Anno IV – Numero 9
ArtiTerapie e Neuroscienze On Line www.rivistaartiterapie.it
Settembre 2013 Disegnare con la parte destra del cervello – Frammenti (Parte Prima) “Il pittore non disegna con le mani, ma con gli occhi. Qualsiasi cosa vede, se la vede chiara può metterla su carta” (Maurice Grosser). “Imparare a disegnare è in realtà imparare a vedere, a vedere nel modo giusto, che è molto di più che guardare semplicemente con gli occhi” (Kimon Nicolaides). “L’artista è il confidente della natura. I fiori dialogano con lui per mezzo dell’aggraziato curvarsi dei loro steli e del loro dischiudersi in armoniose sfumature di colori. Ogni fiore ha per lui una parola cordiale che la natura gli rivolge” (August Rodin). L’Arteterapia mira a riattivare l’emisfero destro e a sollecitare la comunicazione armoniosa tra i due emisferi consentendo all’individuo di raggiungere quell’equilibrio che gli necessita: “camminare con tutte e due le gambe”, o se si preferisce, “respirare con entrambi i polmoni”, o ancora vibrare e accordarci con le
In questo numero... Copertina Disegnare con la parte destra del cervello. Frammenti (Parte Prima) di Patrizia Masciari Pag. 3 LECCE - Progetto Hacca 2O: Bando per il reclutamento di 30 persone con disabilità e sindrome autistica Pag. 4 Il Presidente di Artedo parla del Sistema per la creazione d'Impresa Etica nelle nuove professioni di Chiara Spagnolo. Pag. 12 Dall’inserto SALUTE E PREVENZIONE: L’intervento psicoterapico con la famiglia nel servizio pubblico secondo un approccio relazionale sistemico di P. G. Semboloni Pag. 19 Dall’inserto SALUTE E PREVENZIONE: Il gioco d’azzardo tra conseguenze individuali, familiari, sociali, illusioni, classificazioni e interventi terapeutici: L’esperienza di Campoformido di R. De Luca
Rivista Telematica dell’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative – Iscr. N. 1046 Registro Organi della Stampa c/o Tribunale di Lecce – Direttore: Carmelo Tafuro.
biofrequenze solari che scorrono lungo il Sistema Parasimpatico e Ortosimpatico, le frequenze che generano la vita (corredo biologico di cui siamo premuniti). “Il mio obiettivo è di fornirvi gli strumenti per liberare quel potenziale creativo che abita in voi e per accedere, in maniera cosciente, alle vostre facoltà inventive, di intuizione, di creatività e immaginazione che forse finora sono state represse dalla nostra cultura verbale e tecnologica, nonché dal nostro sistema educativo. Vi insegnerò a disegnare, ma disegnare è soltanto uno strumento, non è il fine. Imparando a vedere, a disegnare, svilupperete le facoltà della parte destra del cervello, imparerete a vedere il mondo in maniera diversa. Disegnando imparerete a conoscere profondamente una parte della vostra mente che vi farà percepire ogni cosa in modo nuovo. Ciò vi permetterà di trovare nuove soluzioni creative ai problemi sia privati che professionali, usando nuovi processi di pensiero più globali e completi di quelli che avete usato fino ad ora” (Betty Edwards). “Disegnando noi ci manifestiamo: così il tesoro segretamente accumulato nel proprio cuore diviene manifesto attraverso il lavoro creativo” (Albrecht Durer). Strategia per accedere alla funzione destra del cervello Per poter accedere alle funzioni D (emisfero destro del cervello), visiva e percettiva, è necessario presentare al nostro cervello un compito che la funzione S, verbale e analitica, rifiuterà. Questi esercizi che faremo, in maniera progressiva e sempre più decisa, mirano a sollecitare le funzioni D e ad impedire che le funzioni S intervengano. Bisogna sapere, però, che la funzione
funzione S interviene automaticamente perché è iper-stimolata dal nostro sistema educativo, scolastico, tecnologico, mentre le funzioni D ci appariranno estranee, sconosciute, atrofizzate, quindi, a volte potrà risultare un vero e proprio conflitto che ci porterà irritabilità, mal di testa, nausea, voglia di interrompere l’esercizio. Un altro obiettivo di queste esercizi è quello di acquisire un profondo metodo di osservazione (non giudicante) che ci aiuterà nella formulazione del protocollo da compilare rigorosamente dopo ogni seduta o laboratorio sia individuale che gruppale (ERRORE DA NON FARE ASSOLUTAMENTE: compilando il protocollo dopo qualche ora, o addirittura dopo qualche giorno, si falsa totalmente la veridicità e l’immediatezza della rivelazione fornita dall’osservazione del momento presente). Ecco perché cominciamo a documentare ogni esercizio con la firma, la data, il numero dell’esercizio, i minuti, le consegne, etc. Queste annotazioni saranno preziosissime per documentare cosa il segno grafico vuole rivelare, cosa noi stessi vogliamo esprimere e comunicare di noi stessi, i progressi nel percorso, la verbalizzazione, l’identificazione, l’immaginazione, la ricomposizione. Sperimentiamo la prima fase: Esercizi arabeschi, ai vasi e profili, e immagini capovolte. Fermiamoci ora a raccogliere ciò che abbiamo sperimentato anche solo se per un breve attimo siamo entrati nelle funzioni D. Avete notato che non vi accorgete del trascorrere del tempo, quasi come se questo si dilatasse o si fermasse addirittura. Eravate consapevoli di essere ben desti e presenti a voi stessi, ma al tempo stesso rilassati e fiduciosi, interessati e assorti nel disegno ma con la mente lucidissima. Accade di
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di sentirsi esaltati, ma al tempo stesso calmi, euforici ma nel pieno controllo delle nostre facoltà: è segno che le funzioni dell’emisfero D si sono attivate perfettamente e questo comporta il rilascio di endorfine, l’abbassamento dei valori del cortisolo (ormone responsabile dello stress) e una serie di reazioni chimiche che si sono attivate nel nostro organismo accompagnate da senso profondo di benessere e rilassamento. Non è esattamente ancora la felicità: è più una sorta di beatitudine, un’estasi (nel senso etimologico della parola “uscire da se stessi”). Sentiamolo dalle parole di un grande artista: “So bene da me che solamente in lievi attimi mi è concesso dimenticare me stesso… (Il pittore poeta sente che la sua essenza vera, immutabile parte dall’invisibile che gli offre un’immagine dell’eterno
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Il Protocollo Discentes per le Arti Terapie Il Protocollo Discentes è un modello didattico, ideato dall’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative e coordinato da Art.eD.O., che prevede l’acquisizione da parte degli allievi iscritti di competenze in ambito teoricorelazionale (conoscenza della psicologia, psichiatria e della neurologia), coniugate con competenze pratiche, per intervenire in tutti i contesti della relazione d’aiuto, attraverso l’utilizzo delle tecniche di Arti Terapie (Musicoterapia, Arteterapia plastico pittorica, Danzaterapia, Teatroterapia).
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dell’eterno reale) sento che non sono io nel tempo, ma che è il tempo in me. Posso anche sapere che codesto arcano dell’arte non mi è dato risolverlo in maniera assoluta, tuttavia mi vien quasi fatto credere che sto per mettere le mani sulla divinità”(Carlo Carrà 1918). E’ vero che trovarsi in questo stato (funzioni D), è piacevole, altamente terapeutico perché ci affranca, per un po’ di tempo, dalle tirannie dell’emisfero S che ci domina incessantemente, ed è proprio questo che ci dà un estremo sollievo. Questo prorompente desiderio di mettere a tacere l’emisfero S può spiegare anche certe pratiche millenarie come la meditazione che a volte può condurre anche all’estasi, all’alterazione cioè dello stato di coscienza che può durare per un certo tempo e che dà un notevole senso di soddisfazione. Per qualche minuto abbiamo accordato in noi le frequenze vitali di cui siamo costituiti, con le Frequenze dell’intero Universo Vivente, il nostro cuore in questi attimi ha emesso frequenze a 0,1 Hertz: siamo in perfetta Coerenza con il Creato e il Creatore, questo è il paradiso, questo è il Regno dei Cieli, questo è il Giardino Segreto del Cantico dei Cantici. Ci stiamo avvicinando sempre di più al problema ed alla sua soluzione! Cosa impedisce ad una persona di vedere gli oggetti abbastanza chiaramente da poterli disegnare? La risposta, in parte, è che fin dall’infanzia noi abbiamo imparato a considerare gli oggetti più in termini verbali che visivi: per esempio, non ci perdiamo nell’osservazione di una sedia, ma (dopo una rapida occhiata) la riconosciamo analiticamente e la classifichiamo, senza volerne sapere di più. Ma per disegnare bisogna guardare le cose a lungo, percepirne i dettagli, le diversità, la bellezza, l’unicità e raccogliere con pazienza più informazioni visive possibili. ma
All’emisfero S manca questa pazienza, e quindi si ribella e dice: “E’ una sedia, e basta!...non c’è altro che mi interessi. Mi annoia guardarla, quindi, non scocciarmi con questa storia del vedere”. Lo stesso accade quando si vuole disegnare un volto: l’emisfero S lo elabora, con un certo fastidio, attraverso dei simboli che usa per gli occhi, per il naso, la bocca, etc. Ma la stessa cosa succede anche nelle relazioni con i nostri simili, per essere felici e appagati attraverso l’arte della relazione, bisogna guardare a lungo negli occhi, percepire i dettagli, le similitudini, le diversità, la bellezza delle luci di un carattere, come quella delle ombre e degli spigoli, l’unicità altrimenti ci sfugge grossolanamente e con essa l’opportunità di essere felici, rischiamo drammaticamente di rimanere rigorosamente superficiali e morir di freddo. Ecco perché il disegno di un adulto parla di simboli infantili che risalgono a quando aveva sei o sette anni, cioè l’età in cui avrebbe dovuto cedere il compito di vedere all’emisfero D. Come, allora, risolvere questo increscioso dilemma e sbloccare l’artista che abita in noi? Lo stratagemma più efficace è quello che abbiamo cominciato a sperimentare in queste lezioni precedenti: sottoporre al cervello dei compiti che l’emisfero S non possa portare a termine! Sperimentiamo, senza scoraggiarci per le ribellioni dell’ emisfero S, il tanto piacevole passaggio alle funzioni D, che ci aiuteranno a disegnare meglio proprio perché vediamo meglio, ma che ci aiuteranno anche, cosa che a noi interessa maggiormente, a vedere il mondo, noi stessi e il Creato da una Nuova Prospettiva, come da un Ponte. Patrizia Masciari
LECCE - Progetto Hacca 2O: Bando per il reclutamento di 30 persone con disabilità e sindrome autistica Il progetto Hacca 2o, proposto e realizzato dall’Associazione CUAMJ Onlus in collaborazione con l’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative, è finalizzato alla realizzazione di un “laboratorio integrato” per lo svolgimento di attività natatorie e arte terapeutiche in favore di 30 persone fra bambini, adolescenti e adulti con sindrome autistica e/o ritardo mentale e psicomotorio. Premesse al progetto Negli ultimi anni, l’Autismo si sta rivelando una vera emergenza sociale, sia per il suo tasso di incidenza sulle nascite, sia a causa del suo alto grado di intrusione sociale, non dimenticando che la sola Provincia di Lecce consta di oltre 4.700 persone affette da tale patologia. Gli utenti saranno seguiti nelle attività da docenti esperti nel campo del trattamento per l’Autismo, dello sport e delle attività artistico-culturali. Sarà garantito il rapporto 1:1 (un educatore per soggetto) per gli utenti che ne abbiano necessità. Le attività si svolgeranno in due giornate infrasettimanali, da concordare con gli utenti in base alle necessità, in orario antimeridiano, dalle 9.00 alle 12.00. Durante la chiusura estiva della Piscina di Carmiano, si garantiranno attività culturali e artistiche (danzaterapia, arteterapia, musicoterapia e corsi di formazione per educatori, genitori e per tutte le persone motivate al trattamento legato all’Autismo e al Ritardo Mentale). Gli utenti parteciperanno in maniera del tutto GRATUITA al progetto per i 12 mesi previsti a partire dalla data di inizio. Gli utenti afferenti al progetto godranno inoltre di una Polizza As-
sicurativa per eventuali danni cagionati verso se stessi o verso terzi, stipulata dall’Associazione CUAMJ, promotrice del progetto. Sintesi e finalità del progetto L’elemento acqua (simbolo chimico H2O), come attivatore emozionale, può essere concepito come ristabilimento di un interesse fra noi ed il soggetto, il cui rifiuto al contatto con il mondo esterno è "l’effetto di strutturazioni o, se si vuole, "alterazioni della costituzione del registro immaginario; il recupero non può essere inteso solo come riguardante le funzioni psicomentali, ma come riorganizzazione delle capacità di relazione e di partecipazione alla vita sociale (soprattutto attraverso l’educazione, la formazione e l’apprendimento); l’autistico, per effetto del "rallentamento" e della "svincolazione" di funzionalità normalmente saldate tra loro e che si sviluppano e si integrano vicendevolmente, non ha coscienza di essere un soggetto "regredito", ma può attivare "movimenti psichici" impercettibili a causa della loro rapidità ed anche bloccati a causa del ripiegamento narcisistico. Proprio per questo è importante un precoce inizio della terapia in acqua. L’apparato pulsionale del bambino, apparentemente malato, è invece "danneggiato" e non può promuovere investimenti, ma dimostra una certa alternanza di stati per cui, mentre rifiuta il contatto con il mondo esterno, si lamenta d’averlo perso, aprendo così le porte ad un Io-ausiliario che, come terapeuta, ha la possibilità di ricreare ponti affettivi e la reale possibilità di fare uscire dal "buco nero dell’isolamento". E’ prioritario un programma di diffusione del progetto
che coinvolga direttamente tutte le famiglie con figli diversamente abili e normodotati: • attraverso la Scuola, quale luogo fisico in cui si recepisce direttamente il focus delle necessità; • le Istituzioni Sociali e Sanitarie; enti che offrono terapie, istruttori di centri sportivi, responsabili di altre attività ricreative, gestori di locali o strutture disponibili a partecipare. La fase operativa del progetto si svolgerà nelle strutture del Centro Sportivo "Paradise s.a.s", al km 22 della Strada Prov.le Carmiano-Copertino e dell'Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative, in Via Villa Convento 24/A, entrambe site in Carmiano (LE). Le attività in piscina partiranno il primo mercoledì di Ottobre 2013. Il progetto terminerà il 31 maggio 2014 con le gare sportive e le relative premiazioni dei partecipanti. Beneficiari: 30 famiglie con figli affetti da Autismo e Ritardo Mentale, provenienti dagli ambiti della Provincia di Lecce. Per info ed iscrizioni: inviare il modulo d'iscrizione GRATUITA (cliccare per scaricare) a Segreteria IATSC (organo di comunicazione ufficiale) Tel: 0832.601223 - 329.4226797 Fax: 0832.1831426 Email: info@artiterapielecce.it Contatto con il Presidente CUAMJ: 334.8648212 338.1053170 E-mail: mariapia.vernile@alice.it
Il Presidente di Artedo parla del Sistema per la creazione d'Impresa Etica nelle nuove professioni". Si è svolto il 27 Settembre 2103 nell’Auditorium Walter Corsi della sede nazionale di Confartigianato Imprese il Congresso dal titolo “L'IMPRESA ETICA: NORME TECNICHE E CERTIFICAZIONE DELLE NUOVE PROFESSIONI AI SENSI DELLA LEGGE 4/2013”.
La manifestazione, organizzata da ARTEDO e riservata in via esclusiva a tutti i propri associati, a vario titolo aderenti al Sistema d’Impresa Etica del Protocollo Discentes, ha toccato i temi delle nuove professioni, argomento al quale Confartigianato Imprese ha espresso il proprio interesse con la stesura di un addendum di convenzione con la stessa Associazione Artedo per il presidio sui Tavoli delle Norme Tecniche e la rappresentanza congiunta di tutte le nuove categorie Professionali disciplinate dalla Legge 4/2013. Dopo la registrazione e l’apertura dei lavori, la parola è andata all’ospite, per i saluti rituali e per la relazione introduttiva. “Da sempre Confartigianato rappresentiamo le necessità dell’Impresa in Italia” ha detto Bruno Panieri, Direttore delle Politiche Economiche dell’illustre Confederazione. ”E, pur non essendo quello delle Professioni il nostro ambito precipuo, abbiamo accolto favorevolmente la proposta di Artedo di stabilire un presidio nazionale congiunto in tale direzione, perché condividiamo il fare etico con cui si presenta il Protocollo Discentes. Riteniamo importante, infatti, che la nuova impresa che nasce con la formazione dei nuovi operatori sia il risultato di un incontro di bisogni: da una parte, quelli dei nuovi enti che, adeguatamente supportati, contribuiranno a creare nuove opportunità e nuove economie; dall’altra
dall’altra, quelle dei futuri operatori, finalmente riconosciuti e riconoscibili; ma, soprattutto, quelli del territorio, fatto di persone, in cui entrambi si troveranno ad agire”. A seguire, Giancarlo Colferai, Presidente del CEPAS, ente di certificazione dei corsi di formazione e delle professioni,accreditato ACCREDIA, nonché partner di Confartigianato Imprese, ha illustrato ai presenti i criteri di certificazione di parte terza, sottolineandone l’importanza ai sensi della Legge 4/2013 e del Decreto 13 del 16 gennaio 2013. Concetti ribaditi da Alberto Simeoni, responsabile dell’Ufficio UNI di Roma, che si è soffermato sui sistemi di normazione volontaria e dell’importanza che essi rivestono in esecuzione della recente Legge sulla Disciplina delle Professioni non organizzate in Ordini e Collegi. “La Legge 4/2013” ha detto Stefano Centonze”, Presidente di Artedo, “pone l’accento sulla tutela dell’utenza. Professionalizzare, qualificare e contribuire alla certificazione dei futuri professionisti è la massima garanzia pensabile per le fasce deboli del Terzo Settore. Arte Terapeuti, Counsellor, Naturopati andranno ad operare in contesti delicati come quelli dei servizi alla persona, laddove il sopraggiunto professionismo soppianterà l’improvvisazione e la mancanza di autoregolamentazione che ha caratterizzato taluni operatori in un recente passato. Se consideriamo che la nuova impresa passerà per il sociale, è facile prevedere quanti operatori siano desiderosi di trovarvi collocazione: senza una disciplina, sarebbe impossibile per gli utenti orientarsi nel mare magnum dell’offerta di servizi. Senza una
una disciplina, in altre parole, sarebbe impossibile distinguere un professionista da chi non lo è.” Centonze, incaricato da Confartigianato Imprese a presidiare sui Tavoli UNI il gruppo di lavoro per la stesura della norma sulle Arti Terapie,ha, inoltre, parlato alla platea dei soci, composta da circa trentacinque associazioni in rappresentanza delle quasi cinquanta Scuole di Formazione aderenti al Sistema d’Impresa Etica del Protocollo Discentes in Italia, Francia e Svizzera, dello stato dell’arte per il proprio settore di specifica competenza. A seguire, Giuseppe Mammana, Presidente dell’Associazione Di.Te., e Vincenzo Leo, Presidente dell’Associazione Terraroussa, partners di Artedo per i settori, rispettivamente, del Counselling e della Naturopatia, hanno fatto il punto per quanto di propria competenza. “A nome di Artedo”, ha concluso Centonze, “sono grato a CONFARTIGIANATO IMPRESE per la sua vicinanza, come al CEPAS e all’UNI che, intervenendo ufficialmente in questa occasione, hanno dimostrato l’impegno e la professionalità che da sempre li contraddistingue.” Dopo un breve intervento di saluto di Eric Gimbert, Presidente della Federazione Internazionale di Riflessologia con sede in Francia, i lavori sono proseguiti nel pomeriggio con l'Assemblea Nazionale dei Soci Artedo per l’approvazione del nuovo statuto, in conformità con quanto disposto dalla Legge 4/2013. (Nella prima foto: Giancarlo Colferai, Bruno Panieri, Alberto Simeoni e Stefano Centonze). ___________________________
Intervista a Stefano Centonze Presidente di ARTEDO Finalmente, dopo trent’anni d’attesa, arriva la Legge che riconosce le professioni non organizzate in ordini o collegi. Un traguardo storico, raggiunto nel pomeriggio del 19 Dicembre 2012, allorquando il DDL 3270 è stato definitivamente approvato e, successivamente, il 14 Gennaio 2013 per l'esattezza, tramutato in Legge (Legge n.4/2013 - Disposizioni in materia di professioni non organizzate in Ordini e Collegi) per dar via ad una nuova era del mercato del lavoro e delle nuove professioni. Che cosa cambia adesso nel mondo delle professioni e, con uno sguardo alle imprese ed al mercato del lavoro, nel panorama nazionale della formazione?
Lo abbiamo chiesto a Stefano Centonze, Presidente di ARTEDO, uno degli stakeholders tra i più attivi in Italia per il settore delle Arti Terapie, presente sul Tavolo della normazione UNI insieme a CONFARTIGIANATO IMPRESE, fondatore del Protocollo Discentes, l’innovativo sistema per la creazione d’impresa etica nel settore della formazione delle nuove professioni. Presidente, con la Legge 4/2013 è dunque finalmente arrivato il riconoscimento che si attendeva da tanto tempo in settori come le Arti Terapie, la Naturopatia, il Counselling. È così?
È anche così. Nel senso che la Legge 4/2013 non riconosce esplicitamente le professioni come l’Arteterapeuta, il Naturopata o il Counsellor. Le disciplina. Ovvero, con le “Disposizioni in materia di professioni non organizzate in ordini o collegi” riconosce ai professionisti di tutti i settori mai normati
ti in precedenza, e come tale non iscritti in Albi, il loro status. E questo vale per tutti. Basti pensare che l’UNI, l’ente nazionale per la stesura delle norme tecniche volontarie di settore ha circa 80 proposte di norme per altrettante professioni da evadere. Come si sta muovendo Artedo?
Artedo è un’associazione che è anche registro professionale. Cura, in primis, gli interessi degli esperti in Arti Terapie. Con l’entrata in vigore del Protocollo Discentes, tuttavia, sposa, in partnership con altri enti, le istanze anche di altre categorie professionali, come i Naturopati e i Counsellor. E, sviluppando sistemi per la creazione d’impresa etica nelle nuove professioni, ne diffonde la cultura della formazione. Inoltre, essendo partner di Confartigianato Imprese, il mercato del lavoro e l’occupazione dei giovani sono temi attuali per Artedo che cura molto gli intessi delle imprese di domani. Come nasce l’idea di Artedo di creare il Sistema d’Impresa Etica del Protocollo Discentes?
Le premesse sono quelle create dall’ormai famosa e citata Legge n
n. 4 del 14 Gennaio 2013. Con l’approvazione delle cosiddette Disposizioni in materia di professioni non organizzate in Ordini e Collegi, infatti, il Legislatore apre il mercato del lavoro a tutte quei professionisti in possesso di competenze non formali, frutto della pratica e dell’esperienza. In nome di questa libertà fiorisce una nuova generazione di esperti a cui è demandato il compito di farsi valere nel mondo del lavoro sulla base delle proprie capacità di fare, senza vicoli di conoscenze tecniche formali. Artedo raccoglie la sfida e si colloca al centro di questo universo, proponendo un proprio modello per creare nuova impresa, denominato, per l’appunto, Protocollo Discentes, attraverso l’apertura di scuole per la formazione dei nuovi professionisti. Una formazione flessibile, dinamica, vantaggiosa e di facile accesso, erogata in partnership con associazioni, cooperative ed enti che diventano Imprese Etiche, a loro volta creatrici di imprese etiche.
riali che morali. Né bisogna stupirsi se si parla d’impresa in riferimento ad associazioni: è lo stesso legislatore che, nella Legge 4/2013, richiede agli enti che si proporranno di rappresentare le istanze dei nuovi professionisti di possedere la struttura dell’impresa.
Che cos’è un’Impresa Etica?
È così che l’Impresa Etica crea nuova impresa etica?
È molto semplice: oggi Artedo, un’Associazione Nazionale, propone un’idea suggestiva per sfidare il momento di difficoltà dell’economia italiana. Acquisisce il partenariato di altre associazioni e cooperative, desiderose, da una parte, di soddisfare i bisogni delle fasce deboli, formando i professionisti della relazione d’aiuto e del sociale, sapendo che importanza ha ormai acquisito il Terzo Settore nel nostro Paese (destinatario di enormi risorse da parte dell’UE); dall’altra, di sviluppare economie etiche, attraverso un sistema che ripartisce e condivide con il territorio la ricchezza che è in grado di produrre, sia in termini materiali che mora
In questo senso, gioca a favore di Artedo la vicinanza di Confartigianato Imprese?
Esatto. È dal dicembre 2012 che esiste un protocollo d’intesa tra noi e Confartigianato Imprese. Ed io ho l’immenso piacere e l’onore di rappresentare questa coalizione sui tavoli per la stesura delle norme tecniche di settore presso l’UNI, l’ente preposto dallo Stato alla rilevazione dei bisogni delle nuove professioni, finalizzata all’elaborazione, in condivisione con gli stakeholders per ogni categoria, di norma attuative a carattere volontario. Insieme rappresentiamo l’impresa di oggi e, soprattutto, di domani, quella che nascerà dall’iniziative dei nuovi professionisti.
Naturalmente. I professionisti formati con noi si costituiranno, con il tempo, in imprese etiche per cogliere le opportunità offerta dal Terzo Settore. Progetteranno interventi, spendendo al meglio le proprie competenze, e formeranno a loro volta nuove professionalità. E così all’infinito. Parliamo del Protocollo Discentes…
È un Sistema per la Creazione d’Impresa Etica nel campo della formazione delle nuove professioni, da poco riconosciute, ed offre l’opportunità ad associazioni, cooperative ed enti di avviare scuole di formazione in partnership con ARTEDO, promotore del progetto,
sia in Italia che nel resto del mondo, anche in assenza di specifiche competenze tecniche nei vari settori d’interesse. Un ente che vogli avviare la propria impresa etica nella formazione in Arti Terapie, in Counselling o in Naturopatia, ad esempio, può diventare Scuola di Formazione con noi, grazie all’adozione del modello didattico innovativo che non lo vincola al possesso delle conoscenze pregresse, poiché tutto il now how viene fornito da Artedo e dai partner tecnici scelti per i vari settori. Così, noi eroghiamo una parte della formazione, quella basata sullo studio dei materiali documentali a distanza, mentre la nuova sede eroga il resto della formazione in presenza, utilizzando docenti e modalità didattiche proprie o fornite, direttamente o indirettamente, da ARTEDO. È come dire che basta che l’ente abbia la volontà di creare la propria impresa. Poi, pensiamo noi a tutto. In che senso il Protocollo Discentes è Impresa Etica?
Per una serie di ragioni. Un sistema didattico innovativo come il Protocollo Discentes, basato su una modalità mista di apprendimento, tra laboratori in presenza e studio a distanza, incontra il territorio e le sue necessità su più aspetti. Innanzi tutto, la facilità di accesso permette a realtà strutturate o non ancora organizzate di plasmarsi sul modello aziendale, formando i nuovi professionisti della relazione d’aiuto. Pensiamo agli arteterapeuti, ai counsellor e ai naturopati, il cui lavoro risponde ai bisogni di servizi di qualità da parte del territorio. Al tempo stesso, abbatte i costi della formazione, rendendola accessibile a tutti, ma senza togliere nulla ad una formazione di primissimo orna
dine. Dunque, incontra i bisogni delle fasce deboli e sfida il momento di difficoltà che attraversa l’economia mondiale, generando nuove opportunità condivise. In più, e solo questo basterebbe a giustificare l’attribuzione etica, assicura la conformità dei percorsi formativi alle norme tecniche UNI per i vari settori, l’inserimento delle imprese e dei professionisti formati nei sistemi di certificazione e l’accesso diretto ai registri professionali, secondo quanto stabilito dalla Legge 4/2013. Aggiungiamo anche dei dati statistici: attualmente il mercato della formazione ha un’incidenza del 20% circa sul PIL del nostro Paese. Con la liberalizzazione delle professioni, prolifereranno talmente tanti di quei corsi che, tra qualche anno, il Terziario Avanzato potrebbe addirittura diventare il settore trainante dell’intera economia nazionale. Ecco perché è il momento giusto per fare impresa nella formazione, meglio se impresa etica, seguendo una proposta innovativa come la nostra che non ha precedenti. Veniamo all’UNI…
per
un
registri pubblici sul web per favorire favorire la conoscibilità della formazione di ciascuno da parte dell’utenza, per combattere abusi di professione e improvvisazione.
suoi documenti, di essere “professionista disciplinato ai sensi della legge 4/2013”. Dovrà aprire una propria partita IVA, avere la firma digitale ecc.
E anche qui si entra in un campo minato…
Quindi, anche se aderire alla norma non è obbligatorio per il professionista, di fatto è come se lo fosse, pur nel rispetto del libero mercato?
Sì, perché il professionista certificato, titolare di partita IVA, per poter esercitare è come se dovesse “uscire allo scoperto”, è come se dovesse alzare la mano in un’assemblea e dichiararsi., poiché i registri, lo abbiamo detto, saranno pubblici e le informazioni sugli aderenti accessibili a tutti. E con il regime d’imposizione fiscale che abbiamo in Italia, non siamo in grado di prevedere in quanti seguiranno la strada tracciata dalla Legge 4/2013 e quanti si avvarranno della facoltà di non farlo. Il punto è che bisogna comprendere se giocherà un ruolo fondamentale nella cultura dei nuovi professionisti la paura per la stress che comporta l’iscrizione nei registri o l’abissale differenza tra certificazione e non, poiché la mia impressione è che ci troviamo di fronte ad una volontarietà finta, ad una obbligatorietà camuffata da volontarietà.
momento
Qualcosa dell’UNI l’abbiamo già accennata. Di fatto, il Legislatore individua nell’UNI l’ente di raccordo tra tutti i massimi esponenti nazionali di una data professione che richiedano di autodisciplinarsi. Ribadisco: in maniera del tutto volontaria. Vuol dire che chiunque eserciti una delle nuove professioni senza aderire ad una norma tecnica UNI non infrange alcuna legge, benché l’esistenza di una norma volontaria sia comunque uno spartiacque importante, poiché i professionisti conformi e certificati ai sensi della stessa dovranno essere inseriti in re
Ma la rispondenza ai profili tracciati dalle norme e dalle certificazioni è indispensabile per esercitare le professioni ai sensi di questa Legge?
No. Ogni operatore può decidere se conformarsi alla norma tecnica del proprio settore oppure no. Nel caso si rifiutasse, continuerebbe a svolgere la professione come accaduto fino a prima dell’entrata in vigore della Legge. Se volesse farlo, avrebbe diritto al riconoscimento dello status di professionista e, come tale, soggetto alla disciplina della norma e dell’eventuale certificazione che, a sua volta, rappresenta una ulteriore qualificazione. Egli potrà così dichiarare, in tutti i
Infatti. Il Legislatore ammette tutti ma demanda agli organismi tecnici competenti la stesura delle norme volontarie per ogni settore e, successivamente, la certificazione delle competenze. Chi vorrà certificarsi ai sensi delle norme, dunque iscrivendosi ad associazioni iscritte, a loro volta, nei registi pubblici del MISE, impegnandosi a svolgere formazione continua, a rispettare un codice etico ecc., otterrà il riconoscimento di una “Qualifica”, equiparata al sistema europeo di qualifica della formazione EQF. Chi non vorrà certificarsi, parimenti, sarà libero di farlo. Le associazioni alle quali aderiranno i professionisti come in quest’ultimo caso, potranno rilasciare un “Attestato” di conformità alla norma tecnica. Essi saranno tenuti a rispettare le regole delle associazioni alle quali aderiranno ma non le indicazioni del MISE, poiché non assoggettati alle condizioni delle certificazioni. Il discorso, dunque, vale per professionisti ed associazioni. Ognuno potrà scegliere in totale autonomia da che parte stare, benché ottenere certificazione e qualifica abbia un valore diverso, sul piano formale, dal non averle. Come pensa che si orienteranno i professionisti davanti a tutto ciò, visto che entra in gioco la tutela dell’utenza?
Come sempre, ci sarà chi vorrà ade
aderirvi e chi no, trattandosi appunto di norme volontarie, ma la loro esistenza sarà un inequivocabile deterrente per chi opera senza cognizione di causa, senza essere in possesso dei requisiti per l’esercizio delle nuove professioni. E’ proprio questa la tutela per l’utenza, poiché i professionisti potranno riunirsi in associazioni professionali per l’istituzione di registri pubblici e per farsi certificare da enti terzi super partes. Mi riferisco, oltre che all’UNI, al CEPAS e agli altri enti di certificazione accreditati ad ACCREDIA, e ai registri pubblici delle associazioni professionali accreditate al Ministero per lo Sviluppo Economico. Per non parlare dello Sportello del Consumatore che le Associazioni Professionali sono tenute a istituire: il Legislatore ha pensato a tutto per la tutela dell’utenza. Questa libertà non è in nessun modo una minaccia per utenza e associazioni professionali?
Proprio no. Una norma volontaria permette a tutti di scegliere se uniformarvisi ma la pubblicazione su siti web del MSE e delle varie associazioni professionali di operatori certificati ai sensi della stessa norma aiuterà l’utenza ad individuare chi sia meritevole di fiducia e chi no. Ci saranno ripercussioni in Europa, dove ancora, a livello centrale, non esiste un corrispettivo del sistema legge-norma-certificazione varato in Italia con la Legge 4/2013?
Noi confidiamo molto che l’UE segua le buone prassi messe in campo dal nostro Paese. E accadrà naturalmente che il nostro sia un precedente importante per gli altri Stati. Associazioni professionali, ad esempio, francesi, potranno rivolgersi alle proprie istituzioni per richiedere una norma sulla base di q
quella italiana o, viceversa, agganciarsi alla nostra norma per tutti i casi di vacatio legis. Il riferimento alla Francia, peraltro, non è casuale: noi di Artedo abbiamo già intrapreso questa strada creando una forte partnership proprio con Parigi per l’adozione del nostro protocollo didattico in tutti i paesi anglofoni. E non è che il primo passo di quella che abbiamo denominato “Scuola Diffusa 2.0”. Oggi partiamo dalle Arti Terapie nel mondo: le altre professioni seguiranno a ruota. Che cos’è la Scuola Diffusa 2.0?
È una visione e, nello stesso tempo, il futuro della formazione. Artedo è a più livelli un precursore dei tempi: abbiamo anticipato di anni l’uscita delle norme di settore, dicendo esattamente ciò che oggi dice la Legge 4/2013. Oggi diciamo pure che la strada dell’innovazione è la strada del futuro, anche nella formazione dei settori più tradizionali, sapendo che si realizzerà. Di fatto con la Scuola Diffusa 2.0 diventa sistema a carattere europeo e mondiale l’idea, in Italia promossa con il nome di Protocollo Discentes, di creare un’unica scuola, grande come l’Europa, dispensatrice dei medesimi livelli di formazione e che garantisca la libera circolazione degli allievi, per lo scambio e la condivisione delle esperienze, che sono il valore aggiunto e, talvolta, quell’arricchimento che manca nei corsi universitari di stampo classico. E questo vale per le Arti Terapie, per il Counselling, per la Naturopatia e per l’offerta formativa che, con il tempo, nascerà intorno al Protocollo Discentes. A che punto sono i lavori per gli ambiti d’interesse di Artedo? La norma per il settore della Naturopatia è già in vigore da giugno 2013. Per le Arti Terapie ed il Counselling, probabilmente, la fumata bianca sarà per la
Counselling, probabilmente, la fumata bianca sarà per la fine dell’anno. Le Associazioni professionali dei settori citati sono attualmente al lavoro sui tavoli dell’UNI. E noi tra quelle. Torniamo al Protocollo Discentes. Qual è l’offerta disponibile per fare impresa con Artedo?
Oggi, i partner di Artedo possono erogare corsi di formazione in Arti Terapie (Musicoterapia, Arte Terapia Plastico-Pittorica, Teatro Terapia, Danza Movimento Terapia), in Naturopatia e in Counselling Relazionale Espressivo Integrato, aprendo scuole in esclusiva provinciale in tutta Italia in conformità con il Protocollo Discentes. Per l’estero, siamo già pronti per l’attivazione di corsi di Arti Terapie in lingua francese, inglese e spagnola. Mentre, a breve, altre offerte formative saranno disponibili. Possiamo parlare della nascita di un franchising, di un circuito d’affiliazione per nuove Scuole di Arti Terapie, Naturopatia, e Counselling?
Per favore, no. Il Protocollo Discentes è un sistema associativo, non un franchising. Cioè, non è uno
uno strumento commerciale. Il senso dell’iniziativa è mettere a disposizione della diffusione della cultura delle Arti Terapie, della Naturopatia e del Counselling – e per incentivare il loro riconoscimento formale, che passa da una capillare articolazione delle scuole di formazione e della veicolazione di un messaggio di alta professionalità - una metodologia didattica, all’interno della quale i partner che hanno fondato i modelli teorici di riferimento, ciascuno per la propria disciplina, fanno convergere anni di professionalità, ricerca ed esperienza applicativa: l’Istituto di Arti Terapie e Scienze Creative per le Arti Terapie, Di.Te. per il Counselling e Terraroussa per la Naturopatia. Tutte organizzazioni che, nel proprio modello didattico, hanno da sempre utilizzato un impianto teorico di base corposo (lo studio del materiale documentale) che, con l’avvento di internet e delle nuove tecnologie, hanno scelto di svolgere in FAD, a distanza, sulla nostre piattaforme e-learning www.artiterapieitalia.it, www.counselling-italia.it e www.naturopatia-italia.it. Tutto qua. Dunque, non si tratta solo di trasferire on line quello che tradizionalmente si studia in presenza…
Infatti. On line si studieranno solo le materie teoriche, mentre in presenza sarà necessario svolgere la formazione laboratoriale che, nelle nostre discipline, è imprescindibile. Il Protocollo Discentes è un modello integrato di formazione, tra studio a casa e attività in presenza: noi forniamo la piattaforma per lo studio a distanza, le sedi che aderiranno forniranno le attività di laboratorio, che confluiranno in un unico calendario nazionale che sarà disponibile sul nostro sito, ed un tutor per monitor
monitorare lo studio degli allievi di quella determinata sede. Ciò, d’altro canto, creerà un circuito nazionale di scuole che aderiranno ad un calendario unico e che permetterà ad ogni allievo di scegliere la sede più vicina o quella più interessante dove svolgere la propria formazione in presenza. Insomma, libero mercato, libera circolazione ma all’interno di un sistema circoscritto, monitorato e professionale: tutti gli allievi che vi aderiranno dalle varie scuole si incontreranno on line, scambieranno esperienze, materiali, conoscenze… Svolgeranno, dunque, una formazione molto ricca e a costi molto contenuti – dettaglio non trascurabile -. Ma questo studio on line non può pregiudicare la qualità dei corsi?
Affatto. Anzi, al contrario. Noi crediamo che organizzare in modo intelligente lo studio dell’impianto teorico (dispense, monografie, presentazioni in power point, videolezioni, discussioni e test programmati per quattro volte all’anno) agevoli la programmazione dell’apprendimento graduale dell’allievo, il quale, al termine del triennio, avrà competenze che gli permetteranno di relazionarsi ad ogni genere di professionalità. Dalla scuola, con gli insegnanti, ai contesti clinici, con i medici. Ecco perché, e con ciò torno alla sua precedente domanda, il Protocollo Discentes per la formazione in Arti Terapie in Italia non è affatto un circuito di affiliazione. Ma sul web voi parlate di “nessuna competenza tecnica richiesta per aprire una scuola”. Come si formano vere professionalità se le stesse non sono un requisito minimo per essere una Scuola Artedo?
Sì, è vero: noi non richiediamo competenze pregresse, poiché siamo noi ad essere in possesso degli strumenti per fornirle. Mi spiego me
meglio. La competenza tecnica (in arti terapie, in naturopatia o in counselling) è sempre e comunque un requisito apprezzato, auspicato ma non fondamentale, poiché tutti i nostri partner che diventano nuove scuole Artedo possono utilizzare il nostro know how e i nostri docenti. Vale a dire che forniamo noi le competenza specialistiche se le nostre sedi ne sono sprovviste. Ecco risolta la questione. Sul piano organizzativo, inoltre, noi forniamo tutti i supporti all’avvio, dal modello d’iscrizione per gli allievi, al corso per i Tutor on line, dai docenti per le attività in presenza, come detto, ad una vetrina sul web, con pagine dedicate ad ogni nostra associata. Alle nuove sedi sarà necessario che individuino semplicemente uno spazio fisico per le attività di laboratorio. È l’ideale per una nuova scuola di formazione: un’associazione diventa Impresa Etica e voi fornite tutto. Ma esiste anche qualche vantaggio per l’adesione al Protocollo Discentes da parte di scuole di formazione già operanti?
Noi preferiamo pensare a creare nuove scuole più che fornire supporto teorico a scuole già attive. Tuttavia, anche questa è una possibilità. Il Protocollo Discentes organizza, infatti, tutta la didattica documentale con uscite programmate dei testi, argomenti di discussione e verifiche. Tutto contenuto nel piano di studi generale. Una scuola attiva che adotti il nostro Protocollo, può razionalizzare lo studio teorico on line ed incastrarlo con le attività di laboratorio, così soddisfacendo le necessità degli allievi che spesso vivono la frustrazione della divergenza tra momento teorico e momento esperienziale.
esperienziale. Può, inoltre, seguire con maggiore semplicità gli allievi più distanti dalla propria sede, aumentare il monte ore del proprio percorso triennale, monitorare lo studio sistematico degli allievi, abbattere i costi, anche per la tenuta della segreteria (consideriamo la mole di lavoro che ci vuole per organizzare un test in presenza) e altro ancora. Si direbbe, una novità assoluta…
Sì, se si considerano i punti nodali della formazione oggi disponibile in Italia nelle nuove professioni. Sì ancora, se considerano le modalità di erogazione della stessa formazione. Modalità innovativa oggi brevettata da noi, poiché nata da noi. E forse è il caso di fare un po’ il punto della situazione. Lo stato dell’arte dice che l’offerta formativa in Arti Terapie (Musicoterapia, Arteterapia Plastico-Pittorica, Danzaterapia e Teatroterapia), in Naturopatia, in Counselling è affidata a un considerevole numero di Scuole private, in larga parte associazioni, ciascuna delle quali con un proprio modello di riferimento e con una propria struttura didattica. Prima dell’entrata in vigore della Legge 4/2013, e per larga parte anche oggi come in futuro, poiché è del tutto volontaria la conformità alle Norme Tecniche UNI per i vari settori, ad ogni Scuola veniva lasciata la facoltà di stabilire autonomamente la durata della formazione, le materie di studio, le competenze dei docenti, il titolo rilasciato, se svolgere supervisioni e tirocinio, le modalità di valutazione della formazione, i requisiti d’accesso degli allievi, ecc. A lungo le associazioni di categoria, come Artedo, si sono battute per approdare al quadro normativo appena emanato. Senza, tuttavia, che molte di esse siano in possesso
so di una rappresentatività territoriale che Artedo, viceversa, possiede dalla sua origine. Noi questa metodologia l’abbiamo chiamata Scuola Diffusa 2.0 perché rispetta tutti i principi richiesti: metodo unico, interesse nazionale, offerta formativa qualitativamente e quantitativamente impareggiabile, forte rappresentatività. E tutto coniugando la tradizione con l’innovazione tecnologia. Grazie a internet, infatti, oggi un allevo può studiare da casa e frequentare tutte le attività di laboratorio organizzate in tutta Italia da tutte le sedi territoriali. Noi lo troviamo straordinario e senza precedenti.
Su quali criticità agisce la proposta di Artedo, anche grazie alla Scuola Diffusa?
Parliamo un po’ della Scuola Diffusa 2.0?
È questa la scuola del futuro?
Sì, certo. Il progetto pilota è stata la “Scuola Diffusa Arti Terapie 2.0”. Oggi abbiamo mutuato l’iniziativa anche nella Naturopatia e nel Counselling. Si tratta della naturale evoluzione del nostro sistema didattico. Il Protocollo Discentes è il Sistema d’Impresa Etica che permette l’apertura di Scuole di Formazione nelle discipline citate. Tutto il circuito di scuole costituisce la Scuola Diffusa 2.0., sistema senza precedenti, in Italia e non solo, attraverso il quale Artedo offre agli allievi del le scuole aderenti la possibilità di frequentare tutte le attività didattiche organizzate in tutte le città d’Italia. Un allievo può, dunque, personalizzare il suo piano di studi, inserendovi non solo le attività curriculari della sede di appartenenza ma anche quelle di altre sedi, senza costi aggiuntivi e senza limiti di ore di formazione. Gli basterà andare sui nostri siti (www.artiterapie-italia.it, www.naturopatia-italia.it, www.counselling-italia.it) e scegliere i laboratori da aggiungere, di concerto con il proprio tutor, nel proprio piano di studi per accedere alla massima offerta formativa pensabile.
Sicuramente di migliorare e consolidare le competenze in uscita degli allievi, a vantaggio di una maggior professionalizzazione di arte terapeuti, naturopati e counsellor, di ridurre i costi della formazione e di elevare la qualità della formazione stessa. Con il risultato, nell’interesse delle nuove Scuole Artedo, di incrementare il numero delle domande di iscrizione ai corsi in tutto il territorio nazionale. Noi crediamo che il nostro progetto sia all’avanguardia, non solo perché permette la libera circolazione degli allievi all’interno di un sistema di Scuole che scelgano di adottare un protocollo comune, snello e dinamico, livellato verso l’alto, ovvero fondato su basi teoriche e scientifiche comuni su cui innestare attività di laboratorio diversificate, in ciascuna Scuola secondo il proprio modello di riferimento. Ma lo crediamo soprattutto perché ciò non va mai a discapito delle competenze in uscita. Il nostro protocollo, anzi, mira a garantire che le stesse siano consolidate e spendibili, grazie ad uno studio del materiale documentale graduale e costante, al pari del monitoraggio e delle verifiche sulla crescita personale e professionale di ogni allievo. L’uso della piattaforma e-learning, poi, non è altro che il risultato dell’esigenza di essere al passo con i tempi: sappiamo che prendono sempre più piede le nuove tecnologie in tutti i corsi di studi, Università comprese, e che il futuro va in questa direzione. Non abbiamo fa
fatto altro che coniugare correttamente i due momenti.
Sostienici con il tuo 1.000 Per concludere, come5 per funziona l’adesione al Protocollo Discentes? Il 5 per 1.000 non è un costo: è una donazione che Intanto, per diventare Scuola Arfiscale.
tedo occorre essere costituiti in associazione, cooperativa o impresa. Scrivi 93075220751 Come detto, è richiesta la disponibilità di una sede che possa ospitare le attività pratiche. Poi, è necessario scaricare il disciplinare per l’apertura di nuove scuole Artedo dai nostri siti (www.artiterapieitalia.it, www.naturopatia-italia.it, www.counselling-italia.it), secondo l’ambito di preferenza. Quindi, sincerarsi che la provincia richiesta sia libera, ovvero che non siano presenti altre scuole della medesima disciplina (operiamo in esclusiva). Infine, inviare i moduli di domanda. Per aderire bastano pochi minuti e pochi semplici passaggi.
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(Intervista di Chiara Spagnolo, addetto stampa di Artedo)
Contattaci Arti Terapie e Neuroscienze On Line Via Villa Convento, 24/a 73041 Carmiano (LE) Telefono: 0832.601223 1831826 Fax: 0832.1831426 www.rivistaartiterapie.it info@rivistaartiterapie.it
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Salute & Prevenzione Inserto mensile sulle Dipendenze Patologiche a cura di DITE Edizioni Scientifiche
L’intervento psicoterapico con la famiglia nel servizio pubblico secondo un approccio relazionale sistemico Parlare di psicoterapia dopo gli aspetti diagnostici e farmacologici, introduce una discontinuità nella coerenza comune ai pur diversi interventi. Ciò è sempre inevitabile quando si passa da modelli e strumenti che, per tradizione, fanno riferimento ad “un osservatore oggettivo” e a dei “dati in sé”, al lavoro clinico della psicoterapia i cui oggetti di studio presentano una complessità non riconducibile all’interno dei modelli sperimentali classici tesi ad isolare l’oggetto di studio rispetto al contesto e al soggetto-osservatore (Ceruti, Lo Verso, 1998). Tale impostazione sarebbe inconciliabile, infatti, con il lavoro psicoterapico che si costituisce essenzialmente come una ricerca-azione in cui l’interazione tra osservatore e osservato rappresenta, oltre che un mezzo di conoscenza, una condizione indispensabile per promuovere il cambiamento. D’altra parte, i “dati oggettivi” rappresentano sempre un particolare modo di segmentare la realtà secondo una descrizione che fa riferimento a una specifica teoria o visione del mondo, o nell’accezione di Bateson “epistemologia”, che orienterà l’osserva l’osservatore a ritagliare ne
nel fenomeno osservato determinate unità di analisi piuttosto che altre. L’osservatore stabilisce le coordinate di un determinato campo di osservazione nel quale risulta, a vari livelli, inevitabilmente implicato, ma le idee, le teorie, i modelli risultano a loro volta storicamente e culturalmente determinati. Basta pensare alla psichiatria in Italia negli ultimi venti anni e a come il rapporto teoria-prassi abbia visto alternarsi momenti molto contraddittori dal punto di vista epistemologico ai quali hanno fatto seguito effetti pragmatici conseguenti anche dal punto di vista clinico e terapeutico. Lo stesso si potrebbe dire, anche se in un’altra direzione, da parte di altri paesi dove si sono sviluppate altre visioni del mondo. Modelli come quello psicodinamico e quello relazionale-sistemico mettono il focus sul tipo di relazione con il paziente (individuo, coppia o famiglia che sia) attraverso la quale identificare o co-costruire nuovi scenari dei quali, inevitabilmente, il terapeuta nella sua ricerca azione è parte attiva, proponendo a volte modelli più complessi e problematici rispetto a quelli di tipo medico e analisi prevalentemente di tipo qualitativo rispetto al processo terapeutico. Farò riferimento al modello sistemico, occupandomene da tempo sia come psicoterapeuta che come formatore, e cercando di presentare la mia proposta di utilizzazione del modello nel servizio
del modello nel servizio pubblico anche attraverso alcuni esempi chimici. Vorrei tuttavia spendere alcune parole riguardo all’efficacia dei trattamenti psicoterapici nelle tossicodipendenze e di quelli familiari sistemici, in particolare, nonostante la riferita difficoltà del reperimento di studi anche dal punto di vista quantitativo. E spesso citato, a questo proposito, lo studio di Mc Lellan che, esaminando tre livelli di servizi terapeutici per soggetti dipendenti da oppioidi in mantenimento con metadone, confrontava “servizi minimi” (10 minuti di counseling), “servizi standard” (una seduta completa di counseling una volta alla settimana) o “servizi potenziati” (counseling standard più psicoterapia, terapia familiare). Solo il 30% dei pazienti che aveva ricevuto servizi minimi, oltre il metadone, otteneva buoni risultati; gli altri dovevano essere trasferiti al trattamento standard. I pazienti che avevano ricevuto servizi potenziati mostravano risultati migliori rispetto a quelli del trattamento standard, con una progressione a gradini del miglioramento associata alla disponibilità di servizi comprendenti la psicoterapia. Stanton, pioniere della psicoterapia familiare nelle dipendenze, ha sottoposto a metanalisi 15 studi, comprendenti complessivamente 3500 partecipanti
panti. Alcune delle principali conclusioni di questo studio sono state che: 1) negli studi di confronto tra terapia familiare e la terapia di consulenza individuale o quella su gruppi di coetanei i risultati erano superiori per la terapia familiare; 2) la conclusione vale sia per le terapie con adulti che con adolescenti; 3) paragonando le terapie familiari con altri tipi di intervento con la famiglia, si sono rivelate più efficaci, rispetto alla psicoeducazione familiare, mentre più incerta è la valutazione rispetto al lavoro con gruppi di genitori; 4) non risultano conclusivi i paragoni tra le diverse scuole di terapia familiare; 5) a paragone con altri approcci psicoterapeutici sono risultati alti i tassi di ritenzione in terapia familiare. Rispetto alla visione olistica dell’approccio relazionale sistemico, è difficile scindere la componente di comorbilità psichiatrica dal resto della sintomatologia tossicomanica, in quanto elementi costitutivi di uno stesso problema rispetto al quale si potrebbe dire che la diagnosi psichiatrica rappresenta una mappa di quel territorio da non confondere con il territorio stesso. L’approccio sistemico relazionale, come abbiamo detto prima, é un approccio che prende in considerazione non più una causalità lineare, ma semmai una causalità circolare secondo la quale la famiglia, paziente compreso, rappresenta una totalità, un sistema che non é dato dalla somma dei singoli membri, bensì dalla risultante delle interazioni tra i membri del sistema stesso, in modo tale che ogni modificazione in uno degli elementi del sistema, del
determina una modificazione del sistema stesso, che vive quindi in un perenne equilibrio caratterizzato da momenti di trasformazione, cambiamento (morfogenesi) e momenti di stabilità (morfostasi). Si può quindi rappresentare la famiglia attraverso uno schema semplificato che, condensando la visione diacronica e quella sincronica, ci serve per descrivere il processo di evoluzione della famiglia, i suoi cambiamenti, i suoi blocchi evolutivi e, eventualmente, le emergenze psicopatologiche: stiamo parlando di quello che viene definito come “ciclo vitale della famiglia”. Questa schematizzazione ci serve per descrivere come una famiglia possa evolvere dal momento in cui si forma la coppia, alla nascita dei figli, alla loro progressiva emancipazione, passando attraverso momenti critici per il processo di separazione individuazione come quello dell’adolescenza e del successivo distacco dalla famiglia. Durante questo processo possono verificarsi degli intoppi, dei problemi nell’evoluzione della famiglia, nella sua trasformazione e adattamento alle perturbazioni che riceve dall’esterno, dagli altri sistemi con i quali é in contatto (la scuola, il gruppo dei pari, il lavoro, ecc.), degli irrigidimenti che bloccano questi processi di trasformazione coinvolgendo tutti i membri del sistema, genitori, figli, eventuali nonni. A volte il disagio che deriva da questa incapacità di adattamento del sistema ai cambiamenti richiesti dai differenti stadi del ciclo vitale troverebbe espressione in una sintomatologia a carico prevalentemente di un membro della famiglia, quello che nel linguaggio sistemico viene definito come “il paziente designato”. Questo scenario ci aiuta a descrivere l’emergere, in un particolare momento della vita, di una sintomatologia
tomatologia senza specificare il come e il perché di quel tipo di patologia, se non attraverso un maggiore livello di complessità che comprende altri fattori di comorbilità. Ci sono autori, che si occupano di tossicodipendenze dal punto di vista familiare e sistemico, che si sono occupati di definire delle tipologie o dei “giochi”, quasi per arrivare a un tipo di diagnostica familiare. In particolar modo Cancrini ha descritto quattro tipologie che vorrebbero riassumere caratteristiche diverse sul piano psicologico, familiare, sociale e anche rispetto al tipo di sostanze e alle modalità del consumo. Secondo il suo lavoro, da un punto di vista familiare e relazionale quelle da lui denominate come “ tossicomanie di transizione” sarebbero caratterizzate da un contesto familiare spesso analogo a quello del paziente designato anoressico: lo sforzo di non definire le relazioni é sostenuto da frequenti messaggi paradossali o incongrui; alti livelli di mistificazione sia nelle relazioni interne alla famiglia che in quelle esterne; massivo ricorso alla disconferma dei messaggi altrui. Entrambi i genitori, fortemente coinvolti nella tossicomania del figlio, si trovano spesso in uno “stallo” di coppia; ci sono polarizzazioni tra i fratelli del tipo “fratello che ha successo, fratello fallito”. Dal punto di vista clinico si possono riscontrare stati maniacali nella fase iniziale della tossicodipendenza; la sostanza sembra alleviare sofferenze personali preesistenti; altre volte, specialmente negli adulti, stati depressivi. Viene più ricercato lo “stordimento” che non “il piacere” negli effetti della sostanza. Vi é una certa difficoltà per il terapeuta di costruire dei collegamenti tra l’uso della sostanza e gli eventi del ciclo vitale, in quanto spesso l’inizio avviene durante i
ti tra l’uso della sostanza e gli eventi del ciclo vitale, in quanto spesso l’inizio avviene durante i periodi apparentemente meno problematici e l’interruzione in quelli “più sofferti”. Alto é il rischio di suicidio in questi casi e frequenti i passaggi all’alcolismo dopo la cura della tossicodipendenza. C’é l’indicazione, anche in questo caso, per una terapia familiare sistemica. Anche Cirillo e collaboratori hanno descritto delle tipologie di tossico- dipendenti che hanno come caratteristica lo sviluppo di tre percorsi attraverso i quali, a partire dalle relazioni familiari, si descrive lo sviluppo della tossicodipendenza. In particolare, il percorso n. i rappresenterebbe la casistica più frequentemente trattabile all’ interno di un contesto psicoterapeutico. In questo sottogruppo compatibile dal punto di vista del “percorso relazionale” con la descrizione fatta da Cancrini di tossicomanie traumatiche tipo A, tossicomanie di “area nevrotica” tipo B, e una minoranza dei casi (i pazienti non psicotici) di tossicomanie di tipo C - si riscontrerebbe un forte coinvolgimento della prima generazione, con le distorsioni più tipiche delle transazioni affettive. In questi casi la sintomatologia prevalente sottostante all’uso di eroina sarebbe rappresentata dalla depressione. Le forme psicotiche rientrerebbero invece nel percorso n. 2, percorso i cui elementi caratteristici - già descritti da Selvini Palazzoni - sarebbero dati dallo “stallo di coppia” e dall”iperinvestimento strumentale nei confronti dei figli “. La psicosi comparirebbe in forma subclinica proprio perché coperta dall’effetto autoterapeutico della sostanza. Il percorso n. 3, descrivendo strutture familiari
disgregate sul piano transgenerazionale, comprenderebbe le problematiche connesse con i comportamenti antisociali. Quanto all’utilizzo della psicoterapia e alle situazioni di comorbilità, vari autori (Luborski, Clerici) affermano che ne ricevono maggior vantaggio i soggetti che mostrano punteggi di alta severità nella patologia psichiatrica, mentre il disturbo di personalità antisociale senza sovrapposizione di depressione non riceverebbe in genere vantaggi addizionali dalla psicoterapia associata ad un trattamento farmacologico e, comunque, questo tipo di diagnosi sarebbe predittivamente negativa per l’esito in generale di un trattamento. Questa osservazione concorda con quella di Cancrini sulla tipologia da lui definita come “sociopatica”. In generale, comunque, in letteratura sembra che dall’integrazione della psicoterapia con gli altri trattamenti derivi il “valore aggiunto” circa l’efficacia del programma terapeutico. Queste iniziali esperienze avevano fatto maturare l’esigenza di radicali trasformazioni dei Servizi da strutture assistenziali e di controllo a strutture specialistiche, con specifiche finalità terapeutiche. Tuttavia troppo spesso si é cercato di identificare la trasformazione del Servizio con l’introduzione di prassi psicoterapeutiche al suo interno. Di fatto spesso nei servizi territoriali esiste uno “spazio terapeutico” che tuttavia vi si colloca come un’oasi, un nucleo scisso e separato che non ha ancora acquisito una capacità trasformativa nei confronti, prima di tutto, del servizio stesso. Il punto di attacco efficace per avviare un cambiamento sta nel modello organizzativo del servizio. D’altra parte nel contesto pubblico il terapeuta é inserito in una équipe pluriprofessionale non necessariamente omogenea e, invece, gerarchicamente organizzata; ope
opera all’interno di una rete di Servizi; risponde a un’utenza che non necessariamente richiede interventi psicoterapeutici; può doversi fare carico di interventi coatti o comunque assistenziali o di controllo. Mi pare che nel contesto attuale, ed in particolare in quello dei Servizi per le Tossicodipendenze modificato anche dal “cataclisma” AIDS, il nodo di fondo nel Servizio pubblico rimanga lo stesso, parlando delle due possibilità di utilizzo del modello sistemico sia per il trattamento delle Tossicodipendenze che in Salute mentale: la Psicoterapia Familiare Relazionale come tecnica, l’approccio relazionale sistemico come ottica. Questo se vogliamo rimanere nell’ambito di una epistemologia sistemica, per la quale lavorare con la famiglia rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente. Rimanendo all’interno della cornice epistemologica sistemica, già da diversi anni Fruggeri a proposito dei “contesti della psicoterapia: pubblico e privato” - definiva una mappa delle concezioni della psicoterapia familiare nel servizio pubblico. Secondo questa mappa l’utilizzo del modello come tecnica porta a due posizioni altrettanto rigide anche se contrapposte: la posizione dicotomica, che definisce il servizio pubblico per differenza da quello privato, considerando rigidamente il modello teorico di riferimento come una tecnica di intervento, possibilmente da salvaguardare e, magari, contrapporre ad altre tecniche utilizzate nel servizio. In questo caso gli interventi o sono psicoterapeutici, e quindi per il cambiamento, o sono assistenziali, e di conseguenza di ostacolo al cambia
biamento. La ripercussione di questo punto di vista fa sì che gli utenti siano divisi tra quelli motivati e adeguati alle regole del setting e quelli non adeguati. Allo stesso tempo questa “doppia prassi” determina una ulteriore suddivisione tra quei pochi, qualificati operatori e pazienti che condivideranno l’esperienza più gratificante della psicoterapia e tutti gli altri, operatori e pazienti, più squalificati che condivideranno l’esperienza più frustrante dei cosiddetti interventi “assistenziali” o, parlando di tossicodipendenze, si potrebbe aggiungere, delle terapie di mantenimento. La posizione tecnicoprofessionale si esprime invece attraverso il tentativo di adattare la tecnica al contesto pubblico, modificando le regole della tecnica psicoterapeutica in modo da renderla compatibile con le caratteristiche del contesto, pur non individuando “il servizio pubblico a partire dalla sua specificità, ma piuttosto per differenza con lo studio di un libero professionista”. Questa posizione probabilmente il compromesso più diffuso in quei Servizi dove esiste la percezione del problema, ma mancano le risorse, culturali e non, oltrechè la forza per sviluppare modelli più avanzati di applicazione. C’é infine la cosiddetta posizione integrata che utilizza il modello teorico come quadro teorico generale di riferimento. In questo caso viene a cadere la differenziazione a priori tra intervento assistenziale e intervento terapeutico e si passa dal porre l’attenzione alle strategie operative in termini di contenuto a osservare gli aspetti di processualità. In questo modo gli stessi interventi assistenziali diventano strumenti terapeutici e, rispetto alle difficoltà (mancanza di motivazione o rifiuto dell’intervento, ricerca di
di alleanze, ecc.), i cosiddetti vincoli diventano possibilità (Bonizzoni, Semboloni, 1985; Semboloni, 1986; Fruggeri, Matteini 1987). Questa impostazione generale data da Fruggeri al problema degli interventi psicoterapeutici nel contesto pubblico o privato può trovare una sua applicazione anche per quanto riguarda il problema delle tossicodipendenze. Del resto, a parte i lavori di Haley, Kauffman e Stanton che hanno fatto conoscere tra i primi - anche se in contesti molto diversi dalla nostra realtà - la possibilità di un intervento familiare e delle ipotesi connesse al ciclo vitale della famiglia (“il distacco da casa”, “la pseudoindividuazione”), numerosi sono stati i contributi scientifici sull’utilizzazione dell’approccio sistemico e della terapia familiare nel trattamento dei tossicodipendenti che hanno fatto riferimento ad esperienze nel servizio pubblico in Italia: Cancrini, Cavicchioni, Cirillo, Coletti, Marzocchi, Mazza, Rigliano, Semboloni. Spesso, in questi contributi si affrontato il tema del contesto specifico del servizio pubblico con i suoi vincoli e le sue risorse, proponendo vari tipi di interventi con la famiglia. In questo senso spesso si può parlare di terapia familiare “versus approccio sistemico” in quanto, nell’esperienza di molti terapeuti del servizio pubblico (tra i quali il sottoscritto) ad esempio non c’è l’abitudine a “dichiarare” la terapia come terapia familiare in quanto tale. Più semplicemente, ed evitando definizioni come “terapia familiare” che possono determinare anche un rigetto, mi limito a spiegare che lavorare con tutta la famiglia aiuta l’équipe a capire meglio: é quindi questo aspetto di risorsa, piuttosto che quello di inadeguatezza o di colpevolizzazione intrinseco all’idea che la famiglia si debba curare, che viene evidenziato e che contribuisce a costruire un conte
contesto di collaborazione più che di confronto. D’altra parte, il lavoro psicoterapeutico con la famiglia può rientrare a essere parte importante di quella rappresentazione di servizio, che alcuni definiscono come macchina terapeutica, cioé “un’organizzazione complessa dove tutti gli operatori condividono il compito di attribuire un significato, secondo la filosofia operativa del servizio e assieme al paziente, a ciò che viene fatto” (Marzocchi 1993). Questo può essere un esempio attraverso il quale intendere il significato di quella che é stata definita all’inizio come una posizione integrata. Così, il lavoro con le famiglie, anche quando non si svolge in un ambiente dal setting definito ed é accompagnato da altri interventi, svolge il suo compito in parte autonomamente, in parte in forma integrata (come parte del tutto). Il problema é che occorre riaffermare l’importanza di un intervento globale a dimensione e in un ambiente psicoterapico in cui anche la prescrizione farmacologica deve spesso basarsi su un intervento con la famiglia, ad esempio quando si imposta una disassuefazione domiciliare senza ricovero (Coletti 1993) o quando, in relazione ad una comorbilità psichiatrica importante, devono essere assunti psicofarmaci in maniera continuativa. Si potrebbe dire che emerge un “setting” nuovo, flessibile, adatto per la terapia delle tossicomanie: passare da risposte unichetotipotenti-impotenti a risposte complesse, da collezioni di interventi a connessioni di interventi. La differenza é dunque tra un contesto concepito come statico e invariabile e uno pensato come co
costruito attraverso i processi di interazione che danno significato ai sistemi di rappresentazione dei soggetti implicati. In questo senso, il fatto che nei casi di doppia diagnosi spesso ci sia un coinvolgimento di più contesti (ospedale, SerT, Servizio di Salute Mentale, Comunità) definisce ancora meglio un sistema rispetto al quale strutturare l’intervento, che non può essere solo il sistema famiglia, ma piuttosto quello che potremmo ridefinire “il sistema determinato dal problema” utilizzando il concetto di Goolishan in maniera più concreta e pragmatica e non solo a livello conversazionale e linguistico. Queste sono dunque le premesse, tenendo conto delle quali é possibile parlare di psicoterapia, interventi con le famiglie, e servizio pubblico: cercherò ora, attraverso dei casi clinici, di fare alcuni esempi di questa specificità di intervento nei casi con comorbilità. Marcello: Comorbilità, Nuove droghe, Terapia disgiunta, Interruzione della Terapia Familiare, Inserimento lavorativo Quando si parla di nuove droghe ci si riferisce soprattutto alle cosiddette “designer drugs”, sostanze di sintesi di cui la più conosciuta come Ecstasy - é la metilendiossimetanfetamina, MDMA. Conosciamo gli effetti collaterali di questa sostanza a livello generale e a livello neurologico e psichico. Tra i disturbi cronici che si possono manifestare, anche a un mese di distanza dall’assunzione, vengono descritti in letteratura i disturbi del tono dell’umore, i disturbi di tipo psicotico, i disturbi di tipo cognitivo, gli attacchi di panico, i flashbacks. Possono poi comparire aggressività, diminuzione dell’appetito, insonnia, bruxismo, craving per il cioccolato. Sul piano p
psicopatologico spesso é difficile, senza un lungo follow-up, fare una diagnosi differenziale tra gli esiti di una assunzione di queste sostanze e situazioni già di per sé problematiche e di cui la farmacodipendenza rappresenta solo un aspetto. Inoltre, osservando e ascoltando in seduta questi ragazzi mentre pieni di ansia e aggressività digrignano i denti o riferiscono di sentirsi “cattivi”, risulta difficile discriminare quanto di culturale odi patologico ci sia in un atteggiamento che si ritrova nei racconti dei giovani scrittori di “gioventù cannibale” come nei giovani artisti inglesi della collezione Saatchi che espongono vere pecore o mucche fatte a pezzi, manichini di uomini evirati o ecatombi di mosche che chiuse in bacheche di vetro sciamano su finti organi sanguinolenti, ma veri liquidi nutritivi per rappresentare “la fine del mondo”. Marcello, di 24 anni, é uno di questi ragazzi. Dopo essere stato in cura da vari medici privati arriva al SerT dove viene prima preso in carico da un medico e da uno psicologo e poi inviato al gruppo di Terapia familiare, di cui fa parte anche lo psicologo. Marcello si presenta con una sintomatologia caratterizzata da uso di cannabis giomaliero e uso di MDMA e uso sporadico di cocaina. Per procurarsi le sostanze partecipa ad un giro di spaccio. Nel passato sarebbe stato curato per un disturbo di tipo ansioso depressivo, con neurolettici, antidepressivi e ansiolitici. Circa tre anni prima del contatto con il SerT, dopo alcuni episodi di abuso alcolico, il paziente avrebbe cominciato a far uso di sostanze iniziando con l’eroina per due mesi e passando poi alla cannabis, all’MDMA e alla cocaina. In seduta vengono confermati i suoi comportamenti ansioso-aggressivi, l’ideazione di tipo interpretativo, l’incapacità a gestire le frustrazioni,
i disturbi di tipo ossessivo. Ma l’aspetto che colpisce di più é l’aggressività, particolarmente manifesta alla presenza dei familiari, e una facies che colpisce, quando digrignando i denti dice di sentirsi “cattivo” e profila addirittura minacce nei confronti dei carabinieri. D’altra parte, la madre più di una volta lo provoca, facendo aumentare il
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il suo stato di agitazione, sino all’ abbandono della seduta. Le sedute con la famiglia hanno consentito di ricostruire una storia caratterizzata dalla “cessione” del paziente ai nonni materni fino all’età di otto anni, in quanto la madre che lavorava come parrucchiera non poteva occuparsi di lui. Era rientrato in famiglia quando la madre, a causa di un’allergia aveva dovuto abbandonare il suo lavoro. In quel periodo si era manifestata una gelosia per la cuginetta nata da poco e una sofferenza della madre per le preferenze della suocera per l’altra nipotina. Viene evidenziato un comportamento di tipo ossessivo già a livello della scuola dell’obbligo e dei primi anni delle superiori. Emerge dalla storia una crisi della coppia e un tradimento che la madre attualizza ancora oggi rinfacciandolo al marito e mettendolo in relazione alla sua latitanza e scarso interesse nei confronti di lei. Entrambi i genitori hanno sofferto di una sintomatologia depressiva in momenti diversi. La moglie ha sempre avuto la dominanza della gestione economica, contribuendo alla passività del marito, che ha sempre compensato la situazione di estrema tensione in famiglia andandosene appena possibile a caccia con gli amici. Ma la storia contiene anche riferimenti intergenerazionali di cui fanno parte genitori, suoceri, fratelli, cognate e nipoti, a testimoniare “le componenti insoddisfacenti della relazione che ciascuno dei genitori aveva avuto con la propria famiglia di origine” (Mazza 1999) fino all’ identificazione del paziente come il nipote di serie B, in quanto figlio di un padre-marito che non si fa rispettare né dal proprio fratello, né dalla propria madre, né dal proprio padre. La tensione, durante il processo terapeutico, viene estremizzata
mizzata più che ridotta dai miglioramenti del figlio. La madre, arrivata a mettere in discussione il rapporto con il marito ed un’eventuale separazione (agita rifugiandosi dai suoi per poche ore), decide di non partecipare più alle sedute di coppia che avevamo iniziato a un certo punto della terapia privilegiando un tipo di terapia disgiunta, per favorire l’ulteriore autonomia del figlio. Marcello continua il suo lavoro terapeutico con lo psicologo con un approccio di tipo individuale psicodinamico. In questo senso si é dimostrato importante aver potuto mantenere il rapporto con il Servizio attraverso la psicoterapia individuale dopo aver sganciato il paziente dalle sedute con i genitori. Contemporaneamente, il paziente ha continuato la terapia farmacologica e il progetto terapeutico e socioriabilitativo del servizio ha portato al suo inserimento lavorativo presso un’ azienda attraverso lo strumento della borsa lavoro. Questo progetto complessivo ha portato a una notevole riduzione del consumo di sostanze. Si é verificata una progressiva diminuzione dell’aggressività e degli aspetti comportamentali e un miglioramento degli aspetti relazionali, anche se permangono disturbi di tipo ossessivocompulsivo affiancati da frequenti vissuti di tipo depressivo. Evidentemente é un caso che presenta ancora molti problemi, ma 1’ aggancio con il servizio, la sua rete di operatori, gli strumenti terapeutici e socioriabilitativi messi in campo e i patteru che li connettono é forte. Pietro: La confusione e il segreto, la moltiplicazione degli interventi Ha il primo contatto con il SerT all’età di 21 anni per uso di hashish e poi eroina. Secondogenito, ha un padre che naviga e che in passato ha avuto seri problemi con l’alcol che lo hanno tenuto lontano da casa per un lungo
lungo periodo. La madre, casalinga, soffre di depressione ed ha da tempo una relazione con un altro uomo di cui in casa non si parla; anzi, di fatto di fronte al figlio che si interroga sui rapporti tra i genitori viene negato questo aspetto della loro vita di relazione. A seguito della patologia del figlio vengono effettuati dal SerT trattamenti con naltrexone, metadone e colloqui individuali. Il decorso: - 02/06/97: la sorella si trasferisce a Londra, aumenta la tensione in casa (soprattuttoda parte del padre); - 13/06/97: la famiglia denuncia una sintomatologia psichica di tipo persecutorio diagnosticata come “sindrome paranoide”. Le urine risultano negative. Il figlio sembra avvicinarsi al padre; - 18/06/97: durante un incontro con la famiglia emerge il tema del segreto come il tema centrale del delirio del paziente. La strategia terapeutica: - Terapia farmacologica con lo psichiatra del servizio di salute mentale - Colloquio con la coppia per lavorare sul segreto: da quando il figlio aveva 17 anni sono separati in casa. Lavoro su genitorialita e coniugalità. - Il padre riprende la navigazione. - Colloquio con la madre che rifiuta di affrontare il tema del segreto con il figlio. - Viene esplicitata da entrambi i coniugi l’impossibilità di un altro tipo di organizzazione familiare che preveda una “separazione sana” anche per motivi economici e vantaggi secondari di entrambi, pur all’interno di una grave sofferenza e di reciproche umiliazioni. Viene riproposto un t
tentativo terapeutico in comunità che fallisce rapidamente. Nel frattempo il paziente continua a essere in trattamento con neurolettici presso il servizio di salute mentale. Ha assunto la facies e l’atteggiamento passivo del paziente psichiatrico “cronicizzato”. Urine negative per oppiacei. I genitori non hanno più cercato di affrontare il tema del segreto. Il paziente viene inserito con successo in un centro diurno per psicotici. Il padre viene seguito individualmente da uno psichiatra del servizio di salute mentale. La madre viene seguita da una psicologa dello stesso servizio. Il paziente viene seguito da un altro psichiatra del servizio di salute mentale. Pur all’interno di una buona collaborazione tra i due servizi e una presa in carico complessiva, si potrebbe dire che c’è stata una collusione tra il bisogno della famiglia di non affrontare il tema del segreto con il paziente e la scelta terapeutica di frammentare l’intervento sulle singole individualità. Tre anni dopo il paziente si E ripresentato al Sert per un problema di eroina. Non frequenta più il servizio di salute mentale, ma va a giocare al calcio con il gruppo dei pazienti psichiatrici. Vive ancora con i genitori che hanno acquistato un’ edicola dove lavorano tutti e tre e assume il metadone al SerT. Tra loro non E cambiato molto nella relazione, la madre ora svolge attività di volontariato. Conclusioni: La psicoterapia deve potersi integrare con gli altri trattamenti ai quali eventualmente dare una contestualizzazione e un significato dentro il progetto terapeutico complessivo . Si deve invece ragionare su quale sia il livello logico
co a cui appartengono tutti gli strumenti di intervento all’ interno del contesto terapeutico. Personalmente penso che il livello psicoterapeutico relazionale del progetto sia di un ordine gerarchicamente superiore agli altri strumenti di intervento (farmaci, ospedalizzazioni, interventi sociali, ecc.) in quanto dovrebbe definire la cornice all’interno della quale si sviluppa il processo terapeutico. Di conseguenza, l’utilizzazione dell’approccio familiare sistemico non in quanto tecnica terapeutica, ma come metamodello rappresenta una funzione di coordinamento del lavoro dell’ équipe nel suo complesso ancor più importante quando le équipes in gioco sono più di una rappresentando i due Servizi: Salute Mentale e Tossicodipendenze.
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Il gioco d’azzardo tra conseguenze individuali, familiari, sociali, illusioni, classificazioni e interventi terapeutici: L’esperienza di Campoformido Il gioco d’azzardo non è una pratica moderna e ricerche archeologiche ed antropologiche ne hanno testimoniato la presenza in ogni epoca, cultura e strato sociale. Le indagini più recenti, condotte nel nostro paese, evidenziano come oltre 1’80% degli italiani si dedichi, in modo più o meno costante, alle diverse forme di scommesse in circolazione e che le quote di denaro puntate sono sempre in costante aumento. Si ipotizza che nei prossimi anni, tra gioco legale ed illegale, si spenderanno complessivamente, in Italia, quasi 30.000 milioni di Euro. Se facciamo un confronto con la popolazione complessiva, il popolo italiano è il primo al mondo per versamento di denaro nell’azzardo. Il fenomeno è esploso durante la metà degli anni Novanta, all’epoca della recessione economica, mentre vigevano politiche tese ad una drastica riduzione del deficit pubblico. Quindi, negli anni dell’incertezza si è consumato il boom dell’azzardo, sia legalizzato che proibito. Gioca, quindi, la stragrande maggioranza della popolazione, ma è importante sottolineare come i dati disponibili individuano attorno al 3% l’incidenza del GAP (gioco d’azzardo patologico) tra la popolazione generale. Dalle illusioni alla terapia Ad una prima e semplicistica lettura, il rischio di diventare giocatori patologici appare “solamente” del 3%. In realtà, se frequentassimo e osservassimo attentamente le sale gioco noteremmo come i giocatori già fortemente a rischio di
giocatori già fortemente a rischio di dipendenza, superino spesso il 50% delle presenze per arrivare fino a punte del 70%. Sappiamo bene, oltretutto, che il problema non può essere ricondotto al singolo giocatore, ma va esteso, quantomeno, al nucleo familiare d’appartenenza, fatto che determina una lievitazione delle persone coinvolte, tale da costituire una vera e propria emergenza sociale. Il fenomeno, considerate le offerte di gioco sempre più aggressive ed elevate (non da ultimo l’apertura di centinaia di Sale Bingo su tutto il territorio nazionale), diventa ogni giorno più preoccupante poiché ormai, nel nostro Paese, non c’è più strato sociale che possa considerarsi indenne dal rischio di compulsione all’azzardo. Va operata, comunque, una prima, chiara e semplice considerazione: è impossibile sapere in anticipo chi tra i giocatori occasionali e abituali diventerà col tempo “patologico”; questo si saprà sempre e solo dopo, quando cioè il giocatore sarà già completamente immerso nella dipendenza. Conseguentemente, l’unico modo per non diventare giocatori patologici dovrebbe essere quello di astenersi dal giocare poiché, continuando a farlo, ci si espone a dei rischi che, in alcuni casi, possono portare anche a punti di “non ritorno”. Paradossalmente, per “vincere al gioco”, basta non giocare, poiché nessun giocatore abituale ha mai vinto, nel corso della sua esistenza, più denaro di quanto ne abbia perso. Tutto ciò va al di là di giudizi morali, demonizzazioni e forme di proibizionismo che, comunque, non intaccano le motivazioni profonde del gioco patologico. Non tenere conto degli effetti devastanti che, in una società come la nostra, provoca la continua immissione di giochi d’azzardo, equivale a pensare ad un bombardamento a ta
tappeto su una città che colpisce solo alcune parti della stessa lasciandone indenni altre; è evidente che, se i bombardamenti proseguissero, anche le zone ancora integre verrebbero prima o poi probabilmente colpite e, anche nel caso in cui non si bombardasse più, a pagare i danni riportati sarebbero comunque, direttamente o indirettamente, tutti i cittadini. E proprio l’entità sociale del danno che giustifica l’importanza primaria di ampliare e consolidare gli interventi in materia di prevenzione. Misure indispensabili, ma a tutt’oggi del tutto insufficienti in Italia, quali il ridurre drasticamente l’offerta di azzardo, eliminarne la pubblicità, informare il pubblico sui pericoli della dipendenza, attivare servizi che aiutino a smettere di giocare, potrebbero essere alcuni tra i provvedimenti maggiormente auspicabili. Come è accaduto per il fumo, così anche per il gioco d’azzardo probabilmente solo tra qualche anno si comincerà a parlare di prevenzione e di rischi; ma dato l’enorme ritardo con cui sarà affrontato il problema, a quel punto non si potrà più prescindere dai danni prodotti. Tutte queste considerazioni, dettate dall’esperienza e dai risultati di approfondite ricerche, non sono recepite dalle Istituzioni che si rifugiano, come i giocatori e le famiglie, in pericolose illusioni. Illusioni che potremmo così suddividere: - l’illusione del giocatore, che è convinto - anche quando tutto sta precipitando - di controllare il gioco (dice di poterne uscire quando vuole, ma continua a scommettere). Questo può avvenire sia quando il giocatore nega di essere un dipendente (basta frequentare una sala corse o un casinò per “paradossalmente” non
una sala corse o un casinò per “paradossalmente” non trovare alcun giocatore problematico che ammetta di essere tale), sia quando il soggetto, pur in astinenza, rimane comunque mentalmente legato al sintomo non elaborando (con tutta la sua famiglia) la sofferenza che ne soggiace. - l’illusione della famiglia che pensa di poter controllare il giocatore (“ha promesso tante volte che non giocherà più”) e quindi non chiede aiuto convinta di poter gestire il problema. Da noi, infatti, le famiglie chiedono aiuto solo quando le condizioni economiche e psicologiche sono ormai gravissime. Prima di allora, la cosiddetta “cecità familiare” e l’equilibrio patologico che si è venuto a creare, impediscono di riconoscere i segnali, seppur inconfondibili, della dipendenza. - l’illusione dell’istituzione-Stato che immette, pubblicizza sempre nuovi giochi d’azzardo convinto di poterne trarre benefici economici e, allo stesso tempo, controllare i danni mediante campagne generiche di prevenzione, favorendo - a parole - servizi di auto aiuto o terapeutici che non potranno mai, neppure lontanamente, scalfire l’origine del problema. - l’illusione dell’Auto-aiuto, della terapia e del farmaco: gli interventi di auto-aiuto, di terapia e l’immissione sul mercato di farmaci “magici” sono funzionali al sistema (mantengono lo stato di fatto!) in quanto, attraverso il “recupero” dei giocatori, vanno ad intervenire solo su una porzione molto ridotta di famiglie (solo quelle che scelgono di entrare in trattamento) con problemi d’azzardo (1 a 5000 circa). Il fenomeno, nella sua complessità, va inquadrato anche dal punto di vista dei danni che provoca. A livello individuale notiamo che il gi
giocatore d’azzardo patologico dedica la maggior parte del suo tempo al gioco. Egli gioca quantità crescenti di denaro ed è quindi fortemente indebitato; spesso perde il lavoro, arriva a compiere frodi e falsificazioni e, frequentemente, tenta il suicidio. Il continuare a giocare (prima di “toccare il fondo”) lo aiuta a ridurre la tensione nervosa (l’ansia) e il piacere del gioco lo porta anche a rilassarsi. A livello familiare, egli riesce a nascondere per lungo tempo i suoi problemi in relazione al gioco. Tuttavia, le sempre più frequenti “assenze”da casa, lo allontanano dalle responsabilità del suo ruolo che devono venire a questo punto compensate (per quanto possibile) dagli altri familiari (ad esempio, se il padre perde il suo ruolo, la madre si accolla anche la funzione paterna; o il figlio, alle volte ancora adolescente, si sostituisce al padre); il tutto, correlato alla disastrosa situazione finanziaria, porta al crollo della qualità di vita dell’intero nucleo familiare. Non è infrequente l’avvio prematuro al lavoro dei figli (a fronte d’ ottimi percorsi scolastici) con conseguenti assunzioni d’eccessive responsabilità non in linea con le loro aspettative di vita. A livello sociale, notiamo una ridotta o azzerata (relativamente alla distanza in cui il giocatore si trova dal fondo, verso il quale sta precipitando) attività produttiva, danni dovuti a terzi, a causa di indebitamenti (anche con strozzini) e fallimenti finanziari cui corrisponde, come unico e consistente vantaggio, un notevole introito economico per i gestori delle case da gioco e per lo Stato. La persona che ha un grave problema con il gioco d’azzardo è l’ultima ad ammettere la propria patologia; perciò, difficilmente ricorrerà per prima ad un’adeguata terapia o chiederà aiuto, perseverando
rando nell’ostinata convinzione di riuscire a tenere ancora sotto controllo la situazione. Se, invece, la richiesta parte proprio da chi si trova ad avere il problema (la nostra esperienza indica che un giocatore su venti chiede aiuto in prima persona) significa che il giocatore pensa di aver toccato il fondo. Non è detto, tuttavia, che quando i giocatori dicono di aver toccato il fondo, lo abbiano toccato per davvero. Il giocatore non tocca il fondo ma l’involucro che custodisce il fondo. Ciò che appare drammatico agli occhi della famiglia e della comunità non lo è per il giocatore che, seduto sull’involucro, mette in agitazione tutti quanti (“sono rovinato”... “mi sparo”.. .etc.). Quasi sempre, il giorno dopo (quante volte ho ricevuto telefonate disperate alla sera e il giorno dopo le stesse persone mi hanno detto: “nessun problema, abbiamo messo a posto tutto quanto”), il giocatore ricomincia come prima un teatro in cui si bara spesso a livello conscio ma anche inconscio. Il gioco d’azzardo patologico è, in realtà, solo la punta di un iceberg, indice e copertura di un malessere sociale, familiare e individuale profondamente radicato. Quindi, presupposto chiave nel processo di recupero non sarà partire dall’involucro del fondo e risalire, ma sprofondare a partire da quell’ involucro. La terapia, proprio perché terapia, ha questo compito. In caso contrario si rischierebbe di costruire un gigante con i piedi di argilla. Spesso, giocatore e familiari abbandonano la terapia dopo le prime sedute. Questo perché si cullano nell’illusione di aver raggiunto, con la momentanea astinenza, la soluzione del problema. In realtà, dietro a questo tempestivo allontanamento dal gruppo, sì nasconde
de un piano, più o meno inconscio, di difesa. E infatti meno doloroso continuare a convivere con le “viscere” del problema piuttosto che mettere seriamente in discussione gli equilibri relazionali disfunzionali su cui poggia l’intero sistema familiare. Il tranello nei confronti della famiglia funziona. Famiglia che è legata al giocatore e, in qualche modo, si regge ormai su equilibri assolutamente instabili ma che comunque le consentono di esistere. Questa illusione consente al giocatore di immettersi in un processo di cambiamento convinto di poter risalire da una situazione limite. Ciò gli consente di credere di potercela fare da solo e di evitare, facendo tutto da solo, il confronto con la famiglia, con le sofferenze e con le relazioni familiari. E compito della terapia “ritornare” a perforare l’involucro perché è lì sotto che si concentra il nucleo di sofferenza, nucleo che deve essere scandagliato e che nulla ha a che fare con il sintomo azzardo (che è solo una conseguenza come il tracollo economico). Toccato il fondo, c’è l’illusione della risalita e la terapia e l’auto aiuto diventano per il giocatore un altro gioco d’azzardo. La risalita dall’involucro alla vita di tutti i giorni diventa il vero gioco d’azzardo che spesso si conclude subito (dopo la telefonata, dopo una seduta, dopo poche sedute) o in seguito (dopo mesi di terapia) con un ritorno al sintomo azzardo. Se non c’è un percorso di cambiamento che vada oltre l’azzardo, per il giocatore e la sua famiglia, quasi sempre il giocatore non riesce a perforare l’involucro che copriva il fondo (effetto elastico.. .va e vieni!). L’onnipotenza di uscire da solo (i giocatori possono essere aiutati da soli giocatori) porta
porta spesso all’isolamento familiare. Centrare l’intervento terapeutico sulla famiglia, escludendo almeno per alcuni mesi il giocatore, può essere in alcuni casi l’unico modo per riavvicinare i membri non giocatori a una visione della realtà fino ad ora inconsciamente negata e quindi renderli più facilmente collaborativi. Paradossalmente, l’intervento riesce molto meglio se il giocatore arriva ai gruppi il più tardi possibile, dando così la possibilità alla famiglia di ricostruire un contesto di intervento e di cambiare il gioco familiare. Se infatti il giocatore arriva dopo alcune sedute la famiglia è già in fase di cambiamento. E quindi è meno disponibile ai disegni inconsci (e consci) di fuga dalla terapia che il giocatore propone. Infatti il giocatore durante le prime sedute tende ad illudersi di aver risolto qualsiasi problema col gioco, col risultato di risucchiare la famiglia in questa illusione. La conseguenza diventa l’abbandono della terapia sia del giocatore che della famiglia. L’ipotesi sarebbe, quindi, che se è il giocatore stesso a chiedere aiuto in prima persona si tratti di un tentativo abilissimo - a livello inconscio - di depistaggio; un gestire in prima persona la drammaticità del momento col fine di riportare la famiglia e se stesso fuori dalla terapia. Il giocatore avrà, in tal modo, di nuovo pericolosamente azzardato con la propria vita e con quella di chi gli sta accanto. Quando un familiare del giocatore fa la prima telefonata di aiuto si sente nelle sue parole il senso di inadeguatezza, di colpa, di vergogna per non essere in grado di capire e risolvere la situazione. “Il problema non è mio” è la prima cosa che dicono, come a rimarcare l’impossibilità di intervenire da parte loro. E invece sono proprio loro
loro ad avere bisogno del primo intervento. Sono i familiari, ridotti a uno stato “confusionale”, che devono entrare in terapia e, accompagnati passo a passo, prendere possesso del timone. Tuttavia, nel proseguimento della terapia, diventa di fondamentale importanza anche la presenza del membro giocatore. La nostra esperienza ci insegna che il giocatore d’azzardo che frequenta da solo la terapia non regge la stessa per un lungo periodo. Gli unici casi che hanno avuto un esito favorevole hanno riguardato giocatori d’azzardo figli essi stessi di giocatori quasi che, paradossalmente, l”azzardo” di un genitore li abbia in qualche modo agevolati e accompagnati nella terapia. Chi arriva in terapia senza aver subito tracolli economici (non si è ancora rovinato economicamente!) affronta fin da subito le questioni riguardanti la propria dinamica familiare. Questo, spesso, provoca tensioni emotive fortissime sia al giocatore che ai suoi familiari e, sopratutto alle prime sedute, permette un’apertura al gruppo per una spontanea condivisione di esperienze e sensazioni. In questi casi, la frequente “fuga” dal gruppo, è sostenuta dal fatto di poter ancora pensare: “siamo ancora in grado di contenere la situazione dal punto di vista economico... chi ce lo fa fare di scoperchiare i problemi che l’azzardo nasconde”. La famiglia che arriva in terapia a tracollo economico avvenuto è invece, paradossalmente, più motivata ad intraprendere un cammino terapeutico che preveda anche regole molto rigide. Dovendo essa, in una prima fase, preoccuparsi essenzialmente di quelli che sono i propri bisogni primari (procurarsi il pane!) può procrastinare quella c
che è l’analisi delle relazioni familiari. Quando quest’ultima può finalmente passare in primo piano, la famiglia si è già da tempo integrata al gruppo per cui il confronto e l’apertura agli altri avviene con minor timore e soggezione. Perché chi entra in terapia deve astenersi dal continuare a giocare d’azzardo? Alcuni giocatori sostengono di poter controllare il gioco pur frequentando la terapia; secondo loro, lo conterrebbero limitandolo, cioè riducendolo sensibilmente rispetto a prima della terapia. Nel corso della terapia possono avvenire delle ricadute. Solitamente, quando queste avvengono e il giocatore e la famiglia seguono già da qualche mese o anno il programma terapeutico, il prezzo da pagare diventa una sommatoria di sensi di colpa. Questi ultimi portano il giocatore a capire che “le colonne d’Ercole sono state superate” e non è più possibile tornare indietro. Lo sporadico ritorno all’azzardo, dopo un lungo periodo terapeutico, non ha nulla a che vedere con quello precedente alla terapia; anzi, diventa spesso un percorso quasi obbligatorio al fine di sradicare il vissuto d’onnipotenza al gioco (tipico del giocatore estremo) e riacquistare l’umiltà di riconoscere le proprie debolezze. I giochi rimangono gli stessi (roulette, videopocker, lotto ecc) ma le sensazioni sono assolutamente diverse: anzi il ritorno al gioco d’azzardo in corso di terapia paradossalmente mette fine definitivamente all’ azzardo proprio perché la persona si rende conto che il viaggio terapeutico non prevede il ritorno ai modelli precedenti. Per questo è necessario che il giocatore entrato in terapia smetta completamente e definitivamente all’ azzardo proprio perché la persona si rende conto che il viaggio terapeutico non prevede il ritorno
torno ai modelli precedenti. Per questo è necessario che il giocatore entrato in terapia smetta completamente e definitivamente di giocare. Per essere pronto, se ci sarà la ricaduta, a “sentire” il “non ritorno”. Il continuare a giocare (anche in modo che può apparire banale, tipo la schedina settimanale) tiene il giocatore incollato al modello patologico (impulso e dipendenza) e quando ci sarà la ricaduta in corso di terapia “il ritorno al passato” sarà cosa fatta. N GAP: approcci al fenomeno e descrizione di alcuni tratti di personalità dei giocatori. Nel 1980 il gioco d’azzardo patologico fu incluso nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM III. Questa patologia fu classificata nella sezione dedicata ai disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove. I criteri originari del gioco d’azzardo patologico furono poi rivisti e modificati nell’ultima versione del DSM IV (5), dove oggi questa patologia è definita in base a dieci criteri che descrivono sia le caratteristiche del giocatore sia le conseguenze sociali risultanti dal suo comportamento. In sintesi, il DSM IV descrive il gioco d’azzardo come un comportamento persistente, ricorrente e maladattivo che compromette le attività personali, familiari e lavorative. Diverse sono state, e sono tutt’ oggi, le interpretazioni teoriche del fenomeno. Simmel, Freud e Bergler ritengono che si tratti di una pratica autopunitiva masochista, capace di espiare il senso di colpa inconscio generato dall’altrettanto inconscio desiderio di uccidere il padre, uomo sadico e autoritario, e occupare il suo posto nella relazione con la madre. I cognitivisti hanno evidenziato come le false credenze e percezioni errate svolgano un ruolo chiave
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nello sviluppo e mantenimento dei problemi legati al gioco. In particolare, gli errori cognitivi più ricorrenti nei giocatori incalliti riguardano: l’illusione di controllo (mancata percezione della casualità dei risultati al gioco), l’intrappolamento (chasing; falsa credenza che la perseveranza al gioco verrà, prima o poi, premiata con una vincita), la fallacia di Montecarlo (sovrastima della probabilità di vincere in seguito ad una serie di scommesse perse e sottostima della probabilità di vincere in seguito ad una serie di scommesse vinte), la “quasi vincita” (perdita al gioco considerata dal giocatore come molto vicina alla vittoria; a livello comportamentale, ha lo stesso effetto condizionante di una vincita), nonché numerose teorie pseudomatematiche. L’approccio comportamentale considera invece il Gap come un comportamento disfunzionale appreso e mantenuto da una serie di rinforzi positivi e/o negativi. Partendo da tali presupposti, gli interventi a livello comportamentale verteranno necessariamente alla modificazione ditali comportamenti nella direzione di un loro maggior adattamento. L’approccio biologico, una volta accertata una componente biochimica alla base del Gap (disregolazione a carico dei sistemi neurotrasmettitoriali dopaminergico-serotoninergiconoradrenergico, diminuita attività MAO a livello piastrinico e ipofrontalità) e verificate le affinità biologiche con altre patologie (Disturbi dell’Umore, Disturbi Ossessivo Compulsivi, Dipendenze Patologiche..) si è avvalso di tutto ciò al fine di predisporre un intervento farmacologico adeguato. In particolare, è stata dimostrata anche nel caso del Gap, l’efficacia antiossessiva e anti-compulsiva di alcuni antidepressivi serotoninergici C
Clomipramina e SSRI). L’approccio sistemico-relazionale sposta l’attenzione dal singolo soggetto portatore di sintomi all’intera situazione problematica in cui egli si trova immerso. L’intervento terapeutico si muoverà pertanto, con l’intento di fissare nuove regole, nuovi ruoli, nuove modalità comunicative, a partire dalla rottura di quell’equilibrio relazionale disfunzionale in cui il giocatore si trova intrappolato. A tal fine, si rende indispensabile l’attivazione di una rete di supporto del paziente che agisca a più livelli, con l’obiettivo di sviluppare una norma condivisa lungo il percorso riabilitativo. Oggi come oggi, l’approccio multimodale, abbracciando una prospettiva eziologica plurifattoriale, è quello più spesso messo in atto dai Centri specializzati per la cura del Gap. Il programma terapeutico si inserisce organicamente in un iter riabilitativo multidimensionale secondo una logica olistica e sinergica. La psicologia dei tratti di personalità, l’approccio maggiormente diffuso nella letteratura a carattere sperimentale, individua in alcune differenze personologiche i fattori di rischio del gioco d’azzardo patologico. I tratti di personalità e i disturbi spesso implicati sembrano essere la depressione (McCormick et al., 1984; Linden et al., 1986; Steel e Blaszczynski, 1998; Roy et al., 1988), l’ansia (Steel e Blaszczynski, 1998), l’impulsività (Castellani e Rugle, 1995; Steel e Blaszczynski, 1998) e la ricerca di sensazioni (Lejoyeux, 1998). I sei gruppi di terapia di Campoformido Quando nel 1995 mi sono avvicinato per la prima volta ai giocatori d’azzardo e ai loro familiari, mi sono trovato di fronte ad un contesto particolarmente complesso, verso
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verso il quale gli interventi erano quasi inesistenti. Tenendo conto di tutti gli approcci teorici descritti precedentemente, ho cercato di mettere a punto una strategia terapeutica che consentisse ai giocatori d’azzardo di raggiungere e mantenere l’astinenza dal gioco nell’immediato e produrre cambiamenti relazionali profondi a distanza di anni non solo nel giocatore, ma anche all’interno di tutta la famiglia. Grazie al Patrocinio della Cittadina di Campoformido (Ud), che ha messo a disposizione una sala per gli incontri, gradualmente ho dato il via a sei gruppi di terapia costituiti da giocatori d’azzardo e loro familiari (oltre un centinaio di persone). Nel frattempo ho formato un g
gruppo di studio, di ricerca e d’intervento sul gioco d’azzardo patologico composto da quattro psicoterapeuti il sottoscritto, le dott.sse Marina Ponton, Cristina Baldin ed Ebe De Monte) e una sociologa (la dott.ssa Marilena Zoccolan). Parallelamente all’attivazione dei gruppi di terapia si è pure costituita l’Associazione degli ex giocatori d’azzardo e delle loro famiglie (A.GIT.A.) con sede a Campoformido (Ud). L’Associazione ha la sua sede presso il Municipio di Campoformido (Ud), poiché l’Amministrazione Comunale ha ritenuto che gli scopi statutari siano d’alto contenuto sociale. Diverse sono state e sono le iniziative che il gruppo di studio e di ricerca ed A.GIT.A., parallelamente all’ attivazione dei gruppi terapeutici, hanno progressivamente portato avanti negli anni: - incontri informativi e culturali sul gioco d’azzardo aperti alla popolazione; partecipazione da parte dell’équipe a seminari e convegni con finalità scientifiche e di ricerca; - incontri con i mass-media regionali e nazionali volti ad una sensibilizzazione ed un’ informazione sul problema; - ricerca epistemologica e clinica attuata con 1’ apporto di contributi forniti da varie discipline quali: la psicologia, la psicopatologia, la psichiatria, la psicoterapia, la sociologia e la letteratura; - analisi ed approfondimenti continui sul lavoro terapeutico con le persone coinvolte nel problema; - organizzazione del primo convegno nazionale su “I videopoker e il gioco d’azzardo” (Campoformido, 6 maggio 2000); - “lauree d’azzardo” - due edizioni con presentazione di complessi- ve sette tesi di laurea sul gioco d’azzardo (Campoformido, 30 settembre
settembre 2000 e 21 settembre 2002); - organizzazione del primo, del secondo e del terzo convegno nazionale su “Auto-aiuto e terapia per i giocatori d’azzardo e le loro famiglie: esperienze e prospettive in Italia” (Campoformido, 16 dicembre 2000; 15 dicembre 2001; 14 dicembre 2002); (19); - organizzazione del convegno “Il Bingo: un gioco d’azzardo per le famiglie italiane” (Campoformido, 15 giugno 2001); - apertura e aggiornamento continuo di un sito internet (www.sosazzardo.it) che, oltre a fornire un’ ampia informazione sul problema, consente di chiedere informazioni ed ottenere risposte in tempo reale. L’équipe di ricerca e di intervento psicoterapeutico sui giocatori d’azzardo patologici e i loro familiari di Campoformido è riuscita, con il tempo, a strutturare un programma terapeutico che tiene conto delle specificità concernenti il gioco d’azzardo. Attualmente, viene utilizzato un programma terapeutico che, monitorando e valutando le eventuali modifiche per migliorare il modello, consente un intervento strutturato nel tempo e con modalità ormai consolidate. Organizzazione e caratteristiche dei gruppi di terapia di Campoformido Dopo la prima richiesta d’aiuto, che può giungere dal giocatore d’azzardo stesso, ma più frequentemente proviene da un suo familiare, sono previsti alcuni colloqui allo scopo di creare i presupposti per l’ingresso nel gruppo terapeutico. Nelle sedute con il giocatore e la sua famiglia, oltre a valutare la situazione psicologica dei singoli, sono definite le complesse relazioni che si sono delineate all’interno della famiglia. Questi colloqui moti
tivazionali non sono rivolti solo al giocatore, ma anche ai suoi familiari. Dopo questa prima fase, la famiglia e il giocatore sono inseriti in un gruppo. I gruppi terapeutici sono stati organizzati in base ad alcuni criteri fondamentali: la composizione, lo spazio, il tempo e le regole. Composizione - giocatori d’azzardo patologici e loro familiari; - numero dei giocatori partecipanti al singolo gruppo non superiore a dieci unità; - eterogeneità del gruppo rispetto al livello socio-culturale, al sesso e all’età. Spazio - le sedute avvengono sempre nello stesso luogo. Tempo - le sedute si effettuano una volta la settimana, alla stessa ora ed hanno una durata di due ore; - la durata della terapia è di alcuni anni e questo viene comunicato fin dal primo colloquio per evitare che nascano aspettative di cambiamenti immediati. Alcune regole • la partecipazione al gruppo terapeutico del giocatore e dei familiari dovrà essere costante; • le eventuali assenze saranno comunicate prima dell’inizio degli incontri; • il giocatore s’impegna a non giocare d’azzardo; • il giocatore e i suoi familiari devono mantenere il segreto rispetto al contenuto delle sedute; • il giocatore e i familiari stabiliranno l’ammontare dei debiti e ne preventiveranno il risarcimento nei modi e tempi ritenuti possibili; • il giocatore accetterà il controllo finanziario da parte dei familiari; • eventuali momenti di difficoltà dovuti all’astinenza da gioco potra
potranno essere affrontati prendendo contatto con altri membri del gruppo. Il coinvolgimento di tutta la famiglia nella terapia di gruppo fa sì che i familiari si rendano conto che ad avere bisogno di aiuto non è esclusivamente il giocatore, ma tutti i componenti del nucleo familiare. Caratteristiche dei partecipanti alla terapia di gruppo di Campoformido Ritengo utile fornire alcuni dati emersi in questi anni d’attività clinica rispetto allo stato civile, al titolo di studio, provenienza, alle abitudini di gioco, all’età, al sesso, alla professione, uso d’alcol, tabacco e sostanze psicotrope, alla frequenza, alle percentuali d’abbandono e ai risultati. - Stato civile: il 65% dei giocatori è sposato mentre il 35% non lo è. - Titolo di Studio: il 3% è in possesso della licenza elementare, il 48% della licenza media, il 45% di diploma di scuola superiore e il 4% di laurea. - Provenienza: il 76% dei giocatori proviene dalla Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, il restante 24% da oltre Regione. - Abitudini relative al gioco: il 51% giocava al casinò, il 21% alle corse ai cavalli, il 15% al lotto, il 13% ai videopocker; facciamo riferimento alla classificazione dei giochi che fece R. Caillois (23) in quattro campi semantici (fortuna, competizione, simulacro e vertigine); si tratta, a ben vedere, di giochi di “Alea” (“Il caso non ha né cuore né anima”). - Età dei partecipanti: il 7% ha meno di trenta anni, il 14% dai trenta ai quaranta anni, il 51% dai quaranta ai cinquanta anni, il 22% dai cinquanta ai sessanta anni, mentre il 6% ha più di sessanta anni; emerge quindi un’età media piuttosto elevata e questo fa ritenere che i giocatori e le famiglie arrivino al nostro Centro con esperienze di gioco
catori e le famiglie arrivino al nostro Centro con esperienze di gioco d’azzardo protratte negli anni. - Sesso: l’85% dei giocatori in terapia sono maschi e il 15% femmine; considerato che la percentuale di donne giocatrici secondo le statistiche è del 25%, è interessante osservare come, rispetto a tre anni fa, la percentuale di soggetti di sesso femminile che richiedono un intervento terapeutico per gioco d’azzardo patologico è aumentata e, in futuro, sembra destinata ad avvicinarsi alla percentuale (25%) della popolazione generale. - Professione: il 73% è lavoratore autonomo, il 27% lavoratore dipendente. All’interno dei nostri gruppi non ci sono disoccupati. - Frequenza: il 71% dei giocatori partecipa ai gruppi di terapia accompagnato dai familiari, il 5% partecipa senza presenza dei familiari, mentre il 24% è rappresentato da familiari che partecipano al gruppo senza il giocatore d’azzardo. Rispetto a tre anni fa notiamo un aumento sensibile (+ 19%) di questa ultima categoria. Ciò significa che le famiglie sentono ugualmente la necessità di partecipare ai gruppi, in qualche modo anticipando il lavoro sulle relazioni all’interno del contesto familiare. Uso d’alcol, tabacco e sostanze psicotrope: il dato che maggiormente s’impone è che il 90% dei giocatori d’azzardo è dipendente da tabacco; fanno uso d’alcol (almeno tre volte la settimana) il 15% dei partecipanti, mentre l’uso di una o più sostanze psicotrope riguarda il 3% dei frequentanti i gruppi di terapia. - Percentuale d’abbandono: il 30% dei giocatori abbandonano la terapia e questo di solito avviene in prima o in seconda seduta. I giocatori d’azzardo che abbandonano i gruppi di terapia riprendono tutti a giocare
giocare d’azzardo. - Risultati terapeutici: la stragrande maggioranza dei giocatori che frequentano il gruppo non giocano più d’azzardo, mentre altri, pur continuando a frequentare la terapia, continuano a giocare, anche se in misura inferiore rispetto all’inizio del trattamento. E evidente che i dati riportati, pur rappresentando una tendenza, non possono essere considerati definitivi; ciò che, invece, ci sentiamo di poter sostenere è che la terapia di gruppo per i giocatori d’azzardo e per le loro famiglie rappresenta uno degli strumenti più adeguati per affrontare la dipendenza da gioco d’azzardo. I cambiamenti dei giocatori e dei familiari e gli scopi principali della terapia Il giocatore scopre, partecipando al gruppo, di non essere il solo ad avere problemi, poiché riconosce sofferenze e difficoltà comuni agli altri componenti del gruppo. All’interno del gruppo la sofferenza del giocatore si ridimensiona divenendo sofferenza condivisa da tutti e quindi è vissuta dal giocatore con minori sensi di colpa. Inoltre, il confronto con altri giocatori fa scattare nell’individuo un comportamento “imitativo”: gli ex-giocatori d’azzardo, quelli che non giocano più, possono “generare” altri non giocatori d’azzardo. Nello specifico, il gruppo terapeutico ha la finalità fondamentale di indurre un cambiamento nell’atteggiamento assunto dal giocatore e dalla sua famiglia nei confronti del problema del gioco d’azzardo, superando il bipolarismo giocare-non giocare. All’interno di un gruppo di giocatori d’azzardo e familiari il gioco è al centro delle prime sedute e, attorno a “questo tema designato”,
to”, ruotano tempo, spazio, ruoli ed elaborazioni. Tenendo conto dei livelli di cambiamento proposti da Bateson, bisogna uscire dalla riduttiva logica di agire solo sul sintomo senza portare l’individuo e la famiglia a cambiamenti; di conseguenza, è necessario intervenire sugli individui e sulle loro relazioni agendo sui significati e sulle dinamiche della sofferenza nel tentativo di indurre cambiamenti significativi all’interno del contesto familiare. In sintesi gli scopi principali della terapia di gruppo sono, oltre che quello di accrescere il supporto al fine di favorire il processo di recupero (attraverso il miglioramento delle relazioni interpersonali), anche quello di attenuare i timori e le paure e favorire la libertà d’espressione. Tutto ciò può avvenire solo attraverso una riduzione degli atteggiamenti difensivi, sia da parte del giocatore che di chi gli sta intorno. Infatti, affievolendo le difese, gli individui imparano ad ascoltarsi, creando così nuove idee. Il risultato è un cambiamento non più visto come qua!cosa di temibile, ma d’auspicabile. Raggiungere questi stadi non è poi così semplice. Emergono, spesso, resistenze ad esprimere ciò che si è, ciò che si è stati e ciò che si pensa degli altri membri del gruppo. Tutto ciò è principalmente dovuto alla difficoltà ad accettare se stessi e al credere che basti poco tempo per raggiungere gli obiettivi. Il cambiamento non riguarda solo l’ex-giocatore, ma anche i suoi familiari. All’interno della famiglia, la terapia
famiglia, la terapia di gruppo induce ad una ridefinizione dei ruoli e una ridistribuzione dei compiti, senza che si sviluppino comportamenti polarmente opposti e distruttivi. Da quanto sopra esposto, emerge l’importanza che la conduzione del gruppo venga affidata ad uno psicoterapeuta capace di creare un clima psicologico di sicurezza in cui gradatamente si liberino intense emozioni, ottenendo così nei partecipanti un senso di sollievo e di risoluzione dei conflitti. Il termine della terapia di gruppo e la riconsegna, quindi, alla vita di tutti i giorni delle famiglie, dopo anni di psicoterapia, tiene conto di questi importanti cambiamenti nello stile di vita delle persone. R. De Luca
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