Viaggio in America (anteprima)

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Correnti è una collana diretta da Carlo Boccadoro Crediti fotografici: p. 100 © Hans-Werner Mehling; p. 132 © Paola Antonioli; p. 136 © Madeline Williamson; p. 153 © Andreas H. Bitesnich. Tutte le altre fotografie sono di proprietà dell’autore. La mappa degli Stati Uniti d’America (pp. 8-9) è di Marianna Rotundo, cui va uno speciale ringraziamento.

L’editore, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini prescelte, è a disposizione degli aventi diritto per eventuali lacune od omissioni.

Direzione e coordinamento editoriale: Laura Moro Progetto grafico: Studio Temp Redazione: Jansan Favazzo, Samuele Pellizzari Impaginazione: Anna Cristofaro Proprietà per tutti i Paesi: Edizioni Curci S.r.l. – Galleria del Corso, 4 – 20122 Milano © 2022 by Edizioni Curci S.r.l. – Milano Tutti i diritti sono riservati EC12277 / ISBN: 9788863953756 www.edizionicurci.it Prima stampa in Italia nel 2022 da PressUp S.r.l. - Roma


PREFAZIONE

Nel 1893, durante la sua permanenza a New York, Antonín Dvořák predisse che le Negro melodies avrebbero favorito la formazione di una “grande e nobile scuola” di musica classica americana. Semplicemente, immaginò che gli americani – come già i boemi, i russi, i tedeschi o gli italiani – avrebbero finalmente creato un proprio canone in ambito sinfonico e operistico. Questa supposizione era ampiamente condivisa prima della Grande Guerra. La profezia non si è mai avverata: la musica classica negli Stati Uniti rimase – e rimane tuttora – eurocentrica. Non c’è alcun paradigma americano che leghi insieme il repertorio di orchestre e compagnie d’opera americane. Questo fallimento peculiare mi ha ossessionato per decenni. Comprenderne le ragioni e valutarne le conseguenze è stata la preoccupazione centrale dei miei molti libri. Un motivo ad esso correlato è la mancanza di memoria: in linea di massima, né i compositori né gli enti musicali americani hanno riscoperto un passato da valorizzare. Di fatto, esiste un repertorio molto più vasto di quanto si possa generalmente immaginare. Da qui il mio ultimo libro, Dvořák’s Prophecy and the Vexed Fate of Black Classical Music, in cui suggerisco che un utile punto di partenza per la musica classica americana sarebbero stati i Sorrow songs elogiati in maniera così indimenticabile da William E. B. Du Bois, tra molti altri (incluso Dvořák). Ma il pregiudizio razziale escluse questa eventualità – e così (tema fondamentale in Dvořák’s Prophecy) fece anche il modernismo. L’estetica modernista non era particolarmente sensibile alle melodie popolari. © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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Come ho sostenuto, ciò di cui ha bisogno la musica americana oggi è un “nuovo paradigma” – un repertorio più aperto, più eclettico, più fruibile, che inizi dalla metà Ottocento di Louis Moreau Gottschalk e privilegi i due giganti creativi della musica classica americana: Charles Ives e George Gershwin. Nessuno dei due rientra nel vecchio canone modernista promosso con tanto successo da Aaron Copland, Virgil Thomson e Leonard Bernstein. Piuttosto, erano visti come dilettanti di talento ai margini del mainstream. Altro tema correlato: un tratto distintivo della musica classica americana nel periodo tra le due guerre mondiali fu l’ostilità nei confronti del jazz. Chiamo questo fenomeno “minaccia jazz”, che all’estero – ed è cruciale – non fu avvertita. Un suo corollario fu la “minaccia Gershwin”. È notevole il fatto che i musicisti classici che più supportarono George Gershwin, durante la sua vita, fossero europei di nascita – una breve lista includerebbe i nomi di Otto Klemperer, Fritz Reiner, Arnold Schönberg e Jascha Heifetz. Le compagnie d’opera americane non eseguivano Porgy and Bess, le orchestre americane (con l’eccezione della New York Philharmonic) emarginavano Gershwin in quanto compositore “pop”. Gli interpreti americani furono dunque complici di questo fenomeno. Si pensi, per esempio, a George Chadwick, il principale compositore americano per orchestra prima di Ives. Solo i direttori europei sembrano capaci di accostarsi alla sua musica senza pregiudizi; i due che lo hanno inciso di più sono Neeme Järvi, nato in Estonia, e José Serebrier, nativo dell’Uruguay. E che dire, poi, degli apici della letteratura americana per tastiera? Quanti, tra i più importanti pianisti americani, hanno promosso la Concord Sonata di Ives? Quanti hanno suonato Gershwin? Per le mie orecchie, il più formidabile concerto per pianoforte è quello di Lou Harrison – e chi lo esegue, oggigiorno? La Russia, che ha rapidamente acquisito una tradizione musicale classica e un suo repertorio autoctono, non ha mai avvertito la “minaccia” del jazz o quella di Gershwin. Quando il mio amico Alexander Toradze emigrò negli Stati Uniti, nel 1983, pensò di includere il Concerto in Fa © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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di Gershwin nel suo repertorio. Aveva suonato jazz per tutta la vita. Fu avvisato dai suoi manager newyorkesi di stare alla larga da Gershwin: avrebbe indebolito il suo valore di mercato. Ho incontrato Emanuele Arciuli grazie a un paio di amici – il compositore Curt Cacioppo e il direttore d’orchestra Delta David Gier. Quando ho curato, nel 2019, un festival musicale ispirato ai nativi americani a Washington D.C., Emanuele era la scelta ovvia come pianista: soltanto lui è immerso in questa musica, passata e presente. In quell’occasione, ha eseguito brani pertinenti di Dvořák e Arthur Farwell – nonché un memorabile Diario indiano n. 2, di un altro italiano che ha trovato ispirazione negli Stati Uniti: Ferruccio Busoni. È stato poi un piacere, per me, includere nel mio film Lou Harrison and Cultural Fusion la sua ispirata interpretazione del Concerto di Harrison, a Lipsia con Dennis Russell Davies. Emanuele suona anche Ives e Gershwin, e persino un po’ di Chadwick. Pur non essendo americano, padroneggia di fatto il più grande e il più variegato repertorio americano di qualunque pianista io conosca, probabilmente di qualunque pianista mai conosciuto. Questo fatto è meno sorprendente di quanto dovrebbe. Joseph Horowitz

Joseph Horowitz (New York, 1948) è autore di importanti studi sulla storia della musica classica negli Stati Uniti (Dvorak’s Prophecy and the Vexed Fate of Black Classical Music è la sua pubblicazione più recente) e produttore di sei docu-film distribuiti da Naxos (tra gli altri, Lou Harrison and Cultural Fusion, con Emanuele Arciuli). È anche produttore esecutivo del PostClassical Ensemble, un’orchestra da camera sperimentale che ha sede a Washington D.C.

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A Frederic, a George

Ho cercato l’America siderale, quella della libertà vana e assoluta delle freeways, mai quella del sociale e della cultura. (Jean Baudrillard, America, 1986)

In fondo gli Stati Uniti, con il loro spazio, la loro tecnologia raffinata, la loro brutale coscienza tranquilla, sono la sola società primitiva attuale. (Jean Baudrillard, America, 1986)

Nello zen si dice: se una cosa è noiosa dopo due minuti, provate con quattro. Se è ancora noiosa provate otto, sedici, trentadue e così via. Alla fine scopri che non è affatto noiosa, anzi, è molto interessante. (John Cage, Silenzio, 1961)

Una visione molto grande è necessaria, e l’uomo che la sperimenta deve seguirla, come l’aquila cerca il blu profondo del cielo. (Tashunka Uitko, “Cavallo Pazzo”, condottiero Oglala Lakota)

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Questa mappa degli Stati Uniti traccia l’itinerario del nostro viaggio.

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INTRODUZIONE

«Che ne pensi del rock cambogiano?». Fu questa la precisa domanda che mi sentii fare da un amico, un bel giorno, per telefono. L’amico era Carlo Majer, fra i più creativi e colti direttori artistici italiani, che qualche anno fa ci ha lasciati, orfani della sua intelligenza e del suo humour. La domanda, però, era serissima, e pronunciata con il suo tono abituale: tranquillo, sempre percorso da una distratta ironia, ma forse inconsapevole della quantità di snobismo implicita nella questione. Perché, diciamocela tutta, il rock cambogiano non è esattamente un argomento di conversazione, e scommetto che nemmeno i grandi esperti del genere passino le loro giornate a interrogarsi sulle sue fortune. Ma ci sono persone che sanno tanto, se non tutto, e lo sanno per davvero; la curiosità li porta a occuparsi di cose sempre più insolite, con tale familiarità da perdere di vista che, appunto, si tratti di cose insolite. L’inquieta intelligenza di chi non riesce a stare nei confini dell’ovvio conduce, per fortuna, a tali conseguenze. Perché ho accennato a questo episodio? Perché, spesso, quando si parla della musica colta americana, della quale mi occupo ormai da vent’anni, il tono è quello riservato alle insolite bizzarrie: talvolta mi sono sentito come un musicista europeo che si dedica al rock cambogiano, omaggiato di improvvide frasi che suonano più o meno così: «Si è ritagliato uno spazio in un genere piuttosto inusuale: la musica americana». Ritagliarsi uno spazio (sia detto per inciso) mi ha sempre fatto venire l’orticaria – lo scrivo a futura memoria. © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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E la musica americana, presentata così, diventa una stravaganza, proprio come il rock cambogiano. La stranezza, piuttosto, consiste nel ritardo e nella superficialità con cui ci si occupa della musica di un Paese culturalmente egemone da un secolo a questa parte. Potremmo immaginare l’arte visiva del Novecento e del nostro secolo senza, che so, Jackson Pollock, Mark Rothko, Louise Nevelson, Andy Warhol e Jeff Koons? E il cinema senza Billy Wilder, Steven Spielberg, Martin Scorsese e Woody Allen? O il romanzo senza Ernest Hemingway, Nathaniel Hawthorne, Philip Roth e David Foster Wallace? Possibile che solo la musica colta resti fuori dai giochi? Davvero pensiamo che la musica americana possa ridursi a un paio di nomi, come Gershwin e Bernstein (anzi, il Bernstein di West Side Story)? E che, per il resto, sia una faccenda di poco conto, semmai riservata agli americani stessi? Qualcosa non torna. E credo di intuire cosa sia: la musica classica, a differenza delle altre espressioni artistiche citate, è considerata una lingua morta, retaggio del passato. Non lo è, sia chiaro; ma così è percepita da buona parte dei frequentatori abituali di concerti. È come se, a un certo punto, l’estetica della musica e quella del pubblico avessero preso strade diverse; come se, da un secolo a questa parte, la frequenza radio si fosse persa. Insomma, la musica ha attraversato tempeste, percorso viaggi avventurosi, affrontato una profonda crisi del linguaggio, ma per il pubblico quelle cose lì fanno parte di una sorta di brutta storia, alla quale viene dato il nome di “musica contemporanea”. Che ormai è contemporanea come Matusalemme o la seconda guerra punica, e diventa un gran calderone, in cui si fatica a distinguere Schönberg da Stockhausen, Messiaen da Takemitsu, e Webern da Cage. È considerata tutta uguale, cioè non pervenuta, insignificante, giusto una minuscola pozzanghera in cui ci si imbatte, qualche volta, quando nei concerti se ne programma un brano. Di solito è a inizio serata, in modo che © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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i ritardatari siano premiati e riescano a scansarsela. Il repertorio, quello serio, per il pubblico è un’altra cosa. Ora, la musica americana è quasi tutta proiettata nel Novecento e nel nostro secolo, dunque si inserisce appieno in questo filone dell’insignificanza. Ed è un peccato, perché è ricca non solo di capolavori e di talenti, ma anche di storie meravigliose. È una musica che possiede una forte, irresistibile vocazione narrativa, e anche molti dei suoi compositori sembrano usciti da un romanzo. Insomma, se solo il pubblico la conoscesse, potrebbe innamorarsene. Purché si tratti di un pubblico curioso (due parole che, insieme, suonano sempre più come un ossimoro). E i nostri musicisti? Beh, non è che abbiano fatto molto per divulgare la musica d’oltreoceano. I cultori delle sonorità più astratte le assegnano giusto uno strapuntino: troppo sempliciotta e senza tradizione, la musica americana non ha radici, è giovane e immatura. Anche questo non è vero, e peraltro – quanto ad astrazione – anche gli americani non scherzano: ci sono autori non meno complessi di Pierre Boulez e Iannis Xenakis, e una varietà di stili da lasciar tramortiti. Non esiste, probabilmente, un denominatore comune, una “americanità”, o se c’è non risiede nel linguaggio della musica, ma nel luogo in cui è composta. L’America è diversa dall’Europa: Umberto Eco aveva ragione quando diceva che noi europei abbiamo qualcosa che ci unisce tutti, persino un abitante dei fiordi con un pescatore di Mazara del Vallo, e invece l’America è davvero un altro mondo. Capirla è difficile e forse impossibile, per chi non ci viva e non sia nato lì. D’altra parte, è proprio tale distanza (anche critica) a consentirci di interpretarla, e conosco pochi libri che abbiano centrato il problema americano meglio di America di Baudrillard. Negli Stati Uniti sono stato circa cinquanta volte, sempre per motivi di lavoro; contando i giorni ci ho passato non più di due anni e mezzo della mia vita. Tuttavia è penetrata nella mia coscienza con una forza dirompente. Molte cose dell’America sono detestabili: posso © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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dire, senza esitazione, che sa essere generosa e crudele nella stessa misura, e il livello di ottusità di certe sue derive mi lascia sbigottito. Però il paesaggio americano, le storie che esso racconta, i personaggi straordinari che ho incontrato, e molta della musica che vi si compone, sono un’avventura così bella che mi pareva giusto raccontarla, almeno in parte, in questo libro, che vuole incuriosire sulla musica attraverso i suoi protagonisti. E non necessariamente quelli più celebrati. Perché la poesia della musica americana abita la penombra, e non risiede solo nelle luci di New York, ma anche, forse soprattutto, nei deserti del New Mexico. È una storia in continua evoluzione, come la musica, che non è ancora finita e ci riserva meravigliosi scenari futuri. Trattandosi, se non di rock cambogiano, certo di musica poco presente nei programmi delle nostre stagioni concertistiche, ho pensato di aggiungere, al termine di ciascun capitolo, dei consigli di ascolto che accompagnino questo viaggio lungo le rotte americane. Puntando lo smartphone sul QR Code in fondo al libro, vi si apriranno mondi sonori che mi auguro possano affascinarvi come è accaduto a me. Per finire, desidero ringraziare Carlo Boccadoro, che con generosa incoscienza mi ha proposto di scrivere questo libro, Laura Moro, che lo ha accolto con entusiasmo e corretto in corso d’opera con ottimi consigli, e Jansan Favazzo, che mi ha accompagnato con grande sensibilità e competenza nella sua stesura.

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PRIMA DI PARTIRE un signore dai calzini rossi: come tutto ebbe inizio Mi capita spesso di chiacchierare sulla musica americana, in occasioni più o meno formali, e quasi invariabilmente la prima domanda che mi sento rivolgere è: «Quando è nata questa passione? E come?». La risposta sembra tratta da un romanzo di Paul Auster, uno scrittore americano che insiste spesso sul ruolo del caso nella vita della gente. Ero a Bari – la mia città – in un assolato pomeriggio primaverile del 1994, e stavo passeggiando per le vie del centro quando, fermo a un semaforo, vidi un signore vestito con sobria eleganza, in parte contraddetta da un paio di vistosi calzini rossi. In spalla uno zaino nero, grande, anche quello un po’ dissonante rispetto allo stile dell’abito. Forse perché incrociai il suo sguardo, o forse soltanto perché doveva succedere, si avvicinò per chiedermi un’indicazione e scoprii così che eravamo entrambi diretti alla sede dell’associazione musicale “Il Coretto”. Parlava un buon italiano con forte accento americano, e pensai fosse un turista appassionato di musica, magari in cerca di qualche concerto da ascoltare; mi sbagliavo: il pianista era proprio lui! E adesso doveva studiare un po’, dal momento che quella sera avrebbe tenuto un recital in una piccola sala della città vecchia. Non ricordo il luogo esatto ma, per curiosità, decisi di andarci. Fu una buona idea: quel giorno eravamo davvero in pochi, nel pubblico; il concerto era stato pubblicizzato male, e so quanto sia desolante esibirsi per dieci persone. In quei casi anche un solo spettatore in più, specie se plaudente, fa la differenza. Joel Hoffman – ecco il suo nome – proponeva musiche sue e di altri compositori statunitensi, che io per la maggior parte ignoravo. È stato così che ho scoperto la © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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musica americana, ma non fu un colpo di fulmine: giusto il primo approccio con un mondo che immaginavo vagamente e di cui mi sfuggiva ancora la reale portata.

Con Joel Hoffman (a destra) a Cincinnati (1998)

Alla fine del concerto, mi parve naturale invitare a cena il bizzarro signore dai calzini rossi. Io e Joel andammo in una di quelle trattorie un po’ scalcinate della città vecchia che tanto affascinano i turisti, e nelle quali si può mangiare bene. Parlammo a lungo della musica contemporanea, e provo un certo imbarazzo nell’immaginare – me ne rendo conto, adesso – la pazienza che Joel deve aver avuto nel confrontarsi con me, musicista curioso ma ignaro della vastità di un’America che, nella mia ingenua presunzione, credevo ridursi ai nomi di Ives, Varése, Copland, Barber, Cage, Glass, Reich, oltre, naturalmente, a Gershwin © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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e Bernstein. Beh, conoscevo anche la musica di Frederic Rzewski, e poco di più. Lui fu molto gentile e – complice la cucina barese e un po’ di vino – si aprì a considerazioni stimolanti sul futuro della musica e sul pianoforte. Quello che proprio non avevo supposto, e che cominciò a disvelarsi già durante il concerto, è che dietro questo signore dinoccolato e perennemente distratto, con l’aria di uno che si è appena svegliato da un sonno agitato, ci fosse un musicista di prim’ordine, un maestro riconosciuto, e per giunta l’ennesimo esponente di una famiglia di musicisti affermati01. Con la musica Joel intrattiene, dunque, un rapporto privo di ogni retorica o divorante ambizione personale. Essa è piuttosto come l’aria che respira, un elemento naturale, né buono né cattivo, semplicemente inevitabile. Restammo in contatto e fu così che ricevetti da lui un disco, Cubist Blues, che segnò il vero inizio del mio rapporto con la sua musica. Si tratta di un lavoro per pianoforte, violino e violoncello, in quattro movimenti: quattro blues (forse sul modello dei Four Blues di Copland) in cui – come avrei scoperto più tardi – riprende, elabora o anticipa materiale di altre sue composizioni, in particolare il ciclo per pianoforte Each for Himself e la suite orchestrale Millenium Dances, che del primo è una sorta di sviluppo. Lo stile è intriso di jazz, ma un jazz “educato”, o meglio “mediato”: non quello di Ornette Coleman o Anthony Braxton, insomma, piuttosto quello di Leonard Bernstein e André Previn. Devo molto all’emozione di questo brano, perché è certamente una delle pagine che mi hanno fatto entrare nel mood della musica americana. Riuscii a organizzare, qualche tempo dopo, un’esecuzione del trio a Bari, in una piccola biblioteca del centro che per me aveva un valore importante visto che, da ragazzino appena quindicenne, vi 01

Il padre di Joel, il direttore d’orchestra Irwin Hoffman, fondò la Florida Orchestra, mentre la madre Esther Glazer, violinista, eseguì più volte il Concerto di Stravinsky a New York, e fu la prima a suonare il Concerto di Schönberg a memoria. La sorella di Joel, Deborah, fu arpista del Metropolitan, mentre i fratelli Gary (violoncellista) e Toby (violista e direttore d’orchestra) sono tuttora nomi dello star system. Anche i figli, Natania e Benjamin, nel rispetto della tradizione, sono ottimi musicisti, e posso dire di averli visti crescere.

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avevo ascoltato una conferenza di Luigi Nono. Tutta un’altra storia, naturalmente, e tutta un’altra musica. Tra i compositori americani, Joel Hoffman è stato il primo con cui ho stretto amicizia. Ma c’è un altro motivo per cui questo viaggio deve iniziare con lui. Al tempo del nostro incontro, Joel stava già pensando a un piccolo festival dedicato alla musica americana, una di quelle manifestazioni che si tengono nelle università, specie d’estate, quando le lezioni sono terminate e c’è più spazio per altre attività. Quando me ne parlò, durante quella prima cena nella Bari vecchia, sembrava un’idea astratta, una di quelle cose di cui si chiacchiera e che raramente si concretizzano. E invece questo festival si è realizzato, rappresentando per me la chiave d’accesso a un mondo con il quale – per quelle imprevedibili alchimie che segnano le nostre esistenze – ho intrapreso un rapporto che avrebbe impresso al mio essere musicista una svolta decisiva. In breve, posso dire che il mio viaggio nei sentieri della musica americana non è nato da soggiorni di studio nelle università statunitensi o altre esperienze del genere, ma da una banale indicazione stradale chiestami da un signore per le vie della mia città. Nel corso della mia esperienza oltreoceano, mi sono reso conto che spesso le cose più importanti hanno dinamiche semplici e discrete, specie se la vita musicale non è intesa come una collezione di concerti e di medaglie da esibire, ma piuttosto di incontri e storie da raccontare.

Joel Hoffman, Cubist Blues [Gasparo Records] Joel Hoffman, Each for Himself [CD Americans, Emanuele Arciuli (pianoforte), Stradivarius] Joel Hoffman, Violin Concerto n. 2 [Cho-Liang Lin (violino), Taipei Orchestra, Li-Pin Cheng (direttore), Naxos Records]

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CINCINNATI, OHIO il festival music x Quando, all’inizio del 1998, Joel Hoffman mi scrisse per invitarmi al neonato festival Music X, non immaginavo ancora che l’America sarebbe diventata una destinazione così importante e consueta, per me. La prima cosa che pensai fu di approfittare del mio primo viaggio intercontinentale per visitare New York: chissà quando mi sarebbe ricapitato! Del festival sapevo poco, e in fondo ne sapeva poco anche Joel, visto che il progetto aveva appena preso forma. Ma c’erano già alcuni punti fermi, che poi avrebbero dato spessore e continuità alla manifestazione negli anni a venire. Innanzitutto la presenza, come ospiti, di tre compositori prestigiosi. Poi la partecipazione di tantissimi giovani compositori provenienti da tutti gli Stati Uniti, e in qualche caso anche da Messico e America del Sud. A loro si univa un buon numero di asiatici, europei e australiani, giunti negli States per studiare con insegnanti di prestigiose università, e lo sparuto drappello degli esecutori in residence, fra i quali c’ero anch’io. Il mio compito, oltre al recital che avrei tenuto nei giorni seguenti, era ascoltare i lavori dei giovani autori, specie quelli con pianoforte, e fare da coach, dispensando consigli ai compositori e soprattutto agli interpreti, quasi tutti studenti del College Conservatory of Music, la scuola di musica dell’Università, in vista dell’esecuzione pubblica. A ciò si aggiungeva una masterclass da tenere per gli studenti di pianoforte (e a Cincinnati insegnavano maestri del calibro dei coniugi Pridonoff e di James Tocco). Il tutto per circa dieci giorni. Conscio del mio inglese – oggi mediocre, ma allora terrificante – cercai di correre ai ripari frequentando un corso intensivo il mese prima della partenza, ma era tardi: avevo basi troppo fragili per rimediare © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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in poche settimane. Partii col dizionario tascabile che, per anni, fu il mio fido assistente; gli smartphone con traduttori elettronici non esistevano ancora. Arrivai a Cincinnati in condizioni penose, stanchissimo e disorientato, dopo un viaggio da Roma, con scalo ad Amsterdam, di quindici ore complessive, i canonici tempi di attesa aeroportuali e cibo di qualità scadente; la compagnia era la belga Sabena, il volo piuttosto economico. C’era proprio Joel Hoffman ad accogliermi in aeroporto, e – non appena ebbi depositato il bagaglio in albergo – pensò bene di condurmi all’Università per il primo coaching. Dico: il giorno stesso del mio arrivo, dopo un viaggio intercontinentale! Mi sembrò un atto di puro sadismo, ma Joel – continuamente in giro per il mondo e impermeabile al jet lag – lo fece col suo consueto candore: dimenticando che per me fosse un battesimo, e che forse avrei avuto bisogno di un po’ di tempo in più. Terminata l’ora di lezione, che avevo trascorso in stato di catalessi (il giovane compositore deve aver pensato di trovarsi di fronte a un imbecille), Joel mi diede appuntamento per il concerto serale, non prima di avermi suggerito una pizzeria di fronte all’Università. Si chiamava Pomodori’s, un luogo che mi sarebbe diventato familiare e nel quale sperimentai per la prima volta la pizza americana (che è, più o meno, come un kebab norvegese o un’amatriciana bulgara). Mi sedetti a un grande tavolo assieme ad alcuni studenti del Conservatorio, tra cui una giovane flautista molto cordiale, Nina Perlove. Immagino che in lei si fosse generato un senso di protezione nei confronti di un giovane pianista italiano che mette piede in America per la prima volta, non sa come muoversi e gli mancano pure le parole per dirlo; fatto sta che Nina ed io ci recammo assieme al concerto, protagonista un duo pianistico (Sally Pinkas e Evan Hirsch) alle prese con un lungo brano di George Rochberg, Circles of Fire, composto per loro. Non sapevo nulla di Pinkas e Hirsch, ma nemmeno di Rochberg, uno dei tre compositori ospiti del festival. E cominciai ad avvertire la distanza enorme fra noi e l’America, che è davvero un altro mondo, © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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perché Rochberg, in termini assoluti, è un compositore importante che non si può trascurare, ma da noi continua a esser sconosciuto quasi del tutto. Per intenderci, fra i brani che alla fine degli anni Sessanta segnarono il fiorire di quel citazionismo postmoderno che Berio realizzò con Sinfonia, e che di fatto prelude a un cambio di passo nell’esperienza dell’avanguardia, Music for a Magic Theater di Rochberg occupa un ruolo di primissimo piano. Circles of Fire, nonostante i colpi di sonno da jet lag, mi impressionò, e cominciai a scoprire il pragmatismo di certa musica americana, che riesce miracolosamente a tenersi in bilico fra coerenza costruttiva e capacità di comunicare, senza rinunciare alla poesia. C’era inoltre una grande quantità di citazioni brahmsiane, dirette ed esplicite, disseminate nella partitura – non frammenti così mimetizzati da risultare comprensibili solo dopo un’attenta analisi della partitura, tipici della musica europea, ma ampie sezioni del tutto riconoscibili. Vi è mai capitato di imbattervi in un compositore del Vecchio Continente (italiano, tedesco, o peggio francese) che dichiara la sua passione, che so, per i Beatles o per Jimi Hendrix, e di ascoltare poi un suo omaggio al venerato beniamino, con presunte citazioni di Yellow Submarine o magari di Foxy Lady, che somigliano all’originale come una linea retta a Marilyn Monroe? Ecco, certa musica americana è un po’ diversa: lì la citazione si sente; sarà poco chic, ma si sente. Dopo il concerto, verso le dieci, Joel, i due pianisti, Rochberg ed io ci recammo al diner Sycamore, un luogo storico della Cincinnati downtown. Sembrava di essere sul set di Fuori Orario di Scorsese, uno dei miei film preferiti, o in un quadro di Hopper. I diner americani possiedono un fascino unico, e la loro progressiva sparizione minaccia di cancellare un repertorio di memorie che andrebbe preservato. Rochberg parlava un po’ di italiano, certamente migliore del mio inglese di allora, e scoprii che aveva studiato in Italia, con Luigi Dallapiccola, soggiornandovi per un certo periodo.

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A quel tempo ero impegnato a studiare il Concerto op. 42 di Schönberg, e ne accennai a tavola. Rochberg, che possedeva un’eleganza alla David Niven (era un signore molto anziano ma di grande fascino, alto, longilineo e con un piglio aristocratico e un po’ snob), non amava per nulla quel lavoro, ma lo conosceva bene e me ne cantò il tema dodecafonico; poi, di fronte alle mie timide rimostranze (dell’op. 42 ero, e tuttora sono, un fan), reagì con paternalistica ironia. Quell’anno, gli ospiti del festival erano, insieme a lui, Augusta Read Thomas e Paul Lansky. Quest’ultimo utilizzava una sorta di player piano alla Conlon Nancarrow, ma con caratteristiche differenti da un punto di vista stilistico. Ricordo un concerto di sue musiche, che si svolse praticamente al buio. Eravamo poche decine di persone, in un Corbett Auditorium che avrebbe potuto contenerne oltre un migliaio. Ma l’effetto di quei suoni diffusi da potenti altoparlanti, che riempivano lo spazio senza esecutori umani eppure carichi di emozione, fu notevole. Mi ambientai presto a Cincinnati, dove ebbi modo di ascoltare tanta musica e scoprire persone e luoghi preziosi01. Venne il momento del mio concerto, cioè del mio debutto americano. Si trattava di un festival universitario, niente di particolarmente prestigioso, ma per me era un appuntamento fondamentale, per il quale la notte prima, in preda a una certa agitazione, non dormii. Suonai qualcosa della seconda scuola di Vienna (l’op. 27 di Webern, l’op. 1 di Berg, i Sechs Kleine Klavierstücke op. 19 di Schönberg), un paio di brani italiani (Cadenze di Ivan Fedele e Proiezioni Sonore

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Tra le presenze fisse del festival, che sarebbero poi divenute cari amici, voglio ricordare il pianista giapponese Nozomi Yamaguchi, uomo generoso oltre che meraviglioso didatta, purtroppo scomparso all’improvviso poco tempo fa, il pianista e compositore Gao Ping, la pianista Reiko Höhmann (allieva, come Ping, di James Tocco) e Shau Uen Ding, pianista di Taiwan con uno speciale talento per la nuova musica. A Cincinnati ho anche scoperto due librerie fondamentali: la Duttenhofer’s Book, dove mi sono imbattuto in molti libri antichi o fuori commercio sulla musica americana, base essenziale per alimentare la mia passione e le mie conoscenze; l’Ohio Bookstore, in cui ho trovato i due tomi di Frances Densmore sulla musica degli Ojibwe, rarissimi volumi d’inizio Novecento pubblicati dallo Smithsonian (tornerò più volte, nel seguito del nostro viaggio, sulla mia passione per i nativi americani).

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di Franco Evangelisti, studiati per l’occasione), una composizione di Debussy e Winnsboro Cotton Mill Blues di Rzewski. Non ero del tutto soddisfatto della mia esecuzione, per qualche piccolo pasticcio qui e là, ma l’accoglienza del Corbett Auditorium fu molto cordiale. Il cuore del festival era però il lavoro con i compositori e con gli interpreti, che si rivelò entusiasmante e istruttivo. Mi confrontavo con una serie di problemi nuovi e di culture differenti dalla mia. In America, infatti, ci si rende conto presto che il melting pot non è un luogo comune ma una realtà incontrovertibile, e non è semplice sintonizzarsi con questa moltitudine di approcci. Io non potevo che restare me stesso, decisamente un po’ naïf, ma sincero. Festeggiai il mio trentatreesimo compleanno a Cincinnati, e gli studenti mi fecero un piccolo omaggio, accompagnato da un biglietto con i loro auguri. Uno di loro mi scrisse: «You’re a strange man, Emanuele, but it’s good!». Al festival, fra gli altri artisti in residence, c’erano gli Eight Blackbird, un formidabile ensemble con cui ho lavorato a esecuzioni di Kernis, Cage e altri compositori. Michael Maccaferri, il clarinettista del gruppo, arrotondava facendo anche il cameriere da Pomodori’s – una cosa molto “americana” – e fu divertente una volta, dopo un entusiasmante concerto dedicato alle musiche di Steve Reich, recarci tutti assieme in pizzeria e ritrovare Maccaferri che, dismessi i panni del solista, ci serviva pizza e birra con il suo grembiule d’ordinanza. Un aspetto essenziale dell’esperienza al festival fu l’ascolto di centinaia di lavori di giovani autori02. Qualche anno fa ero a casa mia, a Bari, con il compositore americano Peter Gilbert, docente all’Università di Albuquerque. Curiosando con lui fra le mie vecchie partiture americane, ci siamo imbattuti in una pagina del 2003 dal titolo Scherzabolique. Non ne ricordavo l’autore, ma la storia sì: in una delle edizioni del Music X, avevo apprezzato in particolare i lavori di un giovane americano dai folti 02

A volte mi chiedo cosa abbiano combinato poi alcuni di loro. So per certo che molti hanno fatto una buona carriera: cito Marcos Balter, Matthew Quayle, Joshua Penman, Ingrid Stölzel, Gao Ping, Michael Ippolito, Ryan Ingebritsen, Geoffrey Gordon.

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capelli rossicci che alcuni giorni dopo, al termine del mio recital, si era presentato in camerino per donarmi una sua composizione pianistica. Avevo deciso di conservarla perché mi pareva che il ragazzo avesse talento. Bene, io e Peter realizzammo allora che l’autore era proprio lui, nel frattempo assai stempiato (ma con folta barba compensativa) e approdato a esiti stilistici del tutto diversi da quel piccolo pezzo ingenuamente lisztiano. Lui aveva quasi rimosso il suo “peccato di gioventù”, non citato nel suo attuale catalogo, e nemmeno io ricordavo che lo studente incrociato quasi vent’anni prima fosse proprio lui. Ma è stato bello scoprire come la vita, che ci aveva fatto incontrare di sfuggita, ci avesse poi fornito l’opportunità di diventare amici – e, ironia della sorte, di scovare insieme, tanti anni dopo, un suo vecchio brano nella biblioteca di casa mia. crumb e le merendine notturne A Bari esisteva – negli anni della mia adolescenza – un negozio Ricordi e lì, nel settore della musica stampata, mi capitava spesso di trovare partiture di musica contemporanea; di solito accatastate in un angolo che, manco a dirlo, era per me un luogo di delizie. Un giorno, avrò avuto vent’anni, vi trovai uno volume strano, oblungo e dalla particolare veste grafica, della Peters americana. Era un pezzo pianistico di un compositore statunitense, George Crumb, del quale non sapevo quasi nulla. Mi incuriosì la scrittura, musica stampata ma con caratteri più simili a un manoscritto, e vi colsi alcuni elementi quasi esoterici, a partire dal titolo – Processional – fino a qualche indicazione espressiva. Lo acquistai, ma era musica lontanissima da quanto avessi mai suonato fino ad allora, non sapevo come affrontarla e non c’era verso di ascoltare registrazioni: a metà degli anni Ottanta i dischi erano i vecchi vinili e nella mia città si trovava soprattutto la produzione delle grandi case discografiche, allora concentrate sul consueto repertorio, dunque la musica di Crumb era relegata in un iperuranio nel quale sarebbe restata ancora per un bel po’. © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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Così, quando Joel Hoffman mi chiamò per confermare la mia presenza al festival l’anno successivo, alla gioia di tornare a Cincinnati si unì la sorpresa di scoprire che fra i compositori ospiti ci sarebbe stato proprio lui, George Crumb. Nel frattempo, lo spartito di Processional era rimasto tra le cose (tantissime) acquistate per curiosità e mai approfondite. D’altro canto, riempire la propria biblioteca privata di musiche che si è soltanto sfogliato e assaporato, senza che poi finiscano in repertorio, credo debba far parte della formazione di ogni musicista (oltre a essere, soprattutto, un piacere). Decisi, a quel punto, di farmi forza e studiare questo brano, e finalmente lo ascoltai (nel frattempo era più facile, con i CD, reperire musiche di raro ascolto) in una registrazione della Centaur, interpretato da un pianista che poi ho anche conosciuto e ospitato a casa mia, Jeoffrey Jacob, un americano “specialista di musica americana” – definizione con la quale avrei imparato a fare i conti molto spesso, negli anni a venire. Il pezzo era bello, piacevole, interessante, ricco di colori, ma soprattutto era la sua unica composizione a non fare uso degli effetti dentro al pianoforte. Crumb, a riguardo, ha elaborato una tecnica compositiva di enorme interesse, che parte dalle conquiste di Henry Cowell e le sviluppa in maniera originalissima. Vale la pena di accennarne, qui. Henry Cowell (1897-1965), pioniere della musica americana della prima metà del Novecento, era un ottimo compositore, ma soprattutto un eccellente “inventore”, un esploratore della musica, capace di indagare sulla complessità dei ritmi e il loro rapporto con le altezze dei suoni; chiese dunque a Léon Theremin, altro inventore indefesso e geniale, di costruirgli uno strumento che si prestasse alle sue sperimentazioni: nacque così il Rhythmicon. Ma le scoperte di Cowell non finiscono qui. Nel caso del pianoforte, esse sono soprattutto legate all’uso dei clusters (grappoli di note, letteralmente), all’esecuzione diretta sulla cordiera, e altri effetti di inside piano che aprono, potenzialmente, grandi prospettive al timbro del pianoforte. La sua musica, a dirla tutta, non sempre è riuscita a superare la soglia della curiosità – a vantare, cioè, un interesse artistico puro, che andasse al di là dell’importanza delle sue idee e delle sue trovate. © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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Alcune opere sono belle e ci restituiscono l’immagine di un compositore vero (penso al Piano Concerto, ad esempio), ma ciò che rende Cowell immortale sono la sua inventiva e la sua capacità di scoprire nuove risorse. Crumb, queste scoperte, le ha sviluppate, fatte sue e, soprattutto, legittimate artisticamente, con opere di meravigliosa fascinazione sonora, ricche di pensiero e di bellezza. Lo studio di Processional mi tenne impegnato per un po’. Procedevo con serietà e impegno, come avessi di fronte una sonata di Beethoven, con la differenza che questo universo, questo stile, queste armonie mi erano totalmente ignoti. Mi rendo conto, oggi, di quanto la musica di Crumb si basi spesso su formule ripetute, come accade a quasi tutti i compositori, per cui la conoscenza di altre sue opere consente un approccio più immediato alle successive. Allora, però, ero nella fase iniziale. Ed ero felice che questo brano mi impegnasse solo sulla tastiera, perché l’idea di confrontarmi con altre e inusuali tecniche di produzione del suono un pochino mi spaventava. A giugno, poco prima della partenza, il brano era pronto, e non mi restava che incontrare il Maestro. Mi aspettavo un signore severo e compassato, un po’ come il Rochberg dell’anno precedente. Mi trovai di fronte un nonno cortese, allegro, semplice e accogliente, vestito con jeans e camicia a quadri da cowboy, che parlava con un marcato accento del Sud – questo, per la verità, l’ho capito grazie ai commenti degli amici, perché il mio inglese non era così raffinato da cogliere tali sfumature. La reazione di Crumb alla mia esecuzione di Processional fu molto buona, e soprattutto mi parve di cogliere una certa sorpresa, che poi mi spiegò: la considerava una composizione poco significativa della sua produzione, e invece in quell’occasione ne aveva riscoperto il valore musicale. Non era merito della mia esecuzione, immagino, perché certe cose semplicemente accadono, i gusti mutano e, magari, dopo anni di distanza torni ad apprezzare pagine che avevi sottovalutato. La musica di Crumb, insieme a quella di Rzewski, è stata la mia chiave per entrare nel mondo sonoro dell’America, e lavorare con lui è sempre stata un’esperienza © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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entusiasmante: facile, serena, lineare, non problematica ma profonda. In Crumb non c’era mai affettazione né alcuna volontà di farti pesare la sua rilevanza storica – parliamo di uno dei più grandi compositori del nostro tempo. Né l’atteggiamento pensoso e contrito di certi esangui intellettuali, ma lui era un intellettuale autentico. Uno, cioè, che nuotava nella cultura con naturalezza, amore e pragmatismo, cercando di porsi di fronte ai problemi con semplicità. Ecco, la semplicità è forse la chiave per capire tanta musica americana, e tanti suoi protagonisti. Le cose sono dirette, arrivano senza mediazioni, e soprattutto non le si fa pesare. Non accade con tutti, sia chiaro, e mi è capitato di imbattermi in musicisti americani famosi e celebrati, magari impegnati a promuovere la loro immagine nel sociale, che nel rapporto personale rivelano miserie, ipocrisia e meschinità. Ma sono, per fortuna, una esigua minoranza.

Con George Crumb a Cincinnati (1999)

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Dopo il concerto, piuttosto lungo (mea culpa!), George ed io non riuscimmo a trovare un ristorante aperto nei paraggi. L’Università non si trova a downtown, né in un quartiere ricco, e quando Pomodori’s era chiuso c’erano poche alternative, almeno di sera. A pranzo, al ristorante del Vernon Manor, Crumb mi aveva consigliato il meatloaf, un rustico polpettone al sugo che è rimasto uno dei miei piatti americani preferiti. Ma la sera il ristorante dell’hotel era ormai chiuso, e non ci restavano che le orride merendine e le bibite gasate dei distributori automatici. Così tra Oreo, Dr. Peppers, Mountain Dew, Twinkies, Hershey’s e Butterfinger, tutte autentiche minacce al colesterolo, festeggiammo la mia esecuzione (e la sua riconciliazione con Processional) nel modo più irrituale possibile. Ma ero talmente felice di condividere questo momento con George che apprezzai quella cena di fortuna, in piedi davanti a una macchinetta, vicino agli ascensori dell’albergo, quasi quanto un ricevimento al Ritz. E il suo buonumore, inscalfibile e sincero, fece il resto. le variazioni ’ round midnight A partire dal 1999, la mia partecipazione al Music X divenne consuetudine: ero entrato a far parte di una squadra. Il Vernon Manor Hotel si alternava qualche volta a un modernissimo albergo ancora più vicino all’Università, in un nuovo complesso che mi pare fosse stato progettato da Frank Gehry. Il paesaggio circostante si modificava ogni anno, per via di interminabili lavori alle strutture, agli immensi campi sportivi, e per l’inesorabile vento di cambiamento che in America spirava già allora, per cui nuovi esercizi commerciali rimpiazzavano senza pietà i vecchi negozi, bar e ristoranti. Mi fece una certa impressione, ad esempio, vedere come la chiesa protestante attigua all’Università, e visitata l’anno prima, si fosse svuotata degli arredi sacri per ospitare un noto brand di abbigliamento e accessori. La chiesa che diventa megastore mi proiettava in una dimensione fra il grottesco e la fantascienza, ma © 2022 by EDIZIONI CURCI S.r.l. – Tutti i diritti sono riservati


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l’America non delude mai, da questo punto di vista. Non sono enormi solo gli scenari, i grattacieli, i paesaggi, i progetti; talvolta, lo sono anche le castronerie. E comunque nulla, lì, è impossibile. I supereroi non avrebbero potuto nascere che in America. Un pomeriggio passeggiavo per i viali dell’Università, era il giugno del ’99, e mi venne una strana idea: chiedere ai giovani compositori del festival di scrivere delle variazioni su un tema, un lavoro collettivo da cui emergesse la varietà degli stili e degli approcci del “contemporaneo americano”. Quanto al tema, pensavo a ’Round Midnight di Thelonious Monk, perché è un brano che adoro, perché non è musica “classica” e dunque mi sembrava una bella sfida, e soprattutto perché – a causa della sua complessità – è totalmente diverso dal tipico tema da variare. Ne parlai con Joel Hoffman, che rilanciò, dicendomi che l’idea gli sembrava buona e voleva sottoporla a compositori professionisti, con solo uno o due giovani di speciale talento. L’Università avrebbe finanziato la commissione. Tutto questo dialogo durò cinque minuti, e il progetto passò dalla fase dell’idea a quello della progettualità (e persino della copertura finanziaria) in pochi secondi. Ecco, non sempre, ma talvolta queste cose accadono davvero, in America. Definimmo una prima lista di compositori, senza compromessi sulla qualità: Augusta Read Thomas, Frederic Rzewski, Gerald Levinson, Michael Daugherty, Michael Torke, William Bolcom, Aaron Jay Kernis. Immaginavo che avrebbero diplomaticamente declinato, e invece accettarono tutti. A loro si unirono poi altri compositori importanti (a partire dallo stesso Joel), e io sperai da subito anche nella partecipazione di George Crumb. Temevo che non fosse interessato, perché non componeva più da anni, e tuttavia provai a scrivergli. Rispose dopo qualche giorno, senza darmi una risposta, ma chiedendomi di spedirgli il tema di Monk via fax. La cosa un po’ mi stupì, perché credevo che uno standard così noto non avesse bisogno di presentazioni, ma forse – pensai – Crumb non era un frequentatore del jazz.

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE

Prefazione di Joseph Horowitz Introduzione Prima di partire Cincinnati, Ohio Lungo la East Coast Dalla California al Midwest Rotta a Sud-Ovest Tornando a casa Bibliografia

3 11

15 19 49 93 121 149

165

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