Cronaca in città..., cit. 5 - Ibidem. Diretta a Messina, la Cavour sarebbe ripartita per Suez insieme ad altre tre torpediniere. 6 - Cfr. N. LABANCA, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 68. 7 - Ras: duca, governatore, secondo solo ad un Negus. Ricordiamo che in ambito fascista il termine Ras viene utilizzato per indicare i capi locali del movimento responsabili dell’organizzazione delle tristemente note “squadracce” impiegate per colpire gli avversari politici.
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chiamano Porta dell’inferno si è per noi tinta in questi giorni del sangue dei nostri figli, dei nostri fratelli, dei nostri soldati”8, e rivolgendo un pensiero commosso per le “madri che a quest’ora lacrimano disperate per la morte del loro figlio, le sorelle e le mogli colpite nel più vivo del loro affetto”9. Nell’interrogarsi sul senso delle loro perdite, il giornale palesò anche un qualche scetticismo rispetto alla volontà dell’esecutivo di lanciare il paese nell’avventura coloniale, scrivendo in particolare che “i figli, i nostri fratelli giacciono laggiù trucidati, bagnando col loro sangue la sabbia del deserto che essi per strano dovere per una legge di politica ben poco scusabile, e per un ineluttabile comando militare erano stati colà mandati a difendere come loro patria”10. Al tempo stesso, ritornando su un binario più propriamente “nazionalista”, non si mancò di affermare di considerare “questi nostri soldati come morti anche loro per la difesa della patria, un lembo di patria forzatamente adottiva”, omaggiando la loro memoria con “un saluto dal più profondo dell’animo, un grido di bravi”11. Nonostante la bruciante sconfitta, l’Italia continuò la propria espansione verso l’interno, scontando differenti impostazioni e linee d’azione tra i principali attori della stessa avventura imperialista. I militari impegnati direttamente sul campo ritenevano infatti che fosse possibile sconfiggere militarmente l’Etiopia, avanzando verso il Tigré, la regione situata nella parte nord dell’impero africano, mentre al contrario sedicenti diplomatici attivi in loco, su tutti l’esplo8 - Le nostre sabbiose terre, “Il Lavoro”, 5-6 febbraio 1887. 9 - Ibidem. 10 - Ibidem. 11 - Ibidem.
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ratore Pietro Antonelli, erano convinti che fosse più utile danneggiare “politicamente” il paese africano sostenendo le ambizioni di Menelik, il signore dello Scioa, altra importante regione etiope, nella corsa al seggio imperiale12. Fu proprio su quest’ultimo versante che si verificò il primo grande successo della politica coloniale italiana, attraverso la stipula (la firma avvenne al principio di maggio 1889) tra Menelik (divenuto imperatore nel marzo 1889 dopo la morte di Yohannes IV, caduto in battaglia combattendo contro i dervisci sudanesi) e il citato Antonelli, in rappresentanza dell’Italia, del trattato di Uccialli, che nella sua versione italiana determinava il protettorato italiano sull’Etiopia13. Per firmare la Convenzione addizionale al trattato14, nell’estate del 1889, giunse in Italia il Degiac15 Maconnen Uolde Micael, alla guida della prima missione diplomatica etiope in Europa. Sbarcato a Napoli il 20 agosto, il soggiorno iniziò in modo alquanto spiacevole. Pietro Antonelli, accompagnatore ufficiale, venne colpito da lutto familiare e per partecipare al suo dolore gli abissini decisero di indossare i tradizionali panni. Ciò provocò una reazione quasi isterica della popola12 - Cfr. N. LABANCA, op. cit., p. 72. 13 - L’articolo n. 17 dell’accordo, nella versione amharica, stabiliva che l’imperatore etiopico poteva servirsi del governo italiano per comunicare con le altre potenze europee. Nella traduzione italiana si parlava al contrario di un vero e proprio protettorato di Roma su Addis Abeba. 14 - Secondo la Convenzione, l’Italia avrebbe concesso all’Etiopia un prestito di 4 milioni di lire. Come garanzia della restituzione del capitale e del pagamento degli interessi (fissati al 6%) al governo italiano sarebbero andati gli introiti delle dogane di Harar. In caso di morosità etiope, Roma ne avrebbe assunto l’amministrazione diretta. 15 - Degiac: governatore, secondo solo ad un Ras.
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zione napoletana che ad un certo punto arrivò perfino a tirare ai malcapitati ospiti degli ortaggi16. Dopo questo esordio non propriamente positivo, il 27 agosto la missione visitò la fabbrica d’armi di Torre Annunziata e il cantiere navale di Castellammare, e il 28 venne ricevuta da re Umberto I. Il giorno stesso Maconnen ed il suo seguito partirono per un viaggio che avrebbe toccato alcune delle principali località italiane, Genova, Como, Piacenza, Milano, Torino, Vicenza, Venezia, Bologna, Firenze, Perugia, con una breve sosta anche a Spezia. La missione giunse in città il 16 settembre. Il commento che all’importante evento riservò la stampa cittadina appare un chiaro esempio della scarsa conoscenza delle popolazioni africane da parte dell’Italia dell’epoca, della supponenza che guidò i primi passi italiani in Africa, e di quel paternalismo che considerava quelle stesse popolazioni come viventi ad uno stadio di arretratezza tale da determinare il controllo coloniale europeo. La cronaca del periodico “Il Lavoro” è al riguardo molto indicativa, nella sua disarmante sfrontatezza. Si narrava di abissini quasi atterriti dalla “tramontanina” che li aveva accolti e per questo costretti a coprirsi “perfino la punta del naso”17; circa l’accoglienza, si notava, essa era stata “eccezionalmente allegra”, dal momento che “fu... una risata generale e continua dacché comparvero fuori della stazione fino all’ultimo momento. Rideva il poco numeroso pubblico, e a quando a quando ridevano saporitamente essi pure guardandosi in faccia e mostrando delle dentiere grosse e bianche più dei loro avori”18. 16 - Cfr. A. DEL BOCA, op. cit., pp. 343-346 (in part. pp. 343-344). 17 - Gli scioani a Spezia, “Il Lavoro”, 21-22 settembre 1889. 18 - Ibidem.
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Tornati quindi in patria, si pronosticava, “racconteranno [...] le pene d’inferno che hanno provato in Italia per aver dovuto ivi stare tanto tempo coi piedi imprigionati entro specie di anguste scatole più o meno lucide, che i buoni abitanti di questo paese chiamano scarpe”19. Il concetto di fondo palesato dal precedente giornale veniva ripreso da “L’Avvenire” che nel tracciare un sintetico bilancio della visita commentò: “Nessun applauso, risate molte”20. L’Etiopia era dunque sinonimo di barbarie e arretratezza; “Il Lavoro”, pochi giorni prima dell’arrivo della missione etiope, commentando lo scarso decoro urbano nelle frazioni cittadine, aveva censurato “immondizie, fango, polvere, sudiciume” che facevano sembrare la città “un ultimo villaggio dell’Abissinia”21. Nessuna sottolineatura dell’onore, che al di là di tutto, la visita della delegazione etiope faceva acquisire alla città; nessuna presa di coscienza della rilevanza storica della visita; nessun cenno all’importante personalità che guidava il gruppo di africani. Per ironia della sorte Maconnen avrebbe guidato le forze etiopiche nel corso della battaglia di Adua il 1° marzo 1896, assestando un durissimo colpo alle ambizioni di grande potenza dell’Italia. Sempre più convinti di poter piegare l’impero etiopico con la forza delle armi, sul campo, si era infatti avviata una fase di massiccia penetrazione nel Tigré, comandata dall’intraprendente generale Oreste Baratieri alla guida della Colonia Eritrea (istituita il 1° gennaio 1890) dal 1892. Que19 - Ibidem. Gli etiopi lasciarono la città il 17 settembre. 20 - La Missione Scioana a Spezia, “L’Avvenire”, 22 settembre 1889. 21 - Cose liete e tristi, “Il Lavoro”, 31 agosto-1° settembre 1889.
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st’opera di sconfinamento produsse un’inevitabile reazione etiope, manifestatasi nell’annientamento della guarnigione italiana presso l’Amba Alagi nel dicembre 1895 e nell’assedio del forte di Macallé, arresosi nel gennaio 1896. Due sconfitte che furono il prologo dello scontro finale svoltosi ad Adua il 1° marzo 1896, un evento rimasto nella memoria collettiva come il più grande successo militare dell’africano sull’uomo bianco invasore. Circa cinquemila italiani vi trovarono la morte, insieme a mille soldati indigeni, mentre tra i 1.600 ed i 1.900 italiani ed un migliaio di soldati indigeni furono presi prigionieri dagli etiopi22. Nel dare conto della disfatta, la stampa spezzina riservò una certa considerazione per quegli stessi abissini che appena pochi anni prima non aveva mancato di deridere apertamente, non senza riservare, al contempo, evidenti critiche nei confronti dell’esecutivo, capaci di fare emergere, in taluni passaggi, perfino una qualche coscienza “anticoloniale”. Il bisettimanale “La Spezia”, periodico “commerciale, politico, amministrativo”, fin da pochi giorni dopo il disastro, si premurò di fornire più notizie possibili sull’accaduto, dando conto delle “forze preponderanti” messe in campo dagli etiopi e, in certa misura, delle imperizie italiane, rilevando che “per l’enorme difficoltà del terreno, le artigliere da montagna non poterono essere trasportate”23. La portata della disfatta fu tale che il giornale si augurò “per il bene dell’Italia che mai avverrà più che al governo si trovino uomini inetti quali quelli che abbiamo oggi”24. Ci si lasciò andare anche ad una considerazione che ben 22 - N. LABANCA, op. cit., p. 82. 23 - Gravi notizie dal campo, “La Spezia”, 4 marzo 1896. 24 - Il nostro lutto, in Ivi.
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sintetizzava lo stato d’animo allora vissuto: “Dio voglia che gli abissini non sappiano approfittare della vittoria!”25. Nei numeri successivi il giornale alternò patriottismo, insofferenza per la difficoltà con la quale le notizie giungevano dall’Africa Orientale, sconforto e perfino sentimenti contrari all’espansione coloniale. Il direttore Attilio Mantegazza, tenente di vascello della Riserva della Regia Marina ed esponente di spicco della massoneria spezzina, commentando una riuscita manifestazione milanese a favore dell’esercito, intese precisare che le numerose proteste che si stavano levando in Italia contro il governo e segnatamente il suo leader, Francesco Crispi, che molto si era prodigato per l’espansione coloniale, non erano minimamente dirette contro gli sventurati soldati, che avevano affrontato il sacrificio “sereni e calmi col sorriso sulle labbra ed il nome caro della nostra Italia”26. Il giornale registrò quindi la volontà di processare Baratieri, per il fatto che “egli non risulterebbe rimasto sul luogo del combattimento fino al completo cessare della battaglia”27, l’imminente partenza dei rinforzi per l’Africa e, non senza palesare una certa inquietudine, le critiche condizioni della divisione di Adigrat, esposta all’avanzata abissina, con appena un mese di scorte28. La riflessione che si traeva dai tragici fatti non lasciava però spazio a dubbi:
25 - Nostre considerazioni sulla situazione e gli avvenimenti!, in Ivi. 26 - All’esercito, “La Spezia”, 7 marzo 1896. 27 - Cfr. In Africa, in Ivi. 28 - Cfr. In Africa, “La Spezia”, 11 marzo 1896.
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“L’Africa è ora l’incubo di tutti come lo era di Catone una volta. Eravamo una nazione [...] eravamo ciò che avevamo saputo e voluto essere ed era nostra gloria essere di sangue nostro. Avevamo alle spalle una via sacra, seminata di pietre miliari scritte col sangue, conquistata passo per passo con senno di governo, con amor di combattimenti, con virtù di popolo; avevamo davanti agli occhi quello che chiamavamo il nostro stellone. In un momento d’ubbriachezza [sic] abbiamo dato un calcio nell’arca che racchiudeva un tesoro e quando intorno non era ancora spento l’eco degl’inni patriottici, quando non era ancora detta l’ultima bestemmia contro gli stranieri, siamo andati a far noi da stranieri in casa altrui”29.
Per tutto questo bisognava “confessare che l’Abissinia ha scritto una pagina splendida nella sua storia e che noi ne abbiamo strappata una dalla nostra”30. Quanto scritto da “La Spezia” si ritrova, nella sostanza, sulle colonne de “Il Lavoro”. Il settimanale, porgendo ai caduti “il mesto fiore del semprevivo”, parlò di una situazione in Africa “paurosa”31, e consigliò di indirizzare l’attenzione e le risorse impiegate nell’impresa coloniale sul territorio nazionale, “diminuendo il numero degli analfabeti, dando acqua e cimiteri ai Comuni che ne difettano, unendo con una rete stradale territori oggi assolutamente inoperosi, dimenticati totalmente dalle Autorità, e troppo ben ricordati dall’agente delle tasse; dissodando i terreni che ora costituiscono il semenzaio della malaria e il fondo della miseria; e, finalmente, colonizzando tra noi i veri terreni africani”32.
29 - Molto è perduto, in Ivi. 30 - Ibidem. 31 - La guerra, “Il Lavoro”, 7 – 8 marzo 1896. 32 - L’Africa, in Ivi.
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Capitolo 2 I vincitori dei Boxer
Ricordata come un’onta nazionale, Adua avrebbe pesato sui futuri sviluppi della parabola coloniale italiana. Se ne ebbe una concreta manifestazione appena tre anni dopo la cocente sconfitta, allorché l’Italia volle tentare una qualche espansione in Asia, segnatamente in Cina, sulla quale erano concentrate le mire di numerose potenze straniere. Nel marzo 1899 il Ministero degli Affari Esteri italiano intimò alla Cina la concessione della baia di San Mun; convinta di ricevere un qualche supporto da Londra, Roma si vide al contrario rigettare la propria richiesta dalle autorità cinesi. Questo atto di così importante significato, quasi un misconoscimento del prestigio internazionale italiano, già fiaccato da Adua, avrebbe potuto rappresentare la conclusione di ogni ambizione espansionista di Roma in terra cinese, ma al contrario pochi mesi più tardi scoppiò la nota rivolta nazionalista dei Boxer1, una violenta reazione contro l’“aggressione” economico-politica di potenze straniere ai danni della sovranità e dell’autonomia cinesi, “aggressione” che andava declinandosi attraverso l’impianto di tutta una serie di basi 1 - Con questo termine ci si riferisce ai protagonisti della rivolta, gli appartenenti alla “Società di giustizia e concordia”, erroneamente tradotta come “Pugni di giustizia e di concordia”.
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ottenute con la stipula di “trattati ineguali” con forti penalizzazioni per la controparte cinese ed agevolazioni per gli stranieri (come l’extraterritorialità dei territori loro concessi), una pratica che nei fatti aveva trasformato il paese asiatico in una “semicolonia”. Nel giugno 1900 i rivoltosi posero l’assedio al quartiere delle legazioni diplomatiche occidentali di Pechino, fatto che determinò la reazione di numerosi paesi, tra cui Germania, Inghilterra e Francia, che decisero di inviare delle proprie truppe nel territorio. Alla missione partecipò anche l’Italia che allestì una specifica Squadra navale, al comando dall’ammiraglio Camillo Candiani e composta dalle navi Fieramosca, Elba, Vettor Pisani e Calabria, ed approntò un contingente di soldati trasportato sul posto da alcuni piroscafi noleggiati dalla Navigazione generale italiana. Il contingente, composto da oltre 1.900 uomini, partì da Napoli il 16 luglio 1900, sotto la guida del colonnello Vincenzo Garioni, futuro governatore della Tripolitania2. In poco tempo le forze internazionali ebbero ragione degli insorti: nel febbraio 1901 il governo cinese accettò un armistizio e nel successivo settembre firmò un pesante accordo di pace che imponeva alla Cina il pagamento, entro trent’anni, alle potenze straniere di 67 milioni di sterline. Spezia fu toccata dai fatti cinesi perché al principio di febbraio 1902 fece tappa in città la Squadra oceanica della Ma-
2 - La monografia più precisa in merito alla partecipazione italiana alla spedizione cinese è L. DE COURTEN, G. SARGERI, Le regie truppe in Estremo Oriente. 1900-1901, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 2005, cui si può accostare C. PAOLETTI, La Marina italiana in Estremo Oriente. 18662000, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare, 2000, pp. 29-106.
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rina italiana di ritorno dall’Oriente3. Il facente funzioni di sindaco, assessore Dott. A. Carletti, annunciò alla cittadinanza l’importante evento pubblicando il seguente manifesto: “Cittadini. Oggi nelle acque del nostro Golfo ancoreranno le navi italiane gloriosamente reduci dagli ultimi lidi orientali. Anche [sic] una volta i nostri prodi marinai, sotto la savia guida d’intrepido duce, eroicamente nel nome sacro della patria combattendo per la civiltà, dimostrarono alle Nazioni il valore della nostra gente. Unanime giunga loro il plaudente saluto di questa cittadinanza che vivissimi nutre l’affetto e l’ammirazione per la nostra marina, ed è orgogliosa di accogliere gli strenui che di nuovi allori fecero adorna l’itala bandiera e onorato mantennero il prezioso retaggio della gloria d’Italia”4.
Accolti dal Duca degli Abruzzi e dal ministro della Marina, senatore Morin, i reduci giunsero l’8 febbraio. A sera si svolse un banchetto nella sala dell’elegantissimo Lawn-Tennis, in onore degli ufficiali della Squadra, al quale parteciparono oltre 200 commensali, circondati da un “riuscitissimo, gaio ed imponente” addobbo: “Di fronte l’un l’altro erano i ritratti di Umberto e Margherita, di Vittorio Emanuele III e della giovane Regina Elena di Montenegro. Spiegata la grande bandiera cinese portante il simbolico drago. Fra i trofei di bandiere delle Nazioni alleate, figuravano grandi quadri rappresentanti le nostre navi che parteciparono alla spedizione [...] ed i forti nei quali i nostri coraggiosi e provetti marinai maggiormente si segnalarono”5.
3 - Il fatto è stato segnalato anche da P. G. SCARDIGLI, 1849-1902. Con l’Unità d’Italia la Marina Militare nel golfo e le prime istituzioni imprenditoriali spezzine, La Spezia, Edizioni Giacché, 2011, pp. 201-202. 4 - La Squadra Oceanica alla Spezia, “Gazzetta della Spezia”, 15 febbraio 1902. 5 - Ibidem.
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Le tavole imbandite erano due: una di 17 metri a ferro di cavallo e l’altra di 14 metri, che accoglievano “fiori bellissimi” ed argenterie e cristalli “scintillanti [che] davano una caratteristica di lusso orientale”6. Alla fine della cena prese la parola il ministro Morin, che intese soffermarsi sul significato dell’azione in Oriente per il presente e per il futuro della Marina italiana. Dalla professionalità mostrata dai “nostri prodi compagni”, capaci di onorare al meglio la Marina “in quella lontana regione”, derivava una “balda fiducia” per l’avvenire: “Una gran fede deve ormai animarci tutti, vecchi e giovani, la fede sicura che in qualunque occasione la nostra armata corrisponderà nobilmente a quanto il paese ha diritto di attendersi da essa per la tutela della sua sicurezza, per lo sviluppo della sua prosperità, per la conquista della sua grandezza”7. Per intanto, per la sua partecipazione all’azione in Cina, Roma ottenne, in perpetuo e a decorrere dal giugno 1902, la concessione di Tientsin, destinata a ritagliarsi un ruolo alquanto marginale nell’ambito dei possedimenti coloniali italiani. Sul posto la massima autorità italiana era rappresentata da un Console generale che gestiva la concessione coadiuvato da un Consiglio a maggioranza italiano; la sicurezza e l’ordine venivano mantenuti da un distaccamento militare e da un corpo di polizia comandati da ufficiali italiani8. La concessione italiana acquisì una qualche notorietà solo tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta,
6 - Ibidem. 7 - Ibidem. 8 - G. SAMARANI, La Cina del Novecento. Dalla fine dell’Impero a oggi, Torino, Einaudi, 2004, p. 63.
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quando Galeazzo Ciano lavorò come diplomatico a Pechino e Shangai9. Negli anni Trenta, in particolare, delle circa 8.000 persone che vivevano a Tientsin appena 500 erano italiani10. Sconfitta nella seconda guerra mondiale, l’Italia rinunciò ai propri diritti su Tientsin nel febbraio 1947 firmando il trattato di Parigi.
9 - Cfr. N. LABANCA, op. cit., pp. 94-99. 10 - G. SAMARANI, op. cit., p. 63.
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Capitolo 3 Opposizione e sostegno alla guerra di Libia
Occasione per ottenere un ben maggiore risultato di una lontana concessione in terra cinese fu la guerra di Libia. Il territorio libico era l’unica porzione dell’Africa mediterranea che, ancorché sottoposta all’Impero ottomano, non era ancora caduta sotto il controllo di una potenza europea. A spronare ad un’azione di forza erano i richiamati smacchi del 1881 e 1882, uniti a ragioni strategiche che indicavano nel controllo italiano della Libia un fatto capace di incrementare la posizione di “forza” di Roma nel Mediterraneo, e da ultimo un certo attivismo tedesco palesatosi nell’estate 1911 con una “minacciosa dimostrazione navale”1 ad Agadir contro la sempre maggiore ingerenza francese in Marocco. Spezia anche in questo caso fu la base di partenza di parte della flotta impiegata dall’Italia per le operazioni. Come già al principio del 1885, alcune navi partirono dal golfo spezzino dopo aver fatto “grandi provviste di carbone e vettovaglie”2. In tale frangente, ciò che fu più significativo furono le manifestazioni di opposta derivazione che interessarono la città, che, trattate, esaltate e contestate dalla stampa, mo1 - N. LABANCA, op. cit., p. 112. 2 - In rotta per Tripoli?, “Il Comune”, 21 settembre 1911.
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strano come Spezia sia stata teatro di un particolarmente acceso dibattito sull’opportunità della nuova impresa africana. Nella serata del 26 settembre 1911, alla vigilia dell’invio al decadente Impero ottomano di un ultimatum da parte di Roma con il quale si intimava di non ostacolare la volontà italiana di annettere la Libia, la Camera del Lavoro spezzina aderì alla decisione della Confederazione Generale del Lavoro di proclamare uno sciopero di 24 ore nella giornata del 27 settembre contro la spedizione tripolina3, una clamorosa forma di protesta alla quale prese però parte un numero limitato di persone, tra le quali i tramvieri che, secondo la cronaca del “Corriere della Spezia”, “fra lo stupore e il disgusto della cittadinanza [...] si astenevano dal lavoro”4. Opposta fu invece la manifestazione di giovedì 28 settembre, giorno dell’imposizione italiana del citato ultimatum, organizzata dai nazionalisti e dagli studenti decisamente favorevoli alle scelte governative. Partito dai giardini pubblici, il loro corteo chiese che dalle case e dai negozi venisse esposto il tricolore; giunti presso il Municipio, i manifestanti vennero ricevuti da alcuni assessori cui espressero il vivo desiderio di vedere issata anche sul palazzo comunale la bandiera nazionale. Da parte comunale si dichiarò che il tricolore sarebbe stato esposto al giungere della notizia della conquista di Tripoli; dopo qualche battibecco, il corteo proseguì la propria marcia e, ritornato ai giardini, prese la parola il nazionalista
3 - Adesioni allo sciopero, con esiti contrastanti, si ebbero in tutta Italia. A Milano si scioperò già il giorno 25 settembre, cfr. M. DEGL’INNOCENTI, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 29-46. 4 - Per Tripoli, “Corriere della Spezia”, 30 settembre 1911.
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