Crediti Per le illustrazioni e gli esempi musicali riprodotti in questo libro si ringraziano: Illustrazioni Fig. II.1.1 p. 171
Esempi musicali Es. I.2.1 p. 32 Es. I.2.2 p. 34 Es. I.2.17a p. 51 Es. I.2.18 p. 53 Es. I.2.21 p. 55 Es. I.3.4 e I.3.5 p. 63 e Es. I.3.6 p. 64 Es. I.4.1 p. 71 e Es I.4.3 p. 73 Es. II.1.1 p. 94-95 Tabella II.2.1 p. 106 Es. II.2.6 p. 113 Es. II.2.16 p. 124 Es. II.2.17a p. 125 Es. II.2.17b p. 126 Es. II.4.1 p. 150 Es. II.4.2 p. 154 Es. II.4.3 p. 155 Es. II.4.4 p. 155 Es. III.2.2 p. 182 Es. III.4.1 p. 223
© Kunstmuseum Basel, Depositum der Freunde des Kunstmuseums Basel und des Museums für Gegenwartskunst 1940 Foto: Kunstmuseum Basel, Martin P. Bühler © Oxford University Press 1968. Extract reproduced by permission. All rights reserved. per courtesy of The Music Sales Group Ltd Reproduction by permission of the Syndics of The Fitzwilliam Museum, Cambridge © The British Library Board Image courtesy of Cardiff University Library: Special Collections and Archives Courtesy of Lebrecht Music & Arts Reproduced by permission of Stainer & Bell Ltd, London, England © Oxford University Press 1937. Extract reproduced by permission. All rights reserved. Kolisch, R. Tempo and Character in Beethoven’s Music (Continued) Musical Quarterly (1993) 77 (2): 268-342, table: ‘authentic metronome marks for selected works by Beethoven.’ Reprinted by permission of Oxford University Press © The British Library Board © The British Library Board © Internationale Stiftung Mozarteum (ISM) © The British Library Board © The British Library Board © The British Library Board © ONB/Wien - Image ID © The British Library Board © ONB/Wien - Image ID Courtesy of Bibliothèque nationale de France
L’editore, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini e degli esempi musicali prescelti, è a disposizione degli aventi diritto per eventuali lacune od omissioni.
Edizione italiana a cura di Angelo Gilardino Traduzione: Cristoforo Prodan Revisione: Daniela Magaraggia Redazione: Samuele Pellizzari Progetto grafico: Anna Cristofaro, Cristiano Cameroni
Contenuti digitali disponibili on line: edizionicurci.it/guide_abrsm_canto
Titoli originali dell’opera: A Performer’s Guide to Music of the Baroque Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music A Performer’s Guide to Music of the Classical Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music A Performer’s Guide to Music of the Romantic Period, © 2002 by the Associated Board of the Royal Schools of Music Per l’edizione in lingua italiana riorganizzata in quattro volumi, su licenza dell’Associated Board of the Royal Schools of Music: Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a tastiera (EC 11873) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti ad arco e a corda (EC 11874) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a fiato (EC 11875) Guida all’interpretazione della musica barocca, classica, romantica per canto (EC 11876) Proprietà per tutti i Paesi: Edizioni Curci S.r.l. – Galleria del Corso, 4 – 20122 Milano © 2016 by Edizioni Curci S.r.l. – Milano Tutti i diritti sono riservati / All rights reserved EC 11876 / ISBN: 9788863951929 www.edizionicurci.it Prima stampa in Italia nel 2016 da INGRAF Industria Grafica S.r.l., Via Monte San Genesio, 7 – Milano
Avvertenze generali Ove necessario, le altezze delle note vengono indicate utilizzando la notazione scientifica:
do centrale: c'/do4
Notazione di Helmholtz
Notazione scientifica
C''-B" (C2-B2)
do0 - si0
C'-B' (C1-B1)
do1 - si1
C-B (C-B)
do2 - si2
c-b (c-b)
do3 - si3
c' - b' (c1-b1)
do4 - si4
c'' - b'' (c2-b2)
do5 - si5
c''' - b''' (c3-b3)
do6 - si6
c'''' - b'''' (c4-b4)
do7 - si7
c''''' - b''''' (c5-b5)
do8 - si8
Nelle didascalie degli esempi musicali la data si riferisce a quella di composizione, a meno che non sia indicata fra parentesi, nel qual caso si riferisce a quella di pubblicazione o, nel caso di rappresentazioni, alla prima esecuzione. In questo volume viene adottata la notazione scientifica per la numerazione delle ottave sul pianoforte. Il do centrale (corrispondente alla frequenza di 264 Hz) viene pertanto indicato come do4, in quanto quarto do sulla tastiera, partendo da sinistra. Nella tradizione italiana, la stessa nota è indicata più frequentemente come do3 (poiché la prima ottava non ha indice numerico). I QR Code presenti nel volume (come quello a fianco) rimandano agli ascolti selezionati nelle playlist Spotify disponibili in streaming all’indirizzo: edizionicurci.it/ guide_abrsm_canto. Per ulteriori informazioni consulta le Note sugli ascolti a p. 229. I QR Code possono essere utilizzati da qualunque dispositivo mobile dotato di fotocamera e apposito programma (“app”) di lettura, che può essere scelto tra quelli disponibili gratuitamente negli app store dedicati ai principali sistemi operativi (es. iTunes Store, Google Play Store, Windows Phone Store). Come funziona: inquadrando il QR Code dall’interno dell’app, si accede al corrispondente contenuto online. L’uso delle cifre romane nella numerazione di esempi musicali e illustrazioni identifica il periodo a cui si riferiscono e la corrispondente sezione del libro (I – Età barocca; II – Età classica; III – Età romantica).
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Prefazione di Anthony Burton
Cosa intendono l’amico, l’insegnante o il membro di una giuria, quando, dopo che è stato suonato o cantato un pezzo, affermano che il brano “è stato eseguito con lo stile giusto” o, al contrario, che “non è stato molto in stile”? Significa che il pezzo è stato interpretato con, o senza, la consapevolezza di come il compositore si sarebbe aspettato che suonasse quando lo ha scritto. Queste guide sono state scritte proprio per aiutarvi a scoprire cosa si sarebbe aspettato il compositore in epoche diverse e per applicare tali conoscenze al vostro modo di suonare o di cantare. In effetti, fino all’inizio del XX secolo non c’era un’idea precisa di cosa fosse lo “stile dell’epoca”. Quando fu riscoperta, la musica dei secoli XVII o XVIII veniva di solito trattata, da curatori e interpreti, come se appartenesse al presente. Tuttavia, col passare del tempo i musicisti cominciarono a rendersi conto che non potevano tranquillamente assumere in modo semplicistico che tutto – compresi gli strumenti e il modo di suonarli – andasse sempre bene, e che il loro abituale stile esecutivo si adattasse ugualmente ad affrontare qualsiasi composizione musicale. Essi iniziarono così a ricercare nuovi modi di eseguire la musica del passato, che fossero più attenti alle aspettative del compositore: attraverso il recupero di strumenti come il clavicembalo e il liuto e la formazione di orchestre da camera; attraverso l’affermarsi delle edizioni “Urtext”, che proponevano (o pretendevano di proporre) nient’altro che le intenzioni originali del compositore; attraverso lo studio dettagliato della “prassi esecutiva”, cioè del modo in cui la musica veniva interpretata in tempi e luoghi diversi; e, più recentemente, attraverso l’utilizzo di strumenti d’epoca (o, sempre più spesso, di fedeli repliche moderne degli stessi). In tutto questo le registrazioni hanno svolto un ruolo fondamentale, facendo rivivere molte zone trascurate della storia della musica, gettando una nuova luce sulle opere famose del passato e dimostrando quale poteva essere l’intenzione del compositore. Per un po’ questi sviluppi hanno portato a uno scoraggiante trasferimento di competenze di intere aree del repertorio agli specialisti, a non vedere di buon occhio qualsiasi esecuzione di musica barocca al pianoforte e a rimuovere non solo Bach e Händel, ma anche Haydn e Mozart, dai programmi delle orchestre sinfoniche. Ma ciò non era di certo sufficiente ai musicisti o al loro pubblico; e per gli studenti che avessero voluto conoscere un repertorio musicale più vasto, probabilmente senza alcuna possibilità di accesso agli strumenti d’epoca, ciò non aveva proprio senso. In ogni caso, non appena gli esecutori specializzati e gli studiosi estesero le loro ricerche nel territorio più familiare del XIX secolo, scoprirono altre tradizioni
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Anthony Burton
esecutive andate perdute o fraintese. Così diventò sempre più chiaro che tutte le esecuzioni del passato potevano beneficiare delle conoscenze e dell’esperienza maturata dal “movimento della musica antica”. Un settore rimasto indietro riguardo a questo aspetto è quello della didattica. Molto spesso solo gli artisti che hanno effettuato studi musicali fino al liceo musicale o all’università (e certamente non tutti) si sono cimentati con le idee sull’interpretazione filologica. E poche sono state le pubblicazioni contenenti delle informazioni affidabili di carattere generale, non specialistico, sull’interpretazione della musica del passato. È questo il divario che noi cerchiamo di colmare con questa serie di guide all’interpretazione della musica attraverso epoche diverse: l’età barocca, definita approssimativamente come quel periodo che va dal 1600 circa al 1759 (anno della morte di Händel); l’età classica, dal 1759 (prima sinfonia di Haydn) al 1828 (anno della morte di Schubert); l’età romantica, dal 1828 (anno di composizione dell’op. 1 di Berlioz) a circa il 1914. Le guide si rivolgono principalmente agli studenti dell’Associated Board (soprattutto dei livelli più avanzati) e ai loro insegnanti – per non parlare degli esaminatori. Tuttavia esse non sono state pensate come vademecum per specifici piani di studio, attuali o futuri; e noi speriamo che possano essere utili a tutti i musicisti, oltre che agli adulti dilettanti e ai professionisti. I volumi seguono tutti lo stesso schema. Per ognuna delle tre epoche storiche, un capitolo introduttivo che delinea la collocazione storica della musica e un capitolo conclusivo che tratta delle fonti e delle edizioni. Gli autori di questi saggi, tutti scelti fra i massimi esperti del settore, hanno adottato approcci nettamente diversi per raggiungere i loro obiettivi, per cui i volumi costituiscono, nel loro insieme, un’introduzione ai diversi modi di trattare la storia della musica e la musicologia. Ogni volume contiene un importante capitolo generale su come la notazione sarebbe stata interpretata dai musicisti dell’epoca, seguito da una serie di capitoli più specifici dedicati, in ognuna delle quattro guide, rispettivamente agli strumenti a tastiera, agli archi e agli strumenti a corda, agli strumenti a fiato e al canto. Questi capitoli sono stati scritti da musicisti che non hanno soltanto una competenza accademica, ma anche un’esperienza di prassi esecutiva, in molti casi ai più alti livelli. Un elemento importante che emerge da questi capitoli è che i diversi tipi di musicisti hanno sempre imparato gli uni dagli altri. Ci auguriamo che leggiate tutti i capitoli, non solo quelli dedicati alla vostra specialità;1 e anche che ricaviate chiarimenti e stimoli da tutti i brani di cui consigliamo l’ascolto. Un altro elemento importante trasmesso dagli autori in molti punti del testo è che l’obiettivo dell’interprete non è semplicemente dare l’esposizione più accurata possibile delle note stampate sulla pagina. Questa è un’astrazione circolata solo per pochissimi anni alla fine del XX secolo. Normalmente, per secoli, ci si è sempre aspettato che l’interprete fornisse un apporto, attraverso la sua abilità strumentale e il proprio gusto personale, a sostegno della concezione del compositore – in alcuni momenti dando anche un sostanziale contributo. Quindi ci auguriamo che consideriate queste guide non come un insieme di istruzioni su come realizzare un’interpretazione “corretta”, ma come una fonte di tutte quelle informazioni di cui avrete bisogno per realizzare un’interpretazione significativa – una sintesi fra l’ispirazione del compositore nel passato e la vostra immaginazione e fantasia nel presente.
Si veda la Nota all’edizione italiana.
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Nota all’edizione italiana
Rispettando il testo dell’introduzione di Anthony Burton – che appare indispensabile per la comprensione della forma originale dell’opera ‒ si rende necessario spiegare preliminarmente che questa edizione è stata strutturata in modo da renderla aderente a quelle che, in base alle esperienze acquisite dall’editore, si presume siano le preferenze dei lettori italiani: si è ritenuto cioè che nelle nostre scuole di musica, a ogni livello, prevalga in ogni categoria di interpreti l’interesse specifico per la trattazione riguardante il proprio ambito strumentale. Mantenendo quindi intatto e inalterato il contenuto del testo originale, si è proceduto a una ripartizione del medesimo non più per età (barocca, classica, romantica), ma per destinazione: strumenti a tastiera, strumenti ad arco, strumenti a fiato, canto. Ciascuno dei quattro volumi derivati da tale ristrutturazione conserva, in comune con gli altri, le parti di interesse generale, e si differenziano dunque soltanto le trattazioni dei rispettivi ambiti strumentali. Naturalmente, tale scelta editoriale – operata con il proposito di offrire ai lettori italiani il servizio che essi si aspettano ‒ non può andare disgiunta dall’auspicio che i componenti di ciascuna categoria leggano anche i volumi destinati alle altre – il che li ricongiungerebbe idealmente ai lettori dell’edizione originale – ma si è preferito lasciare tale lodevole orientamento alla scelta personale. Il curatore
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PRIMA PARTE - ETÀ BAROCCA
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Collocazione storica di George Pratt
Esplorare un’epoca lontana Un’“epoca” artistica non può essere datata con precisione. È sempre possibile ravvisare dei prodromi nell’approssimarsi di nuove idee e spesso le influenze si protraggono oltre la morte di un compositore o i cambiamenti delle condizioni politiche, sociali ed economiche. Ci sono però delle buone ragioni per identificare il 1600 come uno spartiacque che, almeno in Italia, coincide con la nascita dell’opera. Un secolo e mezzo dopo, la morte di Händel, avvenuta nel 1759, segnò la scomparsa del secondo gigante del tardo barocco dopo J.S. Bach. Guardare semplicemente indietro di quattrocento anni può portare a una visione compressa e distorta, come se si guardasse dalla parte sbagliata di un telescopio. Allora si tenga presente che se l’età barocca stesse finendo oggi, nei primi anni del nuovo millennio, essa avrebbe avuto inizio attorno al 1840. E a questo punto Beethoven e Schubert sarebbero scomparsi da poco più di un decennio e Ciajkovskij sarebbe appena un neonato. L’arco di tempo che va dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri è stato un periodo di enormi cambiamenti. Allo stesso modo, sebbene alcune caratteristiche distintive la rendano unitaria, l’età barocca racchiude una vasta gamma di mutamenti dello stile compositivo e della prassi esecutiva, nonché del pubblico al quale la musica era rivolta. Lo scopo di questo capitolo è dunque quello di delineare le caratteristiche distintive non solo dei diversi luoghi, personaggi e generi riguardanti la musica, ma anche di un lungo periodo – durato centosessant’anni – di influenze, cambiamenti e sviluppi. Un altro errore può derivare dall’assunto inconsapevole che, cambiando, la musica diventi anche più sofisticata, che migliori. Ma un istante di riflessione ci rivelerà che un brano del quinto libro di madrigali di Monteverdi è perfetto, per finalità e collocazione, nel contesto della corte di Mantova del 1605 quanto lo può essere un coro dell’oratorio Jephtha scritto da Händel per il teatro del Covent Garden nel 1752.
Una perla irregolare La lingua portoghese ha utilizzato la parola barroco per descrivere una perla imperfetta. L’equivalente francese del termine, baroque, continuò a essere usato per tutto il XVIII secolo per indicare qualcosa di stravagante e bizzarro. Jean-Jacques Rousseau scrisse nel suo Dictionnaire de musique (1768): «La musica barocca è quella in cui l’armonia è confusa e carica di © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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George Pratt
modulazioni e dissonanze, la melodia è dura e poco naturale, l’intonazione difficile, il movimento forzato». Solo nel corso del Novecento il termine assumerà i significati di ampollosità, decorativismo, esuberanza e appariscenza. Tutto ciò descrive indubbiamente lo spirito di fondo dell’età, nonostante la ricca varietà di stili che si sono manifestati nel corso dei centosessant’anni che stiamo esplorando.
Terreno comune Al pari dello spirito vivace, ci sono altre caratteristiche comuni a tutta la musica barocca. La più ricorrente è la presenza del basso continuo, una linea melodica formata da tutte le note più gravi che si susseguono in un brano. Le implicazioni di questa pratica sono fondamentali per comprendere come i compositori barocchi concepivano la loro musica. Ascoltate un movimento di una messa scritta da compositori dell’alto Rinascimento come Palestrina o Lasso. Qui le linee indipendenti procedono orizzontalmente, in melodie intrecciate. Esse ovviamente creano un’armonia verticale, ma la loro funzione principale è melodica. In luogo di questo intreccio contrappuntistico i compositori barocchi costruirono l’armonia, con accordi chiaramente identificabili, che poi utilizzavano secondo concatenazioni particolari, in senso orizzontale, attraverso un continuum temporale. Gli es. I.1.1 e I.1.2 mostrano rispettivamente il flusso contrappuntistico orizzontale e il movimento armonico verticale. Nel momento in cui un compositore (raramente una “compositrice” nel periodo barocco, anche con alcune eccezioni) pensava in verticale, poteva usare la dissonanza in modi profondamente intensi ed espressivi. L’impatto della vicenda di Orfeo, quando apprende che la sua sposa è morta avvelenata dal morso di un serpente, poteva commuovere il pubblico fino alle lacrime. Cantus Ky
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Es. I.1.1. Giovanni Pierluigi da Palestrina, Missa tertia “Jesu, nostra redemptio” (1582): Kyrie, batt. 1-13. Le prime entrate per ogni voce sono imitative a distanze diverse: il basso e il contralto entro una battuta, il soprano ritardato alla batt. 4½ e il tenore di nuovo alla prima pulsazione alla batt. 6. La seconda figura melodica imitativa o “punto” inizia poi immediatamente e meno rigorosamente: solo il ritmo di tre semiminime del “Ky-rie e-” è coerente. L’armonia, per quanto estremamente controllata, deriva dalle linee melodiche orizzontali.
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Età barocca | Collocazione storica
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La musica costruita su una linea di basso ben definita pone un’enfasi simile sulla melodia soprastante. Le parti esterne diventano poli opposti. L’es. I.1.2 illustra infatti come Claudio Monteverdi (1567-1643) abbia scritto solo la linea vocale di Orfeo e la parte del basso. Le armonie sono da riempire con strumenti polifonici o in grado di produrre accordi – il clavicembalo, l’organo, il liuto, il chitarrone (un liuto basso dal manico lungo) o l’arpa – e improvvisate dagli esecutori, guidati solo da alcuni numeri posti sotto il basso che, come una sorta di stenografia musicale, indicano quali sono le armonie necessarie. La disposizione degli accordi, il numero di note che li compongono e l’impiego di note di passaggio sono tutti dettagli di pertinenza dell’esecutore. 1-1b
Orfeo
Tu
se’mor
ta,
se’ mor ta mia vi
ta
ed io res pi
Un organo di legno e un chitarone Continuo
- ro,
tu
mai più
non tor na
se’ da me par ti
re
ed io
ri
ta,
ma
se’ da me par ti
no,
no,
ta per mai più,
no,
Es. I.1.2. Claudio Monteverdi, Orfeo (1607): atto II, “Tu se’ morta”, batt. 312-321 (con aggiunta editoriale della parte per la mano destra). Qui la concezione è verticale: la frase di apertura di Orfeo contiene un salto a una dissonanza eclatante completamente non preparata, un fa#2 sopra il sol2. Seguono diversi altri contrasti simili, quando il cantante è sopraffatto dal dolore per la morte della sua sposa.
La tradizione del basso continuo prosegue per tutto il periodo barocco. Un’aria di Bach o un movimento di una sonata strumentale di Händel richiedono ancora che un musicista alla tastiera, o su uno strumento a corde pizzicate, riempia l’armonia tra i due poli opposti costituiti dal basso e dalle parti della melodia. Gli strumentisti devono essere consapevoli che un accompagnatore, e talvolta il solista, suoneranno spesso delle integrazioni editoriali alla melodia © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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George Pratt
e al basso piuttosto che le note originali scritte dal compositore (v. volume Guida all’ interpretazione della musica barocca, classica, romantica per strumenti a tastiera, “Età barocca | Strumenti a tastiera”1, pp. 66-68). Altro terreno comune a tutto il Barocco è il potere retorico della musica. Esso in gran parte è destinato alla comunicazione di passioni forti, di emozioni suggestive. Il New Grove Dictionary of Music and Musicians, alla voce “Retorica e musica”, fornisce un elenco affascinante di sessantuno figure con lo specifico significato retorico. Esempi eloquenti sono il salto ascendente per un’esclamazione, la scala discendente per indicare una domanda, la scala cromatica discendente per denotare tristezza. L’es. I.1.2 è saturo di espedienti retorici: il silenzio di Orfeo di incredulità all’inizio; le dissonanze già individuate su specifiche parole o sillabe toccanti; i valori delle note si riducono appena Orfeo inizia a rendersi conto; la linea che sale fino al culmine in «rimano»; il calembour sull’ultima sillaba «no, no». Una siffatta retorica musicale era un modo per suscitare sentimenti specifici – paura, amore, odio, rabbia, gioia. La musica era – ed è ancora – destinata a commuoverci intensamente. Questo ha chiare implicazioni per noi come interpreti e lo stesso valeva nel tardo barocco, che seguiva la convenzione secondo cui una qualsiasi aria o movimento strumentale si concentrava normalmente su uno solo di una gamma definita di sentimenti, o “affetti”, come venivano chiamati. Una volta stabilito uno stato d’animo, esso sarà generalmente mantenuto per tutto il movimento. In terzo luogo, la musica barocca è ricca di vitalità ritmica. L’Orfeo di Monteverdi comprende musica da ballo, che ci si aspettava fosse danzata dagli interpreti sul palco. Più di cento anni dopo, nel 1727, Bach concludeva la sua Passione secondo Matteo, non appena il corpo di Cristo è stato sepolto, con una lenta sarabanda, per trasmettere sia il lamento sia la promessa di redenzione. Mentre i ritmi fortemente connotati caratterizzano gran parte della musica barocca, la melodia polarizzata e la passione retorica appartengono soprattutto alla musica vocale drammatica, ed è qui che la nuova musica del Barocco comincia veramente: in Italia.
Origini italiane Nel 1600 l’Italia non era lo stato unitario che è oggi. Essa era formata da ducati separati, governati attraverso potenti famiglie nobiliari come i Gonzaga di Mantova, da regni appartenenti ad altri Paesi – la Spagna governò Napoli fino al 1713 – e da una fascia centrale di territori sotto il dominio pontificio, da Roma a Ferrara. Nonostante questa frammentazione politica, l’Italia era unita dalla lingua comune e dalla sua fedeltà al papa. I governanti facevano a gara tra di loro per dimostrare la loro importanza e magnificenza, con sontuosi palazzi, eventi sociali spettacolari, opere teatrali e musica.
L’invenzione del melodramma In un’epoca umanistica, in cui l’uomo poteva decidere il proprio destino piuttosto che lasciarlo interamente nelle mani di Dio, la filosofia e la cultura della Grecia classica furono idealizzate. La storia di Orfeo, il soggetto del primo grande melodramma di Monteverdi, è una leggenda greca che si apre nei campi della Tracia, popolati da ninfe e pastori, e la cui ambientazione bucolica rappresentava una fuga dal formalismo di maniera della vita di corte. L’opera incorpora danze, canti, musica 1
D’ora in avanti i volumi che compongono queste Guide all' interpretazione verranno indicati semplicemente come Per strumenti ad arco e a corda, Per strumenti a tastiera, Per strumenti a fiato, Per canto.
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Età barocca | Collocazione storica
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strumentale e cori di gioia e di sgomento. Ma nessuno di questi elementi è adatto per veicolare la narrazione e un dialogo drammatico. Fu per questo motivo che Monteverdi optò per il recitativo – parole in musica – appena inventato da un gruppo di intellettuali, nobili, poeti, musicisti, filosofi di Firenze, che si fece chiamare la Camerata. Le implicazioni del recitativo sono molto significative. Come mostrato nell’es. I.1.2, la parte del basso si muove lentamente, ed è abbastanza stabile da far sì che l’orecchio possa cogliere le dissonanze soprastanti, fortemente accentuate.
Madrigali Un’analoga innovazione stilistica era apparsa, due anni prima dell’Orfeo, nel quinto libro di madrigali di Monteverdi. I primi tredici pezzi sono per le consuete cinque voci non accompagnate, ma gli ultimi sei richiedono sorprendentemente l’aggiunta del basso continuo; le sezioni a voce sola in essi contenute risulterebbero del tutto incomplete senza questo sostegno armonico strumentale. Monteverdi stesso descrisse il suo audace uso della dissonanza, razionalizzato attraverso l’approccio verticale all’armonia, come seconda pratica, cioè il secondo e moderno modo di scrivere, in contrasto con la prima pratica, ossia l’intreccio contrappuntistico orizzontale che vincola lo sviluppo delle armonie risultanti.
Organici strumentali Sebbene le corti e le principali chiese avessero alcuni strumentisti alle loro dipendenze, l’idea di un organico di riferimento per l’orchestra era sconosciuta. Per la rappresentazione privata dell’Orfeo in una sala del palazzo ducale di Mantova, c’erano a disposizione quaranta strumenti assortiti e Monteverdi ne fece un uso attento per ottenere effetti specifici. Un esempio è la sostituzione dell’organo a canne di legno con un chitarrone per accompagnare il grido di angoscia di Orfeo (es. I.1.2). Al contrario, L’incoronazione di Poppea, sempre di Monteverdi, fu scritta per essere rappresentata pubblicamente nel 1642-1643 a Venezia, in un teatro d’opera in cui, come oggi, l’amministrazione teatrale operava sotto il peso di gravi ristrettezze economiche. In essa Monteverdi non usa più di un piccolo manipolo di archi, alcuni strumenti per il basso continuo e un paio di fiati portati in scena per la magnificente incoronazione poco prima del finale. E non c’era nemmeno la necessità di impiegare un coro costoso. Ormai, l’attrazione principale per il pubblico era il cantante solista: nel recitativo, per sviluppare l’azione scenica, e nelle arie – brani cantati in cui il dramma si interrompe e prevale la musica.
Il dramma sacro Molte caratteristiche della nuova opera trovarono sviluppo anche nella musica sacra, in particolare nell’oratorio. Il compositore romano Giacomo Carissimi (1605-1674) scrisse Jephte negli anni Quaranta: non molto tempo dopo L’ incoronazione di Poppea di Monteverdi. Come per l’Orfeo, si tratta di tragedia: Jephte si è inavvertitamente impegnato a sacrificare la propria figlia. Il suo lamento struggente per la morte imminente di lei si compone di un recitativo libero intervallato da passaggi misurati di canto. Pur non essendo rappresentato in forma teatrale, la combinazione di recitativi e arie di questo oratorio sembra molto simile alla partitura di un’opera. Solo l’aggiunta di una voce narrante per raccontare la storia (come l’evangelista di Bach descrive la passione di Cristo, come vedremo più avanti) e di un coro, lo distingue dall’opera, almeno sulla carta.
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Canto di John Potter
Approccio al testo Date un’occhiata agli esempi, riportati nelle pagine seguenti, tratti dal Messia di Händel. Il primo (es. I.3.1) è nella grafia originale del compositore, il secondo (es. I.3.2) è tratto dall’edizione di Prout del 1902 e il terzo (es. I.3.3) dall’edizione di Watkins Shaw del 1959 (ancora oggi in uso). Ciascuno di questi esempi ci dice molto su come la gente del tempo percepiva la musica e ognuno ci fornisce un complesso di informazioni differenti sulla prassi esecutiva. Le note sono fondamentalmente le stesse (lo sono?), ma ciascuna delle edizioni novecentesche aggiunge qualcosa all’originale händeliano. Händel scrive solo una linea di basso da suonare alla tastiera e si aspetta che l’esecutore aggiunga le armonizzazioni appropriate. Prout inserisce un’indicazione metronomica e raddoppia la linea del basso all’ottava; Watkins Shaw aggiunge note in più e indicazioni di pedale; entrambi aggiungono legature e segni di fraseggio. Siete confusi? Perché mai il compositore non ci lascia adeguate istruzioni su come eseguire il suo pezzo? È quasi come se egli abbia abbozzato alcune idee e lasciato agli interpreti il compito di riempire il resto. In sostanza ciò è esattamente quel che Händel ha fatto. L’idea moderna che esecutori e compositori siano delle specie separate sarebbe apparsa molto strana a Händel. Lui stesso era uno dei tastieristi più brillanti della sua epoca, e per lui, come per i suoi colleghi musicisti, comporre ed eseguire erano solo diversi rami dello stesso albero musicale. I manuali di canto sottolineano altresì quanto sia importante per i cantanti comprendere anche i principi compositivi. A scuola, Händel, prima ancora di iniziare i suoi studi musicali, aveva imparato l’arte della retorica. Oggi usiamo questo termine in relazione al modo in cui un attore recita le sue battute in scena. Nel XVIII secolo e anche prima, la retorica era molto più di questo; era una competenza essenziale per tutti nella vita pubblica, dall’avvocato al politico, dal cantante a chi faceva semplice conversazione. La retorica consentiva a oratori e cantanti di sapere istintivamente come un testo avrebbe dovuto essere declamato o cantato nel modo più persuasivo. Questo è il motivo principale per il quale il manoscritto di Händel non ha segni dinamici nella parte vocale. Non che il cantante avrebbe cantato senza espressione; tutto il contrario in realtà. La conoscenza della retorica avrebbe assicurato la massima espressione necessaria a comunicare il testo. E chi fu il controtenore che cantò la prima esecuzione di questo grande assolo per contralto? Beh, non era un controtenore in realtà, ma Susanna Cibber, che non era affatto una
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John Potter
cantante (si diceva che avesse «solo un filo di voce»), ma forse l’attrice più carismatica della sua generazione. È straordinario che uno dei pezzi più belli del secondo millennio sia stato scritto da un compositore che ha lasciato la maggior parte delle decisioni interpretative agli esecutori; e almeno a una che, a quanto pare, non era nemmeno cantante.
Es. I.3.1. Georg Friedrich Händel, Messia, 1741, partitura autografa: “He was despised”, pp. 1-2.
Ma supponiamo che la Cibber sapesse un po’ di canto e provate a immaginare a che cosa potessero assomigliare il suo suono, la sua tecnica e il suo stile. Dopo tutto, se questi aspetti erano abbastanza buoni per Händel, lo dovrebbero essere anche per noi. Il Messia fu composto nel 1741, quindi abbiamo bisogno di cercare un manuale di canto risalente all’incirca a quella data – preferibilmente uno di origine italiana, dal momento che Händel trascorse gran parte della sua carriera scrivendo opere italiane. Un trattato di canto fu pubblicato in Italia nel 1723 dal famoso castrato Pier Francesco Tosi1. Nel 1742 ne apparve una traduzione in inglese e nel 1757 una in tedesco; per cui, evidentemente, questo libricino era assai considerato dai cantanti del tempo. Che cosa ci dice? Sorprendentemente poco. Ad esempio, non troverete nulla sulla respirazione diaframmatica, quella tecnica indispensabile insegnata a tutti i cantanti di oggi. L’argomento su cui si dilunga di più è l’usanza di abbellire canzoni e arie; il che conferma che Händel si aspettava che i cantanti scegliessero non solo propri ritmi e dinamiche ma anche parecchie note. Tosi parla di melismi e trilli realizzati con buon gusto, e di «rubare il tempo». Questo è ciò che noi chiameremmo “rubato”, un rallentando e accelerando espressivo volto a chiudere bene una fioritura, o da inserire in un momento di particolare importanza nel testo.
Pier Francesco Tosi (1654 – 1732) fu un cantore evirato sopranista italiano, oltre che compositore e studioso di musica. Il suo trattato più importante è Opinioni de’ cantori antichi e moderni, o sieno osservazioni sopra il canto figurato, pubblicato a Bologna, per Lelio della Volpe, nel 1723 (rist. con note ed esempi di Luigi Leonesi, Napoli, Di Gennaro & Morano, 1904; rist. anastatica Bologna, Forni, 1985). Johann Ernst Galliard (1687-1749) tradusse e commentò in inglese questo libro pubblicandolo col titolo Observations on the florid song or sentiments of the ancient and modern singers, Londra, 1742. Anche Johann Friedrich Agricola (1720-1774) pubblicò una traduzione tedesca dell’opera intitolandola Anleitung zur Singekunst, Berlino, 1757. [N.d.T.]
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Età barocca | Canto
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6-2
Largo
= 72
alto He was
des
pi sed and re ject ed,
a man of sor
- quaint ed
with grief,
re
rows,
a man
ject
a man of sor
of
sor rows, and ac quaint
des pi sed,
ed of men,
rows, and ac
ed with grief.
Es. I.3.2. Georg Friedrich Händel, Messia, edizione di Ebenezer Prout (1902): “He was despised”, batt. 1-21.
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SECONDA PARTE - ETÀ CLASSICA
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Collocazione storica di David Wyn Jones
Perché “classico”? Quando si parla o si scrive di musica, l’aggettivo “classico” viene utilizzato in due ambiti semantici differenti, entrambi comunemente accettati: “classica” viene definita la musica colta, in contrapposizione alla musica pop o popolare e, in maniera più specialistica, “classico” denota quel periodo, nella storia della musica occidentale, che va dal 1750 al 1830 circa. In quest’ultimo senso il termine è spesso accoppiato all’aggettivo “viennese”, a sostegno del fatto che le quattro le figure più autorevoli del periodo, Joseph Haydn (1732-1809), Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), Ludwig van Beethoven (1770-1827) e Franz Schubert (17971828), erano tutte collegate con la città di Vienna. Ma nessuno di questi compositori si sarebbe trovato a suo agio con l’idea di essere definito “classico”, in entrambi i sensi. I termini “scuola di Vienna”, “età classica”, “classicismo viennese” sono entrati nel linguaggio comune solo fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, quando i critici che studiavano lo sviluppo della musica individuarono nello stile di Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert il fondamento della musica del loro tempo. In quel senso i quattro furono celebrati e consegnati alla storia o, per meglio dire, furono considerati “classici” visto che erano straordinari ed erano i caposcuola. Gradualmente il termine “età classica” assunse un significato secondario che contribuì a rendere comune la sua circolazione: se “classico” poteva anche implicare moderazione, equilibrio ed eleganza, allora si trattava di un’utile etichetta per distinguere compositori come Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert da quelli “romantici”, più inclini a essere espressivi, ribelli e sensibili. Come avviene per tutte le facili etichette, anche quella di “età classica” ha i suoi problemi. Tuttavia coloro che per primi ne promossero l’uso, un centinaio di anni fa, lo fecero in considerazione di un semplice, indiscutibile, fatto: il periodo che va dal 1750 al 1830 circa vide il manifestarsi di molte caratteristiche di stile e di vita musicali che sarebbero poi state fondamentali per i successivi cento anni o giù di lì. In effetti persino agli inizi del XXI secolo la composizione musicale e vita musicale sono ancora fortemente influenzate dall’età classica. Quell’età ha visto l’invenzione di diversi generi ancora oggi presenti: la sonata di un esecutore da solo, il quartetto d’archi, il trio con pianoforte e la sinfonia, tanto per citarne alcuni. Questi nuovi generi erano tutti strumentali, e ciò sta a indicare un cambiamento più generale: la musica strumentale stava sempre di più acquisendo lo stesso status della musica vocale. Il genere più universalmente riconosciuto nella tarda età barocca era rappresentato dall’opera italiana: alla fine dell’età classica lo diverrà la sinfonia. Lo sviluppo della sinfonia © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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David Wyn Jones
favorì la formazione di un’orchestra più standardizzata e la comparsa di concerti pubblici; tratti distintivi, questi, di cui si può trovare traccia anche nei periodi precedenti, ma che si accentuarono fortemente solo in epoca classica. Come nell’età barocca, la musica proposta era per lo più contemporanea, ma l’età classica vide anche un crescente interesse nella rappresentazione di musica del passato accanto a opere nuove e recenti. Questa tendenza acquisì slancio nel corso dell’età romantica, fino a raggiungere il punto in cui la maggior parte dei concerti furono basati più sulle composizioni del passato che su quelle nuove; la musica era diventata parte della cosiddetta cultura da museo, una situazione che è difficile immaginare che cambierà mai. Anche se nell’età classica la musica strumentale ricoprì un ruolo di maggiore importanza, la musica vocale continuò a prosperare, con alcuni nuovi sviluppi degni di nota. Nell’ambito del teatro musicale, compositori come Christoph Willibald Gluck (1714-1787) e Mozart esplorarono nelle loro opere un realismo drammatico, indipendentemente dal fatto che l’argomento trattato fosse serio o comico; anzi, mentre la vecchia “opera seria” si estinguerà nel tardo Settecento, le composizioni operistiche di Mozart offriranno un trattamento altrettanto serio e verosimile della natura e delle relazioni umane. Il predominio della lingua italiana fu messo in discussione non appena compositori di opere liriche, in particolare in Francia e in Germania, cominciarono a rivendicare una parità artistica. L’unica opera composta da Beethoven, il Fidelio, ha la struttura del Singspiel tedesco che, con i suoi dialoghi parlati al posto del “recitativo secco” (con il solo accompagnamento di uno strumento tastiera), era stato in precedenza considerato una forma leggera. La musica sacra della chiesa protestante e cattolica continuò a essere prodotta in quantità dai compositori, sia maggiori sia minori, sebbene, anche in questo campo, vi fu uno sviluppo interessante: lavori originariamente destinati a funzioni religiose specifiche venivano eseguiti anche autonomamente, accanto ai concerti strumentali e alle sinfonie. A causa di questa tendenza, opere importanti come il Requiem di Mozart, lo Stabat mater di Haydn e la Messa in do maggiore di Beethoven entrarono a far parte del repertorio concertistico, oltre che liturgico. Un retaggio infelice del termine “scuola classica viennese” è che esso concentra troppo l’attenzione sui grandi compositori associati alla città di Vienna, emarginando le decine o centinaia di compositori nel resto d’Europa che ugualmente contribuirono alla vivacità della vita musicale del periodo. Per esempio, un appassionato di musica che fosse vissuto a Londra nella seconda metà del Settecento sarebbe stato sicuramente entusiasta della musica di Haydn, ma avrebbe probabilmente anche apprezzato la musica di altri compositori, fra i quali Johann Christian Bach (1735-1782, il figlio più giovane di Johann Sebastian Bach), che era vissuto nella città per oltre vent’anni e che era ben noto per le sue sinfonie, i concerti e le opere liriche; o l’italiano Niccolò Piccinni (1728-1800), compositore dell’opera La buona figliuola (tratta dal romanzo Pamela, di Samuel Richardson, una delle opere più eseguite del tempo in tutta Europa); o il boemo Adalbert Gyrowetz (1763-1850), che scrisse parecchie apprezzabili sinfonie. Il verdetto della storia è stato che Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert sono stati compositori più interessanti ed effettivamente più grandi degli stessi J.C. Bach, Piccinni e Gyrowetz, ma che, nondimeno, c’è una gran quantità di musica interessante e piacevole di questo periodo realizzata dai cosiddetti compositori minori. Ad esempio, un altro figlio di Johann Sebastian Bach, Carl Philipp Emanuel Bach (1714-1788), che operò fra Berlino e Amburgo, rappresenta quella schiera di compositori del nord della Germania insoddisfatti dello scarso contenuto emozionale di molta della musica della metà del secolo che si esprimeva nel cosiddetto “stile galante”. C’è una maggiore qualità ricercata, talvolta anche © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
Canto
di Richard Wigmore
I cantanti nell’età classica Una recriminazione sin troppo comune in quest’epoca di rivelazioni e mistificazioni è che i cantanti siano sotto pressione nel fare troppo e troppo presto. Molti di noi possono pensare a cantanti diventati delle celebrità poco più che ventenni che poi, spinti da agenti, impresari d’opera e dirigenti di case discografiche, e forse dalla loro stessa popolarità, hanno assunto ruoli troppo gravosi. Il probabile risultato è, nella migliore delle ipotesi, una perdita di freschezza e purezza di timbro, e nel peggiore dei casi l’inizio di un lento declino vocale. Qualsiasi venticinquenne che oggi affronti, ad esempio, il ruolo di Leonore nel Fidelio di Beethoven o di Agathe nel Franco cacciatore di Weber – entrambi notoriamente impegnativi per un soprano lirico drammatico – sfida seriamente la sorte. Eppure, se torniamo indietro di due secoli troviamo, sorprendentemente, che il soprano austriaco Anna Milder-Hauptmann era appena diciannovenne quando fece la Leonore nella versione originale del Fidelio nel 1805 e che Wilhelmine Schröder-Devrient, destinata a essere una delle più celebrate dive del suo tempo, ottenne trionfi nei ruoli sia di Leonore sia di Agathe prima di raggiungere il suo diciottesimo compleanno. La leggendaria Maria Malibran fece il suo debutto nel ruolo di Rosina nel Barbiere di Siviglia a Londra nel 1825, anche lei diciassettenne. Né erano queste delle eccezioni isolate. Considerando solo alcuni dei cantanti con cui Mozart lavorò: sia la prima Contessa d’Almaviva nelle Nozze di Figaro, Luisa Laschi, sia il primo Don Giovanni, Luigi Bassi, erano appena ventunenni; Anna Gottlieb, la Charlotte Church1 del suo tempo, cantò Barbarina nella prima delle Nozze di Figaro due giorni dopo il suo dodicesimo compleanno ed era già una matura professionista quando ricoprì il ruolo di Pamina nel Flauto magico cinque anni dopo; e in quell’opera anche la parte di Sarastro, con le sue connotazioni di dignità e saggezza, fu ricoperta per la prima volta dal ventiseienne Franz Gerl, che quattro anni prima aveva ottenuto un successo nell’arduo ruolo di Osmin nel Ratto dal Serraglio. Che questi cantanti fossero dei professionisti a pieno titolo a un’età in cui le loro controparti moderne frequentano ancora le scuole o le università musicali ci dice sicuramente qualcosa sul rigore della loro prima formazione. I cantanti di duecento anni fa, soprattutto soprani Charlotte Church (Cardiff, 1986) è una nota cantante e attrice britannica che si affermò come cantante di musica classica all’età di soli undici anni, per poi approdare al genere pop. [N.d.T.]
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Richard Wigmore
e tenori, aveva un vantaggio, consistente nel fatto che le altezze erano circa un semitono sotto quelle di oggi – e qualsiasi aspirante Leonore vi dirà che cosa significa. Ma forse la differenza fondamentale tra i cantanti d’opera dell’inizio del XIX secolo rispetto a quelli dell’inizio del XXI consiste nel volume che i primi erano tenuti a produrre. Nel 1800, la maggior parte dei teatri e delle sale da concerto aveva dimensioni sensibilmente più piccole rispetto agli edifici costruiti nel corso dell’Ottocento e del Novecento; e, cosa ancor più importante, i cantanti del periodo di Mozart e Beethoven non dovevano confrontarsi con la massa e il volume di un’orchestra moderna. Con le corde in budello, suonate con un vibrato minimo, e gli ottoni privi di valvole, le testure orchestrali erano molto più leggere e trasparenti. E un cantante dotato di una voce ben proiettata e centrata poteva dominare un accompagnamento pieno senza alcun bisogno di forzare l’emissione, cosa che oggi si rivela spesso una trappola per i giovani cantanti. Per quanto una voce corposa e risonante fosse sempre apprezzata, il classicismo non teneva troppo in considerazione la potenza vocale in quanto tale. I cantanti erano ripetutamente elogiati per la rotondità e dolcezza della loro voce, per l’agilità nei passaggi elaborati, per la padronanza sia dello stile “brillante” sia di quello “patetico” e per il perfetto controllo della nuance e delle ornamentazioni. Nelle sue Musical Reminiscences (1824), il conte Richard di Mount-Edgcumbe descrisse Gasparo Pacchierotti, l’insigne castrato del tardo Settecento, con le seguenti parole: La voce di Pacchierotti era quella di un soprano esteso, piena e dolce al massimo livello; le sue capacità di esecuzione erano grandi, ma egli aveva troppo buon gusto e troppo buon senso per metterle in mostra dove sarebbe stato un errore farlo, limitandosi a un’aria di bravura in ogni opera, consapevole che la delizia maggiore del canto e la sua suprema eccellenza risiedono in un’espressività toccante e in un pathos di rara bellezza. Brigida Banti, una delle primedonne più in vista del tardo Settecento, nonostante uno stile di vita notoriamente dissoluto (si diceva che bevesse almeno una bottiglia di vino al giorno), fu celebrata in termini particolarmente altisonanti nel Morning Chronicle di Londra nel 1795: Non abbiamo mai ascoltato, forse, un canto più perfetto, più appassionato, più sublime. La delicatezza dell’esecuzione, la dolcezza del gusto e l’incantevole acume della sua sensibilità erano incomparabili. “Acume”, “delicatezza”, “gusto”, “sensibilità”: queste parole tipiche dei critici ci dicono qualcosa sulle priorità dei cantanti e sul pubblico di fine Settecento. E per molti la prova suprema era l’abilità e il “gusto” di un cantante nell’esecuzione degli abbellimenti, tra cui un perfetto “tremolo”, o trillo. Le osservazioni di Charles Burney su Elizabeth Billington, la prima grande primadonna inglese, sono tipiche del tempo: Il suono naturale della sua voce è così squisitamente dolce, la sua conoscenza della musica così elevata, il suo tremolo così autentico, i suoi finali e abbellimenti così veri, che solo invidia o apatia possono farla ascoltare senza provar piacere. Quando Burney ascoltava Elizabeth Billington, negli anni novanta del Settecento, i soprani femminili avevano ormai eclissato i castrati nella gerarchia vocale e, tranne alcune eccezioni, era ora la primadonna, invece dell’eunuco, a ricevere le lusinghe maggiori e a pretendere i compensi più alti. Il ruolo del castrato sopravvisse nell’opera seria, cioè nell’opera italiana vecchio
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Età classica | Canto
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stile, durante tutta l’età classica: Mozart compose il ruolo di Sesto nella sua ultima opera, La clemenza di Tito, per un soprano castrato; anche Rossini ammirò la purezza e la brillantezza della voce di castrato e scrisse un ruolo per l’ultima star della categoria, Giovanni Battista Velluti. Ma lo splendore dei castrati era passato già intorno agli anni ottanta del 1700, in parte perché la pratica della castrazione veniva, anche in Italia, via via sempre più condannata, in parte perché l’opera seria, tradizionale vetrina privilegiata dei castrati, stava lasciando spazio ai generi più democratici dell’opera buffa (la vecchia opera comica italiana) e del Singspiel (opera tedesca con dialoghi parlati). Le nostre attuali suddivisioni, all’interno delle tipologie vocali di base, non esistevano nel tardo Settecento, quando ancora non si faceva distinzione tra, diciamo, un soprano lirico e un soprano leggero, o persino tra un soprano e un mezzosoprano. In realtà, il termine mezzosoprano non esisteva: Dorabella in Così fan tutte, ora quasi sempre assegnata a un mezzosoprano, veniva da Mozart attribuita a un soprano e fu cantata da Louise Villeneuve, il cui repertorio comprendeva ruoli di soprano di coloratura (acuto e brillante). I cantanti mozartiani dovevano essere versatili: Luisa Laschi ha cantato sia la Contessa d’Almaviva sia Zerlina nel Don Giovanni, mentre la prima Fiordiligi in Così fan tutte, Adriana Ferrarese, aveva già cantato Susanna nelle Nozze di Figaro, al giorno d’oggi prerogativa di una voce di soprano leggero. Né vi era alcuna distinzione formale tra basso e baritono. Nel Don Giovanni, per esempio, Leporello, Masetto, il Commendatore e Don Giovanni stesso, sono tutti classificati come dei bassi; ed è rivelatore il fatto che, nella prima dell’opera, ruoli molto distanti come quelli del Commendatore e di Masetto furono interpretati dallo stesso cantante. Alcuni bassi tedeschi, come il primo Osmin mozartiano, Ludwig Fischer, furono particolarmente ammirati per le loro note basse e cavernose; e all’altra estremità dello spettro, alcuni bassi si aggiudicarono ruoli per voci più acute curando una voce di testa per ottenere un’estensione verso l’alto, come di solito facevano i tenori al di sopra di un mi4 o fa4. Ma fu solo quando Rossini iniziò a scrivere ruoli come Figaro nel Barbiere di Siviglia, che mantiene costantemente la voce al di sopra della linea del basso, che il baritono emerse come categoria vocale distinta fra il tenore e il basso. Il trionfo della primadonna sul castrato alla fine del XVIII secolo coincideva col nuovo culto delle più appariscenti note acute. Da Lucrezia Agujari, nota, in maniera poco lusinghiera, come “La Bastardina”, che nel 1770 aveva stupito l’adolescente Mozart con il suo do in altissimo (do7, un’ottava sopra il normale do superiore), i soprani impressionavano regolarmente il pubblico coi loro funambolismi. Mozart porta entrambi i suoi soprani del Ratto del serraglio fino al mi6, e la Regina della Notte fino al fa6; mentre in un’aria da concerto che scrisse per la sua amata Aloysia Weber, Popoli di Tessaglia, KV 316, supera se stesso avventurandosi fino al sol6. Fonti d’epoca ci suggeriscono che la maggior parte dei soprani raggiungeva queste altezze stratosferiche utilizzando un’estensione in falsetto, probabilmente simile a quella che si può ascoltare nelle registrazioni effettuate da Emma Calvé ai primi del Novecento. Anche se sappiamo che alcuni tenori alla fine del Settecento cantavano fino al re5, e persino al mi5 in falsetto, i compositori raramente scrivevano per la voce di tenore più in alto di un la4 o si �4. Ma in un certo numero di ruoli rossiniani il tenore non solo raggiungeva un trattamento economico uguale a quello del soprano – cosa pressoché inaudita nel secolo precedente – ma lo eguagliava per tessitura e timbro. Giovanni Davide, per esempio, che cantò in sei prime di Rossini, era famoso per l’agilità e l’estensione fino a tre ottave, con un potente registro di testa. I ruoli che Rossini compose per Davide contrastano con le parti di tenore in un registro più basso scritte per Manuel García (il primo Conte d’Almaviva nel Barbiere di Siviglia) e Andrea Nozzari (il primo Otello), i quali entrambi si muovevano in un potente registro intermedio di baritono. © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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Richard Wigmore
Assieme a una crescente differenziazione fra le varie tipologie di soprano (lirico, drammatico, di coloratura) e di tenore, e alla comparsa del baritono leggero come categoria distinta, il primo Ottocento vide anche l’emancipazione della voce di contralto femminile. Tale voce non aveva niente in comune col sobrio e forte contralto degli oratori inglesi, ma rappresentava piuttosto il successore della voce di castrato ormai in via d’estinzione: una voce brillante, flessibile, penetrante, specializzata in ruoli maschili eroici, come il Tancredi di Rossini, così come nelle parti femminili tipo Rosina nel Barbiere di Siviglia. Dalla seconda metà dell’Ottocento poche cantanti riunivano in sé quella combinazione di ricchezza, drammaticità ed estensione vocale pura (dal sol 3 al si5 o anche fino al do6) richiesta dal contralto rossiniano; la vera arte del mezzosoprano di coloratura o del contralto fu ripresa, in modo spettacolare, solo quando Marilyn Horne arrivò sulla scena nel 1960 circa.
Tecnica vocale Probabilmente il trattato più influente sul canto scritto nel tardo Settecento fu Pensieri e riflessioni pratiche sopra il canto figurato di Giovanni Battista Mancini, pubblicato a Vienna nel 1774. Attingendo a un famoso trattato precedentemente scritto da Pier Francesco Tosi (1723), Mancini, egli stesso un castrato, stabilì una serie di precetti per una perfetta tecnica del canto, che nel Settecento voleva dire vocalità italiana. E gran parte di ciò che ha scritto è valido oggi come lo era allora. I prerequisiti per ogni cantante sono un’agile e uniforme produzione del suono, un’intonazione perfetta, un legato impeccabile e un controllo preciso dell’intera gamma dinamica. Qualsiasi costrizione della laringe, che si traduca in suoni forzati, gutturali o nasali, è detestabile. Il suono dovrebbe fluire facilmente attraverso la respirazione e la vibrazione delle corde vocali corrispondere alla vibrazione delle corde di un violino o di un violoncello. La nozione di cantare sul fiato fa il paio con quella del luogo corretto in cui deve avvenire la risonanza: un suono non sostenuto dal fiato non è in grado di sfruttare adeguatamente le possibilità di risonanza della testa e della cassa toracica. La voce di un interprete che canta sul fiato dà l’impressione di formarsi “nella maschera” (vale a dire, nella faccia) e il suono passa dal piano al forte, attraverso tutte le dinamiche intermedie, con una tale facilità e spontaneità che l’ascoltatore ha la sensazione che il suono “fluisca” sul respiro. Mancini si occupa anche della complessa questione del passaggio di registro, il passaggio dal torace alla testa, o falsetto. L’obiettivo era una semplice fusione dei due registri, con alcune delle caratteristiche della voce di petto mescolate nel registro di falsetto per le note appena sopra il passaggio in modo da celare il punto di congiunzione. Fino all’epoca di Rossini i tenori, i baritoni e i bassi cantavano generalmente sopra il passaggio (che si verifica sopra il do centrale − do4−, in un punto tra il re4 e il fa4) nella voce di testa. Ma dopo che il tenore francese Gilbert Duprez (1806-1896) cominciò a portare il registro di petto su fino al do5 (con l’orrore di Rossini, per inciso), le note alte cantate in voce di petto – o, più precisamente, una “voce mista” con una predominanza del registro di petto – divennero sempre più consuete, anche perché i cantanti iniziarono a competere con orchestrazioni sempre più imponenti. Oggi è impensabile che un baritono nel ruolo del Figaro rossiniano canti gli acuti mi4, fa4 e sol4 con una voce di testa piuttosto che con risonanti note di petto.
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Età classica | Canto
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Portamento e messa di voce Due realizzazioni richieste a qualsiasi cantante sufficientemente dignitoso nel periodo classico erano la padronanza della messa di voce (la capacità di aumentare la voce gradualmente dal piano al forte, e poi di nuovo al contrario, sulle note) e il portamento di voce (l’unione uniforme delle note di un intervallo attraverso un impercettibile glissando). Al giorno d’oggi si tende a considerare il portamento nella musica del Settecento e del primo Ottocento volgare e anacronistico. Ma è dimostrato che esso era parte essenziale dell’armamentario di un cantante, così come per gli esecutori di strumenti ad arco. Un’edizione commentata delle arie di Mozart risalente al 1799 circa, ora alla British Library, ci suggerisce come un cantante dell’epoca avrebbe potuto applicare il portamento nei passaggi lenti e moderati. A titolo d’esempio, di seguito (es. II.3.1) possiamo osservare l’apertura di una delle arie di Cherubino dalle Nozze di Figaro. Il curatore indica l’uso del portamento con l’aggiunta di brevi note che anticipano l’altezza della nota seguente. La notazione suggerisce che i portamenti nella prima battuta dovevano essere condotti con rapidità e leggerezza, per evitare qualsiasi sensazione di abbassamento. Ex. 6-1
versione originaloriginale version Cherubino Cherubino
manoscritto del 1799 ca. manuscript c.1799
Voi, che sa
pe
te
Voi,
che sa
pe
te
Es. II.3.1. Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro (1786), atto II, scena 2, “Voi che sapete”, batt. 9-10, con la versione tratta da un manoscritto del 1799 ca., che mostra l’uso del portamento.
Per indicare il portamento, il compositore e maestro di canto Domenico Corri, nel suo The Singer’s Preceptor (1810)2, utilizza brevi note di anticipazione scritte in corpo più piccolo. Queste note non erano destinate a trasmettere alcuna indicazione ritmica precisa. Ex. 6-2
She
ne
ver told
her
love.
She
ne
ver told
Es. II.3.2. Domenico Corri, The Singer’s Preceptor (1810): J. Haydn, “She never told her love”, 1794, batt. 15-17.
Domenico Corri (1746-1825), The Singer’s Preceptor, or Corri’s Treatise on Vocal Music, Londra, Chappell, 1810-1811. [N.d.T.]
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TERZA PARTE - ETÀ ROMANTICA
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Canto
di David Mason
Evoluzione della produzione vocale Nei volumi di questa guida che si occupano di musica strumentale viene precisato che una delle cose più importanti da ricordare per cercare di ottenere un’interpretazione in stile e storicamente informata è la natura dello strumento utilizzato. Ovviamente nel corso del XIX secolo la gola umana non si è evoluta nello stesso modo in cui il leggero fortepiano con telaio in legno noto a Beethoven si è evoluto nel moderno Steinway con telaio in metallo. Tuttavia si potrebbe dire che c’è stato uno sviluppo parallelo nel modo in cui la voce veniva prodotta, che va dalla più leggera maniera fiorita dei primi anni del secolo (e ancora dominante negli anni ’30 dell’Ottocento) allo stile più intenso e nitido di Wagner, Richard Strauss e Puccini, in cui la voce deve spesso confrontarsi con un imponente accompagnamento orchestrale. Pertanto, se vogliamo realizzare un vero stile ottocentesco dobbiamo guardare a come produrre effettivamente la voce. Dallo studio dei metodi e dei trattati di canto è chiaro che è quasi impossibile separare stile e tecnica, poiché i tipi di esercizi e vocalizzi praticati dai cantanti dell’Ottocento avevano un effetto diretto sul risultato musicale e artistico finale. Lo stile vocale prevalente negli anni ’30 dell’Ottocento era quello che di solito chiamiamo “belcanto”. Le definizioni del termine si riferiscono abitualmente alla bellezza del suono prodotto, all’eleganza del fraseggio, a un legato perfetto e all’ornamentazione. Queste qualità non dovevano essere sacrificate in favore di un’esasperata espressione drammatica o di una mera potenza di emissione. Questo non vuol dire che le parole o l’elemento drammatico non fossero importanti, ma si trattava piuttosto di tenere tutti i diversi elementi in equilibrio. Col trascorrere del secolo le orchestre divennero più grandi e l’opera aspirava a una maggiore intensità drammatica di larga scala. Di conseguenza gli ideali belcantistici, come venivano realizzati in particolare nelle opere e nelle arie di Bellini, Donizetti e Rossini, furono meno enfatizzati (anche se possiamo ancora ascoltarli nelle molte registrazioni effettuate all’inizio del secolo scorso), non appena la potenza pura divenne un fattore importante. Questi cambiamenti si sono riflessi in quella che è forse la fonte più importante per lo studio del canto nell’Ottocento, il Traité complet de l’art du chant (“Trattato completo sull’arte del canto”) di Manuel García figlio risalente al periodo 1840-1847. Mentre la maggior parte dei trattati precedenti aveva sottolineato l’importanza della messa di voce (la
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prassi di effettuare su una stessa nota un prolungato crescendo seguito da un diminuendo, partendo con un attacco delicato) come pratica di studio, García raccomandava l’uso di un attacco del tutto più difficile, che attivava tutta la potenza di squillo della voce fin dall’inizio. García chiamò questa tecnica coup de glotte, o “colpo di glottide”. Ai tempi di García l’uso di questo termine causò una gran confusione e oggi molte persone lo adoperano per indicare l’uso di un’occlusione glottidale, in cui le corde vocali vengono chiuse strettamente e poi riaperte di colpo dalla pressione dell’aria espirata. È improbabile che García abbia raccomandato una maniera di attacco considerata dai laringoiatri come potenzialmente dannosa per la voce e infatti in un libro successivo chiarì che con l’attacco non ci doveva essere alcuna spinta dell’aria in espirazione. Per capire la differenza, si potrebbe confrontare la declamazione vigorosa della frase in inglese “Any more?” (o in modo più vivido una frase come “a bit of butter” pronunciata con un forte accento cockney: “a bi’ of bu’er”) con “Andiamo!” o “Hola!” declamate rispettivamente da un italiano o da uno spagnolo. Dal momento che gli italiani e gli spagnoli di madrelingua non usano quasi mai le occlusive glottidali sorde, un inizio vigoroso e immediato può essere eseguito senza alcun effetto negativo; ed è più probabile che García sostenesse un attacco del genere. Un altro importante sviluppo vocale descritto da García è stato l’uso di timbri diversi: la voix claire, la “voce chiara”1 di quello che noi riterremmo un canto “normale”, e la voix sombre o voix sombrée, o “voce scura”. I colori più scuri della voix sombrée sono il risultato di un canto realizzato con la laringe più bassa. Con questo modo di cantare, il timbro delle vocali viene modificato in maniera che la vocale italiana “a” suoni come “o”, la “e” si avvicini alla “eu” francese, la “i” alla francese “u” e la “o” all’italiana “u”. Moderni studi scientifici hanno dimostrato che questa posizione abbassata della laringe contribuisce a creare una formante, o banda di risonanza, in grado di proiettare il suono al di sopra di quello di un’orchestra. Questo modo di cantare è ormai quasi universalmente adottato nei teatri d’opera di tutto il mondo. Va ricordato tuttavia che nel XIX secolo la voix sombrée era solo uno dei due timbri principali e non sarebbe stato utilizzato costantemente. Combinando i due timbri con qualità acustiche più risonanti o più velate, ci si aspettava che il cantante producesse una gamma pressoché infinita di colori, spesso con una grande variabilità nel corso di una singola frase.
Registri vocali Con lo sviluppo di una produzione vocale più pesante e scura, l’Ottocento assistette a una parte dell’evoluzione dei diversi registri vocali. Non erano solo voci sviluppate per produrre più peso e primeggiare in maniera tale da tenere testa a orchestre più grandi e sonore, ma le diverse qualità vocali venivano sfruttate a fini drammatici. Così l’eroina è un soprano, la “femme fatale” un mezzosoprano (come la Carmen di Bizet e la Dalila di Saint-Saëns) e la figura della madre o della confidente un contralto. Parallelamente all’eroina soprano abbiamo il tenore romantico, amante o eroe, mentre le voci maschili più basse forniscono alcuni dei ruoli più drammaticamente e psicologicamente interessanti. Particolarmente degni di nota sono i ruoli baritonali di Verdi, che vanno dalle figure paterne ai nobili, ai cattivi (Germont père ne La traviata, Don Carlo, Jago nell’Otello). Allo stesso modo in Wagner le voci dal registro basso sono di solito psicologicamente più impegnative rispetto ai ruoli da Detta anche “colore chiaro”. [N.d.T.]
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tenore; ad esempio Wotan, nel ciclo de L’anello del Nibelungo, è uno dei più grandi ruoli per basso-baritono mai scritti. I diversi registri vocali arrivarono a essere rappresentativi dei diversi stili nazionali. Wagner nel 1868 scriveva che all’inizio del secolo la voce e il canto erano stati sviluppati unicamente nel modo italiano. E in effetti la vocalità richiesta per cantare Rossini, Bellini e Donizetti, con l’enfasi sulla flessibilità e il canto fiorito, si basa molto sull’arte dei castrati del periodo barocco e del primo periodo classico. Ma già nelle opere di Mozart vediamo gli inizi dei diversi tipi di soprano, i soprani di coloratura e quelli lirici (ad esempio la Regina della notte e Pamina nel Flauto Magico) e il soprano più drammatico (per esempio Elettra nell’Idomeneo). Più tardi si osserva l’emergere del lirico spinto, una voce lirica più pesante, capace di qualità drammatica e massima espressione quando richiesto. Questo è il tipo di voce necessaria per molti dei grandi ruoli dell’opera italiana, come Leonora nel Trovatore di Verdi, o Tosca di Puccini. Il soprano drammatico tedesco tende a essere una voce un po’ più bassa, ma in grado di sovrastare una grande orchestra in tutte le regioni della sua tessitura. Non si deve pensare che queste categorie siano dogmatiche e fisse: una voce drammatica, per esempio, può essere in grado di cantare in modo fiorito. Maria Callas imparò la parte di Elvira ne I Puritani di Bellini, un ruolo contenente alcuni pezzi di coloratura tra i più emozionanti, mentre si esibiva nel ruolo della Brünnhilde wagneriana. Molti cantanti si muovono verso una Fach2 (specializzazione vocale) più pesante man mano che la loro voce matura. Il grande soprano ottocentesco tedesco Lilli Lehmann iniziò la sua carriera con ruoli di coloratura leggeri, passando successivamente attraverso quasi tutti i diversi tipi di voce, per diventare alla fine una famosa Brünnhilde. L’Ottocento vide anche il consolidamento della voce di mezzosoprano. Ciò che nel periodo classico sarebbe stato considerato semplicemente un tipo di soprano, si affermò progressivamente come un registro vocale diverso. Il mezzosoprano drammatico si sviluppò come voce complementare del soprano spinto o drammatico; la sua maggiore estensione veniva sfruttata a tal punto che, paradossalmente, la differenza tra mezzosoprano drammatico e soprano drammatico era minima. Anche la distinzione tra soprano e contralto non è sempre chiara, in quanto quest’ultima voce a volte può trasformarsi in un soprano drammatico. Tuttavia, lontano dal mondo dell’opera, si sviluppò un contralto più lirico, con meno enfasi sulle note alte e un maggiore sfruttamento dei colori più scuri della voce. Questa è la voce di pezzi come la Rapsodia per contralto di Brahms3, e dei cicli di Lieder e assoli sinfonici di Mahler. E, ovviamente, si abbinava al repertorio inglese delle grandi opere, come Il sogno di Geronzio di Elgar. La voce che forse più di ogni altra si è evoluta nel corso dell’Ottocento è la voce di tenore. Durante il secolo precedente la consuetudine prevedeva di cantare le note acute con delicatezza e sebbene i cantanti cominciassero ad ambire a note di testa più alte, era frequente per i tenori, nei primi due o tre decenni del XIX secolo, utilizzare un’emissione più leggera per i passaggi acuti. È difficile stabilire se questa sia stata quella che oggi chiamiamo “voce di testa” o un vero e proprio falsetto. Tutto ciò cambiò con Gilbert Duprez, che sembra essere stato il primo cantante ad arrivare, nel 1837, nel Guglielmo Tell di Rossini, a un do acuto di
Il “sistema Fach” è un metodo di classificazione della voce dei cantanti lirici, utilizzato prevalentemente in area di lingua tedesca ma diffuso in tutto il mondo, che si basa sulla valutazione del peso, dell’estensione e del timbro della voce. [N.d.T.] 3 Op. 53. [N.d.T.] 2
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“petto”4. Anche se questo evento riscosse un grande successo da parte del pubblico, Rossini era meno entusiasta e lo descrisse come “l’urlo di un cappone sgozzato”. Nonostante il disgusto di Rossini, la capacità di produrre note alte e sonore divenne un requisito fondamentale per ogni aspirante tenore. Anche se il tenore spinto, o drammatico, italiano sviluppò la sua voce per avere un peso considerevole fino ai registri più acuti, la voce di tenore più robusta è quella del tedesco Heldentenor (“tenore eroico”). Wagner incoraggiava lo sviluppo di questo registro vocale non solo per soddisfare le sue esigenze musicali, ma come voce all’altezza delle esigenze espressive e spirituali della nuova musica tedesca. Considerava queste qualità espressive importanti almeno quanto il raggiungimento della pura potenza fisica, anche se quella era (e resta) fondamentale. La brillantezza richiesta dalla voce tenorile all’italiana era richiesta anche al baritono drammatico italiano. Il baritono di Verdi infatti deve cantare tanto in alto quasi quanto l’Heldentenor. La tradizione tedesca prediligeva il baritono basso, o basso-baritono, con una maggiore sonorità nei registri centrale e grave. In generale la scuola francese di canto appariva più limitata di quella italiana. Una tipica voce francese si sarebbe collocata più in alto rispetto al suo omologo tedesco e sarebbe stata più leggera fino alle note più acute, anche utilizzando il falsetto – come è avvenuto con Jean-Blaise Martin, che diede il suo nome al più leggero registro di baritono francese, noto come “baritono Martin”. Si dovrebbe tener presente che nell’Ottocento e nel primo Novecento i cantanti interpretavano in genere musica contemporanea (di solito di un solo tipo), a seconda della loro nazionalità o di dove lavoravano. Al giorno d’oggi i cantanti devono padroneggiare la musica di ogni epoca e stile: anche gli specialisti di musica antica, che un tempo potevano limitarsi alla musica barocca, ora cantano un repertorio più vario. Nei teatri d’opera di tutto il mondo troviamo dunque oggi una vocalità e uno stile di connotazione internazionale (che alcuni definirebbero anonima), più generale di quella che possiamo ascoltare nelle prime incisioni discografiche. Tuttavia, oggi come allora, i più grandi cantanti sono immediatamente riconoscibili, con voce e personalità distintive, senza essere solo “un altro” soprano o tenore.
Educare la voce oggi I principi del belcanto non sono oggi meno rilevanti e, al di là del fatto di essere indispensabili per un’interpretazione in stile della musica dell’Ottocento, essi formano una base ideale per ogni giovane cantante. Non è mai raccomandabile inoltre cercare deliberatamente di ottenere una voce più pesante o di adattarla a una delle categorie di cui sopra. Se una voce ha la potenzialità per un suono scuro e drammatico questo verrà fuori in modo naturale con la maturità. Molti giovani cantanti di oggi (tra cui molti di quelli che alla fine intraprendono carriere solistiche) iniziano a cantare nei cori e nei consort. Per coloro che hanno una tale formazione i principi del belcanto sono particolarmente appropriati. Come prima cosa va sottolineato il fatto che l’emissione del suono tipica di un coro non è indicata, in ultima analisi, per il canto solistico tradizionale. Deve anche essere scoraggiata qualsiasi mancanza di risonanza nell’emissione o nell’attacco. Il suono deve essere il più pulito possibile, in modo da garantire un uso economico Per “do di petto” nei tenori si intende il do acuto posto un’ottava sopra il do centrale. Quindi, secondo la notazione scientifica qui adottata, esso corrisponde a un do5 (essendo do4 il do centrale). Sembra che in realtà Duprez avesse raggiunto un do4, eseguito a piena voce anziché in “falsettone” (impropriamente considerato un do di petto), alla prima della versione italiana dell’opera di Rossini (Guglielmo Tell) tenutasi a Lucca nel 1831. Nel 1837 a Parigi Duprez cantò la versione originale in francese dell’opera rossiniana (Guillaume Tell). [N.d.T.]
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della respirazione. Se il cantante è in grado di mantenere un suono pulito, resistendo ai sovraccarichi e evitando di spingere con il fiato, il suono risulterà allora vibrante e proiettato in avanti. Sulla questione del vibrato, è un dato di fatto che gran parte dei cantanti lirici di oggi canti con un vibrato maggiore rispetto alle controparti solistiche del XIX secolo. Questo ha portato molti di quelli che operano nel campo della musica antica a reagire col rifiuto di qualsiasi tipo di vibrato. Tuttavia, qualunque suono vocale prodotto in maniera corretta ha un suo grado di oscillazione. Ascoltando le prime registrazioni noterete che viene emesso un vibrato spesso quasi impercettibile, più stretto e più veloce di quello prodotto da molti cantanti d’opera di oggi. Anche nelle voci più drammatiche del XIX secolo il vibrato è più brillante (spesso quasi tremolante) rispetto all’equivalente più lento del XX secolo. Se un giovane cantante è in grado di mantenere una spinta in avanti del suono in maniera ben sostenuta e di resistere alla tentazione della potenza fine a se stessa, allora dovrebbe evitare lo sviluppo di un’oscillazione o di un tremolo. Assolutamente necessario per un’interpretazione convincente del repertorio solistico ottocentesco è l’esercizio di un legato perfetto. Manuel García sottolinea non solo l’importanza di un legato in cui la voce passa gradualmente da una nota alla successiva, ma suggerisce anche di esercitarsi col sostenuto, o con suoni legati, in cui ogni nota è unita alla seguente con un portamento. È documentato che Jenny Lind5 studiasse passando attraverso ogni semitono, accelerando gradualmente nelle legature in modo tale che diventassero impercettibili e mantenendo i suoni perfettamente legati (es. III.3.1). I cantanti provenienti da un contesto corale, abituati a cantare musica barocca, possono scoprire di aver bisogno di un lavoro molto duro per perfezionare il loro legato. A parte il fatto che sono abituati a un modo di cantare più impersonale, il problema talvolta è questione di gusto. In ogni caso essi devono fare i conti con questo aspetto e imparare a lasciarsi andare! Ex. 6-1
Es. III.3.1. Esercizio vocale di Jenny Lind per il legato-sostenuto.
Lo stesso vale per il portamento in cui la voce, coprendo un intervallo più grande, viene trasportata attraverso un numero infinito di altezze. Il portamento è di solito un’anticipazione della nota alla quale ci si approssima, come nell’es. III.3.2a tratto dal Metodo pratico di canto italiano per camera del 1832 di Vaccaj, un testo che non può non essere oltremodo raccomandabile da un punto di vista sia storico sia pratico. Vaccaj discute anche un secondo tipo di portamento (es. III. 3.2b), che in effetti coinvolge la seconda nota partendo dal basso, a patto che però questo non sia esagerato. Vale la pena di impiegare un po’ di tempo per acquisire sicurezza nell’esecuzione di questa caratteristica indispensabile della musica ottocentesca, in maniera tale che non si traduca in uno scivolone incontrollato o in un colpo di fortuna – dando così ragione a coloro che propendono per un approccio più impersonale (e sbagliato!) al repertorio ottocentesco. Un’altra caratteristica che un tale approccio inespressivo proibirebbe è l’uso delle aspirate (una leggera “h”: cfr. es. III.3.4) come tipiche di una frase in legato.
Jenny Lind (1820-1887) fu una celebre soprano svedese. Studiò a Parigi con Manuel García figlio. [N.d.T.]
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Fonti ed edizioni di Robert Pascall
Testo e contesto E.M. Forster poneva come sottotitolo del suo famoso romanzo Casa Howard la frase «Solo connettere…»1; così per noi interpreti è importante capire, nella maniera più dettagliata possibile, il ruolo del testo scritto di una composizione musicale nel contesto dell’attività del fare musica. Di primo acchito questa potrebbe sembrare una pedanteria, o un modo per cercare delle difficoltà laddove, secondo il buonsenso, non ne esisterebbero affatto: ma lasciate che io provi a convincervi in altro modo. Se ci soffermiamo a pensare a ciò che è in realtà un pezzo di musica, allora qualcosa della complessità delle connessioni coinvolte diventa evidente. Il brano si identifica con ciò che il compositore ha immaginato, con ciò che ha scritto ed è stato stampato? Oppure si identifica con il modo in cui venne eseguito all’epoca della sua composizione e con il modo in cui le persone di allora lo ascoltarono? Oppure esso è rappresentato dal modo in cui esso viene stampato, eseguito e recepito oggi? Ovviamente la risposta più naturale è che esso è tutte queste cose messe assieme: noi identifichiamo in un’unica rappresentazione qualcosa che è l’espressione di tutte queste manifestazioni, sperando che si configuri come reale identità. In un certo senso la nostra speranza deve essere giustificata, ma le disparità di quelle manifestazioni sono chiaramente piuttosto estreme. I compositori lavorano con l’immaginazione sonora: quando creano probabilmente ascoltano i loro pezzi prendere forma nella loro testa, come accadeva a Brahms, o magari lavorando su uno strumento, come faceva Chopin al pianoforte. La scrittura in notazione è allora un modo per fissare il pezzo attraverso un mezzo che rappresenta i suoni in modo piuttosto grossolano e l’“interpretazione” del compositore – come cioè egli ha sentito la composizione nella sua testa o sul suo pianoforte – comincia a lasciar spazio ad altre interpretazioni da parte di altri interpreti. È chiaro che almeno una parte del rapporto conflittuale che Brahms aveva con la notazione (le sue partiture sono spesso pesantemente corrette) non era tanto il risultato della sua insicurezza sulle proprie capacità d’immaginazione, quanto piuttosto una mancanza di certezze circa La frase è anche riportata nel romanzo, al capitolo 22, dove, riferendosi a Margaret Schlegel, l’autore scrive: «Only connect! That was the whole of her sermon. Only connect the prose and the passion, and both will be exalted, and human love will be seen at its height.» («Soltanto connettere! Questo era tutto il suo sermone. Soltanto connettere la prosa e la passione: entrambe ne saranno esaltate e l’amore umano raggiungerà il suo vertice.»). Tale frase è anche la chiave di lettura del romanzo, la cui trama è costituita da numerose dicotomie di personaggi e situazioni che cercano un punto di contatto, una “connessione” appunto. [N.d.T.]
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il modo migliore di usare la notazione per catturare quello che immaginava, cioè sul modo migliore di “trasmettere il messaggio”. Per molte delle opere di Chopin abbiamo invece, come vedremo, una situazione radicalmente diversa: egli di uno stesso pezzo ci ha lasciato diverse notazioni, tutte ugualmente valide. Ogni interpretazione è diversa dall’altra e ovviamente un compositore mette a disposizione la sua opera affinché altri la interpretino, allentando di buon grado la presa sulla specificità dei suoni che ha immaginato. Ma soffermiamoci per un momento sull’idea di quei suoni: essi erano stati ovviamente immaginati dal compositore in termini di suono strumentale o vocale, di tecniche esecutive e stili interpretativi del suo tempo. Anche se il compositore si fosse posto il problema della posterità – il che era frequente in un’epoca consapevole della storia (Brahms per esempio mirava a comporre quella che lui chiamava musica “durevole”), questi valori sonori devono essere incorporati esplicitamente o implicitamente (a seconda del vostro punto di vista) nella notazione scelta. Il compositore stesso e i suoi contemporanei avrebbero inteso alcune questioni di importanza cruciale per gli interpreti come parte integrante del testo: l’ornamentazione improvvisata e le nuances espressive di tempo e dinamiche sono le due aree che vengono subito in mente. E se si è tentati di pensare che nessuna di queste due si applichi realmente alla musica del XIX secolo, si sta semplicemente sbagliando. Nonostante il fatto che la notazione ottocentesca veicolasse più informazioni rispetto a qualsiasi notazione precedente, l’abbellimento improvvisato veniva tipicamente aggiunto dai cantanti d’opera italiana, laddove gli strumentisti ad arco introducevano il portamento e il vibrato (in senso ornamentale) e i pianisti gli accordi arpeggiati e la melodia non sincronizzata all’accompagnamento. Il rubato e la libertà espressiva sono degli aspetti spesso sottolineati dai commentatori dell’epoca nell’esecuzione di Chopin e Brahms, mentre Liszt e Wagner consideravano i cambiamenti agogici come mezzo espressivo essenziale, associandoli in particolare ai cambiamenti di tema e di armonia. Tutto questo ci porta alla seguente regola per gli interpreti che si avvicinano a un testo: la notazione è funzione del suo tempo e del luogo in cui si è sviluppata e può essere adeguatamente compresa solo nei termini delle prassi esecutive di quel tempo e di quel luogo. Ma anche qui ci dobbiamo fermare: non è possibile ricostruire completamente quelle prassi esecutive e, anche se ne fossimo capaci, noi siamo sempre interpreti del nostro tempo, coi nostri ideali e col nostro pubblico. E questo ci porta rapidamente alla seconda regola generale: la nostra conoscenza storica è sempre parziale e funge sempre e solo da contesto per le nostre interpretazioni; in questo senso tale conoscenza diventa libertà piuttosto che vincolo per le nostre idee e capacità interpretative. In maniera più esplicita: ciò di cui abbiamo bisogno oggi è un quadro generale di quello che la notazione significava in termini interpretativi; questo ci fornirà lo sfondo per creare la nostra interpretazione personale e forse alcune ulteriori idee che saremo liberi di usare o meno. Poiché questo libro parla di prassi esecutiva, i modi in cui gli ascoltatori percepivano e il significato attribuito a quel che si ascoltava nel XIX secolo dovranno essere lasciati per lo più “in sospeso”. Questo forma un’area speciale di indagine, nota come “storia della ricezione”. Ma nel periodo romantico c’erano due filoni dilaganti che vale la pena di prendere in considerazione. Il primo è quello ora conosciuto come “critica poetizzante”; si riferisce al modo in cui i commentatori e gli ascoltatori di allora rappresentavano il significato musicale: Clara Schumann, ad esempio, descriveva la Sinfonia n. 3 di Brahms come un parlare della “magia segreta della vita della foresta”. Questo tipo di risposta alla musica derivava principalmente dal critico, scrittore e compositore del primo Romanticismo E.T.A. Hoffmann e si diffuse talmente tanto che Liszt, a metà del secolo, definiva specificamente dei “programmi” inerenti alla composizione musicale che in sostanza cercavano di limitare la molteplicità di immagini interpretative che se ne potevano trarre. Il secondo filone è il modo in cui compositori e critici si relazionavano a particolari © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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generi musicali: sorgevano questioni sullo stabilire se un lavoro fosse una sinfonia o una suite – come accadde, ad esempio, con la sinfonia Ländliche Hochzeit (“Nozze campestri”) di Goldmark – o se un concerto fosse “sinfonico” e in che misura, o se una particolare sinfonia fosse, in ultima analisi, musica da camera potenziata. Il punto importante non sta nei torti e le ragioni degli argomenti, quanto piuttosto nel grado di consapevolezza dell’epoca riguardo ai problemi generali e ai diversi tipi di disquisizione musicale sui diversi generi. Ci riguarda oggi una tale conoscenza? Forse sì, ma non necessariamente. In quanto ascoltatori (e gli interpreti sono anche degli ascoltatori) siamo liberi di costruire il significato musicale come vogliamo e il gioco della conoscenza, dell’intuizione e della sensibilità rimane per ognuno di noi giustamente una questione profondamente personale. Possiamo pertanto a buon diritto applicare la nostra seconda regola anche all’ascolto.
Documenti: loro produzione e significato Nel momento in cui un pezzo veniva elaborato e lavorato dal suo compositore, vari tipi di documenti scritti venivano prodotti, emendati e migliorati. Ogni compositore aveva diverse abitudini di lavoro e abbiamo già notato una particolare differenza tra Chopin e Brahms in questo senso. Inoltre, i compositori spesso trattavano pezzi diversi in modo diverso: la creazione di una sinfonia poteva per esempio iniziare con l’abbozzo di un tema, quello di una lirica con una preparazione ritmica delle parole e quindi su questo argomento saremo inevitabilmente piuttosto generici e schematici. Nelle prime fasi di elaborazione, potremmo aspettarci delle annotazioni sul lavoro e sulle idee (che possono essere contenute in taccuini o in lettere ad amici e parenti), schizzi (che di solito testano dettagli importanti come aperture, temi e contrappunti) e bozze (più estesi degli schizzi, mettono alla prova in che modo i dettagli possono stare assieme con continuità). Se il pezzo è per organici complessi, per esempio un gruppo da camera o una grande orchestra, potremmo anche trovare un tipo di abbozzo chiamato “particella”: si tratta di una partitura sintetica di un movimento o un’opera che non sviluppa completamente i dettagli della strumentazione né le testure finali. I documenti fino a questo momento della produzione sono, dal punto di vista del compositore, mezzi per raggiungere un fine, e i diversi compositori ebbero atteggiamenti diversi nel conservare simili testimonianze del loro processo creativo. Nessun grande compositore fu più di Beethoven assiduo nel mantenere i suoi schizzi e abbozzi; Brahms, all’opposto, li distruggeva volutamente, anche se ne sopravvivono alcuni, per esempio sul retro delle bozze corrette incollate in altre partiture. Poi arriva la fase importante della “prima versione completa”; la definizione è tra virgolette perché per i curatori questo è un termine tecnico col quale si intende un documento molto significativo. Il criterio in questo caso è la completezza. Se la composizione ora esiste in quella che è in maniera riconoscibile la sua forma completa, indipendentemente dal fatto che sia anche la sua forma finale (e spesso non è questo il caso), allora abbiamo una fonte determinante dell’opera nel suo stato più primitivo, quella a cui i curatori devono prestare la massima attenzione, a condizione, ovviamente, che sia sopravvissuta. La “prima versione completa” forma quello che gli studiosi con una certa imprecisione chiamano autografo dell’opera; esso può essere più o meno disordinato a seconda della scrittura del compositore e della quantità di correzioni (in generale, Mendelssohn e Chopin erano relativamente puliti nella scrittura, Brahms un po’ disordinato, Debussy molto preciso). Gli autografi dei grandi compositori sono ormai oggetti preziosi e di grande valore, battuti a prezzi © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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astronomici nelle rare occasioni in cui vengono messi all’asta. Anche se molti collezionisti illuminati dell’Ottocento ne capirono il significato e la rilevanza, una più diffusa accettazione della loro importanza è un fenomeno relativamente recente. Quindi si dà il caso che un numero significativo di autografi non esista più: sembra che molti degli autografi delle mélodies di Fauré, ad esempio, siano stati utilizzati come copribarattoli per marmellate dalla moglie del suo editore. Dopo aver scritto un pezzo, il compositore desidera che esso venga eseguito, spesso per verificare se funziona in pratica nello stesso modo in cui lo ha concepito. Se il pezzo è per più di uno o due esecutori, allora diventava necessario produrne una o più copie di un qualche tipo. I componenti di orchestre e formazioni da camera, nonché i cantanti di cori ed ensemble vocali, hanno bisogno delle loro parti, mentre un cantante solista potrebbe leggere dallo spartito del pianista o averne una sua copia personale. Il compositore inoltre potrebbe desiderare una versione copiata della partitura, probabilmente perché il suo autografo risulta ormai disordinato e difficile da leggere, o per proteggere l’autografo da un suo uso eccessivo o da un eventuale smarrimento; o ancora, nel caso di pezzi più brevi, come le romanze e i pezzi per pianoforte, per presentare il suo ultimo lavoro agli amici. In un’epoca precedente l’invenzione della fotocopiatrice, queste copie saranno state redatte a mano, forse dal compositore stesso ma più spesso da un copista professionista. (Ci sono alcune eccezioni a questa regola: ad esempio Brahms, per le sue opere per orchestra più tarde, faceva stampare le parti degli archi a proprie spese, in un momento in cui era relativamente benestante; e i membri dei cori a volte copiavano la loro parte passandosi l’originale da uno all’altro). Ciascuna di queste fonti ulteriori, successive all’autografo, può portare con sé i propri problemi. Che cosa succede se un compositore, copiando un lavoro, lo altera involontariamente o vi apporta una correzione non documentata? Che cosa succede se le parti vengono migliorate durante le prove ma non in partitura? Che cosa succede se il copista sbaglia a trascrivere dei segni importanti e questi arrivano senza correzione all’incisore? Nel caso delle copie i criteri per una valutazione sono: l’autorizzazione (fino a che punto il compositore le ha rivedute?), lo scopo (sono state utilizzate dal compositore per prova? e, quindi, riportano e tramandano forse i suoi miglioramenti, anche se non di suo pugno?; hanno continuato ad avere un ruolo ulteriore nella pubblicazione dell’opera?) e la qualità (quanto è accurato il testo?). Prima dell’epoca di Haydn e Mozart, la pubblicazione non era affatto un obiettivo condiviso, anche per i grandi compositori. J.S. Bach, ad esempio, pubblicò pochissimo della sua vasta produzione e la sua opera prima vide la luce dopo il suo quarantaseiesimo compleanno. Nell’Ottocento, tuttavia, un fiorente mercato, assieme ai progressi nelle tecniche di stampa, iniziò a significare che persino i compositori minori potevano aspettarsi la pubblicazione delle loro opere, e quelli maggiori potevano trarne un equo sostentamento. La pubblicazione avveniva tipicamente attraverso il coinvolgimento dei compositori interessati: il compositore avrebbe preparato e fornito il testo base per l’incisore, corretto le bozze e approvato il risultato finale per la pubblicazione. Questo non è stato però sempre il caso: per esempio, la prima edizione dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij venne prodotta, subito dopo la morte del compositore, dal suo amico e collega Rimskij-Korsakov, il quale vi apportò parecchi “miglioramenti” – senza dubbio con le migliori intenzioni ma, ovviamente, senza il consenso del compositore. Il testo base fornito all’incisore poteva essere il manoscritto autografo del compositore o una sua copia manoscritta, come discusso in precedenza. In entrambi i casi l’incisore doveva interpretare in maniera corretta il testo scritto e quindi normalizzarlo secondo le regole tipografiche dell’epoca; per esempio, le forcelle dei crescendo e diminuendo normalmente © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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iniziavano e terminavano sulla testa delle note (come in effetti si fa ancora oggi). Si può solo immaginare quanto spesso gli incisori sbagliassero questo tipo di formattazione, confondessero anche certi segni (rf con sf ad esempio) o identificassero erroneamente i righi musicali sui quali dovevano essere apposte le indicazioni e ne omettessero altre. Tali questioni sono molto più comuni degli errori di altezza o di ritmo, anche se di tanto in tanto capitava anche questo. Tecnicamente la pubblicazione di un’opera si divide in due fasi fondamentali: la fase iniziale (come viene veramente realizzata l’immagine della notazione) e la stampa vera e propria (come questa immagine viene riprodotta nel numero di copie richieste). Nell’epoca che stiamo considerando la musica veniva per lo più stampata utilizzando delle lastre incise. La fase preliminare era dunque nelle mani di un incisore che incideva e bulinava la notazione su lastre metalliche (una per ogni pagina). Poiché il normale metodo di stampa prevedeva che la lastra venisse premuta sulla carta, l’incisione veniva fatta di solito da destra a sinistra, cioè in modo speculare. L’incisione comportava un lavoro altamente qualificato, realizzato con l’utilizzo di molti attrezzi diversi; per creare una sola pagina di musica con questa tecnica ci volevano diverse ore. Una volta che tutto il lavoro era stato inciso, poteva cominciare il processo di stampa vero e proprio, che consisteva nel riempire le linee e le note incise con dell’inchiostro, ripulire le parti non incise dai residui di inchiostro e premere la lastra con forza su un foglio di carta. Anche se questo non è altro che un resoconto dettagliato di questi processi (successivamente la stampa si sarebbe potuta effettuare, ad esempio, trasferendo l’immagine dalla lastra a una pietra litografica), è importante per i curatori di oggi capire qualcosa di quanto accadeva allora – ad esempio come veniva realizzata e corretta una lastra (con un martelletto o del metallo liquido) e come essa si deteriorava a causa delle ripetute pressioni sui fogli di carta (i punti di staccato e altri piccoli segni cominciavano a scomparire) – e stabilire quanto ciò influenzi le decisioni di quali testimoni testuali siano da preferire. Il compositore correggeva una prima bozza: ma naturalmente lui era innanzitutto un compositore, che molto probabilmente già stava lavorando a un altro pezzo; e anche per i non compositori la correzione delle bozze è un fastidioso lavoro, altamente dispendioso in termini di tempo. Così possiamo ragionevolmente supporre che la correzione delle bozze non venisse sempre eseguita scrupolosamente. Ma – e qui sta la vera difficoltà per i curatori moderni di musica dell’Ottocento – alcuni compositori usavano le bozze per aggiungere qualcosa in più alle loro composizioni. Per cui non si può, e non si deve, assumere che il manoscritto inviato per la pubblicazione, se ancora sopravvive, contenga la versione finale che il compositore avrebbe desiderato per quel testo. Come Brahms scrisse all’editore delle sue Variazioni su un tema di J. Haydn op. 56a: «non è il manoscritto che è definitivo, ma piuttosto la partitura incisa su lastra, che io stesso ho corretto». Quindi un curatore di oggi deve partire dal presupposto che la prima pubblicazione di un pezzo potrebbe benissimo contenere sia degli errori sia dei miglioramenti. Le bozze sopravvissute del periodo che stiamo esaminando sono molto rare, per l’ovvia ragione che esse erano considerate come parte di un processo e non il prodotto finale in sé; una volta che avevano assolto al loro scopo, diventavano semplicemente un ingombro. Si pone quindi la questione del perché alcune sono comunque giunte fino a noi. Erano dei duplicati non restituiti all’editore? E, in questo caso, contengono esse necessariamente proprio quelle indicazioni che il compositore desiderava venissero stampate? Le prime edizioni, nel loro complesso, sopravvivono e un elemento importante per la loro sopravvivenza è stato il sistema di deposito utilizzato per seguire il tracciamento dei diritti d’autore (la British Library, per esempio, costituisce una risorsa eccellente per i curatori). I criteri per la valutazione delle bozze e delle prime edizioni sono: il livello di autorizzazione (fino a che punto il compositore © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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era attivamente coinvolto nel controllo della qualità di ciò che veniva fatto?, o quanto piuttosto delegava la faccenda ad altri? Questo varia da compositore a compositore e da lavoro a lavoro) e la cura della produzione (cioè, quanto erano affidabili gli incisori e le procedure di controllo?). Ma le cose non si fermano qui. Molti compositori del periodo non potevano fare a meno di occuparsi ancora della loro musica – com’è ovviamente comprensibile: se, come compositori, decidete che il vostro pezzo suona meglio con una nota diversa, o con un’altra melodia, o con un accordo diverso qua e là, che cosa c’è di più naturale dell’apportare delle modifiche alla vostra copia stampata? Chopin pone ai curatori un problema molto particolare al riguardo, poiché egli modificava le composizioni nel corso delle lezioni che teneva ai suoi migliori allievi, e alcuni studenti ottenevano diverse modifiche anche da altri. Anche Brahms ci pone alcuni problemi, dal momento che egli modificava le proprie copie (a volte anche quelle dei suoi amici) e scriveva ai suoi editori di rivedere il lavoro: ma le lettere e le indicazioni non sono sempre correlate correttamente. Torneremo su questi argomenti più avanti in due brevi analisi, ma è bene notare a questo punto che i criteri per giudicare le modifiche successive alla pubblicazione sono: la validazione (rappresentano queste le intenzioni del compositore?) e la generale applicabilità (sono destinate a modificare il testo reso pubblico o sono state fatte solo per una particolare occasione, dettata da particolari condizioni di acustica o di capacità degli esecutori?). Gli emendamenti a un’edizione potevano essere realizzati senza che l’editore annunciasse il fatto, per cui le ristampe successive, in particolare durante la vita del compositore, possono avere una reale importanza. Anche in questo caso dobbiamo decidere se siamo in grado o meno di stabilire quanto il compositore sia stato coinvolto nel processo. Se un compositore effettua delle revisioni radicali, ne può derivare una nuova versione del pezzo, che richiede una nuova incisione delle lastre, almeno parziale. Questo non causa grossi problemi ai curatori di oggi – essi si limitano a pubblicare entrambe le versioni – ma gli esecutori dovranno ovviamente scegliere quale sarà la versione che intendono utilizzare.
Cosa fanno i curatori Dopo tutto quello che è stato detto circa i documenti, sarà oltremodo evidente che un curatore di oggi è in primo luogo uno storico. Egli deve ricostruire in sequenza, e col maggior dettaglio possibile consentito dalle fonti superstiti, tutte le fasi che hanno portato alla nascita, allo sviluppo e alla messa a punto di un testo scritto. Tale lavoro prevede la recensione, o censimento, delle fonti, la loro descrizione, l’analisi dei loro reciproci rapporti e la loro valutazione. Per la recensione delle fonti manoscritte i cataloghi tematici dei singoli compositori e i cataloghi delle biblioteche sono indispensabili. Ma alcuni manoscritti sono ancora in mani private, mentre altri si presume siano andati perduti, anche se forse potrebbero essere rintracciabili attraverso un buon lavoro investigativo. Poi bisogna prendere visione di questi manoscritti. Ci sono delle regole tecniche per la loro descrizione, che comprendono l’analisi dei tipi di carta utilizzati, di come i fogli sono stati assemblati, di quali mezzi sono stati utilizzati per la scrittura, di quali informazioni vengono fornite a parte la musica stessa (titolo, data, istruzioni per il copista e/o l’incisore, impaginazione), e le informazioni su chi era l’autore, sulle caratteristiche della scrittura musicale, sulla presenza e la qualità delle correzioni (alle note, alle dinamiche, al fraseggio, ecc.). Tutte queste informazioni ci possono raccontare quando, come e da chi è stato creato il manoscritto e per quali scopi è stato utilizzato. E questo è essenziale per la ricostruzione di un quadro della relazione del manoscritto con le altre fonti e quindi del suo ruolo nella storia © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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dell’opera musicale. Per le fonti a stampa le regole tecniche sono diverse e sono volte a definire l’aspetto e la qualità della prima edizione e delle eventuali rilevanti emissioni ed edizioni successive. Le informazioni contenute nel frontespizio sono di fondamentale importanza; tra queste citiamo il titolo, il prezzo, il nome e l’indirizzo della casa editrice e delle agenzie di distribuzione, la dichiarazione del copyright, il numero di lastra; poi vengono il sottotitolo, il layout e il metodo di stampa della musica vera e propria. La relazione tra le fonti viene compilata in base alle loro date, alle informazioni contenute nelle lettere (comprese quelle fra terze parti), ai diari e ad altri documenti privati, nonché attraverso un lavoro dettagliato sulle fonti stesse: per esempio, gli incisori indicavano dove potevano (alle estremità delle loro lastre, con dei trattini e/o dei numeri) da quale manoscritto ricavavano il testo che incidevano e possiamo dire quasi sempre con certezza se un particolare manoscritto è stato utilizzato o meno da un incisore. Gli aspetti importanti dei reciproci rapporti tra le fonti sono la loro cronologia, le derivazioni e le correlazioni, o, in linguaggio meno tecnico, il loro ordinamento temporale, cosa è stato copiato da cosa e quali confronti sono stati effettuati. I curatori redigono poi un diagramma temporale, noto come stemma, che mostra queste relazioni con una serie di linee, frecce e altri segni. Ma è solo nelle edizioni scientifiche veramente sofisticate che ci è permesso di pubblicare tali aspetti. Se le edizioni che usate li riportano, siete in possesso di un vero pezzo di dottrina editoriale. La valutazione di una fonte è fondamentale per decidere sulla sua rilevanza e affidabilità nella definizione e materializzazione del testo musicale. Le domande da porsi sono state accennate di sfuggita nel paragrafo precedente: ci si deve chiedere in che modo il testo può essere considerato completo, quanto il compositore ha avuto che fare con la genesi e il controllo della fonte, qual era il suo scopo essenziale, quanta cura è stata posta nella sua produzione, quanto esso è coerente con le intenzioni notazionali del compositore e in quale particolare fase del processo compositivo ed editoriale. Così facendo il curatore diventa un critico del testo (pur rimanendo uno storico). Ciò significa che il curatore: i) decifra le fonti, annota gli emendamenti contenuti all’interno di ogni fonte – nulla deve essere lasciato senza spiegazione e tutte le correzioni devono essere appianate; ii) confronta le fonti una con l’altra (più facilmente in ordine cronologico), nota per nota, indicazione esecutiva per indicazione esecutiva, e annota le differenze. Le varianti all’interno delle fonti e tra una fonte e l’altra sono presentate in tabelle, che dovrebbero essere realizzate nella maniera più leggibile possibile, poiché hanno un aspetto intrinsecamente ostile. A mio avviso, nel presentare il lavoro al pubblico, è meglio elencare le varianti di un passaggio particolare tutte assieme, piuttosto che trattare una fonte, poi la successiva e così via. Il metodo “assieme” non solo è più interessante per il lettore, ma aiuta anche il curatore, poiché il suo compito successivo è quello di decidere quale particolare variante riflette più da vicino le intenzioni del compositore. Egli agisce ancora essenzialmente come uno storico, tenendo traccia del come e del perché le varianti sono venute alla luce e risolvendo gli errori che derivano dai miglioramenti compositivi; ma egli ora prende anche delle decisioni su quanto dovrebbe essere stampato nell’imminente edizione. Queste decisioni possono essere relativamente semplici: se una variante successiva contenuta in una fonte controllata dal compositore ha senso musicale, è più probabile che essa sia un intervento migliorativo piuttosto che un errore, e, viceversa, se la variante ha un senso meno musicale è probabile che sia un errore – ma restano dei casi in cui due varianti hanno entrambe senso musicale, e quindi si deve lavorare sulle consuetudini conosciute del compositore e degli incisori. Il compito successivo è quello di identificare la fonte principale per la nuova edizione; per gran parte delle opere ottocentesche questa sarà una delle seguenti: l’autografo del compositore, © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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una copia autorizzata, la prima edizione, la copia della prima edizione corretta dal compositore o una successiva edizione autorizzata e emendata durante la sua vita. La fonte principale dovrebbe essere quella che contiene il minor numero di errori e/o gli errori meno gravi, in altri termini la fonte più affidabile secondo le intenzioni notazionali del compositore. Poi, ovviamente, si correggono gli errori e – cosa assolutamente essenziale – si comunica al lettore ciò che si è fatto attraverso un apparato critico. Forse il difetto più comune dei curatori moderni di musica dell’Ottocento e del primo Novecento è quello di “correggere” le lezioni della prima edizione secondo l’autografo, senza prima valutare il coinvolgimento del compositore nel processo di pubblicazione e considerare la possibilità che egli abbia effettuato degli interventi compositivi in sede di correzione delle bozze. I curatori possono essere attirati in questo tipo di errore dall’attuale popolarità delle pubblicazioni in facsimile degli autografi dei compositori. Un altro difetto abbastanza comune, anche se per fortuna lo è sempre meno, è quello di mescolare le fonti secondo il gusto personale (“Prendo questa misura da un’edizione, quella da un’altra e l’altra ancora dall’autografo”). La base per questo tipo di aggregazione è puramente stravagante ed ora è giustamente considerata un vero e proprio errore: non è fondata sulla valutazione delle fonti e produce una versione che non è mai stata convalidata dal compositore. Potremmo arrivare facilmente a pensare che i metodi editoriali correnti per la musica ottocentesca non prestino sufficiente attenzione alle istanze della prassi esecutiva. Il compito editoriale fondamentale rimane ovviamente incentrato sulla notazione e le intenzioni notazionali del compositore si trovano al centro delle preoccupazioni dei curatori editoriali. Ma ciò che la notazione significava per il compositore e i suoi contemporanei è una questione più importante e spero che arrivi presto il giorno in cui i curatori di musica ottocentesca offriranno l’equivalente di quanto già offrono i loro colleghi di musica antica, in termini di descrizione degli strumenti e di ricerche sugli stili esecutivi, gli abbellimenti, le considerazioni sulle interpretazioni dell’epoca, ecc.
Due casi-studio Come accadeva a un certo numero di compositori della prima metà dell’Ottocento, anche a Chopin piaceva pubblicare la sua musica in più paesi contemporaneamente, attraverso diverse case editrici: questo era allora il modo per garantirsi la massima protezione in termini di diritti d’autore. Egli pubblicava in Francia, Germania e Inghilterra, e aveva quindi bisogno di tre copie di ciascuna opera per diffondere le sue pubblicazioni. Chopin poteva utilizzare un copista o preparare la pubblicazione con il suo editore francese (di solito Schlesinger), e poi, dopo aver ricevuto le bozze o le copie preliminari, inviarle – presumibilmente corrette – ai suoi editori tedeschi (Breitkopf & Härtel, o Kistner) e al suo editore inglese (Wessel). Dovremo aspettare delle ricerche dettagliate su ogni singola pubblicazione per capire quante erano le varianti abbastanza significative, contenenti differenze di fraseggi, legature di valore e di frase, punti di staccato, accenti, dinamiche, indicazioni di pedale e note. Dopo la pubblicazione, Chopin arricchiva le copie sue e dei suoi allievi con ulteriore ornamentazione, diteggiature, pedalizzazioni e, talvolta, anche modifiche piuttosto significative alle note. L’esempio III.4.1, a illustrazione di questo aspetto, è tratto da una copia del Notturno op. 15 n. 1 appartenuta a Jane Stirling, una delle allieve più importanti di Chopin. Possiamo osservare che questa copia presenta note alterate e diteggiature aggiunte per mano dello stesso Chopin. Ma è chiaro che egli era non era coerente con tutti gli allievi riguardo a queste aggiunte, tanto che emergono due questioni di particolare interesse: fino a che punto queste aggiunte sono relative a particolari © 2016 by EDIZIONI CURCI S.r.l. su licenza dell'Associated Board of the Royal Schools of Music – Tutti i diritti sono riservati
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circostanze individuali e mancano pertanto di un significato durevole? E fino a che punto le discrepanze rappresentano degli aspetti della libertà interpretativa individuale di Chopin, soprattutto in materia di note effettive? Sappiamo dalle cronache del tempo di come egli fosse solito aggiungere l’ornamentazione improvvisata nelle esibizioni in prima persona e di come gli piacesse che ogni sua performance fosse visibilmente individuale e distinta. La via da seguire per i curatori delle edizioni è sicuramente quella di riconoscere la pluralità dei testi che di un dato pezzo egli ci ha lasciato, ma anche quella di scegliere una sola fonte principale come base per un’edizione successiva, correggendo gli errori ed elencando le varianti: la mescolanza delle fonti non è ancora, anche in questo caso estremo, un’opzione seria! Brahms, a metà del secolo, operando in un contesto più preciso di leggi sul diritto d’autore, pubblicava ogni suo lavoro con un solo editore alla volta. All’inizio della sua carriera Brahms pubblicò con Breitkopf & Härtel, Senff, Simrock, Rieter-Biedermann e altri, ma da metà carriera in poi Simrock divenne il suo editore principale, con alcune opere successive pubblicate dalla Peters. Nel 1888 Simrock acquistò i diritti di quei pezzi precedentemente pubblicati da Breitkopf & Härtel e invitò Brahms a rivedere queste opere, se avesse voluto (la sua revisione più radicale fu quella del Trio per violino, violoncello e pianoforte op. 8). Normalmente, Brahms rivedeva le sue opere attraverso la loro versione stampata, correggendone le bozze e convalidando la prima edizione. Poi correggeva ed emendava i testi sulle sue copie a stampa personali, e così fecero talvolta altri dopo la sua morte.
Es. III.4.1. Frédéric Chopin, Notturno op. 15 n. 1, 1830-1832, batt. 25-30, tratto dalla copia di Jane Stirling, con le annotazioni del compositore.
I segni sulle sue copie personali rappresentano quindi una sorta di difficoltà per i curatori. La prima questione è decidere se un segno particolare è stato scritto per mano dello stesso Brahms. Per le note, e per i casi in cui Brahms appose dei commenti a margine, ciò è relativamente semplice, ma non possiamo esserne sempre certi, soprattutto quando sono coinvolti segni di articolazione. Altri segni mettono in evidenza ciò che era già presente nell’edizione a stampa e servivano a Brahms unicamente per rendere la notazione più leggibile a se stesso quando dirigeva dal podio. Altri ancora sono la prova di una lettura sperimentale, come mostrato nell’es. III.4.2 qui di seguito, che è un estratto della copia del
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compositore del Lied Sind es Schmerzen. (In questo caso sappiamo da una lettera all’editore che in ultima analisi Brahms preferiva la versione stampata, anche se le edizioni più moderne erroneamente prendono in considerazione la versione modificata). Poi ci sono le correzioni degli errori di stampa e alcuni segni che mostrano dei miglioramenti compositivi. Alcuni di questi interventi furono interamente realizzati scrivendo direttamente alla casa editrice interessata, altri no; e per quest’ultimo tipo dobbiamo giudicare se fossero stati inseriti per un’occasione specifica o se per Brahms avessero una validità generale. Qui entrano in gioco le consuetudini di Brahms a comunicare le modifiche per iscritto attraverso delle lettere ed esistono delle prove incontrovertibili che ci informano di quanto lento egli fosse a volte nel comunicare i cambiamenti che veramente desiderava. È dunque necessario per noi, come curatori, mantenere un vero acume di giudizio in ciascun caso. Anche in questa circostanza si applicano le regole di fornire le varianti e spiegare ai lettori ciò che si è fatto. Se poi un lettore non è d’accordo, il rimedio è a portata di mano: egli avrà la possibilità di seguire una versione alternativa pienamente giustificata.
Es. III.4.2. Johannes Brahms, Sind es Schmerzen, op. 33 n. 3, 1861, batt. 65-77, dalla copia del compositore, con le sue annotazioni.
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Note sugli ascolti Playlist completa disponibile anche all’indirizzo edizionicurci.it/guide_abrsm_canto playlist
Johann Sebastian Bach: Sinfonia in fa maggiore BWV 1046a (versione originale del Concerto brandeburghese n. l), primo movimento
frontino l’es. I.1.2 e le osservazioni di George Pratt alle pp. 14-16 sulle dissonanze espressive di questo passo, l’uso del basso continuo d’accompagnamento e la declamazione retorica nella parte vocale.
New Bach Collegium Musicum Leipzig, direttore Max Pommer
Jean-Philippe Rameau: Castor et Pollux, atto II, scena 2, “Tristes apprêts, pâles flambeaux” (Télaïra)
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I pionieri della rinascita barocca, come Christopher Hogwood, non erano soltanto interessati a suonare la musica su strumenti d’epoca (o loro repliche moderne), ma anche a ricercare versioni originali o alternative di pezzi ben noti – come nel caso di questa incisione del 1984 delle versioni originali dei concerti che Bach riunì e rivide nel 1721 per dedicarli al margravio di Brandeburgo1. Questo movimento però differisce assai poco dalla sua versione definitiva nel primo brandeburghese. L’orchestra è composta da tre oboi, un fagotto, due corni da caccia (corni naturali), archi solisti e clavicembalo. Si noti che i corni suonano figure di terzine, probabilmente veri e propri richiami di caccia, che non si conformano agli altri ritmi. Claudio Monteverdi: Orfeo, atto II, “Tu se’ morta”
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John Mark Ainsley (tenore), New London Consort, direttore Philip Pickett
Orfeo è addolorato per la notizia della morte della sua sposa, ma si decide ad andare nell’Ade per cercare di riportarla indietro con il suo canto; il coro sottolinea la natura effimera della felicità umana. Si con-
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Emmanuelle de Negri (soprano), Ensemble Pygmalion, direttore Raphaël
Pichon Télaïra è inconsolabile per la morte del suo amato Castore, re di Sparta. L’estratto mostra le qualità distintive della musica vocale del barocco francese, con la sua sensibilità alle tensioni della lingua francese e la delicata ornamentazione. La parte del fagotto obbligato è tipica dell’orecchio immaginifico di Rameau per la timbrica strumentale. Henry Purcell: The Fairy Queen, z. 629, atto V, “Il lamento” (dal masque del quinto atto) Kym Amps (soprano), Robin Canter (oboe), The Scholars Baroque Ensemble, direttore David van Asch
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Un altro lamento per un amore perduto, questa volta da parte di un compositore inglese. La parte di obbligato è spesso suonata al violino, ma oggi si ritiene che sia stata composta per l’oboe. La prima sezione è su un basso ostinato; la seconda (dal minuto 02.02) è composta liberamente.
Christian Ludwig von Brandenburg-Schwedt (1677-1734). Margravio era un titolo nobiliare del Sacro Romano Impero e corrisponde al titolo di marchese. [N.d.T.]
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Indice Avvertenze generali
p. 3
Prefazione di Anthony Burton
p. 5
Nota all’edizione italiana
p. 7
Prima Parte - Età Barocca Note sui collaboratori Introduzione di Christopher Hogwood Collocazione storica di George Pratt Notazione e interpretazione di Peter Holman Canto di John Potter Fonti ed edizioni di Clifford Bartlett Suggerimenti per ulteriori letture
p. 10 p. 11 p. 13 p. 29 p. 59 p. 69 p. 85
Seconda Parte - Età Classica Note sui collaboratori Introduzione di Jane Glover Collocazione storica di David Wyn Jones Notazione e interpretazione di Cliff Eisen Canto di Richard Wigmore Fonti ed edizioni di Barry Cooper Suggerimenti per ulteriori letture
p. 88 p. 89 p. 91 p. 103 p. 131 p. 147 p. 158
Terza Parte - Età Romantica Note sui collaboratori Introduzione di Sir Roger Norrington Collocazione storica di Hugh Macdonald Notazione e interpretazione di Clive Brown Canto di David Mason Fonti ed edizioni di Robert Pascall Suggerimenti per ulteriori letture
p. 162 p. 163 p. 165 p. 175 p. 193 p. 215 p. 227
Note sugli ascolti
p. 229
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