Rivista di Arti Terapie e Neuroscienze On Line - anno IV n. 8

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Anno IV – Numero 8

ArtiTerapie e Neuroscienze On Line www.rivistaartiterapie.it

Agosto 2013 L’uomo e i suoi simboli Ci hanno sempre detto che la carne è contraria allo spirito, che la materia è volgare e lo spirito è sublime e nobile, come se fossero due antaCopertina L’uomo e i suoi simboli di Patrizia Masciari gonisti in perpetua lotta: una delle tante credenze limitanti che rischia di avvelenarci la vita. C’è, invece, Pag. 3 Le terapie ROT, di reminiscenza, rimotivazionale e faruno strettissimo rapporto tra Matemacologica nel morbo d’ Alzheimer di Laura Petrucci ria e Spirito, superato il principio di casualità che da Cartesio in poi ha Pag.5 Ambiguità dell’arte visiva e Malattia di Alzheimer di L. informato e guidato tutto il pensiero Colucci, O. Musella, S. Pollice, P. Di Maggio, A. M. Fasanaro scientifico. E’ proprio dove si inPag. 7 Dall’inserto SALUTE E PREVENZIONE: Disturbi del contrano corpo e spirito che si colcomportamento alimentare e tossicodi-pendenza - Aspetti psicopaloca la psiche: qualsivoglia studio tologici comuni e comorbilità di M.L. Agostinelli - M. Asti - D. Arcompleto che riguardi la psiche non rigo - M. Mantero può sondare soltanto l’aspetto prettamente scientifico, documentabile, Pag. 12 Dall’inserto SALUTE E PREVENZIONE: Il comportadimostrabile e quantificabile, premento violento nella pratica clinica di O. Gambini - V. Barbieri scindendo o ignorando la sua natura S. Scarone trascendente che fa da ponte proprio fra l’umana esperienza del corpo e dello spirito. Anzi, è proprio il trascurare questa realtà strutturale dell’essere umano, a costituire la fonte di sofferenza e disagio maggiore che imprigiona gli individui costringendoli a vivere rigorosamente sul piano dei “fatti”, ricacRivista dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Iscr. N. 1046 Registro Organi della Stampa c/o Tribunale di Lecce ciandoTelematica e rimuovendo tutto il mate–riale Direttore: Carmelo primitivo cheTafuro. emerge bisognoso di ascolto e attenzione. Per poter

In questo numero...


mente sul piano dei “fatti”, ricacciando e rimuovendo tutto il materiale primitivo che emerge bisognoso di ascolto e attenzione. Per poter sopravvivere a questa forzatura, gli individui si rifugiano in fughe nel passato o nel futuro ed è li che si perdono in pericolosi labirinti della coscienza sottoposti ad angosce spazio/temporali che divorano le loro più preziose energie vitali. Ma l’essere umano è ben fatto e strutturato, gli viene in aiuto il suo prezioso inconscio, quello che è stato sempre visto, invece, come un pericoloso nemico degli uomini al quale non si doveva dare troppo spazio altrimenti conduceva alla pazzia. Ciò che la coscienza vive come passato, presente e futuro, nell’inconscio si relativizza divenendo sostanza libera, al di fuori dallo spazio e al di coincidenze sincroniche di eventi che normalmente attribuiamo al caso e che superficialmente liquidiamo come prive di significato. Si tratta di Si tratta di mettere in funzione le facoltà dell’anima, intelletto, sentimento e volontà, ma non in maniera settaria, come facciamo solitamente in preda a una incapacità di concepire in noi la cooperazione, cioè in un clima da guerra interna dove la ragione ostacola il sentimento e la volontà ne paga le spese. Allontaniamo da noi questi malsani luoghi comuni ed entriamo nella dinamica salutare della cooperazione che la natura ci insegna continuamente: quando la ragione si incontra con il sentimento da alla luce una nuova capacità che si chiama Intuizione ed in questo spazio interno la volontà ne riceve nuovo e fortificato slancio. E’, appunto, nello spazio interno dell’Intuizione che setacciamo gli eventi quotidiani ed identifichiamo la guida di sincronie illuminanti connessioni altamente significative.

Il nostro pensiero è fatto della stessa materia e sostanza di cui è composto l’universo, come ormai attesta la fisica quantistica, quindi, la nostra coscienza soggettiva è immersa come un’onda nella infinita coscienza universale, in questa noi tutti esseri viventi siamo una cosa sola, una coscienza collettiva che connette tutti gli esseri umani al di là del tempo e dello spazio in un campo energetico sovra personale e transpersonale. Questo concetto lo accettavamo relegandolo prevalentemente al mondo animale e vegetale sotto il nome di istinto con variabili meccaniche quali il sesso, la fame, la sopravvivenza, etc. per noi umani valgono le medesime meccaniche in quanto mammiferi, alle quali vanno aggiunte sofisticate elaborazioni di immagini, archetipi, segni e simboli che caricano di significato gli eventi facendoci agire in base, non solo alla soddisfazione dei bisogni primari, ma alla Relazione e a valori identitari che fanno parte integrante della sfera del trascendente. Tali valori ci accomunano tutti, indipendentemente dai credo religiosi o dalla differenza di cultura e razza, in uno stesso ceppo contenente la medesima radice. Tale radice è l’archetipo, appunto, una sorta di matrice collettiva che ci dispone ai medesimi infiniti desideri, agli stessi valori appaganti dei quali è intriso l’inconscio collettivo. L’essere umano risulta immerso ed intriso di questa fra la materia e lo spirito. L’arteterapia ha la funzione di risvegliare la ricettività simbolica facendo entrare l’uomo nello spazio della consapevolezza del sé, luogo in cui riposano gli archetipi che vanno resi attivi e dinamici attraverso la facilitazione della espressione di tutte le gamme emotive e le energie vitali intasate nei vari plessi del siste

Seguici

stema ortosimpatico e parasimpatico. I laboratori esperienziali sono officine nelle quali si configurano le infinite possibilità individuali di essere, di pensare, di sentire, di co-creare, di provare emozioni e dipingere sentimenti, di snodare progettualità, di liberare e dar voce all’irrisolto, di proporre idee, partorire e condividere visioni e percezioni, di verbalizzare l’impronunciabile e trasformare i mostri prodotti dalla nostra flagellata mente, di esercitarci nella capacità di resilienza e nel potere di plasmare la nostra realtà facendo concorrere al bene ogni nostra preziosa ombra. Patrizia Masciari


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Il Protocollo Discentes per le Arti Terapie Il Protocollo Discentes è un modello didattico, ideato dall’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative e coordinato da Art.eD.O., che prevede l’acquisizione da parte degli allievi iscritti di competenze in ambito teoricorelazionale (conoscenza della psicologia, psichiatria e della neurologia), coniugate con competenze pratiche, per intervenire in tutti i contesti della relazione d’aiuto, attraverso l’utilizzo delle tecniche di Arti Terapie (Musicoterapia, Arteterapia plastico pittorica, Danzaterapia, Teatroterapia).

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Le terapie ROT, di reminiscenza, rimotivazionale e farmacologica nel morbo d’ Alzheimer Il morbo di Alzheimer è una demenza di tipo degenerativo a decorso cronico causata da un processo che distrugge progressivamente le cellule del cervello. Provoca un deterioramento irreversibile di tutte le funzioni cognitive superiori, fino a compromettere l’autonomia funzionale nelle attività della vita quotidiana. A livello cerebrale, nei soggetti ammalati, si nota un raggrinzamento globale del tessuto cerebrale, dovuto anche alla morte di molti neuroni. I solchi sono molto allargati, mentre i giri sono rimpiccioliti. Vi è inoltre, la caratteristica di presenze di placche amiloidi esterne ai neuroni, formate da una proteina che il corpo normalmente produce ma che, nel caso dell’Alzheimer, non viene eliminata e da grovigli neurofibrillari, fibre contorte insolubili situate all’interno dei neuroni del cervello. Le neurofibrille normalmente sono formate da proteine chiamate tau e costituiscono i microtubuli; questi contribuiscono al trasporto delle sostanze da una parte all’altra della cellula nervosa. Nella malattia di Alzheimer la proteina tau è anomala e le strutture microtubolari sono collassate. l sintomi più significativi di questa patologia riguardano: -

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i deficit di memoria (in particolare si verifica l’amnesia anteretograda, cioè l’incapacità di ricordare cose recenti, o più precisamente eventi occorsi dopo l’insorgenza della patologia); Una o più delle seguenti alterazioni cognitive: afasie, aprassia, agnosia e disturbo delle funzioo delle capacità di ragionamento, di pianificazione e giudizio; Difficoltà di orientamento spazio-temporale (faticano a riconoscere l’ambiente in cui si trovano e a collocare gli oggetti

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nello spazio); Disturbi di comportamento quali aggressività, atteggiamento oppositivo, lamentazioni e urla, alterazioni del ritmo sonno-veglia, sottrazione e accumulo di oggetti e movimenti ripetitivi afinalistici;

La cura delle demenze richiede una presa in carico complessiva di diversi fattori correlati tra loro in forme di processo riabilitativo, farmacologico e di valutazione anche dell’ambiente relazionale ed affettivo. In psicologia clinica possiamo distinguere due tipi di approcci terapeutici-riabilitativi: -

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Approcci che si focalizzano specificamente sui deficit mnestici (memory training e mnemotecniche); Approcci con indirizzo cognitivo più ampio in cui vengono affrontate anche variabili affettive, quali terapie dell’orientamento alla realtà (ROT), la terapia di reminiscenza e la terapia di rimotivazione.

La Reality orientation therapy (ROT), sviluppatasi negli anni ’60 dello scorso secolo, è di matrice cognitivista e i basa sull’assunto che le funzioni cognitive del soggetto non siano completamente compromesse, ma che si possano riattivare le abilità residue, ristabilendo un rapporto soddisfacente con la realtà quotidiana. L’intervento quindi, mira a migliorare l’orientamento del paziente rispetto a sé, alla propria storia e all’ambiente circostante, favorendo l’aumento dell’autostima e sollecitando il malato a partecipare significativamente alla vita sociale


per evitare l’isolamento. Esistono due principali modalità di ROT: formale ed informale. La ROT informale prevede un processo di stimolazione continua che implica la partecipazione di operatori e familiari i quali, durante i loro contatti col paziente, nel corso della giornata forniscono ripetutamente informazioni al paziente stesso. La continua ripetizione delle informazioni aiuta il malato a conservarle nel tempo. Come intervento complementare alla ROT informale, è stata sviluppata una ROT formale, che consiste in sedute giornaliere condotte con gruppi di 4-6 persone, omogenee per grado di deterioramento cognitivo, durante le quali un operatore impiega una metodologia di stimolazione standardizzata. La terapia della reminiscenza è di origine psicoanalitica. Essa si basa su due assunti fondamentali: il naturale bisogno dell’anziano di fare riferimento alla sua storia con il conseguente piacere che trae da questa attività e la maggiore resistenza nei casi di Alzheimer della memoria relativa a fatti remoti, i cui contenuti possono costituire un ottimo canale per la comunicazione con il paziente. Si tratta di una tecnica che riutilizza, quindi, la spontanea tendenza dell’anziano a rievocare gli eventi piacevoli del passato e sfrutta tali ricordi per stimolare le capacità mnestiche residue e per favorire la socializzazione. La terapia può essere applicata applicata individualmente o in gruppo, da sola o insieme ad altre tecniche come la ROT e/o la terapia rimotivazionale. La terapia di rimotivazione è

è una tecnica cognitivocomportamentale che si basa sull’importanza di riattivare nell’anziano l’interesse per gli stimoli esterni. E’ rivolta a quei pazienti che manifestano deficit cognitivi lievi accompagnati, però, da stati depressivi e, comunque, in grado di sostenere una conversazione. L'obiettivo principale è quello di incentivare l’interesse dell’anziano per contrastare e limitare la tendenza del paziente depresso all’isolamento, ma anche favorire la socializzazione e l’esercizio della memoria. Questa terapia può essere utilizzata con pazienti ambulatoriali o istituzionalizzati, applicata individualmente o in gruppo, con sedute bisettimanali di circa un’ora. Attualmente non esiste un trattamento in grado di guarire la malattia di Alzheimer, cioè di restituire al paziente la memoria e le atre funzioni cognitive. Nel malato di Alzheimer, in aree specifiche del cervello, si riscontrano bassi livelli di un neurotrasmettitore chiamato aceticolina, ed elevati livelli di un altro mediatore chimico, il glutammato. Ad oggi i farmaci maggiormente in uso per il trattamento sintomatico della malattia sono molecole che aumentano i livelli di aceticolina. Accanto a questi, esiste un’altra classe farmacologica in grado di proteggere le cellule nervose dall’eccesso di glutammato. I primi farmaci sono denominati “anticolinesterasici”, perché agiscono bloccando un enzima, chiamato colinesterasi, che demolisce l’aceticolina, permettendone un accumulo che controbilancia la perdita indotta dalla malattia (donepezil, rivastigmina e galantamina). Si deve ricordare però che la mancanza di aceticolina non è la principale lesione identificata nella malattia: è stato dimostrato che il danno è indotto prevalentemente dalla deposizione di una sostanza che

denominata beta-amiloide, la quale sviluppa un’azione tossica sulle cellule celebrali dell’uomo. Purtroppo, ancora non si dispone di molecole in grado di colpire in modo diretto la beta-amiloide e quindi è importante ottimizzare l’uso dei farmaci anticolinesterasici. Quest’ultimi, non solo si sono dimostrati efficaci sulla sfera cognitiva ma anche nel rallentare la perdita dell’autonomia e nel migliorare alcuni disturbi comportamentali. Laura Petrucci

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Ambiguità dell’arte visiva e Malattia di Alzheimer L’osservazione di opere di arte ed il dialogo sviluppato a partire da esse è un intervento efficace nei pazienti con Malattia di Alzheimer: ne suscita l’ interesse, ne favorisce l’ interazione ed il dialogo. Il benessere psicologico del paziente e del caregiver ne può risultare inoltre significativamente migliorato. Non è tuttavia chiaro quali aspetti dell’ arte visiva siano più efficaci nel coinvolgere e stimolare il paziente. Sono soprattutto le immagini definite e riconoscibili, in cui l’oggetto e/o la scena rappresentata hanno una unica interpretazione a coinvolgere ed essere apprezzate, oppure è possibile suscitare maggiore stimolo ed interesse attraverso immagini caratterizzate da un certo grado di ambiguità? Quale tipo di ambiguità stimola maggiormente i pazienti? E’ valida anche per i pazienti con malattia di Alzheimer la preferenza verso opere caratterizzate da una molteplicità di possibili interpretazioni? Il nostro lavoro è diretto ad esplorare alcuni di questi aspetti, che sono stati ben descritti ed analizzati da Semir Zeki, noto esponente della neuro estetica. Egli distingue due tipi di ambiguità: quella situazionale (fig.1) e quella formale (fig.2). La prima caratterizza immagini in cui i singoli elementi sono ben identificabili, ma in cui la scena complessiva si presta a diverse interpretazioni tutte plausibili: le opere di Vermeer, possono, secondo Zeki, costituirne un esempio paradigmatico. L’ambiguità formale invece caratterizza le opere in cui i singoli elementi sono percettivamente ambigui, e dunque difficilmente identificabili: le opere della corrente cubiste le opere della corrente cubiste ne

le opere della corrente cubiste ne sono l’esempio. La “visione simultanea”, il tentativo di risolvere il conflitto tra la visione in 3D e la bidimensionalità del piano, che l’autore mira ad ottenere, può, di fatto, rendere poco comprensibile l’opera e quindi poco interessante e stimolante. Secondo Zeki “tutta la grande arte” è tale se è basata sull’ambiguità situazionale. Altri autori, più recentemente, hanno confermato che moderati livelli di ambiguità sono non solo tollerati ma apprezzati, nell’arte visiva, e che una certa incertezza nel definire precisamente la scena osservata, contribuisce a rendere interessante, o anche affascinante, un’ opera. Ci siamo proposti in questo lavoro di valutare la validità dell’ ipotesi formulata da Zeki nei pazienti con danno cognitivo da malattia di Alzheimer. Anche in questi soggetti la condizione di ambiguità situazionale sollecita maggiore interesse della non ambiguità? Anche in essi l’ ambiguità situazionale è preferita a quella formale? Su di piano più pragmatico lo scopo è anche contribuire alla definizione dei metodi per attuare interventi di stimolazione cognitiva attraverso l’arte visiva in questi soggetti. Metodo: sono stati selezionati 30 pazienti (16f) affetti da AD lievemoderato (criteri nincds-adrda) seguiti presso l’Unità Alzheimer dell’AORN Cardarelli di Napoli. I pazienti, in trattamento stabile con inibitori delle colinesterasi, avevano età media di 71 anni e un MMSE medio di 20.1, ed erano inseriti in un progetto che prevedeva l’osservazione e il commento di opere d’arte visiva. Le immagini scelte da storici dell’arte

Fig.1. V.Vermeer,1665

Fig.2. P .Picasso,1937

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Fonte

DF

Somma dei qua- Media dei qua- F di Fisher drati

drati

Modello

2

486,703

243,351

Residui

86

409,477

4,761

Totale

88

896,180

in linea con le definizioni di ambiguità riportate da S. Zeki, erano in totale 30: 10 caratterizzate da ambiguità situazionale, 10 da ambiguità formale e 10 non ambigue (fig.3). L’intero programma, della durata complessiva di due mesi, prevedeva in ogni incontro la presentazione di 3 opere ognuna delle quali era rappresentativa di una delle categorie sopraindicate. E’ stato misurato per ognuna delle opere : a) il tempo speso nell’osservazione e nel commento; b) il grado di apprezzamento estetico. Risultati: L’analisi dei risultati è stata effettuata con Anova. I punteggi sono di seguito presentati (tabella 1, grafico 1 e 2). E’ risultato che i pazienti preferivano le immagini caratterizzate da ambiguità situazionale, rispetto alle altre. Il tempo speso per osservare e commentare tali opere è risultato inoltre nettamente superiore rispetto a quello impiegato per le opere caratterizzate da ambiguità formale o per quelle non ambigue. Discussione e Conclusioni: I pazienti con Malattia di Alzheimer, di grado moderato, hanno mostrato di preferire le immagini caratterizzate da ambiguità situazionale, mentre quelle non ambigue e quelle caratterizzate da ambiguità formale sono risultate essere le meno preferite.

Inoltre il tempo speso nella osservazione e nel commento delle immagini con ambiguità situazionale era nettamente superiore rispetto a quello impiegato nelle stesse attività se le opere erano non ambigue oppure se erano caratterizzate da ambiguità formale. I risultati sono coerenti con quanto dimostrato nei soggetti sani. Numerose evidenze suggeriscono infatti che le opere che presentano un certo grado di incertezza interpretativa sono più spesso valutate “interessanti e piacevoli” rispetto a quelle che non hanno queste caratteristiche. L’ ambiguità “ situazionale”, caratterizzata da immagini ben riconoscibili in una scena che si presta a più interpretazioni plausibili, è , a differenza delle altre condizioni, particolarmente capace di evocare ricordi e suscitare interesse. La presenza di un certo grado di dissonanza nelle informazioni visive, dunque la presenza di una certa ambiguità formale, come quella delle opere di corrente cubista, sembra invece porre invece una sfida troppo ardua al sistema cognitivo di questi pazienti e, conseguentemente, desta scarso interesse. Probabilmente ciò accade perché essa richiede capacità cognitive superiori a quelle che i pazienti possiedono. Il processo di identificazione, evidentemente complesso, lo è verosimilmente ancora di più per soggetti con danno cognitivo da malattia di Alzheimer

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Fig.3. Raffaello Sanzio ,1504

Collana

I Manuali dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative


Alzheimer. I nostri pazienti, a più riprese, dichiaravano di non riuSostienici con ill’elemento tuo 5 per rap1.000 scire a cogliere presentato nell’opera, né i suoi Il 5 per 1.000 non è un costo: è una donazione che contorni, e di non comprendere la fiscale. scomposizione dei piani. L’opera spesso 93075220751 risultava incomprensibile. Scrivi Secondo Fechner ed il “principle of the aesthetic middle” si genera nell’osservatore una iperstimolazione, che non è gradita. In altre parole informazioni troppo dissonanti rendono le opere poco piacevoli ad un osservatore “naive”, determinando una difficoltà di riconoscimento di ciò che è rappresentato, ed uno scarso godimento dell’opera stessa. Tali opere sembrano produrre un “fallimento estetico”. Nell’insieme l’ipotesi proposta, cioè che il piacere estetico è associato soprattutto alla ambiguità situazionale è confermata. Tale condizione

si associa infatti ad un più frequente giudizio di “piacere”. Un certo grado di ambiguità contribuirebbe dunque a rendere interessante ed affascinante un quadro. I pazienti hanno anche riferito spontaneamente durante l’osservazione di tali opere ricordi in qualche modo collegati alle immagini, attuando un processo simile a quello che è alla base della terapia della reminiscenza. I caregiver hanno confermato un effetto positivo sul benessere psicologico e che, dopo ogni incontro, i pazienti esprimevano il desiderio di proseguire l’esperienza. L’arte visiva, se caratterizzata da moderata ambiguità, può essere terapia. L. Colucci, O. Musella, S. Pollice, P. Di Maggio, A. M. Fasanaro

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Salute & Prevenzione Inserto mensile sulle Dipendenze Patologiche a cura di DITE Edizioni Scientifiche

Disturbi del comportamento alimentare e tossicodipendenza Aspetti psicopatologici comuni e comorbilità Nell’ultimo decennio sono stati condotti diversi studi atti a verificare la co-presenza di Disturbi del Comportamento Alimentare ed Abuso e Dipendenza da Alcool o da Sostanze stupefacenti. Nel DSM-IV viene riportato che, in circa un terzo dei soggetti affetti da Bulimia Nervosa, è riscontrabile Abuso di Sostanze o Dipendenza e che, spesso, l’uso di sostanze stimolanti inizia nel tentativo di controllare l’appetito ed il peso. Inoltre, in rapporto ai soggetti con Anoressia Nervosa, sottotipo I, quelli appartenenti al sottotipo Il presentano più frequentemente la tendenza all’abuso di sostanze. In generale, studi su pazienti anoressiche e bulimiche hanno dimostrato che l’abuso di alcool e sostanze, al momento dello studio o come dato anamnestico, risulta essere significativamente più elevato che nella popolazione generale (Striegel-Moore, 1993), al punto da ipotizzare che i pazienti con un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA) costituiscano un sottogruppo di al alcoolisti con distinte caratteristiche

che sociodemografiche e diversi sintomi e decorso clinico (Suzuki, 1993). In particolare, si osserva che tale associazione risulta essere più frequente nelle bulimiche e nelle pazienti anoressiche con comportamenti bulimici che non nelle anoressiche restricter (Bailly, 1993; Holderness, 1994). Altri studi speculano sul fatto che gli individui che sviluppano dipendenza verso una sostanza, sviluppino anche pattern psicologici e comportamentali che li rendono vulnerabili allo sviluppo di dipendenza verso altre sostanze (Jonas, Gold, 1987). Questa ipotesi riceve supporto empirico sia da studi che riportano che individui con iniziale DCA sviluppano in seguito problemi di abuso d’alcool e di sostanze stupefacenti e problemi di dipendenza (Beary etal., 1986; Hudson et al, 1987), sia da studi che hanno dimostrato una correlazione cronologica inversa (Beary et al., 1986). In realtà, la maggior parte degli studi sono stati condotti su campioni poco numerosi, altri mancano di rigorose definizioni dei disturbi: uno studio condotto su 2283 donne e 1982 uomini ha dimostrato che le percentuali hfetime per Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa erano rispettivamente 1,41% e 6,17% in donne con Dipendenza Alcoolica, mentre la Bulimia Nervosa era stata riscontrata nell’ 1,35% degli uomini

alcoolisti. Lo studio conclude considerando che la maggior parte dei casi di associazione tra Disturbi del Comportamento Alimentare ed alcoolismo occorreva in contesto di un addizionale preesistente o secondario disturbo psichiatrico (Schuckit, 1996). In generale, l’abuso di sostanze e di alcool viene considerato uno dei fattori prognostici negativi nell’andamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Un interessante studio (Wiederman et al., 1996) riporta che, indipendentemente dalle categorie diagnostiche, la severità della restrizione calorica sarebbe predittiva di abuso di amfetamine, quella di binge eating di abuso di tranquillanti e, infine, la severità di comportamenti tipo purging sarebbe predittiva dell’abuso di cocaina, alcool e sigarette. Familiarità e trasmissione genetica

Il fatto che fattori genetici possano giocare un ruolo sia nello sviluppo di DCA, sia nell’abuso di sostanze, alcoolismo in particolare, porta a considerare il contributo della genetica nella comorbidità dei due disturbi. La predisposizione all’alcoolismo sembra essere trasmessa geneticamente (Cotton, 1979; Sher, Walitzer, Wood, Brent, 1991): la possibilità di una predisposizione genetica è solo recentemente oggetto di studio.


recentemente oggetto di studio. Inizialmente con studi su gemelli, le ricerche si sono orientate anche sulla trasmissione della predisposizione a Disturbi del Comportamento Alimentare (Kendler et al., 1991; Strober, 1991). E stata pertanto suggerita la possibilità di somiglianze biologiche o addirittura di legami tra i due disturbi. Non sembra invece esserci differenza nella prevalenza dell’abuso di sostanze tra i familiari delle pazienti bulimiche rispetto a quelli delle anoressiche (Holderness, 1994). In realtà, uno studio condotto su pazienti con Bulimia Nervosa e sui loro parenti di primo grado ha riscontrato che la Bulimia Nervosa e la Dipendenza da Sostanze sono trasmessi in modo indipendente nelle famiglie (Kaye, 1996); un altro studio, già citato, non ha evidenziato un forte crossover familiare tra Disturbi del Comportamento Alimentare e Dipendenza da Sostanze (Schuckit, 1996). Un’altra spiegazione per la comorbidità tra DCA ed abuso viene dal fatto che le famiglie di pazienti con Anoressia Nervosa interagiscono in modo più disfunzionale rispetto alle famiglie senza individui con Anoressia Nervosa (Minuchin, Rosman, Baker, 1978; Beumont, Abraham, ArgaIl, Gorge, Glaun, 1978; Humphrey, 1986; Sargent, Liebman, Silver, 1985). I pattern familiari possono inoltre aggravare un problema psicologico o fisiologico preesistente secondo il modello di diatesi allo stress (Garner, Garfinkel, 1980) o scatenare lo sviluppo di un problema (Attie, Brooks-Gunn, 1989): ad esempio, le madri di pazienti con Bulimia Nervosa e che abusano di alcool tenderebbero ad

enfatizzare l’importanza del peso, dell’esercizio fisico e dell’aspetto (Bulik, 1993). Visto che molti dei parenti di I grado di pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare soffrono anch’essi di Disturbi del Comportamento Alimentare o di disturbi dell’umore (Hudson, Laffer, Pope, 1982; Strober, 1982), ne consegue che le interazioni familiari, in particolare quelle che riguardano il cibo e temi correlati al peso, saranno disturbate ancora prima che il paziente sviluppi un Disturbo del Comportamento Alimentare. Le donne che appartengono a tali famiglie e sviluppano Disturbi del Comportamento Alimentare, allo stesso modo possono abusare di sostanze nel tentativo di risolvere i propri problemi. Sono quindi necessari ulteriori studi atti a verificare l’associazione temporale tra Disturbi del Comportamento Alimentare, Abuso di Sostanze, pattern di interazione familiare e storia familiare dei Disturbi del Comportamento Alimentare e dell’Abuso di Sostanze. La comorbidità: ASSE I Diversi lavori riportano diagnosi addizionali di Asse I con i Disturbi del Comportamento Alimentare: le più frequenti sono l’uso di sostanze, la depressione e l’ansia (Braun, 1994). I disturbi d’Ansia e dell’Umore frequentemente recedono dopo efficace trattamento della Bulimia Nervosa (DSM IV). L’ipotesi dell’automedicazione suggerisce che i pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare inizierebbero ad abusare di sostanze nel tentativo di trattare il disturbo alimentare primario, una sorta di adattamento ai problemi che comporta tale disturbo (Flood, 1989). Un’analoga applicazione di questa ipotesi suggerisce che gli individui depressi svilupperebbero abuso di cibo o di sostanze come automedicazione

zione della depressione (Johnson, Larson, 1982). D’altra parte non va dimenticato il dato che una fenomenica depressiva è stata riscontrata in individui normali sottoposti a digiuno prolungato, anche in assenza di Anoressia Nervosa; molti dei sintomi depressivi presenti in questi individui possono pertanto essere secondari alle carenze alimentari e alla perdita di peso (DSM-IV). Di fatto sono documentate associazioni sia tra Disturbi de1 Comportamento Alimentare e depressione (Bulik, 1987), sia tra abuso di sostanze e depressione (Deykin, Levy, Wells, 1986). Inoltre, alcuni pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare, in genere con Bulimia Nervosa, sono stati trattati con successo con farmaci antidepressivi. Non è tuttavia nota la sequenza temporale nel succedersi ditali disturbi. Sebbene esista una certa aneddotica evidenza che il circolo abbuffata-comportamenti purgativi nella Bulimia Nervosa e l’emaciazione nella Anoressia Nervosa siano meccanismi compensatori per alleviare la tensione, così come lo è l’abuso di sostanze (Dunne, Feeney, Schipperheijn, 1991), gli studi che hanno tentato di identificare e paragonare gli stati emotivi o le situazioni che precipitano tali comportamenti non hanno trovato reali somiglianze. Le ricerche non hanno evidenziato che la cessazione delle condotte bulimiche esiti in un aumento dell’abuso di sostanze (Mitchell et al., 1990). Un trial clinico randomizzato su pazienti con Bulimia Nervosa ha dimostrato che la co-presenza di Dipendenza da Alcool portava a maggiore prevalenza di tentati suicidi, Disturbi d’Ansia, dipendenza


denza da altre sostanze, con irrilevanti differenze nella gravità dei sintomi bulimici, ma con quadro psicopatologico più grave per i disturbi di Asse I concomitanti (Bulik, 1997). La comorbidità: ASSE II Diversi lavori hanno indagato anche il rapporto tra Disturbi del Comportamento Alimentare, Abuso di sostanze e disturbi di Asse Il. Nelle pazienti bulimiche e nelle anoressiche con comportamenti bulimici che abusano di sostanze esiste maggiore prevalenza di comportamenti caratterizzati da uno scarso controllo degli impulsi: si assocerebbero cleptomania, azioni automutilanti o autolesive (Bailly, 1993), accanto ad una più frequente codiagnosi di Asse TI con il Disturbo Borderline di Personalità, con maggiore gravità sul piano psicopatologico (Bulik, 1997, DSM IV). I Disturbi di Personalità di Cluster B sono più frequentemente riscontrati in pazienti con Abuso di Sostanze e in pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare ed abuso di sostanze, mentre il Cluster C è di più frequente riscontro in pazienti con solo Disturbi del Comportamento Alimentare (Grilo, 1995). I pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare ed almeno un Disturbo di Personalità, inoltre, mostrano maggiore suscettibilità a sviluppare dipendenza da Sostanze e Disturbi dell’Umore rispetto ai pazienti con sola diagnosi di Disturbo del Comportamento Alimentare (Braun, 1994). A supporto degli studi che mostrano alte percentuali di pazienti che abusano di alcool e sostanze, con comportamenti impulsivi, alcuni Autori hanno sviluppato il

concetto di “bulimia multiimpulsiva” per un distinto sottogruppo diagnostico (Lacey, 1986). Questi studi potrebbero in realtà essere soggetti a errori di campionamento: i pazienti con presenza di Abuso di Sostanze e comportamenti impulsivi hanno caratteristiche eterogenee, per cui la classificazione in un distinto sottogruppo è probabilmente prematura. Una spiegazione per la comorbidità dei disturbi si basa sull’esistenza di una personalità che predispone certi individui a sviluppare dipendenza nei confronti di una o più sostanze (Brisman, Siegel 1984). I sostenitori di questa teoria suggeriscono che, da un punto di vista sia psicodinamico, sia comportamentale, cibo e sostanze siano equivalenti funzionali (Sinnett, Judd, Olson, 1983). Molte delle ricerche in questo campo considerano i soggetti bulimici più che quelli anoressici. Nonostante l’intrinseca ragionevolezza di questa teoria, l’evidenza empirica di una personalità “dipendente” non è conclusiva. Anche se molti studi riportano l’associazione tra fattori di personalità evidenziabili all’MMPI e abuso di sostanze (Butcher, 1989), in realtà i tentativi di isolare profili psicologici caratteristici comuni ad entrambi i disturbi non hanno avuto successo (Butterfield, LeClair 1988; Kagan, Albertson, 1986; Hatsukami, Owen, Pyle, Mitchell, 1982). I ricercatori ed i clinici sono in accordo comunque sul fatto che l’impulsività è un tratto psicopatologico chiave sia nella bulimia, sia nell’abuso di sostanze (Garfinkel, 1980). Altri sostengono che entrambi i disturbi siano forme di abuso di sostanze psicoattive. Aspetti psicopatologici comuni e teorie unificanti Le ipotesi eziopatogenetiche dei Disturbi del Comportamento Alimentare sono molteplici e rispondono ad orientamenti ora psicogenetici ora org

organogenetici. Un’ipotesi recente e suggestiva è quella dell’Addiction Model (traducibile con “Modello dell’Abuso e Dipendenza”) secondo il quale i comportamenti bulimici, in particolare, sarebbero assimilabili a quelli legati all’abuso e alla dipendenza da sostanze; tali comportamenti, inoltre, vengono considerati una manifestazione di una generica predisposizione all’abuso di sostanze. Tra i Disturbi del Comportamento Alimentare e quelli classificati secondo i criteri del DSM-IV come Abuso di Sostanze e Dipendenza da Sostanze è in effetti possibile ritrovare una serie di analogie sia su un piano sintomatologico sia comportamentale. Ad esempio, le pervasive preoccupazioni legate al cibo, alla dieta ed al controllo del peso possono determinare non solo un importante dispendio di tempo, ma dare origine a quadri di gravità tale per cui si verifica l’interruzione o la riduzione di importanti attività sociali, lavorative o ricreative, così come avviene nelle tossicodipendenze o nell’alcolismo. Ancora, in questi soggetti la ricerca compulsiva del cibo, la perdita di controllo sull’alimentazione, la dipendenza e l’incapacità, nonostante il desiderio ed i tentativi infruttuosi, di fermare tali comportamenti, determinano una grave sofferenza legata alle conseguenze sia psicologiche sia mediche, condizione riscontrabile anche nei disturbi legati all’uso di sostanze. La segretezza con cui tali comportamenti vengono attuati, la negazione della gravità degli stessi e l’ambivalenza verso il trattamento con l’alto rischio di ricadute, sono altre caratteristiche in comune fra i due disturbi.


Infine, anche il cibo, come le sostanze stupefacenti, viene utilizzato dal paziente per regolare il proprio stato emotivo e diminuire lo stress. Diversi lavori presenti in letteratura sostengono tale modello di lettura del fenomeno anoressicobulimico; già Fenichel ad esempio, da un punto di vista psicanalitico, parlava di tossicomania alimentare: dipendenza dal cibo e dipendenza da sostanze, sostiene l’Autore, si differenziano solo per l’oggetto tossicofilico, mentre sono accomunati dalle caratteristiche di personalità; Hardy e Waller (1988) sottolineeranno come punti in comune l’analogia nell’irrefrenabilità del desiderio, nell’esperienza di euforia che accompagna il consumo del cibo e delle sostanze stupefacenti e nella crescente incidenza dei due disturbi. Altri autori invece, come per esempio Vandereycken (1990), evidenziano un altro aspetto dei Disturbi del Comportamento Alimentare: esisterebbe una dipendenza dallo stato di restrizione alimentare (starvation addiction) e non da una sostanza materiale rappresentata dal cibo. L’addiction model, quindi, può essere eventualmente utilizzato in senso traslato, e non in senso proprio: anche nel paziente bulimico, come nell’ anoressico, lo scopo principale e la reale fonte di piacere e soddisfazione risiederebbero infatti nell’attività mentale o comportamentale diretta al controllo del peso e dell’aspetto fisico. Inoltre, nel rapporto che il soggetto bulimico ha con il cibo, non si riscontrano in modo specifico alcune caratteristiche delle sindromi in cui vi è dipendenza da sostanze chimiche, come, ad esempio, il fenomeno della tolleranza. Un gruppo di ricerche approccia l’addiction model da una prospettiva di tipo fisiologico, prendendo

in considerazione l’associazione tra Disturbi del Comportamento Alimentare e una varietà di neurotrasmettitori e neuromodulatori quali Serotonina, Norepinefrina, Colecistochinina, oppioidi e Peptide YY (Kaye, Weltzin, 1991; Marazzi, Luby, 1986): la maggior parte di questi lavori ricerca motivazioni fisiologiche al circolo binge-purge della Bulimia Nervosa, per cui una spiegazione è che tale meccanismo, se prolungato nel tempo, altera il sistema neurotrasmettitoriale che controlla fame e sazietà e, del resto, questo squilibrio cronicizza il circolo vizioso bulimico con le alterazioni dell’umore che lo accompagnano. In alternativa, gli individui possono essere più predisposti a sviluppare Bulimia Nervosa se preesiste un disturbo nel controllo dell’appetito o del peso, che può essere ricondotto ad un problema nella modulazione di monoamine o neurotrasmettitori. Un atteggiamento critico nei confronti delle interpretazioni basate sull’addiction modelè stato espresso daFairburn(l995). E largamente accettato, infatti, che le caratteristiche che definiscono la dipendenza chimica o la tossicomania sono tolleranza, dipendenza fisica e astinenza, craving e perdita di controllo nell’uso della sostanza. Nessuna di queste definisce la natura dell’abbuffata in casi di Bulimia Nervosa. Considerando il concetto di “craving”, questo è definito come “desiderio jrresistibile”, ma non c’è evidenza che i pazienti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare esperiscano il craving come diretto risultato biochimico del consumo di un particolare nutriente “tossico”: esiste scarso effetto “carboidratospecifico” sia sull’abbuffata, sia sull’umore, sia sul livello ematico di Prolattina, ormone della crescita e Cortisolo (Turner, 1991). Inoltre, i pazienti con Bulimia Nervosa non co

Consumano preferenzialmente carboidrati durante l’abbuffata: in uno studio controllato è stato dimostrato come la selezione di macronutrienti fosse sovrapponibile tra il gruppo di pazienti con Bulimia Nervosa e il gruppo di soggetti sani, mentre l’unica differenza consisteva nella quantità di cibo consumata (Walsh, 1993). Il concetto di “perdita di controllo” è la caratteristica peculiare della classica teoria dell’alcoolismo: l’ingestione di alcool scatenerebbe una reazione biochimica incontrollabile che porterebbe il soggetto a continuare a bere, al di là della propria scelta, sebbene siano comprese le conseguenze negative. Anche i soggetti che si abbuffano spesso riportano che l’ingestione di una minima quantità di cibo possa “scatenare 1’ abbuffata”. In ogni caso, ricerche sperimentali hanno in parte dimostrato questo assunto comunemente accettato, e solo per la dipendenza alcoolica, dove risulta chiaro che l’autoregolazione del consumo di alcool è influenzata in modo critico da processi di apprendimento sociale, inclusi fenomeni contingenti di rinforzo operante e aspettative sull’effetto dell’alcool. Anche se la severità della dipendenza fisica può interagire con contingenze psicosociali nella regolazione del consumo di alcool, l’ingestione di una maggiore quantità di alcool, da sola, non scatena necessariamente il bere incontrollabile. I dati indicano che i pazienti con Bulimia Nervosa non sempre necessariamente perdono il controllo abbuffandosi e violando le regole di restrizione alimentare con l’ingestione di cibi ad alto contenuto di zuccheri o di grassi, soprattutto se sanno di non poter ricorrere a tecniche di


controllo. Inoltre, ci si potrebbe chiedere quanto sia realmente paragonabile l’enorme quantità di cibo ingerito in un’abbuffata con la quantità di sostanze d’abuso utilizzate. Da questa prospettiva, l’addiction model applicato ai DCA potrebbe essere un esempio dell’estensione senza fine del concetto di addiction, utilizzato di volta in volta per spiegare qualsiasi forma di “comportamento abituale”, compresi sesso, lavoro, ecc. Ad esempio, il comportamento dei pazienti con Anoressia Nervosa di sottotipo I, che non si abbuffano, è spiegato come sta rvation addiction: il paradosso di come un soggetto possa essere simultaneamente dipendente dall’uso e dal non uso di una sostanza, come nel caso dei pazienti con Anoressia Nervosa dì sottotipo Il in cui ricorrono le abbuffate, sottolinea come il concetto di addiction venga adattato in modo superficìale ad una quantità di disturbi del comportamento. Allo stato attuale delle ricerche non dunque è possibile affermare che i Disturbi del Comportamento Alimentare sottendano agli stessi meccanismi biologici ed eziopatogenetici di quelli ipotizzabili nelle tossicodipendenze o nell’ alcolismo. Considerazioni conclusive Nonostante quanto detto finora, appare giustificato e condivisibile un atteggiamento cauto e possibilistico nel considerare gli aspetti cImici simili e le analogie diagnostiche tra queste due grandi aree della clinica psichiatrica: l’area dell’abuso e della dipendenza da un lato e quella dei Disturbi del Comportamento Alimentare dall’ altro. Potrebbe trattarsi di una relazione meno pregnante di quanto si vorrebbe osservare? Per rispondere,

re, ci sembra interessante considerare alcuni aspetti del problema sollevati da Fairburn (1995). L’Autore sottolinea innanzitutto la necessità di prestare attenzione nella lettura dei dati della letteratura da cui emerge un’ alta frequenza di associazione tra Disturbi del Comportamento Alimentare e tossicodipendenza o abuso alcolico. La popolazione potrebbe essere selezionata e cioè, suggerisce l’Autore, è possibile pensare che giungano più facilmente all’osservazione psichiatrica quelle pazienti in cui al Disturbo del Comportamento Alimentare si associ l’abuso di sostanze. Inoltre, considerando il dato che riporta maggiore prevalenza di Dipendenza da Sostanze nei pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare, è necessario non trascurare il fatto che, in generale, nei pazienti psichiatrici si verifica un maggior consumo di sostanze. Infine, studi sulle famiglie di pazienti affetti da Disturbo del Comportamento Alimentare hanno concluso che, anche in questo caso, l’associazione non sarebbe specifica: il più frequente riscontro di abuso alcolico nei familiari risulta pressoché pari a quello dei familiari di soggetti affetti da altre patologie psichiatriche. Va infine aggiunto che anche nel DSM-IV viene riportata una comorbidità tra i Disturbi Alimentari e l’abuso di alcool o di sostanze; in particolare viene sottolineato che nell’ anoressia di tipo binge eating/purging, più che nella restricter, è frequente il riscontro di altre condizioni di minor controllo degli impulsi quali appunto l’abuso di alcool o di stimolanti; per i soggetti affetti da Bulimia Nervosa viene riportato il dato che, in un terzo circa dei casi, si riscontra anche abuso o dipendenza da alcool o stimolanti; questi ultimi sarebbero utilizzati per il controllo dell’appetito e del peso. Infine i pazienti

zienti con Disturbi del Comportamento Alimentare è frequente il riscontro di abuso di sostanze quali amfetamine, diuretici, lassativi ed emetici utilizzate come fattore di controllo del peso corporeo. M.L. Agostinelli - M. Asti - D. Arrigo - M. Mantero

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Il comportamento violento nella pratica clinica Il comportamento violento, nell’essere umano, è spiegabile attraverso un modello multifattoriale secondo il quale fattori interni all’individuo, innati o acquisiti durante lo sviluppo, interagiscono con fattori ambientali per aumentare o diminuire la predisposizione individuale alla violenza. Tra i fattori innati rientrano i fattori genetici, neurofisiologici, neurotrasmettitoriali, ormonali, la presenza di un disturbo mentale e l’eventuale abuso di sostanze. Tra quelli acquisiti con lo sviluppo rientrano i fattori evolutivi. I fattori ambientali sono rappresentati delle condizioni socioeconomiche e dall’ambiente fisico. Per quanto riguarda i fattori genetici non sono state evidenziate specifiche alterazioni cromosomiche che possano causare un comportamento violento ma esistono evidenze dell’influenza della componente genetica: studi di confronto tra gemelli omozigoti e dizigoti hanno infatti dimostrato una maggiore prevalenza di atti criminali tra i primi rispetto ai secondi. Le basi neurofisiologiche della violenza non sono ancora state comprese nella loro interezza. E possibile individuare alcuni meccanismi comprendendo quelli dei disturbi mentali in cui si manifestano comportamenti violenti, quelli che si esplicano nella violenza correlata all’abuso di sostanze e utilizzando i modelli animali che spiegano l’aggressività. Questi modelli suggeriscono l’ipotesi che i meccanismi fisiopatogenetici dell’agitazione siano simili a quelli dei disturbi del movimento quali il ballismo nella Corea di Hu

Huntington. Secondo il modello proposto da Sachdev e Kruk la corteccia cerebrale proietta efferenze gabaergiche allo striato dorsale e ventrale, da cui partono proiezioni verso il talamo attraverso vie gabaergiche per ritornare alla corteccia prefrontale e sensomotoria attraverso vie eccitatorie (vie striatopallido-talamo- corticale). Il talamo ha quindi funzione attivante sul sistema e, quindi, facilitante nei confronti della corteccia. Gli output striatali sono mediati dal pallido interno e dalla sostanza nigra reticolata che possono essere considerati come un unica unità funzionale. Le proiezioni dal pallido a queste due formazioni sono di due tipi: una via diretta gabaergica inibitoria e una via indiretta che usa come neurotrasmettitori il GABA e l’encefalina e che proietta al nucleo subtalamico e al sistema pallido interno-sostanza nigra reticolata con azione finale eccitatoria. La maggiore attività della via diretta rispetto alla via indiretta facilità l’attività motoria e viceversa. Inoltre, il talamo riceve input dopaminergici eccitatori dalla sostanza nigra compatta e dall’area tegmentale ventrale e ìnput serotoninergicì inibitori dal nucleo dorsale del raphe. In accordo con il modello presentato, l’agitazione deriverebbe da una disfunzione dei circuiti menzionati con il risultato di una diminuzione di attività mediata dal sistema pallido interno-sostanza nigra reticolata (azione inibitoria) e/o dalla disinibizione della via talamo-corticale (azione facilitatoria). Questa condizione può essere raggiunta attraverso diverse vie: aumentando la stimolazione dopaminergica sullo striato, come avviene con l’assunzione di anfetamine o L-dopa o aumentando la stimolazione noradrenergica. Da questo deriva un razionale per la terapia dell’agitazione motoria: farmaci

maci GABA agonisti e antagonisti noradrenergici causerebbero una diminuzione dell’attivazione del circuito che sottende alla manifestazione dell’agitazione motoria. I fattori neurotrasmettitoriali non sono stati messi in luce completamente: sono stati condotti diversi studi che hanno evidenziato un aumento dei livelli di norepinefrina e di dopamina in soggetti con comportamento violento. Il neurotrasmettitore per cui si sono ottenuti risultati più incoraggianti è la serotonina: Brown e collaboratori hanno dimostrato una correlazione tra bassi livelli di acido 5-idrossindolacetico (5HIAA) nel liquor e comportamento violento; Coccaro ha misurato i livelli di prolattina e cortisolo dopo stimolazione con fenfluramina, un liberatore presinaptico di serotonina, evidenziando una minore risposta alla fenfluramina in pazienti con disturbo di personalità e comportamento violento. Questi studi mettono in evidenza la correlazione esistente tra una diminuzione dell’attività del sistema serotoninergico e il comportamento violento. Sembrerebbe che una diminuzione dell’atti vità ditale sistema sia un marker di impulsività piuttosto che di uno specifico tipo di violenza (etero o autodiretta). E interessante considerare come il basso livello di 5-HIAA sia correlato al comportamento violento indipendentemente dalla categoria diagnostica. Tra gli ormoni, quelli più frequentemente proposti come modulatori dei comportamenti violenti sono gli ormoni sessuali e, più in generale, gli ormoni steroidei. Questi influenzerebbero il comportamento violento agendo


a diversi livelli: -

-

-

motivazionale, per l’azione su aree cerebrali specifiche, interattivo- sociale, modificando la sensibilità ai messaggi provenienti dagli altri, espressivo variando l’incidenza e l’intensità del comportamento violento.

Una conferma al ruolo di modulazione degli ormoni sessuali si è avuta con l’utilizzo di farmaci antisteroidei, quali il ciproterone, che si sono dimostrati in grado di ridurre l’aggressività. L’associazione tra abuso di sostanze e violenza è ben nota. L’alcol e le sostanze psicoattive riducono l’inibizione del comportamento antisociale e violento e diminuiscono la vigilanza percettiva e cognitiva causando una diminuzione della capacità di giudizio. Gli oppioidi determinano comportamenti violenti in relazione alle modalità di procacciamento delle sostanze. La violenza nelle popolazioni affette da disturbo mentale è maggiormente rappresentata rispetto alla popolazione generale. Pazienti affetti da disturbi psicotici, borderline e antisociale sono i più rappresentati. In particolare, tra i pazienti ospedalizzati la violenza è maggiormente rappresentata tra i pazienti psicotici e un fattore predittivo di violenza è il decorso della malattia. Tra i pazienti non ospedalizzati sono maggiormente a rischio di violenza gli individui affetti da disturbi di personalità quali il disturbo borderline e antisociale. I determinanti biologici o innati hanno effetti aspecifici sull’induzione

sull’induzione del comportamento violento riducendo la capacità dell’individuo di raggiungere uno scopo con mezzi non violenti o aumentando l’impulsività, l’irrazionalità o la disorganizzazione del comportamento. L’utilizzo si sostanze quali alcol e droghe incrementano nettamente il rischio di comportamenti violenti. I fattori evolutivi che predispongono a un comportamento violento sono l’abuso in età infantile e l’aver assistito frequentemente a situazioni di violenza (es.: violenza intrafamiliare). Diversi studi sono stati condotti per evidenziare una correlazione tra condizioni socioeconomiche e comportamento violento individuando come determinanti primari la povertà assoluta e la disgregazione familiare e come determinanti secondari la disuguaglianza razziale ed economica e un basso livello culturale. Questi fattori si legano in un ciclo composto da povertà, deprivazione, disgregazione familiare, disoccupazione da cui deriva un’ulteriore difficoltà a mantenere i legami e le strutture familiari e, in ultima analisi, il controllo sociale. L’ affollamento fisico può essere correlato a comportamenti violenti attraverso l’aumento dei contatti e la riduzione dello spazio difendibile mentre l’aumento del numero delle persone senza affollamento può diminuire la violenza e aumentare il controllo sociale. Anche la temperatura ambientale può influenzare l’espressione di un comportamento violento: temperature ambientali moderatamente spiacevoli aumentano l’aggressività mentre temperature estremamente calde la riducono. Inoltre, un ambiente molto rumoroso rende difficoltosa una valutazione corretta degli stimoli esterni ed interni. L’ambiente può influenzare l’individuo nell’espressione di un comportamento

mento violento durante lo sviluppo. Condizioni socioeconomiche sfavorevoli hanno un effetto dannoso sulla famiglia e sulla rete sociale come sull’individuo. In ultima analisi, le cause del comportamento violento possono essere riassunte in tre determinanti fondamentali: diminuzione dell’inibizione, alterazione della vigilanza, della percezione e delle funzioni cognitive, diminuzione della capacità di giudizio. Il riconoscimento e il trattamento della violenza nella pratica assistenziale è un argomento di attualità e di grande importanza per evitare danni al paziente, al personale sanitario e all’ambiente di ricovero. Nella pratica clinica è importante riconoscere i pazienti a rischio di atti violenti per poter mettere in pratica misure di prevenzione e trattamento efficaci. A questo proposito, esistono degli specifici fattori di rischio predittivi di comportamento violento che devono essere attentamente valutati: • la presenza in anamnesi di episodi di violenza, • frequenti cambiamenti di terapia che generano ansia e aggressività, • l’utilizzo di alte dosi di sedativi e un periodo di ospedalizzazione protratto. Se considerati insieme, questi fattori hanno una sensibilità del 76%, una specificità del 97% e un valore predittivo positivo del 90% nell’individuare i pazienti potenzialmente a rischio per comportamento violento. In particolare, la frequente variazione della terapia è l’indicatore più utile nel caso che non si possano avere informazioni sugli altri fattori di rischio. Una corretta va


valutazione anamnestica dovrebbe evidenziare l’esordio, la frequenza e i bersagli del comportamento violento con particolare attenzione ai meccanismi ricorrenti di escalation della violenza. La severità dei danni provocati e la presenza di sintomi antecedenti o associati all’acting out devono essere indagati. Altri dati anamnestici di rilievo sono: una storia di comportamento impulsivo, l’aver subito abusi durante l’infanzia, la presenza di complicanze peri e post-partum, di patologie infantili e di problemi dello sviluppo. Deve essere raccolta una dettagliata anamnesi psicofarmacologica. Come fenomeno psicopatologico il comportamento violento può essere considerato come una sindrome transnosologica. E infatti possibile osservare comportamenti violenti in un largo numero di disturbi mentali espressi come aumentata responsività agli stimoli esterni e interni, episodi di impulsività, aggressività eterodiretta e autodiretta, agitazione psicomotoria, stereotipie motorie. Le possibilità di intervento per prevenire e limitare agiti violenti sono rappresentati dall’intervento verbale, da quello farmacologico e dalla contenzione. In quest’ottica è importante, per decidere come procedere con il paziente e quale intervento mettere in atto, fare una diagnosi differenziale immediata allo scopo di classificare il paziente in uno dei seguenti gruppi: 1. disturbi mentali organici: nei pazienti con disturbi cognitivi è spesso impossibile intervenire in modo efficace con mezzi verbali. Se è presente o imminente comportamento violento il paziente dovrebbe essere contenuto dal

momento che la sedazione con neurolettici o benzodiazepine è sconsigliata; 2. disturbi psicotici: l’intervento verbale deve essere effettuato. In caso di risposta negativa o aumento dell’agitazione il provvedimento di prima scelta è la somministrazione di farmaci neurolettici mentre la contenzione è l’ultimo provvedimento da attuare; 3. disturbi non psicotici non organici: spesso l’intervento verbale è sufficiente a prevenire o ridurre il comportamento violento. Il primo intervento che deve essere attuato è il trattamento verbale allo scopo di prevenire l’acting out e la messa in atto di provvedimenti più impegnativi. In questa pratica è importante apparire calmi e controllati usando un tono pacato, non provocatorio o giudicante, disponendosi all’ascolto. Si dovrebbero evitare situazioni in cui il curante ha una posizione di dominanza fisica. La contenzione non deve essere intesa come un intervento punitivo bensì come un provvedimento da attuarsi solo in caso di assoluta necessità e urgenza. Le indicazioni alla contenzione sono: prevenzione di danni al pazìente, agli altri, all’ambiente di ricovero. La costrizione può essere attuata anche su richiesta del paziente se appropriato clinicamente. La sedazione farmacologica è da utilizzarsi solo quando gli altri provvedimenti cognitivi e comportamentali disponibili siano risultati non applicabili o inefficaci. La terapia sedativa in condizioni di emergenza utilizza benzodiazepine e neurolettici, soprattutto tipici. Tra le benzodiazepine il farmaco maggiormente consigliato in letteratura è il Lorazepam. A seconda della via di somministrazione varia la posologia. In generale non si con

consiglia l’utilizzo di altre benzodiazepine IM a causa del possibile assorbimento irregolare. Tra i Neurolettici il farmaco di prima scelta è l’aloperidolo (per la posologia si rimanda alla tabella 1). Si deve porre attenzione all’utilizzo dell’ aloperidolo se sono presenti sintomi di tossicità o di astinenza da alcool e droghe. La clorpromazina, come farmaco per le emergenze, deve essere utilizzata con cautela dato il rischio di grave ipotensione: si dovrebbe effettuare una prova con un dosaggio di 10-25 mg IM accompagnata dal monitoraggio della pressione arteriosa. La somministrazione di clorpromazina dovrebbe essere evitata in pazienti con Delirium o sintomi di tossicità e astinenza causati da alcool o droghe. Una molecola con azione sedativa analoga a quella della clorpromazina ma con minore rischio di ipotensione è la prometazina che può essere somministrata con posologia analoga a quella della clorpromazina. In letteratura sono inoltre riportate come efficaci associazioni di aloperidolo e lorazepam con posologie analoghe a quelle segnalate. Risoltosi l’episodio acuto, se il paziente viene giudicato a rischio per atti violenti, può essere instaurata una terapia di mantenimento con: • stabilizzatori dell’umore, quali carbamazepina, acido valproico, litio, con dosaggio da valutare nell’ambito del range terapeutico di ciascun farmaco. Se si opta per questi farmaci devono essere programmati controlli dei livelli plasmatici, della funzionalità renale per il Litio e di quella epatica e dell’emocromo per carbamazepina e acido vaiproico;


• antipsicotici sia tipici che atipici. In questo caso si deve tener conto della possibile insorgenza di effetti extrapiramidali sopratutto se si utilizza un neurolettico tipico; • SSRI, in particolare fluoxetina, paroxetina e sertraìina, con dosaggio variabile per ogni molecola. L’indicazione si ha in pazienti impulsivi o con altre alterazioni comportamentali. O. Gambini - V. Barbieri S. Scarone

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in collaborazione con La Rassegna Italiana delle Tossicodipendenze Periodico quadrimestrale by Franco Angeli srl, Milano - Autorizzazione del Tribunale di Foggia n. 8 del 30/04/1991 - Direttore responsabile: Antonio del Vecchio - Direttore Scientifico: Giuseppe Mammana - Redazione e Direzione c/o DITE Edizioni Scientifiche: Via G. Rosati, 137- Foggia- Tel/fax 0881/665777.


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