Guida all'interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti ad arco e a corda

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Crediti Per le illustrazioni e gli esempi musicali riprodotti in questo libro si ringraziano: Illustrazioni Fig. I.3.1 p. 63

Image courtesy of ©The State Hermitage Museum, St. Petersburg – Photograph © The State Hermitage Museum. Photo by Yuri Molodkovets

Fig. III.1.1 p. 179

© Kunstmuseum Basel, Depositum der Freunde des Kunstmuseums Basel und des Museums für Gegenwartskunst 1940 Foto: Kunstmuseum Basel, Martin P. Bühler

Esempi musicali Es. I.2.1 p. 32 Es. I.2.2 p. 34 Es. I.2.17a p. 51 Es. I.2.18 p. 53 Es. I.2.21 p. 55 Es. I.4.1 p. 79 e Es. I.4.3 p. 81 Es. II.1.1 p. 102-103 Tabella II.2.1 p. 114 Es. II.2.6 p. 121 Es. II.2.16 p. 132 Es. II.2.17a p. 134 Es. II.2.17b p. 134 Es. II.4.1 p. 158 Es. II.4.2 p. 162 Es. II.4.3 p. 163 Es. II.4.4 p. 163 Es. III.2.2 p. 190 Es. III.4.1 p. 221 Es. III.4.2 p. 222

© Oxford University Press 1968. Extract reproduced by permission. All rights reserved. Courtesy of The Music Sales Group Ltd Reproduction by permission of the Syndics of The Fitzwilliam Museum, Cambridge © The British Library Board Image courtesy of Cardiff University Library: Special Collections and Archives Reproduced by permission of Stainer & Bell Ltd, London, England © Oxford University Press 1937. Extract reproduced by permission. All rights reserved. Kolisch, R. Tempo and Character in Beethoven’s Music (Continued) Musical Quarterly (1993) 77 (2): 268-342, table: ‘authentic metronome marks for selected works by Beethoven.’ Reprinted by permission of Oxford University Press © The British Library Board © The British Library Board © Internationale Stiftung Mozarteum (ISM) © The British Library Board © The British Library Board © The British Library Board © ONB/Wien – Image ID © The British Library Board © ONB/Wien – Image ID © 1924 by Carl Fischer, Inc. Copyright Renewed. All rights assigned to Carl Fischer, LLC. Used with permission Courtesy of Bibliothèque nationale de France

L’editore, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini e degli esempi musicali prescelti, è a disposizione degli aventi diritto per eventuali lacune od omissioni.

Edizione italiana a cura di Angelo Gilardino Traduzione: Cristoforo Prodan Revisione: Daniela Magaraggia Redazione: Samuele Pellizzari Progetto grafico: Anna Cristofaro, Cristiano Cameroni

Contenuti digitali disponibili on line: edizionicurci.it/guide_abrsm_archi

Titoli originali dell’opera: A Performer’s Guide to Music of the Baroque Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music A Performer’s Guide to Music of the Classical Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music A Performer’s Guide to Music of the Romantic Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music Per l’edizione in lingua italiana riorganizzata in quattro volumi, su licenza dell’Associated Board of the Royal Schools of Music: Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a tastiera (EC 11873) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti ad arco e a corda (EC 11874) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a fiato (EC 11875) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per canto (EC 11876) Proprietà per tutti i Paesi: Edizioni Curci S.r.l. – Galleria del Corso, 4 – 20122 Milano © 2016 by Edizioni Curci S.r.l. – Milano Tutti i diritti sono riservati / All rights reserved EC 11874 / ISBN: 97 88863951905 www.edizionicurci.it Prima stampa in Italia nel 2016 da INGRAF Industria Grafica S.r.l., Via Monte San Genesio, 7 – Milano

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Avvertenze generali Ove necessario, le altezze delle note vengono indicate utilizzando la notazione scientifica:

do centrale: c'/do4

Notazione di Helmholtz

Notazione scientifica

C''-B" (C2-B2)

do0 - si0

C'-B' (C1-B1)

do1 - si1

C-B (C-B)

do2 - si2

c-b (c-b)

do3 - si3

c' - b' (c1-b1)

do4 - si4

c'' - b'' (c2-b2)

do5 - si5

c''' - b''' (c3-b3)

do6 - si6

c'''' - b'''' (c4-b4)

do7 - si7

c''''' - b''''' (c5-b5)

do8 - si8

Nelle didascalie degli esempi musicali la data si riferisce a quella di composizione, a meno che non sia indicata fra parentesi, nel qual caso si riferisce a quella di pubblicazione o, nel caso di rappresentazioni, alla prima esecuzione. In questo volume viene adottata la notazione scientifica per la numerazione delle ottave sul pianoforte. Il do centrale (corrispondente alla frequenza di 264 Hz) viene pertanto indicato come do4, in quanto quarto do sulla tastiera, partendo da sinistra. Nella tradizione italiana, la stessa nota è indicata più frequentemente come do3 (poiché la prima ottava non ha indice numerico). I QR Code presenti nel volume (come quello a fianco) rimandano agli ascolti selezionati nelle playlist Spotify disponibili in streaming all’indirizzo: edizionicurci.it/ guide_abrsm_archi. Per ulteriori informazioni consulta le Note sugli ascolti a p. 227. I QR Code possono essere utilizzati da qualunque dispositivo mobile dotato di fotocamera e apposito programma (“app”) di lettura, che può essere scelto tra quelli disponibili gratuitamente negli app store dedicati ai principali sistemi operativi (es. iTunes Store, Google Play Store, Windows Phone Store). Come funziona: inquadrando il QR Code dall’interno dell’app, si accede al corrispondente contenuto online. L’uso delle cifre romane nella numerazione di esempi musicali e illustrazioni identifica il periodo a cui si riferiscono e la corrispondente sezione del libro (I – Età barocca; II – Età classica; III – Età romantica).

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Prefazione di Anthony Burton

Cosa intendono l’amico, l’insegnante o il membro di una giuria, quando, dopo che è stato suonato o cantato un pezzo, affermano che il brano “è stato eseguito con lo stile giusto” o, al contrario, che “non è stato molto in stile”? Significa che il pezzo è stato interpretato con, o senza, la consapevolezza di come il compositore si sarebbe aspettato che suonasse quando lo ha scritto. E queste guide sono state scritte proprio per aiutarvi a scoprire cosa si sarebbe aspettato il compositore in epoche diverse e per applicare tali conoscenze al vostro modo di suonare o di cantare. In effetti, fino all’inizio del XX secolo non c’era un’idea precisa di cosa fosse lo “stile dell’epoca”. Quando fu riscoperta, la musica dei secoli XVII o XVIII veniva di solito trattata, da curatori e interpreti, come se appartenesse al presente. Tuttavia, col passare del tempo i musicisti cominciarono a rendersi conto che non potevano tranquillamente assumere in modo semplicistico che tutto – compresi gli strumenti e il modo di suonarli – andasse sempre bene, e che il loro abituale stile esecutivo si adattasse ugualmente ad affrontare qualsiasi composizione musicale. Essi iniziarono così a ricercare nuovi modi di eseguire la musica del passato, che fossero più attenti alle aspettative del compositore: attraverso il recupero di strumenti come il clavicembalo e il liuto e la formazione di orchestre da camera; attraverso l’affermarsi delle edizioni “Urtext”, che proponevano (o pretendevano di proporre) nient’altro che le intenzioni originali del compositore; attraverso lo studio dettagliato della “prassi esecutiva”, cioè del modo in cui la musica veniva interpretata in tempi e luoghi diversi; e, più recentemente, attraverso l’utilizzo di strumenti d’epoca (o, sempre più spesso, di fedeli repliche moderne degli stessi). In tutto questo le registrazioni hanno svolto un ruolo fondamentale, facendo rivivere molte zone trascurate della storia della musica, gettando una nuova luce sulle opere famose del passato e dimostrando quale poteva essere l’intenzione del compositore. Per un po’ questi sviluppi hanno portato a uno scoraggiante trasferimento di competenze di intere aree del repertorio agli specialisti, a non vedere di buon occhio qualsiasi esecuzione di musica barocca al pianoforte e a rimuovere non solo Bach e Händel, ma anche Haydn e Mozart, dai programmi delle orchestre sinfoniche. Ma ciò non era di certo sufficiente ai musicisti o al loro pubblico; e per gli studenti che avessero voluto conoscere un repertorio musicale più vasto, probabilmente senza alcuna possibilità di accesso agli strumenti d’epoca, ciò non aveva proprio senso. In ogni caso, non appena gli esecutori specializzati e gli studiosi estesero le loro ricerche nel territorio più familiare del XIX secolo, scoprirono altre tradizioni

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Anthony Burton

esecutive andate perdute o fraintese. Così diventò sempre più chiaro che tutte le esecuzioni del passato potevano beneficiare delle conoscenze e dell’esperienza maturata dal “movimento della musica antica”. Un settore rimasto indietro riguardo a questo aspetto è quello della didattica. Molto spesso solo gli artisti che hanno effettuato studi musicali fino al liceo musicale o all’università (e certamente non tutti) si sono cimentati con le idee sull’interpretazione filologica. E poche sono state le pubblicazioni contenenti delle informazioni affidabili di carattere generale, non specialistico, sull’interpretazione della musica del passato. È questo il divario che noi cerchiamo di colmare con questa serie di guide all’interpretazione della musica attraverso epoche diverse: l’età barocca, definita approssimativamente come quel periodo che va dal 1600 circa al 1759 (anno della morte di Händel); l’età classica, dal 1759 (prima sinfonia di Haydn) al 1828 (anno della morte di Schubert); l’età romantica, dal 1828 (anno di composizione dell’op. 1 di Berlioz) a circa il 1914. Le guide si rivolgono principalmente agli studenti dell’Associated Board (soprattutto dei livelli più avanzati) e ai loro insegnanti – per non parlare degli esaminatori. Tuttavia esse non sono state pensate come vademecum per specifici piani di studio, attuali o futuri; e noi speriamo che possano essere utili a tutti i musicisti, oltre che agli adulti dilettanti e ai professionisti. I volumi seguono tutti lo stesso schema. Per ognuna delle tre epoche storiche, un capitolo introduttivo che delinea la collocazione storica della musica e un capitolo conclusivo che tratta delle fonti e delle edizioni. Gli autori di questi saggi, tutti scelti fra i massimi esperti del settore, hanno adottato approcci nettamente diversi per raggiungere i loro obiettivi, per cui i volumi costituiscono, nel loro insieme, un’introduzione ai diversi modi di trattare la storia della musica e la musicologia. Ogni volume contiene un importante capitolo generale su come la notazione sarebbe stata interpretata dai musicisti dell’epoca, seguito da una serie di capitoli più specifici dedicati, in ognuna delle quattro guide, rispettivamente agli strumenti a tastiera, agli archi e agli strumenti a corda, agli strumenti a fiato e al canto. Questi capitoli sono stati scritti da musicisti che non hanno soltanto una competenza accademica, ma anche un’esperienza di prassi esecutiva, in molti casi ai più alti livelli. Un elemento importante che emerge da questi capitoli è che i diversi tipi di musicisti hanno sempre imparato gli uni dagli altri. Ci auguriamo che leggiate tutti i capitoli, non solo quelli dedicati alla vostra specialità;1 e anche che ricaviate chiarimenti e stimoli da tutti i brani di cui consigliamo l’ascolto. Un altro elemento importante trasmesso dagli autori in molti punti del testo è che l’obiettivo dell’interprete non è semplicemente dare l’esposizione più accurata possibile delle note stampate sulla pagina. Questa è un’astrazione circolata solo per pochissimi anni alla fine del XX secolo. Normalmente, per secoli, ci si è sempre aspettato che l’interprete fornisse un apporto, attraverso la sua abilità strumentale e il proprio gusto personale, a sostegno della concezione del compositore – in alcuni momenti dando anche un sostanziale contributo. Quindi ci auguriamo che consideriate queste guide non come un insieme di istruzioni su come realizzare un’interpretazione “corretta”, ma come una fonte di tutte quelle informazioni di cui avrete bisogno per realizzare un’interpretazione significativa – una sintesi fra l’ispirazione del compositore nel passato e la vostra immaginazione e fantasia nel presente.

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Si veda la Nota all’edizione italiana. © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


Nota all’edizione italiana

Rispettando il testo dell’introduzione di Anthony Burton – che appare indispensabile per la comprensione della forma originale dell’opera ‒ si rende necessario spiegare preliminarmente che questa edizione è stata strutturata in modo da renderla aderente a quelle che, in base alle esperienze acquisite dall’editore, si presume siano le preferenze dei lettori italiani: si è ritenuto cioè che nelle nostre scuole di musica, a ogni livello, prevalga in ogni categoria di interpreti l’interesse specifico per la trattazione riguardante il proprio ambito strumentale. Mantenendo quindi intatto e inalterato il contenuto del testo originale, si è proceduto a una ripartizione del medesimo non più per età (barocca, classica, romantica), ma per destinazione: strumenti a tastiera, strumenti ad arco, strumenti a fiato, canto. Ciascuno dei quattro volumi derivati da tale ristrutturazione conserva, in comune con gli altri, le parti di interesse generale, e si differenziano dunque soltanto le trattazioni dei rispettivi ambiti strumentali. Naturalmente, tale scelta editoriale – operata con il proposito di offrire ai lettori italiani il servizio che essi si aspettano ‒ non può andare disgiunta dall’auspicio che i componenti di ciascuna categoria leggano anche i volumi destinati alle altre – il che li ricongiungerebbe idealmente ai lettori dell’edizione originale – ma si è preferito lasciare tale lodevole orientamento alla scelta personale. Il curatore

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PRIMA PARTE - ETÀ BAROCCA

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Notazione e interpretazione di Peter Holman

Scrivo questo articolo (e voi lo leggete) perché abbiamo un problema. Nel corso dei secoli il modo di eseguire la musica è cambiato radicalmente, così com’è cambiata la musica stessa: lo stile esecutivo è stato sempre intimamente legato a quello compositivo. Pertanto, come dobbiamo eseguire ora la musica del passato? Una soluzione, ovviamente, è quella di modernizzarla per conformarla allo stile esecutivo del nostro tempo. La cosa può essere stimolante, soprattutto quando viene fatta da compositori del calibro di Elgar o Peter Maxwell Davies; ed è quello che fece J.S. Bach quando orchestrò una messa di Palestrina, o Mozart quando riorchestrò il Messia di Händel1. Ma ci siamo sentiti sempre più a disagio con questo approccio, o semplicemente col fatto di basarsi su un complesso ereditato di tradizioni esecutive. Nel bene o nel male siamo stati proiettati verso il compito di cercare di eseguire la musica antica con gli strumenti, le forze e le convenzioni esecutive che i compositori stessi usavano. Questo non potrà mai essere un esercizio del tutto fruttuoso, e la musica del passato non potrà mai avere su di noi lo stesso effetto che ebbe su chi l’ha suonata o ascoltata quando era nuova; proprio perché siamo moderni, con tutti i presupposti e le aspettative del nostro tempo. Ma questo non significa che il compito sia inutile. La maggior parte dei problemi relativi a quella che si è cominciata a chiamare “prassi esecutiva” sorge dal modo in cui la musica veniva scritta o da come noi fraintendiamo quella notazione. Questo non significa che la notazione antica fosse primitiva o non accurata, ma solo che nel corso dei secoli i compositori hanno progressivamente assunto decisioni interpretative precedentemente lasciate all’esecutore. Nel Medioevo ci si aspettava che i compositori specificassero solo le note e i ritmi. Con il XVI secolo essi si erano assunti la responsabilità di specificare esattamente il testo sottostante (in che modo le parole si adattassero alle note) e le alterazioni. In generale essi non specificarono voci o strumenti particolari fino al XVII secolo, né dinamiche o segni di espressione fino al XVIII secolo. E non ci fu un modo semplice di specificare il tempo assoluto fino a quando non fu inventato il metronomo, nei primi anni del XIX secolo. Quindi, se nella musica barocca trovate delle “forcelle” (  ), dei segni di espressione elaborati o delle indicazioni metronomiche, esse sono quasi certamente delle aggiunte editoriali di un La versione di Mozart del Messia di Händel viene considerata a tutti gli effetti un’opera di Mozart, il cui numero del catalogo Köchel è KV 572. La versione di Mozart ha la seguente strumentazione: Soli (SSATB), coro misto (SSATB), 2fl, 2ob, 2cl sib, 2fg, 2cr, 2tr, 3trb, timp, archi; mentre la strumentazione della versione originale di Händel (HWV 56) è: Soli (SAATB), coro misto (SSATB), 2ob, fg, 2tr, timp, archi, b.c. [N.d.T.].

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Peter Holman

curatore successivo; se l’edizione non fa alcuna distinzione fra queste e ciò che ha scritto il compositore, fate attenzione (v. “Età barocca | Fonti ed edizioni”). Per inciso, l’etichetta “Barocco” è fuorviante, ed è stata applicata alla musica solo nel XX secolo. La distinzione fra “Rinascimento” e “Barocco” è utile nella misura in cui si consideri che ci sono stati grandi cambiamenti di stile e di convenzioni esecutive intorno al 1600. Ma si potrebbe sostenere che il 1700 è un confine stilistico più importante del 1750, anno convenzionalmente assunto come conclusivo del Barocco. Molte trattazioni sulla prassi esecutiva barocca risentono della tendenza ad applicare le opinioni dei teorici della metà del XVIII secolo – come Quantz, Leopold Mozart e C.Ph.E. Bach – alla musica del XVII secolo; il risultato è che troppo spesso Schütz e Buxtehude vengono suonati come J.S. Bach, o Purcell e Blow come Händel.

Strumentazione Quando decidiamo quali voci o strumenti utilizzare dobbiamo tener presente il divario stilistico che si è verificato intorno al 1700. Nei primi anni del XVII secolo era ancora prassi comune per i compositori quella di non specificare particolari voci e strumenti, e spesso ci si aspettava una certa flessibilità quando questi venivano assegnati. Nelle prime sonate del XVII secolo, ad esempio, violini e cornetti erano spesso indicati come alternativi per le parti superiori, mentre le parti del basso potevano essere assegnate alla viola da gamba basso, al basso di violino (l’antenato del violoncello), al fagotto o al trombone. Allo stesso modo, il liuto, l’arciliuto, la tiorba, la chitarra barocca, l’arpa, il clavicembalo e l’organo venivano tutti utilizzati come strumenti per il basso continuo, talvolta in combinazioni piuttosto ampie: le Broken Consort Suites di Matthew Locke per due violini e basso (1661) sembrano essere state eseguite con una sezione di basso continuo costituita da tre tiorbe e un organo. Gli organi da camera furono comunemente usati nella musica profana in tutta Europa fino al 1700 circa, e in Inghilterra per tutto il periodo barocco. Non dobbiamo dare per scontato che in questo periodo le linee del basso continuo fossero sempre realizzate con strumenti ad arco o a fiato in raddoppio. Nelle sonate sembra che tali strumenti siano stati utilizzati solo quando la musica conteneva una parte di basso obbligato (più elaborata rispetto alla linea del basso continuo); e la musica vocale solistica veniva di solito accompagnata solo dal liuto o dalla tiorba o, in chiesa, semplicemente dall’organo. Gli strumenti cominciarono a essere definiti più precisamente alla fine del XVII secolo, non appena i compositori cominciarono a scrivere più specificamente e idiomaticamente. Ciascuno dei principali strumenti solisti utilizzati nella musica da camera – il violino, il flauto dolce, il flauto traverso, l’oboe – aveva le sue caratteristiche; il che significa che di solito è possibile capire a quale ci si riferisce anche se non viene specificato. Le sonate le cui parti acute non scendono oltre il sol3 possono essere solo per violino, così come quelle che presentano la tecnica delle corde doppie; la musica per flauto dolce contralto (indicato anche semplicemente come “flauto” o flûte) può scendere solo fino al fa4 e tende a essere scritta coi bemolle in chiave; la musica per flauto (di solito chiamato anche “flauto tedesco”, flûte allemande o “flauto traverso”), al contrario, è di solito con i diesis in chiave e arriva al re4; la musica per l’oboe barocco è di solito scritta coi bemolli in chiave e può scendere al do4 ma evita il do4. Certo, era comune a quel tempo traportare la musica per adattarla ai diversi strumenti. Parte del repertorio per flauto dolce è musica per violino trasportata una terza sopra, e non vi è alcun motivo per cui simili trasposizioni non debbano essere effettuate oggi. Nel XVIII secolo la notazione per il basso continuo cominciò a essere molto più standardizzata. La combinazione normale per la musica © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


Età barocca | Notazione e interpretazione

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da camera era costituita da violoncello e clavicembalo, anche se in Francia la viola da gamba basso rimase in voga fino a dopo il 1750 e in Italia era abbastanza comune accompagnare le sonate solo col violoncello. Viceversa, Händel ha etichettato le parti di basso continuo di un certo numero di sue sonate per strumento solista semplicemente col termine cembalo, sottintendendo forse che venissero realizzate solo col clavicembalo, senza violoncello o viola da gamba basso.

Associazioni di tonalità, temperamento e altezza/intonazione Le limitazioni degli strumenti a fiato barocchi hanno contribuito a diffondere una serie di associazioni di tonalità che hanno delle implicazioni per la prassi esecutiva. Per esempio, la tonalità di fa maggiore è stata pensata per essere una tonalità pastorale anche perché il flauto dolce, identificato coi pastori, scendeva fino al fa4; proprio come la tromba naturale, normalmente in in do o re, rafforzò l’idea che queste tonalità fossero marziali e trionfali. Queste associazioni mentali sono rimaste a volte anche per altri strumenti: la Pastorale per organo di Bach BWV 590 è in fa maggiore, mentre “La Triomphante” dal Second livre de pièces de clavecin di François Couperin (1716-1717) è in re maggiore. Va detto, tuttavia, che le sistematiche elencazioni delle associazioni di tonalità stabilite da Jean Rousseau (1691), Marc-Antoine Charpentier (1692 ca.), Johann Mattheson (1713) e Jean-Philippe Rameau (1722), sono troppo contraddittorie per fornire una guida generale per l’interpretazione della musica barocca, ma possono essere utili per eseguire la musica dei singoli interessati. Un’altra serie di associazioni fu creata dal temperamento non equabile utilizzato sugli strumenti a tastiera. Nei primi anni del XVII secolo veniva utilizzata un’accordatura ora conosciuta come mesotonica a ¼ di comma, che produceva accordi ben intonati di terze pure, ma limitava l’esecutore a un piccolo gruppo di tonalità d’impianto. Tutte le tonalità possono essere suonate nell’accordatura mesotonica modificata dal 1650 ca. ai primi anni del XIX secolo, ma la terze degli accordi diventano sempre più ampie man mano che si procede lungo il ciclo, o circolo, delle quinte. Questo significa che ogni tonalità ha un carattere distinto: quella di fa minore ha un accordo di sottodominante dissonante (la sua terza, più do che re, è molto calante), mentre quella di si minore ha un accordo di dominante dissonante (la sua terza, un si piuttosto che un la, è molto crescente), e così via. Per questa ragione la musica barocca per tastiera dovrebbe essere suonata con un temperamento non equabile, per poterne apprezzare tutte le caratteristiche. Se state suonando uno strumento accordato secondo il temperamento equabile, vi sarà utile sapere che le tonalità più estreme sono state spesso utilizzate per intensificare le rappresentazioni musicali di violenza, di orrore o disperazione. La tonalità di fa minore, ad esempio, fu scelta da Purcell per la scena delle streghe in Dido and Aeneas, e da Händel per i cori “Surely he hath borne our griefs” e “And with his stripes” nel Messia. Anche il cromatismo diventa più espressivo nel temperamento non equabile, poiché i semitoni in una scala cromatica non sono tutti della stessa grandezza, e nel temperamento mesotonico a ¼ di comma essi variano parecchio: contrariamente all’accordatura “espressiva” moderna i diesis sono più bassi dei bemolle, dotando passaggi come quello dell’es. I.2.1 di una qualità strana e quasi bizzarra. Sebbene i temperamenti siano essenziali solo sugli strumenti in grado di suonare gli accordi, come clavicembali, organi e liuti, durante tutto il periodo barocco sia i cantanti sia chi suonava strumenti melodici li conosceva in modo approfondito. Pier Francesco Tosi, ad esempio, inserì una lunga discussione sui semitoni maggiori e minori nel suo autorevole trattato di canto Opinioni de’ cantori antichi e moderni © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati

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Peter Holman

(1723), noto in Inghilterra nella traduzione inglese di John Ernest Galliard, col titolo Observations on the Florid Song (1742). Per inciso, attualmente si ritiene che il Das wohltemperierte Clavier (Il clavicembalo ben temperato) di Bach sia stato scritto per valorizzare un tipo di temperamento non equabile, piuttosto che quello equabile. 2-1

Es. I.2.1. Michelangelo Rossi, Toccate e correnti, seconda edizione (1657): Toccata n. 7, batt. 72-83.

Mentre nel secolo scorso si è arrivati a definire l’altezza di riferimento moderna con il la4 a 440 Hz, solo negli ultimi venti o trent’anni si è definito un altro standard, con il la4 a 415 Hz, per l’esecuzione della musica barocca con strumenti “originali” o “d’epoca”. Questi termini sono qui tra virgolette perché il la4 a 415 Hz è fondamentalmente un’altezza di convenienza moderna, fissata un semitono sotto il la4 a 440 Hz, in modo che la trasposizione sui clavicembali e gli organi possa essere realizzata utilizzando delle tastiere appositamente costruite per spostarsi lateralmente. Le repliche di fiati d’epoca devono spesso essere modificate per adattarvisi. Il diapason di Händel suonava con un la4 a 422,5 Hz, mentre gli strumenti a fiato utilizzati nella Londra di Purcell o nella Parigi di Lully suonavano con un la4 a circa 405 Hz, e in Francia e a Roma si scendeva anche fino a 392 Hz (un tono sotto l’altezza di riferimento moderna). Al contrario, l’intonazione dei fiati e degli organi nel Cinquecento e all’inizio del Seicento era spesso almeno un semitono sopra il la4 a 440 Hz. Tutto ciò non vi riguarda direttamente se usate strumenti moderni, anche se i cantanti possono voler trasportare la musica, innalzandola se destinata ai diapason alti, come per la musica sacra del Seicento tedesco, o abbassandola se destinata ai diapason molto bassi francesi; talvolta scoprirete che gli editori hanno fatto il lavoro per voi. L’altezza scelta può avere un’influenza determinante sul tipo di voci usate: con il la4 a 405 Hz alcuni assoli per “controtenore” di Purcell sono molto più adatti ai tenori leggeri che non ai cantanti in falsetto.

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Archi e strumenti a corda di Andrew Manze

«Non è strano che un budello di pecora riesca a tirar fuori le anime dai corpi degli uomini?». (Shakespeare, Molto rumore per nulla, atto II, scena 3) Gli strumenti a corda sono stati usati dall’umanità fin da quando essa ha scoperto di poter produrre musica piacevole tendendo delle corde su una cassa di risonanza e mettendole in movimento pizzicandole o strofinandole con un arco. Nel Seicento gli strumenti “a corda”, come li chiamiamo, si sono evoluti nelle forme che ancora oggi conosciamo. Anche se la famiglia del violino prende il primo posto in questo capitolo – dato che, fra tutte le famiglie, è stata la sola al centro del repertorio per quattrocento anni ininterrotti –, molti dei principi che esporremo qui di seguito si applicano indistintamente a tutti gli strumenti a corda. Alla fine del Cinquecento la famiglia del violino era già completamente evoluta, in termini di design, ben prima della composizione di un qualsiasi repertorio specifico. Da questo punto di vista era ben più indietro dell’arpa, la chitarra e il liuto, che nel Rinascimento già avevano tradizioni esecutive e repertori propri. C’era anche una pletora di altri strumenti da braccio o da gamba, come la viola d’amore e la viola da gamba, aventi fino a sette corde da suonare e talvolta diverse altre che entravano delicatamente in vibrazione “per simpatia”. La famiglia del violino era più numerosa nel XVII secolo di quanto non lo sia oggi, con una grande varietà di formati, dal violino “piccolo” alle enormi viole, dagli slanciati violoncelli ai massicci violoni. Nel 1700 la maggior parte dei costruttori, musicisti e compositori aveva fissato il quartetto di strumenti che usiamo oggi, ciascuno con quattro corde: il violino, la viola, il violoncello e il contrabbasso. Questi avevano una forte somiglianza, condividendo non solo i principi costruttivi ma anche quelli esecutivi. In effetti molte delle osservazioni che seguiranno riguardanti uno strumento della famiglia possono essere applicate a tutti gli altri. Solo il contrabbasso ancora contraddice la presenza dei “geni” del violino nella sua genealogia, con le sue spalle spioventi e il modo di tenere l’arco con il palmo della mano rivolto in su, ancora oggi utilizzato da alcuni esecutori.

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Andrew Manze

Un nuovo violino barocco Facciamo un passo indietro nel tempo, nel 1600, alla bottega degli Amati a Cremona. L’aria è pesante e odora di vernice umida e polvere di legno. Lì, appoggiato su una panca, c’è un nuovo violino appena completato. A prima vista sembra poco diverso da un violino di oggi: uguali sono i tratti caratteristici, quali la sagoma, i fori di risonanza “a effe”, il riccio e il filetto. Dando un’occhiata più da vicino notiamo che il ponticello ha un design più semplice ed è più piccolo, per cui le corde sono più vicine alla tavola armonica, e la tastiera è molto più corta, tanto da lasciare esposta una parte più ampia della tavola. Una tastiera “moderna” raggiunge le note due ottave e mezza sopra l’altezza della corda vuota. Questa originale tastiera copriva probabilmente poco più di un’ottava: fino alla quarta posizione, invece della quattordicesima! Altre differenze, non meno importanti, sono più difficili da notare. Il manico è più corto e più tozzo del normale, e si unisce al corpo con un angolo diverso. Un manico “moderno” è inclinato all’indietro di qualche grado, per aumentare la tensione delle corde sul ponticello. Un manico “barocco” è diritto, per cui le corde e il ponticello subiscono una tensione minore. Più tensione significa più suono. Quando, nel tardo Ottocento, le sale da concerto, il pubblico, le orchestre e i pianoforti divennero più grandi, si rese necessario un maggior volume di suono, quindi una maggiore tensione delle corde. Tale tensione, però, creava il rischio di far collassare la tavola armonica, così i liutai la rinforzarono montando una lunga e spessa asticella, detta catena. Questa asticella di legno è visibile solo guardando attentamente attraverso il foro a effe di sinistra; essa corre parallela alle corde gravi, e al di sotto di esse, sotto il piede sinistro del ponticello. Per il “nostro” violino tuttavia, le tensioni elevate sono di là da venire, ben dopo la fine del periodo barocco. Tastiera e ponticello furono destinati a cambiare in breve tempo. Nel corso del Seicento e del Settecento i ponticelli divennero più grandi e ornati, sia per riflettere le abilità costruttive dell’artigiano sia per migliorare il suono. Nuove fogge di ponticelli sono attribuiti, fra gli altri, a Stradivari e a Tartini, che fu un appassionato di acustica oltre che un interprete. La tastiera fu allungata per far fronte alle esigenze più pionieristiche degli esecutori, che cominciavano a esplorarne le parti più vicine alle spalle. Nel 1600 la nota più alta regolarmente in uso su un violino era il do6 (vale a dire con il quarto dito che si estende un semitono oltre la prima posizione), ma dal 1700 esecutori sempre più avventurosi avevano raggiunto un la6 (in settima posizione – la nota più alta che Bach ha scritto). Dopo il 1700, i costruttori rinunciarono ad adattare la lunghezza della tastiera alle manie di artisti del calibro di Locatelli, che raggiunse la ventiduesima posizione, e di Vivaldi, il quale, secondo un testimone oculare, improvvisò una cadenza che arrivò così in alto che lo spazio fra le sue dita e il ponticello era a malapena sufficiente per l’archetto. Le corde del nostro violino seicentesco sono fatte di budello, molto ritorto per aumentarne la resistenza e migliorare la densità del suono. Il budello fu costantemente usato dalle origini fino al XX secolo. Non proveniva dai gatti, come comunemente si pensava, ma dalla pecora (come Shakespeare sapeva bene), e ce n’erano molti tipi, tra cui quello che ambiguamente veniva appunto chiamato catline. La maggior parte delle corde sono realizzate intrecciando assieme, in maniera molto stretta, diverse filature di budello, includendo a volte anche un filo o dei granuli di metallo. Rispetto al budello, le corde di metallo moderne hanno un suono più forte, più brillante e, ovviamente, di natura più metallica. Le corde in budello sono più morbide e flessibili, ma durano di meno e sono molto più sensibili alle variazioni climatiche. Le alte temperature e l’umidità, comuni nelle sale da concerto moderne tanto © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


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quanto lo erano nelle chiese e nei teatri del periodo barocco, fanno calare l’intonazione del suono delle corde in budello; mentre un clima freddo e secco la fa crescere. Il violinista e didatta del XX secolo Ivan Galamian, senza dubbio ricordando le proprie esperienze giovanili con le corde di budello, scrisse: «Si dovrebbe essere in grado di suonare intonati su un violino stonato». Suonare intonati non è solo una questione di sapere dove collocare ogni dito, ma anche di rilevare l’intonazione della corda e regolare di conseguenza le dita. L’esecutore deve guardarsi dal confidare sulle corde a vuoto nel caso esse risultassero non intonate: per la diteggiatura si dovrebbe sempre avere un “piano B”, in caso di difficoltà dovute a fattori ambientali. L’intonazione delle singole note cambia non solo con i fattori ambientali, ma anche a seconda del temperamento utilizzato. Suonare intonati con un pianoforte accordato secondo il temperamento equabile, o con un clavicembalo o un organo in temperamento non equabile o mesotonico, richiede una flessibilità mentale pari a quella delle dita. Nella musica barocca l’arte della buona intonazione è quindi un’arte affascinante e sofisticata (v. “Età barocca | Notazione e interpretazione”, p. 31). A parte la differenza di suono tra budello e metallo, vi è una notevole differenza di “sensazione” quando l’arco tocca la corda. Provate a montare delle corde in budello sul vostro strumento, a sperimentare questa differenza. In un primo momento il budello può sembrare grossolano e imperfetto. In poco tempo, però, il semplice atto di tirare l’arco può rivelarsi più interessante, perché riuscirete a sentire ogni crine dell’archetto e ogni microscopica traccia di imperfezione sulla superficie della corda. Confrontare le corde in budello con quelle in metallo è come apprezzare le differenze tra una candela e una lampadina elettrica: gustatevi entrambe, per le loro qualità distintive.

Fuori dalla bottega Il nostro violino probabilmente sarebbe stato venduto abbastanza facilmente e a un buon prezzo, in quanto gli strumenti cremonesi godevano già di un’ottima reputazione. Se andava bene, lo strumento sarebbe stato conservato in una custodia di legno, anche se probabilmente non con il coperchio ribaltabile come quelle di oggi. La maggior parte delle custodie si apriva a un’estremità: lo strumento e l’archetto venivano fatti scorrere all’interno come una spada nel fodero. Nel peggiore dei casi il violino probabilmente sarebbe stato trasportato in una borsa di pelle o semplicemente riposto nel tascone di un soprabito, e in casa probabilmente sarebbe stato appeso a un muro. Nessuna meraviglia dunque per il fatto che la maggior parte degli strumenti antichi presenti crepe e graffi: tali strumenti erano fatti per essere suonati, non ammirati come pezzi d’antiquariato! Il nostro violino sarà stato suonato nelle case, nelle chiese, nei teatri, nelle sale cittadine, o nelle sale da ballo e da pranzo dell’aristocrazia locale; spesso era questa la principale fonte di occupazione professionale di un violinista. Non c’erano ancora le sale da concerto specializzate, e quindi pochi erano i concerti pubblici come li conosciamo oggi. Senza dubbio avevano luogo concerti domestici e l’equivalente barocco della “jam session” nella taverna di zona, con dilettanti e professionisti che passano una serata in amichevole (si spera) competizione. In un primo momento il nostro violino accompagnava il canto e le danze (anche se mai in chiesa) o sosteneva gruppi vocali, riempiendo le eventuali voci mancanti. Fino al 1610 non ci fu un repertorio solistico, e la maggior parte dei compositori era indifferente riguardo alle specifiche destinazioni strumentali dei diversi brani.

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1610 e dintorni

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Il 1610 fu un anno molto importante per i debutti: non solo quello di Galileo col suo nuovo telescopio, ma anche di Monteverdi col famoso Vespro della Beata Vergine, il primo capolavoro delle nuove musiche, la “nuova” musica barocca. Più importante per gli strumentisti ad arco fu il debutto del violino come strumento solista. A Milano, Giovanni Paolo Cima pubblicò le prime sonate, nel senso moderno della parola, per due, tre e quattro strumenti ad arco e basso continuo. La prima sonata si apre con una frase significativa per violino solo (es I.3.1), 4-1 suggestiva di grandi cose a venire nei secoli successivi (Schumann, Brahms, Debussy?).

Es. I.3.1. Giovanni Paolo Cima, Sei Sonate (1610): Sonata n. 1, inizio.

I decenni dopo il 1610 videro una proliferazione di pezzi solistici e per ensemble, da chiesa o da camera. C’erano sonate, canzoni, ricercari, toccate e, soprattutto, danze di tutti i tipi. Mecenati aristocratici, ricchi ecclesiastici e comuni benestanti cominciarono a mantenere ensemble di musicisti con lo stesso orgoglio ed entusiasmo che riempiva i loro edifici di dipinti e le loro biblioteche di libri. La musica svolgeva sempre un ruolo di accompagnamento nei loro canti, nelle danze e nelle funzioni religiose, ma elevava anche le loro anime, così come il loro rango sociale. Più numerosi erano i musicisti maggiore era il prestigio; in questo modo nacquero le orchestre e la loro musica specifica: concerti grossi, suite di danze e concerti solistici. L’Italia produsse non solo i migliori strumenti ad arco, ma anche gli esecutori più innovativi. Entrambi raggiunsero rapidamente tutta l’Europa, influenzando i musicisti e i costruttori con cui vennero in contatto. La “nuova” musica fu appunto diffusa dagli italiani itineranti: Carlo Farina in Germania, Biagio Marini in Belgio, Lully in Francia, Pandolfi in Austria, Matteis in Inghilterra e molti altri. Intorno al 1700, in gran parte grazie alle case editrici, alcuni esecutori-compositori divennero famosi a livello internazionale, godendo di ciò che potremmo oggi chiamare il “fascino della star”. Arcangelo Corelli, soprannominato dai suoi ammiratori il “nuovo Orfeo del nostro tempo”, scelse il primo gennaio del 1700 come data appropriata per segnare l’alba di una nuova era musicale, pubblicando le sue epocali Sonate dell’op. 5. «Mentre suonava» scriveva un osservatore «era solito assumere una postura contorta, i suoi occhi diventavano rossi come il fuoco e i bulbi oculari erano ruotati come se fosse in agonia». Sembra quasi l’equivalente barocco di una popstar. Alcuni virtuosi, come Vivaldi e Tartini, rimanevano a casa, assediati dalle persone che volevano ascoltarli o studiare con loro. Altri, come F.M. Veracini, Locatelli, Geminiani e Mascitti, avevano scelto di viaggiare, divenendo gli iniziatori di una tradizione che sarebbe proseguita, con artisti del calibro di Viotti e Paganini nel XIX secolo e Carmignola e Accardo nel XX. Per quanto molti dei principali interpreti abbiano contribuito alla rapida avanzata del virtuosismo, le loro abilità tecniche non erano fini a se stesse, ma solo un mezzo per raggiungere un obiettivo. Ogni opera d’arte prodotta in epoca barocca, comunque ornata e bella, aveva una semplice ed essenziale funzione. Le sonate venivano utilizzate principalmente in due luoghi, come suggeriscono i loro epiteti: da chiesa e da camera. Durante le funzioni religiose esse sostituirono i mottetti vocali; da un lato per concedere una pausa ai

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cantanti, dall’altro per fornire ai fedeli una musica senza parole come accompagnamento alle loro meditazioni e preghiere. Allo stesso modo, nelle case, private o​​ signorili, le sonate erano fonte di intrattenimento musicale per i partecipanti e anche per il pubblico. In poco tempo i compositori approfittarono del fatto che i pezzi strumentali, sia suonati (sonata) sia cantati (cantata), fossero necessariamente privi di una trama esplicita o di un messaggio morale. Questo diede ai compositori la libertà necessaria per indulgere in nuove armonie e ritmi e per introdurre nuove tecniche nell’uso espressivo. Alcuni teorici definirono questo stile d’avanguardia Stylus phantasticus, dal momento che nasceva della fantasia dell’uomo (v. volume Per strumenti a tastiera, “Età barocca | Strumenti a tastiera”, pp. 72-74). Le nuove tecniche variavano dalla più semplice tecnica delle legature e delle corde doppie, ai complicati suoni accordali, dai colpi d’arco virtuosistici alla scordatura (intonazione alternativa delle corde per modificare le possibilità sonore e accordali dello strumento). In epoca barocca la figura del compositore a tempo pieno era quasi inesistente: la maggior parte dei pezzi veniva scritta da esecutori che componevano, piuttosto che da compositori che suonavano. Nella loro musica essi inserivano quindi innovazioni e punti di forza tecnici personali che divenivano sempre più virtuosistici. Nel corso del XVII secolo ci fu un proliferare di trilli (spesso in arcate separate piuttosto che legati) e rapidi passaggi di semicrome (noti come perfidia). Non appena il repertorio divenne più difficile e si fece sentire la necessità di avere una gamma di note più ampia, il modo di tenere lo strumento divenne un problema.

Fig. I.3.1. Louis-Michel Vanloo (1707-1771), Sestetto (Concerto spagnolo).

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SECONDA PARTE - ETÀ CLASSICA

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Archi e strumenti a corda di Duncan Druce

Gli archi nell’età classica Oggi spesso ammiriamo la musica dell’età classica per il suo equilibrio, ma quell’epoca deve essere apparsa allora come un periodo di rapidi e persino repentini cambiamenti. Negli anni intorno al 1800, alcuni strumenti erano in una fase di sostanziale sviluppo. Il pianoforte, il clarinetto e la chitarra del 1830, ad esempio, si erano radicalmente allontanati dai loro precursori della metà del Settecento. L’evoluzione degli strumenti ad arco fu molto meno sorprendente, ma violinisti, violisti, violoncellisti e contrabbassisti erano ancora in grado di sostenere tutte le modifiche richieste dallo sviluppo musicale di quegli anni così significativi. Gli archi hanno continuato a formare la spina dorsale dell’orchestra e l’enorme, illustre repertorio di musica solistica e da camera per archi dell’età classica dimostra con quale successo gli strumenti e i loro esecutori abbiano superato le sfide del nuovo stile.

Sviluppi strumentali Lo sviluppo fisico più evidente riguardò l’archetto. La varietà di modelli differenti del primo Settecento fu sostituita da quello che è stato da allora il modello di riferimento, introdotto intorno al 1780 dal costruttore parigino François Xavier Tourte il giovane (1747/81835). L’archetto “Tourte” combinava una serie di tendenze di design nella direzione di una maggiore lunghezza, un fascio di crini più ampio e una punta più pesante. Esso fu adottato dagli esecutori di tutti gli strumenti ad arco, anche se non da tutti i contrabbassisti: al di fuori della Francia molti di loro preferivano l’arco incurvato nello stile italiano, a causa del suo maggiore attacco e della sua potenza. Quest’arco, prediletto dal maggior virtuoso di contrabbasso del tempo Domenico Dragonetti (1763-1846), era utilizzato a palmo in su, come il moderno modello tedesco “Simandl”. Anche violino, viola e violoncello sono stati oggetto di una serie di modifiche. Queste non hanno drasticamente cambiato l’aspetto esteriore degli strumenti, ma ebbero un grande effetto sul suono. Il manico (e con esso la lunghezza della corda vibrante) venne allungato e reso più stretto per facilitare l’esecuzione nelle posizioni superiori. Esso venne inserito con incastro a mortasa sul corpo dello strumento con una certa angolazione, in contrasto con il manico dritto dello strumento barocco, che veniva fissato con dei chiodi.

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Il ponte era decisamente più curvo, per sopportare la maggiore pressione dell’arco. All’interno dello strumento, l’anima fu aumentata di diametro e la catena resa più lunga e spessa. Il risultato di tutto ciò fu rendere lo strumento in grado di resistere a una maggiore tensione delle corde e di rispondere in maniera tale da produrre un suono più forte. Questo faceva parte di una tendenza generale. Durante il XVIII secolo i violinisti italiani avevano cominciato a preferire corde molto spesse realizzate in budello che, montate su strumenti dal suono brillante di costruttori quali Stradivari e Giuseppe Guarneri, producevano un suono potente. Queste tendenze si diffusero in tutta Europa e addirittura si intensificarono, promuovendo un nuovo modo di suonare. Non è facile individuare quando si manifestarono le variazioni costruttive degli strumenti. Esse riguardarono sia la conversione di vecchi strumenti sia la realizzazione di nuovi. Ma nel libro The Violin: Its Famous Makers and their Imitators (“Il violino: i suoi costruttori famosi e i loro imitatori”, 1875), George Hart citava uno scrittore italiano, Vincenzo Lancetti1, che nel 1823 aveva osservato: «Intorno al 1800 si erano spesso affidati ai fratelli Mantegazza 2 [di Milano] [...] artisti francesi e italiani per allungare il manico dei loro violini a imitazione della moda parigina». Tuttavia i cambiamenti non accaddero improvvisamente e molti strumenti ad arco sono sopravvissuti con i loro manici originali fino ai tempi moderni. Gli strumenti ad arco dell’età classica avevano perso il tipico suono leggero e brillante dei loro antenati barocchi a vantaggio di un suono più robusto, che era tuttavia ancora lungi dal più uniforme e misurato effetto degli archi moderni. Il budello naturale era la norma per le prime tre corde più acute del violino e le prime due della viola e del violoncello; le corde più basse erano di budello avvolto da un filamento in argento o rame. Le corde del contrabbasso rimasero tutte in budello fino a buona parte del XIX secolo.

Prassi esecutiva Possiamo ritenerci fortunati per il fatto che durante questo periodo di cambiamento siano state pubblicate molte opere con dettagliate istruzioni tecniche; alcune di queste sono ora disponibili in edizione moderna o in facsimile. Con il loro aiuto, insieme alle indicazioni relative all’esecuzione inserite nei testi musicali e alle testimonianze scritte, siamo in grado di mettere assieme un quadro piuttosto dettagliato, tanto incompleto quanto stimolante, di come gli strumenti ad arco venivano suonati in epoca classica. In modo affascinante, per un interprete la “sensazione fisica ed emotiva” dello strumento classico originale va di pari passo con l’informazione scritta e la illumina. Ma anche chi suona uno strumento moderno troverà immensamente gratificante il tentativo di affrontare il suono e lo stile corretti. In particolare, per rivalutare la grande varietà di colpi d’arco dell’epoca e capirne il collegamento diretto con l’espressione e il fraseggio, è necessario far rivivere la musica in tutti i suoi aspetti e funzionamenti interni.

Vincenzo Lancetti, scrittore italiano (Cremona 1767 - Milano 1851). [N.d.T.] I Mantegazza furono una famiglia di liutai milanesi, in particolare i fratelli Pietro Giovanni e Domenico, attivi nella seconda metà del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento. [N.d.T.]

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Arcate Note tenute Nel suo metodo per violino del 1756, Leopold Mozart, seguendo l’esempio di Giuseppe Tartini, prescrive come esercizio per la sua condotta di base dell’arco una nota lunga con un crescendo e diminuendo: Fig.graduale 4-2

Fig. 4-1

Egli fornisce anche alcuni altri schemi: ,

, or

Tuttavia, solo dopo questi esercizi egli consiglia di esercitarsi a lungo con arcate a un livello dinamico uniforme. Quest’ordine di priorità mette in evidenza la preoccupazione settecentesca sui dettagli di fraseggio, che modulano il suono in maniera tale che la musica abbia la stessa varietà di accento e di volume di una recitazione poetica ben declamata. Possiamo ipotizzare che la forma base di condotta dell’arco di Leopold sia adatta in questo attacco del violino solista nel movimento lento di un concerto di suo figlio: Ex. 4-1

Violino solo Solo violin

Violino ViolinI I

Es. II.4.1. Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per violino in si bemolle maggiore KV 207, 1773: secondo movimento, Adagio, batt. 30-34.

Il trattato di Leopold Mozart fu pubblicato in diverse edizioni fino a poco oltre la fine del secolo. Ma dal 1803, quando Pierre Baillot, Rudolphe Kreutzer e Pierre Rode pubblicarono il volume Méthode de violon, metodo “ufficiale” per il nuovo conservatorio di Parigi, la prospettiva era cambiata. La serie di scale in tutte le tonalità che formano gli esercizi elementari di base «deve essere suonata con le note tenute a oltranza da un capo all’altro dell’arco [...] il tempo deve essere, in generale, molto lento». Possiamo immaginare le ampie arcate tenute, perorate dai violinisti di Parigi, applicate al passaggio che segue: Ex. 4-2

Sul G e D

cantabile

Es. II.4.2. Ludwig van Beethoven, Concerto per violino in re maggiore op. 61, 1806: secondo movimento, Larghetto, violino solista, batt. 45-50.

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Passaggi rapidi Il collegamento uniforme delle arcate nel suonare in un tempo adagio o cantabile sembra essere stato un obiettivo universale per tutto il periodo classico (e oltre). Può sorprendere l’esecutore moderno l’insistenza sul fatto che la velocità dell’arco dovrebbe essere variata in base al tempo e al carattere della musica. Nel saggio di J.F. Reichardt Über die Pflichten des RipienViolinisten (“Sui doveri del violinista in orchestra”) del 1776, leggiamo: «In un allegro, un arco vivace per lo staccato e un colpo veloce all’inizio di un arcata sono assolutamente essenziali». Chiaramente nel Settecento una condotta d’arco vivace in un tempo allegro andava di pari passo con la riduzione del valore di molte note (in particolare nelle note ribattute o nei salti). Leopold Mozart descrive come questa riduzione si ottenga sollevando l’arco dalla corda, senza che ciò implichi un rimbalzato. Essa si applica piuttosto alle note abbastanza lunghe in presenza di un trattino verticale che parta dalla corda da sollevare, come per le crome ripetute dell’es. II.4.3: Ex. 4-3

Es. II.4.3. Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per violino in la maggiore KV 219, 1775: primo movimento, Allegro aperto, violino solista, batt. 74-78.

Per le note più corte, come le semicrome in tempo allegro, un breve colpo nei pressi del centro di un archetto con punta “a muso di luccio” o “a becco di cigno” (del tipo illustrato da Leopold, fig. II.4.1) produce un’articolazione naturale, più smorzata, ma non altrettanto breve, del moderno spiccato. Ciò non è facile da realizzare con precisione con un archetto moderno, ma tenendolo a pochi centimetri dal capotasto e suonando un breve colpo détaché circa a metà, è possibile ottenere una buona approssimazione.

Fig. I.4.1. Leopold Mozart, Versuch einer gründlichen Violinschule (“Metodo per una approfondita scuola per violino”) (1756): arco “a becco di cigno” e postura della prima età classica.

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Fonti ed edizioni di Barry Cooper

Introduzione Molti interpreti, quando devono affrontare un’edizione a stampa di un brano di Haydn, di Beethoven e dei loro contemporanei, danno per scontato piuttosto ingenuamente che la musica che hanno di fronte coincida esattamente con quanto ha effettivamente scritto il compositore o con le sue intenzioni originali. Purtroppo, questo non è sempre vero anche per opere recenti, ed è raramente vero per la musica scritta circa duecento anni fa. Anche le opere maggiori, oggetto di un intenso studio da parte degli esperti, appaiono spesso in edizioni di scarso valore. Tuttavia, la consapevolezza di come è stata preparata un’edizione musicale – e dei problemi con cui si è misurato il curatore della stessa – può tradursi per l’interprete in una maggiore comprensione della musica che sta suonando. E ciò, a sua volta, può portare a esecuzioni più efficaci. Le edizioni moderne della musica del cosiddetto periodo classico possono essere suddivise in tre tipologie: le edizioni “per l’uso pratico”, le edizioni “scientifiche”, e quelle che si possono chiamare edizioni “pratico-scientifiche”. Le edizioni per il solo uso pratico contengono in genere dei suggerimenti utili su come il curatore pensa che la musica debba essere interpretata. Il curatore, che può essere un interprete di chiara fama, fornirà delle indicazioni su questioni come le arcate, la respirazione, la diteggiatura, il fraseggio, il pedale, o i livelli dinamici consigliabili, trascurando spesso ciò che il compositore ha effettivamente scritto. La versione presentata rifletterà pertanto le preferenze del curatore, piuttosto che quelle del compositore. Nelle edizioni scientifiche, d’altra parte, l’attenzione maggiore viene posta nel presentare esattamente ciò che ha scritto il compositore nella maniera più fedele possibile. Queste edizioni presentano un testo musicale generalmente affidabile, ma non indicano effettivamente come doveva essere suonata la musica. Tali edizioni vengono spesso descritte come “Urtext” (letteralmente, “testo originale”), per distinguerle dalle edizioni per l’uso pratico, ma la parola “Urtext” è stata in alcuni casi sminuita a causa dell’uso di integrazioni editoriali; e la validità del concetto stesso di Urtext, nel suo complesso, è stata messa in discussione, dal momento che “ciò che il compositore ha scritto” non è sempre certo. Alcune edizioni, tuttavia, combinano le migliori caratteristiche di entrambe le due tipologie di cui sopra. Dopo aver definito, per quanto possibile, qual è la versione originale del compositore, il curatore spiega in una prefazione, e può darsi anche nelle stesse pagine musicali, che effetto sonoro intende veicolare la notazione. Contrariamente a quanto comunemente

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Barry Cooper

si crede, la notazione è notevolmente cambiata a partire dal XVIII secolo, senza contare che all’epoca c’era un gran numero di convenzioni non scritte, riguardanti questioni quali gli strumenti, l’articolazione e le dinamiche, che è necessario vengano apprese dagli interpreti abituati solo alle convenzioni in uso oggi. Pertanto una buona edizione dovrebbe contenere sia un testo musicale attendibile secondo le intenzioni del compositore sia una guida affidabile su come interpretare quel testo ed eseguirlo. La questione dell’interpretazione del testo sarà discussa nei capitoli seguenti (in particolare in “Età classica | Notazione e interpretazione”). Il problema di ottenere un testo affidabile è il tema centrale del presente capitolo.

Fonti Tutte le edizioni della musica del periodo classico sono basate su una o più fonti che forniscono al curatore il materiale di base per il suo lavoro. Per capire i tipi di fonti disponibili è utile pensare al processo attraverso il quale un’opera è stata trasmessa dalla mente del compositore alla nostra edizione moderna. L’opera nasceva come un gruppo o una serie di idee che il compositore probabilmente concepiva all’inizio sul suo strumento. È noto che Beethoven qualche volta abbia composto a lungo al pianoforte ancor prima di scrivere una sola nota. Tale attività non lascia ovviamente alcuna traccia scritta e non produce pertanto alcuna fonte utile al curatore moderno. Successivamente il compositore potrebbe aver realizzato alcune bozze o schizzi del suo lavoro. Beethoven spesso buttava giù appunti in maniera abbastanza estesa e molti dei suoi schizzi si conservano ancora; Mozart e Haydn al contrario lo facevano in misura decisamente minore e sembra che spesso abbiano eliminato tutti i loro abbozzi. Poiché tutte le prime stesure rappresentano il lavoro preliminare piuttosto che il prodotto finale, raramente esse sono di una qualche utilità per un curatore che tenti di fissare il testo di un’opera. Occasionalmente, tuttavia, esse possono risultare funzionali alla conferma di dettagli di minore importanza nella versione finale della partitura. Se, ad esempio, il curatore ha il sospetto che nella partitura manchi un diesis, la presenza di quel segno in un abbozzo tenderà ad avvalorare questo dubbio. Dopo aver completato tutti gli abbozzi, il compositore alla fine scriveva per la prima volta l’intera opera, utilizzando dei fogli pentagrammati adatti all’uso. Questa stesura della partitura viene definita “autografa”, indipendentemente dal fatto che essa sia stata realmente autografata o meno dal compositore stesso. Di tanto in tanto viene anche utilizzato il termine “olografo”, che in questo contesto denota esattamente la stessa cosa. La partitura autografa, essendo il primo luogo in cui il lavoro è stato scritto in forma completa, è di fondamentale importanza, in quanto tutte le altre fonti sono basate su di essa, direttamente o indirettamente. Ma, come vedremo, non è affatto l’unica fonte da prendere in considerazione. In ogni caso non è detto che la partitura autografa si conservi. In generale, più antica è la musica e più è probabile che l’autografo sia scomparso. Per la maggior parte delle prime opere di Haydn non vi è alcun autografo conosciuto. Lo stesso vale per molte delle prime opere di Beethoven, anche se le sue opere successive sono state tramandate in maniera esaustiva. Per Schubert tuttavia l’autografo è spesso l’unica fonte, dal momento che molte delle sue opere sono rimaste inedite e praticamente sconosciute fino a molto tempo dopo la sua morte. A volte il compositore apportava delle modifiche durante la stesura dell’autografo. Questa pratica fu meno comune per Mozart e Haydn rispetto a Beethoven, i cui manoscritti diventavano talvolta così disordinati che un movimento o un’opera venivano riscritti una seconda volta per intero. Nella sua Sonata per pianoforte op. 110, ad esempio, il finale esiste in due partiture autografe, che possono per comodità essere definite la “partitura di composizione” e © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


Età classica | Fonti ed edizioni

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la “bella copia”. In altri casi il compositore decideva di rivedere un’opera qualche tempo dopo il suo completamento e forse anche la sua pubblicazione, nel qual caso ci possono essere una "partitura di composizione" e/o una bella copia per ogni versione. Laddove, di un’opera musicale, si sia tramandata più d’una versione, si è soliti considerare la versione finale come quella ufficiale, quella che rappresenta il pensiero ultimo del compositore e sostituisce le precedenti; a meno che non si tratti inequivocabilmente di una versione di compromesso adattata alle esigenze di una particolare esecuzione. A volte, dopo aver completato l’autografo, il compositore dava disposizioni a un copista professionista affinché ne realizzasse una bella copia – di solito un set di parti per un’esecuzione o una partitura da inviare all’editore per la stampa. I migliori copisti raggiungevano un livello molto elevato di accuratezza nel loro lavoro, ma erano destinati inevitabilmente a commettere degli errori accidentali, magari laddove l’autografo non era sufficientemente chiaro. Molte delle opere di Beethoven sono state copiate in questo modo, e Beethoven stesso avrebbe poi corretto la copia. Le sue correzioni non si limitavano soltanto a emendare gli errori fatti dal copista, ma riguardavano anche l’aggiunta di legature, alterazioni e altri particolari omessi per errore nell’autografo originale. In questa fase egli a volte faceva anche delle revisioni minori sulla sua stessa opera. Pertanto queste copie corrette forniscono spesso un testo migliore dell’autografo, ma potrebbero anche contenere gli errori di copiatura sfuggiti alla fase di revisione. Prima del Settecento gran parte della musica veniva diffusa attraverso copie manoscritte anziché edizioni a stampa, ma nel corso del secolo i progressi tecnologici resero la stampa musicale sempre più facile ed economica, per cui la musica stampata divenne sempre più universale. Per queste ragioni i curatori moderni delle opere musicali del periodo classico si trovano spesso a fare i conti con un complesso di fonti sia a stampa sia manoscritte. La stampa musicale veniva normalmente realizzata attraverso delle lastre di metallo incise, ma in quest’epoca furono introdotte anche altre tecniche, in particolar modo la litografia. L’innovazione nella direzione della stampa è impressionante. Bach ha scritto più di duecento cantate, ma soltanto una fu stampata quando egli era ancora in vita; e il suo Das wohltemperierte Clavier (Il clavicembalo ben temperato), venne stampato solo molto tempo dopo la sua morte, anche se ne circolavano molte copie manoscritte. Di contro, quasi tutte le sonate di Beethoven sono state pubblicate entro i primi due anni dalla data della loro composizione. Mozart e Haydn, sotto questo aspetto, occupano una posizione intermedia: le loro prime opere furono normalmente diffuse attraverso copie manoscritte, almeno inizialmente, ma molte delle loro opere successive furono stampate mentre erano in vita. Nel frattempo Clementi aveva fondato addirittura una casa editrice e poteva quindi stampare le proprie composizioni in qualsiasi momento. Schubert, tuttavia, essendo relativamente giovane e sconosciuto anche al momento della sua morte, ebbe spesso difficoltà a convincere gli editori a stampare le sue opere e così molte di esse rimasero in forma manoscritta. Se un lavoro veniva pubblicato o meno dipendeva in parte anche dal suo genere: l’opera e la musica sacra avevano meno probabilità di essere pubblicate delle sonate o delle variazioni. Se un compositore desiderava che un suo lavoro fosse dato alle stampe, inviava la partitura autografa, o una sua copia corretta, all’editore che da queste incideva una serie di lastre. Ne veniva realizzata una singola copia di prova, nota come “bozza”, che l’editore correggeva direttamente o inviava al compositore per il controllo. Le lastre venivano poi modificate, prima che fossero realizzate delle copie ulteriori. Se il controllo era effettuato dal compositore, egli poteva ancora apportare delle modifiche migliorative anche in quest’ultima fase. Un famoso esempio si ritrova nella Sonata “Waldstein” op. 53 di Beethoven: l’autografo, contenente dei © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


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Barry Cooper

segni che indicano il suo utilizzo come copia per l’incisore, mostra un fa bemolle per la mano sinistra all’inizio della battuta 105 (es. II.4.1), ma tale bemolle non è presente nell’edizione originale (cioè la prima). Un curatore moderno potrebbe assumere che si tratti di una svista, ma a un attento esame dell’edizione originale si nota in quel punto una correzione sulla lastra, col bemolle accuratamente cancellato, evidentemente su indicazione di Beethoven.

Es. II.4.1. Ludwig van Beethoven, Sonata “Waldstein” op. 53, 1803-1804, autografo: primo movimento, Allegro con brio, batt. 104-105.

Una volta che la bozza e le lastre erano state modificate, veniva effettuata di solito una tiratura di 50 o 100 copie. Le lastre venivano poi archiviate, e le ulteriori tirature si realizzavano successivamente, se necessario. Tra una tiratura e l’altra le lastre venivano eventualmente modificate man mano che nuovi errori venivano alla luce; le singole lastre divenute obsolete venivano rimpiazzate da quelle nuove, introducendo così la possibilità di nuovi errori. Pertanto i curatori non possono assumere, come parecchi hanno fatto, che tutte le copie di una edizione a stampa con gli stessi frontespizi siano identiche. In teoria si dovrebbe controllare ogni copia conosciuta dell’edizione originale, anche se in pratica questo non è sempre possibile. All’opposto, due prime edizioni con frontespizi diversi, magari anche di case editrici distinte, talvolta dimostrano di essere state stampate da un’unica serie di lastre (di quando in quando le lastre venivano trasferite da un editore all’altro). Se un’opera aveva successo a volte veniva copiata da un editore concorrente, o da uno in un altro paese. Le leggi sul copyright all’interno dei singoli paesi erano ancora abbastanza rudimentali e non c’era nessuna legge internazionale sui diritti d’autore. Così la maggior parte di queste edizioni successive era del tutto legale, anche se il compositore non ne ricavava nessun beneficio diretto. Esse tuttavia sono poco utilizzate come fonti, poiché contengono tutti gli errori dell’edizione originale, tranne quelli più evidenti, e generalmente ne introducono diversi di nuovi. Di tanto in tanto capitava tuttavia che un compositore supervisionasse due edizioni diverse, pubblicate in genere da editori di paesi differenti. Haydn e Beethoven riuscirono a vendere alcuni dei loro lavori sia a un editore inglese sia a uno austriaco, incassando così un doppio compenso. Nel caso della Sonata per pianoforte op. 31 di Beethoven, il compositore non ricevette alcuna bozza dall’editore originale – Nägeli di Zurigo – e trovò la prima edizione piena di errori. Chiese così al suo allievo Ferdinand Ries di fare una lista degli errori e di inviare lo spartito a un altro editore – Simrock di Bonn –, che ne stampò una versione corretta. Le Sonate di Clementi op. 40 hanno addirittura tre edizioni autentiche. L’opera è stata © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


Età classica | Fonti ed edizioni

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pubblicata per la prima volta a Londra dalla casa editrice di proprietà di Clementi, che se ne portò una copia a Parigi e autorizzò una nuova edizione da parte di Pleyel, contenente alcune varianti significative; poi Clementi la portò a Vienna, dove autorizzò una terza edizione, da parte di Mollo, ancora una volta con lievi modifiche. Se l’opera di un compositore non veniva pubblicata appena dopo la sua composizione, qualcuno di solito iniziava a farsene delle copie manoscritte. A volte tali copie erano autorizzate dal compositore stesso ed erano realizzate da qualcuno con cui aveva stretti rapporti, nel qual caso il testo musicale è in genere abbastanza preciso. Ma laddove venivano prodotte copie di seconda e terza mano, com’è avvenuto per molte delle prime opere di Haydn, il testo tramandato diventa sempre più inaffidabile; tuttavia queste possono essere le uniche fonti sopravvissute. A volte un editore utilizzava tali fonti non affidabili come base per un’edizione, benché ciò fosse sempre più raro verso la fine del periodo classico, allorquando gli editori il più delle volte avevano a che fare direttamente coi compositori. Spesso non ci è dato di sapere con esattezza che grado di supervisione (nell’eventualità che ce ne fosse una) un compositore esercitasse sulle singole edizioni a stampa; ma se queste sono state prodotte entro il periodo di vita del compositore, vi è generalmente almeno una possibilità teorica che avessero qualche legame con lui. Le fonti risalenti a dopo la morte del compositore invece hanno in genere meno valore, in quanto il compositore non poteva effettuare alcun intervento diretto. In rari casi ci possono essere altri tipi di fonti, come ad esempio le liste di correzioni inviate dal compositore all’editore; ma le possibilità principali possono essere riassunte come segue: 1.

schizzi e abbozzi;

3.

⎭ “partitura di composizione” ⎬ ⎫ partiture autografe; bella copia del compositore

4.

copia corretta, preparata dal copista con le annotazioni del compositore;

5.

edizione (anche non unica), rivista dal compositore;

6.

copia manoscritta strettamente associata al compositore;

7.

altre copie manoscritte prodotte a compositore vivente;

8.

altre edizioni stampate a compositore vivente;

9.

manoscritti postumi o altre edizioni a stampa.

2.

Valutazione delle fonti Non si ha pressoché notizia di un’opera per la quale siano sopravvissute tutte e nove le tipologie di fonti. Per parecchie opere una o più fonti possono essere andate perdute; per altre, invece, alcune categorie non sono mai esistite in origine. In ogni buona edizione moderna il revisore dovrebbe elencare tutte le fonti di cui si ha notizia, comprese quelle attualmente perdute, e dovrebbe aver consultato tutte quelle disponibili, in originale o almeno in fotocopia o microfilm. Laddove di un’opera del periodo classico si conservi più d’una fonte, ci saranno quasi sicuramente delle differenze testuali, note come “varianti”. Dallo studio di tutte le fonti, e soprattutto delle loro varianti, il curatore dovrebbe aver cercato di capire le relazioni che intercorrono tra di esse e aver prodotto una sorta di albero genealogico, noto come “stemma” (plurale “stemmata”), che mostri queste relazioni. Da diversi decenni ormai i filologi che lavorano © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati


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Barry Cooper

sui testi letterari del Medioevo o dell’antichità classica sono consapevoli del problema e lo studio degli stemmata è diventato una scienza alquanto sofisticata. Molto del lavoro di revisione musicale, tuttavia, è stato fatto da musicisti che, pur essendo degli eccellenti interpreti, non hanno avuto nessuna formazione sui metodi editoriali scientifici; per cui essi sono solo in grado di elencare le fonti o far riferimento vagamente a manoscritti ed edizioni originali. In effetti è sorprendentemente raro trovare un’edizione moderna che contenga una valutazione completa delle relazioni fra tutte le fonti. In alcuni casi lo stemma è piuttosto lineare mentre in altri può risultare molto complesso, soprattutto se il compositore ha realizzato revisioni significative. Analizziamo due esempi. Nel caso della Sonata per pianoforte in do maggiore KV 309 di Mozart l’autografo è andato perduto, ma ci sono quattro fonti probabilmente indipendenti l’una dall’altra. Se lo sono, allora lo stemma è il seguente:

Autografo perduto

copia realizzata da Leopold Mozart

Prima edizione (Parigi, 1782)

Copia manoscritta conservata presso l’abbazia di Melk

Altra copia manoscritta conservata a Melk

Solo raramente è possibile confermare che una fonte derivi direttamente da una precedente, a meno che non ci sia una qualche testimonianza esterna. In molti casi potrebbe essere esistita una fonte intermedia ora andata perduta. Così, nell’esempio di cui sopra, le copie di Melk e l’edizione di Parigi potrebbero benissimo essere state preparate sulla base di fonti ormai perdute, sebbene in ultima analisi esse debbano derivare da una partitura autografa. Le ipotetiche fonti intermedie possono essere omesse dallo stemma. Per il primo movimento dell’ultima Sonata per pianoforte di Beethoven, l’op. 111, il quadro è un po’ più complicato e non del tutto certo. La partitura autografa fu revisionata dopo essere stata copiata da Wenzel Rampl; la copia di Rampl venne utilizzata per un’edizione parigina, prodotta da Moritz Schlesinger, che lo stesso Beethoven ebbe modo di rivedere e correggere. Nel frattempo Beethoven aveva scritto una bella copia della versione riveduta e l’aveva inviata a Londra, dove fu utilizzata per l’edizione di Clementi. Una terza edizione, prodotta a Vienna da Cappi & Diabelli, era evidentemente basata su questa stessa bella copia e sull’edizione di Schlesinger, successivamente ristampata con ulteriori correzioni. Ci sono quindi molte differenze o varianti tra le varie fonti e nessuna coincide esattamente con le intenzioni definitive di Beethoven, che in tutti i casi potrebbero anche non essere mai state coerentemente stabilite. Uno stemma attendibile (leggermente semplificato) è riportato qui di seguito, ma si tenga presente che Beethoven fu direttamente coinvolto nella produzione di tutte le fonti tranne che in quella dell’edizione di Clementi.

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TERZA PARTE - ETÀ ROMANTICA

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Archi e strumenti a corda di Robin Stowell

Introduzione Per gli archi, le prassi esecutive nazionali hanno rappresentato le basi fondamentali dell’interpretazione nel XIX e, in una certa misura, nel XX secolo, ma non furono univocamente identificabili, dal punto di vista di una qualsiasi uniformità tecnica e di stile, fino all’istituzione dei conservatori nazionali. Il conservatorio di Parigi, fondato nel 1795, fu il primo a coltivare un approccio sistematico all’insegnamento degli strumenti ad arco, favorendo, assieme a istituzioni analoghe in altre capitali, degli standard tecnici più avanzati e una maggiore formalizzazione delle conoscenze musicali. Nel corso del XIX secolo furono pubblicati molti metodi per strumenti ad arco e i nomi di alcuni degli autori di questi testi sono ancora oggi familiari attraverso le raccolte di studi, le loro composizioni maggiori o il loro legame coi grandi compositori. (Ci sono riferimenti a molti di questi autori nel corso di questo capitolo.) Sul paradigma di queste pubblicazioni possiamo rintracciare l’influenza della tradizione francese, promossa dal violinista italiano Viotti, a Bruxelles (dove venne proseguita da Vieuxtemps, Wieniawski e Ysaÿe) e, più lontano, a Vienna, in Norvegia e a Praga. Gli strumentisti ad arco italiani erano più individualisti e formarono una “scuola” sicuramente non organizzata in maniera analoga, anche se individualità come il violinista Paganini, il violoncellista Piatti e i contrabbassisti Dragonetti e Bottesini ebbero un impatto significativo sullo sviluppo di tecniche esecutive idiomatiche. Gli strumentisti tedeschi, per esempio i violinisti Spohr, il suo allievo Ferdinand David e l’allievo di questi Joachim, pur ammirando l’abilità tecnica degli italiani adottarono un approccio più posato e conservatore, deplorando lo sfruttamento della tecnica a fini commerciali anziché artistici. Col passare del secolo, tuttavia, gli stili nazionali divennero meno contraddistinti e si andò affermando uno stile internazionale sempre più omogeneo. Ciò nonostante l’individualità rimase ancora una componente attesa e apprezzata della prassi esecutiva ottocentesca.

Cambiamento sociale e immaginari virtuosistici I concerti pubblici divennero un epicentro importante per la vita sociale nel XIX secolo e il violino emerse come strumento principale, accanto al pianoforte, per l’esibizione virtuosistica. I concerti per violino di Spohr, Bériot, Vieuxtemps e Paganini esibivano numerose tecniche

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Robin Stowell

di bravura, molte delle quali furono incorporate nella maggior parte dei lavori sinfonici di Mendelssohn, Brahms, Bruch, Čajkovskij, Wieniawski ed Édouard Lalo. Questa tendenza si riflesse nei concerti per violoncello di Schumann, Dvořák e Saint-Saëns, e in quelli per contrabbasso di Dragonetti e Bottesini. Il virtuosismo venne praticato anche nelle sonate in duo, nei pezzi caratteristici e in particolare nelle fantasie da opere, nelle variazioni e nei pot-pourri; e compositori come Berlioz, Weber, Čajkovskij, Wagner e Richard Strauss compirono sensazionali progressi tecnici nella scrittura per orchestra, specialmente nelle voci più basse della sezione degli archi. Richieste di maggiore volume e brillantezza del suono si erano risolte, verso la fine del XVIII secolo, in varie modifiche nella costruzione degli strumenti (riguardanti il manico, la tastiera, il ponticello, la catena e l’anima) e questi cambiamenti furono attuati nel corso di un notevole periodo di transizione (1760-1830 ca.).

Strumenti e accessori La sagoma degli strumenti della famiglia del violino rimase sostanzialmente inalterata nel corso del periodo romantico, nonostante i tentativi di “miglioramento” e l’introduzione di nuovi modelli come il violino a forma di chitarra di François Chanot, il violino trapezoidale di Félix Savart, la viola alta di Hermann Ritter, il violon-alto1 di Michel Woldemar e le viole fuori misura di Jean-Baptiste Vuillaume. Bernhard Romberg ideò una tastiera per violoncello scavata sotto la corda Do per accoglierne le vibrazioni più ampie; Spohr adattò questa invenzione al violino, ma la tastiera scanalata fu ignorata dalla maggior parte dei suonatori di strumenti ad arco. Il contrabbasso era, allora come oggi, meno standardizzato; si trovavano strumenti a tre, quattro e cinque corde e le accordature erano le più svariate, ma entro la metà del secolo il contrabbasso a quattro corde accordato per quarte a partire dal mi1 divenne la norma. I materiali di fabbricazione delle corde cambiarono poco. Le tre corde più acute del violino erano normalmente in budello nudo, mentre la corda Sol, come le corde Sol e Do della viola e del violoncello, erano generalmente in budello rivestito da un avvolgimento di filo d’argento o di rame argentato. Le corde del contrabbasso erano anch’esse in budello rivestito oppure di budello nudo di maggiore spessore. L’invenzione di Spohr della mentoniera (1820 ca.), collocata inizialmente sulla cordiera, ma in seguito normalmente alla sua sinistra (corda Sol), modificò leggermente l’aspetto del violino (e della viola). Assieme alla spalliera, citata per la prima volta da Baillot nel 1835, la mentoniera contribuì a standardizzare le modalità di tenuta di tali strumenti, il cui conseguente bloccaggio col mento offriva agli esecutori un maggiore comfort, la sicurezza e l’indipendenza di movimento delle dita della mano sinistra e una maggiore facilità di spostamento della stessa. Il puntale per il violoncello, introdotto attorno al 1850 da Servais (anche se Robert Crome parla di un dispositivo simile già intorno al 1765), svolgeva un’analoga funzione stabilizzante. Esso venne universalmente accettato come accessorio standard solo gradualmente, ma giocò una ruolo significativo, nelle sue varie forme, nello sviluppo della tecnica della mano sinistra e nel miglioramento della qualità del suono. La viola alta di Hermann Ritter (1849-1926), di dimensioni maggiori rispetto alla viola, era caratterizzata da un'estensione più ampia e un suono più profondo e intenso. Nelle versioni più recenti, montò anche una una quinta corda accordata come quella del Mi nel violino. Il violon-alto (violino-viola) di Michel Woldemar (1750-1815) era una sorta di strumento ibrido tra il violino e la viola, con cinque corde accordate come segue: mi5, la4, re4, sol3, do3 (essendo l’accordatura del violino: mi5, la4, re4, sol3; quella della viola: la3, re3, sol2, do2). [N.d.T.]

1

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Età romantica | Archi e strumenti a corda

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Violinisti, violisti e violoncellisti furono così incoraggiati a essere più audaci nello spostarsi verso posizioni più alte su tutte le corde, sfruttando in tal modo in misura sempre crescente i registri acuti dei loro strumenti e curando una maggiore uniformità timbrica all’interno delle frasi musicali. Le scale venivano suonate, per quanto possibile, con diteggiature, arcate e cambi di corda coerenti (es. III.3.1a), e l’aumento dell’incidenza dei cambiamenti di posizione sulle note ripetute (es. III.3.1b) e gli spostamenti per semitoni facilitarono la realizzazione dell’invalsa aspirazione al legato. Sul violoncello, la naturale posizione perpendicolare della mano sinistra sul manico venne gradualmente favorita rispetto alla posizione “obliqua”, derivata dalla tecnica del violino, col pollice collocato sul lato della corda Do e le dita inclinate verso il basso sulla tastiera. Il pollice divenne un elemento tecnico essenziale e, come per il violino e la viola, un fattore sostanziale in un meccanismo di spostamento più raffinato. I metodi più stabili di tenuta di questi strumenti permisero anche l’uso più libero di mezzi espressivi quali il vibrato e il portamento. Ex. 4-1 a

[Allegro]

(a) 4th pos. 4a pos. Ex. 4-1 b

3rd pos. 3a pos.

a 2nd pos. 11st pos. 2a pos. pos.

[ Moderato]

(b)

tiré

Es. III.3.1. Louis Spohr, Violinschule (1832): (a) scala con diteggiature, arcate e cambi di corda coerenti; (b) cambiamenti di posizione sulle note ripetute, p. 176.

Portamento I portamenti, coinvolgendo percepibili slittamenti quando si cambia nota su una stessa corda, erano considerati componenti indispensabili per un’esecuzione espressiva delle frasi più lunghe e meno rigorose, oltre che per rendere il carattere legato di molta musica ottocentesca. I portamenti normalmente impiegati lentamente, in arcate legate e prevalentemente ascendenti, realizzati scorrendo con il dito di partenza – in seguito descritti da Carl Flesch 2 come portamenti I (iniziali) (es. III.3.2a) – erano d’aiuto sia nell’articolare la forma melodica sia nel sottolineare le note strutturalmente importanti. Baillot e Habeneck ne raccomandavano l’introduzione con buon gusto, soprattutto nei movimenti lenti o quando delle melodie sostenute salgono (in crescendo) o scendono (in diminuendo), come nell’es. III.3.3. Ex. 4-2a

Sol (a) Corda G string

29

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Ex. 4-2b

Corda Sol (b) G string

31 (

)

Es. III.3.2. Carl Flesch, L’arte del violino, vol. 1, p. 323. (a) Portamento I (iniziale); (b) Portamento F (finale).

Cfr. Carl Flesch, L’arte del violino (titolo orig.: Die Kunst des Violin-Spiels), vol. 1, versione italiana a cura di Alberto Curci, p. 32 e sgg., Edizioni Curci, Milano, 1924-1952. [N.d.T.] 3 Ibid. [N.d.T.] 2

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Robin Stowell

Ex. 4-3

Es. III.3.3. François Habeneck, Méthode théorique et pratique de violon (1840 ca.), p. 103. Portamento, ascendente col crescendo e discendente col diminuendo. Ex. 4-4

Adagio [

]

[

]

[

]

Es. III.3.4. Louis Spohr, Violinschule, p. 209. Portamento, ascendente e discendente. Ex. 4-5

[ Rondo] 2 Corde

Es. III.3.5. Max Bohrer, Concerto per violoncello n. 3 op. 10, Rondò, batt. 67-69.

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Coinvolgendo diteggiature fantasiose e particolari variazioni di velocità e d’intensità dello “strisciamento”, i portamenti divennero così diffusi e importanti tra gli esecutori del tardo Ottocento, come Joachim, che le generazioni successive reagirono con forza contro di essi. Nella loro Violinschule del 1902-1905, Joachim e Moser basano la loro discussione del portamento su quella di Spohr, che insiste sul portamento “I” per i grandi intervalli, rifiutando in gran parte il portamento “F” (es. III.3.2b, in cui il dito di arrivo scivola da una nota intermedia) e mirando a evitare qualsiasi «ululato spiacevole» o note intermedie udibili. Egli considera i portamenti come condizione necessaria per «uno stile e un modo di produrre il suono in modo eccellente» e ne illustra l’uso, ascendente e discendente (es. III.3.4). Nei suoi scritti sull’argomento, Bériot (1858) descrive tre stili distinti di portamento: vif (veloce); doux (dolce) e traîné (trascinato), per un’espressione lamentosa. Vaslin (1884) rifiuta quasi del tutto il portamento sul violoncello, ma Dotzauer (1832), Kummer (1839) e Romberg (1840) lo consigliano, mentre Max Bohrer lo applica in maniera particolarmente stravagante nel suo Concerto n. 3 per violoncello (es. III.3.5). È interessante notare che il portamento non era affatto confinato al repertorio della musica solistica o da camera. Esso venne utilizzato da molti orchestrali dell’Ottocento, anche se veniva introdotto in modo casuale e mancava di quella unanimità applicativa e stilistica incoraggiata dalla prassi esecutiva moderna.

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Vibrato Il punto di vista di A.C. Deacon, nell’edizione del dizionario Grove (1878-1889), che «il vibrato e il tremolo sono quasi altrettanto riprovevoli quanto le artificiosità», si riflesse in molte esecuzioni e pubblicazioni ottocentesche. Introdotto a varie velocità e intensità, il vibrato fu aggiunto solo con parsimonia, come coloritura per articolare la forma melodica, esaltare le note espressive all’interno delle frasi o agevolare la realizzazione di un cantabile.

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Note sugli ascolti

playlist

Playlist completa disponibile anche all’indirizzo edizionicurci.it/guide_abrsm_archi

Johann Sebastian Bach: Sinfonia in fa maggiore BWV 1046a (versione originale del Concerto brandeburghese n. l), primo movimento

l’es. I.1.2 e le osservazioni di George Pratt alle pp. 14-16 sulle dissonanze espressive di questo passo, l’uso del basso continuo d’accompagnamento e la declamazione retorica nella parte vocale.

New Bach Collegium Musicum Leipzig, direttore Max Pommer

Jean-Philippe Rameau: Castor et Pollux, atto II, scena 2, “Tristes apprêts, pâles flambeaux” (Télaïra)

1

I pionieri della rinascita barocca, come Christopher Hogwood, non erano soltanto interessati a suonare la musica su strumenti d’epoca (o loro repliche moderne), ma anche a ricercare versioni originali o alternative di pezzi ben noti – come nel caso di questa incisione del 1984 delle versioni originali dei concerti che Bach riunì e rivide nel 1721 per dedicarli al margravio di Brandeburgo1. Questo movimento però differisce assai poco dalla sua versione definitiva nel primo brandeburghese. L’orchestra è composta da tre oboi, un fagotto, due corni da caccia (corni naturali), archi solisti e clavicembalo. Si noti che i corni suonano figure di terzine, probabilmente veri e propri richiami di caccia, che non si conformano agli altri ritmi. Claudio Monteverdi: Orfeo, atto II, “Tu se’ morta”

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John Mark Ainsley (tenore), New London Consort, direttore Philip Pickett

Orfeo è addolorato per la notizia della morte della sua sposa, ma si decide ad andare nell’Ade per cercare di riportarla indietro con il suo canto; il coro sottolinea la natura effimera della felicità umana. Si confrontino

1

3

Emmanuelle de Negri (soprano), Ensemble Pygmalion, direttore

Raphaël Pichon Télaïra è inconsolabile per la morte del suo amato Castore, re di Sparta. L’estratto mostra le qualità distintive della musica vocale del barocco francese, con la sua sensibilità alle tensioni della lingua francese e la delicata ornamentazione. La parte del fagotto obbligato è tipica dell’orecchio immaginifico di Rameau per la timbrica strumentale. Henry Purcell: The Fairy Queen, z. 629, atto V, “Il lamento” (dal masque del quinto atto) Kym Amps (soprano), Robin Canter (oboe), The Scholars Baroque Ensemble, direttore David van Asch

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Un altro lamento per un amore perduto, questa volta da parte di un compositore inglese. La parte di obbligato è spesso suonata al violino, ma oggi si ritiene che sia stata composta per l’oboe. La prima sezione è su un basso ostinato; la seconda (dal minuto 02.02) è composta liberamente.

Christian Ludwig von Brandenburg-Schwedt (1677-1734). Margravio era un titolo nobiliare del Sacro Romano Impero e corrisponde al titolo di marchese. [N.d.T.]

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Indice

Avvertenze generali

p. 3

Prefazione di Anthony Burton

p. 5

Nota all’edizione italiana

p. 7

Prima Parte - Età Barocca Note sui collaboratori Introduzione di Christopher Hogwood Collocazione storica di George Pratt Notazione e interpretazione di Peter Holman Archi e strumenti a corda di Andrew Manze Fonti ed edizioni di Clifford Bartlett Suggerimenti per ulteriori letture

p. 10 p. 11 p. 13 p. 29 p. 59 p. 77 p. 93

Seconda Parte - Età Classica Note sui collaboratori Introduzione di Jane Glover Collocazione storica di David Wyn Jones Notazione e interpretazione di Cliff Eisen Archi e strumenti a corda di Duncan Druce Fonti ed edizioni di Barry Cooper Suggerimenti per ulteriori letture

p. 95 p. 97 p. 99 p. 111 p. 139 p. 155 p. 166

Terza Parte - Età Romantica Note sui collaboratori Introduzione di Sir Roger Norrington Collocazione storica di Hugh Macdonald Notazione e interpretazione di Clive Brown Archi e strumenti a corda di Robin Stowell Fonti ed edizioni di Robert Pascall Suggerimenti per ulteriori letture

p. 169 p. 171 p. 173 p. 183 p. 201 p. 213 p. 225

Note sugli ascolti

p. 227

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