Le muse del jazz (anteprima)

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Il suono dei nomi

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empo fa, mentre cercavo una strada di periferia, chiesi informazioni a due passanti della zona. Entrambi mi indicarono la via ma sbagliarono a pronunciare il nome del musicista italiano cui era intitolata. Evidentemente, non avevano alcuna idea di chi fosse stato. Mi chiesi quanta gente abiti strade dedicate a personaggi della cultura, della storia, senza preoccuparsi di sapere qualcosa su nomi che magari per tutta la vita saranno scritti sui loro documenti, nei frontespizi della corrispondenza, sulle targhe delle proprie case. La risposta è piuttosto scontata. Mi sono allora chiesto quanti musicisti, jazzisti in particolare, frequentino composizioni, interpretandole, senza sapere da che cosa derivi il nome del brano su cui improvvisano e cui danno nuova vita, magari incidendolo su disco. Quanti ascoltatori amino tali brani, pronunciandone il titolo come fosse una sequenza di sillabe, senza chiedersi che cosa rappresenti, chi abbia ispirato il compositore. Questo libro intende approfondire la storia di un gruppo di composizioni, ma è stato anche ispirato dal fatto che numerose di esse, nel jazz, portano il nome o un riferimento a personaggi femminili sconosciuti ai più. Persone vissute, a volte viventi, la cui vicenda è correlata alla musica e si collega a episodi o alla parabola di un’esistenza spesso interessante, a volte inedita, quasi sempre poco nota. Emerge così una galleria di ritratti, da me scritti e illustrati da Marilena Pasini, di mogli e amanti, principesse e assassine, eroine e spettri, schiave e giornaliste, scrittrici e ballerine, musiciste e uomini che amavano vestirsi da donna. Un panorama di storie che ho voluto riassumere in veloci aneddoti, per richiamare grandi epopee o piccole vicende umane. Un omaggio al “femminile sconosciuto” nella musica jazz ma non solo, poiché parecchie di queste composizioni hanno travalicato i confini del genere per influenzare anche il rock e la musica popolare, da George Gershwin a Demetrio Stratos.

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A Drum is A Woman: si chiama così l’allegoria musicale composta da Duke Ellington nel 1956, in cui il compositore racconta la storia di Madam Zajj, che partendo dai ritmi della giungla viaggia nella storia e tra le culture musicali per giungere all’essenza del jazz. Anche questo libro vuole essere un piccolo viaggio, un percorso personale, per esempio nella scelta dei brani che ho elencato in coda a ogni ritratto. Incisioni spesso ristampate e di cui ho segnalato quelle a mia conoscenza o in mio possesso, senza vincoli di attualità, giusto per dare un’indicazione al lettore e ascoltatore. La proposta si completa con una playlist online disponibile tramite QR Code, posto nell’ultima pagina del libro. Il fine è quello di aggiungere un tassello alla comprensione di questo meraviglioso fenomeno che da oltre un secolo influenza la musica mondiale e ne è protagonista, il jazz. Parafrasando la poetessa americana Muriel Rukeyser, che disse: «L’universo è fatto di storie, non di atomi», potremmo dire che anche il jazz è fatto di storie umane, non solo di musica. Storie che qui portano il nome di una donna.

Infine, i ringraziamenti Il primo va alla straordinaria Ornella Vanoni, che io considero la migliore interprete italiana. Un grazie in particolare va poi a mio figlio Giulio, traduttore impeccabile. E ancora alla gentilissima Sonia Peana e alla preziosa Janna Carioli. Un grande ringraziamento è poi dovuto alle centinaia di persone che inconsapevolmente con articoli, filmati, studi, libri in ogni lingua e di ogni epoca hanno contribuito alle mie ricerche, spero sempre corrette: impossibile citarli tutti, ingiusto dimenticarne qualcuno.

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Vanni Masala


La composizione?

’ teatrale Per me e ’ come una piece

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rovo che sia giusto dare rilievo in questo lavoro a ispiratrici, autori, testi e musicisti che hanno lasciato un segno importante nella storia della composizione. Le interpreti femminili nel jazz hanno dato tanto. Penso a Billie Holiday, che tuttora ascolto, e alla sua vita difficile di musicista che riempiva i teatri di spettatori bianchi e poi doveva dormire sul pullman, perché a causa del colore della pelle le erano preclusi gli alberghi. E penso a grandi interpreti come Sarah Vaughan, Nina Simone e tante altre che oggi non sono giustamente valorizzate. Io sono un’interprete di canzoni e affronto ciascuna di esse come fosse una pièce, d’altra parte provengo dal teatro. E mi piace il confronto con i compositori, amo conoscere chi ha scritto quella determinata musica. In effetti, specie in confronto a songwriter come quelli di cui si tratta in questo libro, dai fratelli Gershwin a Richard Rodgers, nel panorama attuale è più raro sentire una canzone con una bella melodia e un valore musicale. Certo, è bene dare un volto alle donne che hanno ispirato grandi composizioni, ma una brava interprete fa sua la canzone, se le piace, altrimenti la rifiuta. E la rende universale. Per esempio la Garota de Ipanema, nata da Vinicius de Moraes e Tom Jobim, rappresenta la bellezza di tutte le ragazze. La Garota può essere una ragazza di Ipanema ma anche di Forte dei Marmi. Nel jazz c’è poi qualcosa di diverso, che mi attrae e mi fa sentire a mio agio. Lo amo molto, ho cantato con tanti jazzisti, ogni tanto lo frequento ma poi torno nel pop, anche se questo genere mi è sempre piaciuto. Infine, devo dire che nella musica, la mia vita, la donna non ha mai avuto problemi, contrariamente ad altri settori dell’espressione artistica. Per esempio, una pittrice donna fa più fatica a vendere i suoi quadri rispetto a un collega uomo. E non si capisce perché. Insomma, nella musica non c’è mai stata una supremazia maschile. E, forse, è l’unico campo dove possiamo affermarlo.

Ornella Vanoni

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Aisha, la donna che fu incisa due volte

Aisha (Olè Coltrane – 1961 Atlantic Records). John Coltrane (sax), Eric Dolphy (sax e flauto), Freddie Hubbard (tromba), McCoy Tyner (pianoforte), Reggie Workman (basso), Art Davis (basso), Elvin Jones (batteria). Ballad for Aisha (Together – 1979 Milestone). Freddie Hubbard (tromba), Hubert Laws (flauto), Bennie Maupin (ance), Bobby Hutcherson (vibrafono), Stanley Clarke (basso), Jack DeJohnette (batteria), Bill Summers (percussioni).

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McCoy, sfiduciato, voleva dire basta alla musica per lavorare come autista di taxi. Una scelta radicale condivisa con tanti altri jazzisti del periodo, che appendevano lo strumento al chiodo o lasciavano gli Usa per emigrare verso l’Europa, dove il pubblico riconosceva e apprezzava il loro talento. Aisha disse no. Con forza spinse McCoy a superare la crisi e fu allora che un sassofonista, di nome John Coltrane, propose al pianista di entrare nel suo gruppo. Nacque così un nucleo artistico destinato a scrivere una pagina fondamentale del jazz moderno. Coltrane aveva già suonato con Tyner, anni prima, poi era stato assorbito dal suo lavoro con Miles Davis: «Lo conosco da tanto» raccontò il sassofonista, «lo notai quando ero ancora a Philadelphia e mi ripromisi di chiamarlo se un giorno avessi formato un mio gruppo».

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hiladelphia, 1953. A casa del bassista Steve Davis e di sua moglie Rosemary, cantante rinominata Kahdijah dopo la conversione all’Islam, si tiene una jam session, come ogni fine settimana. Non è raro che si presentino musicisti del calibro di Sonny Rollins o Dizzy Gillespie. Ma stavolta è diverso, alla porta bussa un dio del jazz: Charlie Parker. Tiene sottobraccio il suo sax alto. Tra i pochi fortunati spettatori della performance c’è Carol, giovanissima sorella di Kahdijah, ormai per tutti Aisha. Il jazz è la sua grande passione, superata solo dall’amore per un pianista che frequenta la casa, il giovane McCoy Tyner. Non sapeva, Aisha, che avrebbe fatto qualcosa d’importante per questa forma d’arte. Fu lei, diventata nel 1959 la signora Tyner, a evitare che il mondo della musica perdesse le straordinarie capacità pianistiche di McCoy.

Nei primi anni Sessanta, il jazz era stato travolto dal successo mondiale del rock e molti artisti erano a corto di ingaggi. I giovani, che per decenni avevano trovato nelle formazioni jazzistiche la musica più attuale, affollando i locali dove si ascoltava e spesso si ballava sui ritmi afroamericani, negli Usa ora compravano i dischi di Elvis Presley e dei Beach Boys, mentre il mondo era terra di conquista per una invasione britannica targata Beatles, Animals e Rolling Stones. Si imponeva non solo una nuova musica, ma un inedito modo di vivere di una generazione di ragazzi che prima di allora non aveva mai avuto un nome: i teenager.

“Trane” frequentava la casa di McCoy e quando la sua nuova formazione esplose, con un successo che nel jazz aveva pochi precedenti incidendo il tuttora vendutissimo My Favorite Things, anche Aisha ebbe un ruolo nel gruppo. La donna spesso accompagnava e aiutava i musicisti nelle tournée. In auto, guidavano a turno e a turno dormivano: «E quando John era sveglio» ricordò Aisha «gli piaceva molto cantare O Sole Mio…». Era il 1962, e in febbraio il gruppo di Coltrane incise il disco Olè, che si apre con un lungo, ipnotico brano dal sapore di flamenco, ispirato a una canzone tradizionale spagnola. Come ultima traccia del disco originale era presente una ballad, uno dei soli due pezzi a firma McCoy Tyner mai incisi da Coltrane nel loro lungo sodalizio. Si intitola Aisha. Una bellissima composizione ammantata di dolcezza, un lavoro aperto in cui il soffice tappeto sonoro creato dalla sezione ritmica sosteneva i meravigliosi solisti: prima Freddie Hubbard, poi Eric Dolphy, quindi McCoy e infine Coltrane a suggellare brevemente il tutto. Ancora più seducente e cantabile la dolcissima Ballad for Aisha, che McCoy compose e poi incise nel 1979, in seguito interpretata da tanti jazzisti. McCoy Tyner ebbe una lunga, eccezionale carriera solistica, iniziata nel 1962 col suo Inception. E in questo disco d’esordio figura un’altra bellissima ballad, intitolata Sunset (“tramonto”). Un titolo che fu suggerito a McCoy proprio da Aisha, alla quale il pezzo faceva venire in mente la natura e il suo quotidiano acquietarsi serale: «Mi sembrava il titolo più logico», lei raccontò. Aisha e McCoy hanno avuto tre figli e sono rimasti uniti fino alla scomparsa del pianista, il 6 marzo 2020.

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L’ultimo volo di Ana Maria 8

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na Maria e Dalila sono felici, mentre allacciano le cinture a bordo dell’aereo. Il volo è diretto in Italia, con scalo a Parigi. A Roma le attende Wayne Shorter. La moglie e la nipote del sassofonista, uno dei più grandi jazzisti e compositori moderni, si uniranno a lui per una vacanza ricavata all’interno del suo tour mondiale. È il regalo per il conseguimento del diploma di scuola superiore che Ana Maria ha voluto fare a Dalila, diciottenne figlia di sua sorella e del jazzista Jon Lucien. La ragazza sognava di andare in Italia, di conoscere i coetanei italiani. All’ultimo momento il volo TWA su cui devono imbarcarsi viene annullato e i loro posti riassegnati sul Volo 800, medesima destinazione. Altri trovano posto su altri aerei. Poco male, l’importante è partire. Ma non possono immaginare di aver partecipato a una roulette fatale. Il Jumbo decolla da New York in orario: è atteso al “Leonardo da Vinci” alle 11.35 del 17 luglio 1996. Dopo 13 minuti di volo esplode sull’Oceano Atlantico. Alcuni testimoni dicono di aver visto «una stella cadente», altri parlano di «una palla di fuoco». L’esito è terrificante, muoiono tutte le 230 persone a bordo. Tra esse un’intera classe di studenti in gita verso Parigi, numerosi americani e poi italiani, inglesi, francesi… Oltre Ana Maria Shorter e la giovane Dalila Lucien. Le indagini puntarono subito sull’ipotesi terroristica, ma non approdarono a nulla di concreto. Dopo quattro anni, l’episodio venne archiviato come incidente dovuto all’esplosione dei vapori di carburante in un serbatoio, probabilmente a causa di un corto circuito. I parenti delle vittime non si rassegnarono mai a questa ipotesi. La giovane Ana Maria Patricio aveva conosciuto Wayne Shorter nel 1966, lui suonava nel grande quintetto di Miles Davis. Ma per lei non fu un primo incontro con questa musica.

Un matrimonio durato 26 anni, anche con momenti drammatici: nel 1985 la loro figlia Iska, a soli 14 anni, morì a causa di una crisi epilettica. Alla sua nascita, nel 1971, papà Wayne le aveva dedicato un bellissimo disco, Odyssey of Iska.

«Ana Maria ascoltava il jazz praticamente dalla nascita», raccontò l’amico e pianista Herbie Hancock, «e quando incontrò Wayne era già interessata alla sua musica. Era innamorata della sua musica più di chiunque altro, la conosceva letteralmente da cima a fondo e adorava l’uomo da cui proveniva, perché rifletteva perfettamente Shorter».

Wayne reagì con un approccio razionale e allo stesso tempo spirituale al difficile momento. «Le persone hanno reazioni differenti quando capita loro una tragedia. Io sento Ana Maria intorno a me, tutto il tempo», raccontò in un’intervista. «L’ultima cosa che mia moglie avrebbe voluto era che io rimanessi seduto a compiangermi. Lei non era così. Posso sentirla che dice: “Mettiti al lavoro, coraggio”. Questo è il modo migliore per continuare a vedermi».

Quattro anni dopo, Ana Maria e Wayne si sposarono. Lei era una persona forte e gentile, chi l’ha conosciuta la definisce «una leonessa». Una donna che si prese cura di Wayne e gestì la difficile vita in comune con un grande artista quasi sempre in tournée.

Un amore che rivive ogni volta che Shorter suona una delle sue più dolci composizioni, Ana Maria, composta all’inizio degli anni ’70 e inserita per la prima volta nell’album con Milton Nascimento intitolato Native Dancer.

Ana Maria (Native Dancer – 1975 Columbia Records). Wayne Shorter (sax), Herbie Hancock (piano), David Amaro (chitarra), Dave McDaniel (basso), Roberto Silva (batteria), Airto Moreira (percussioni). © 2021 by Edizioni Curci S.r.l. - Milano. Tutti i diritti sono riservati.

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l sassofonista guarda nervosamente l’orologio, mentre intorno a lui si diffonde la musica del quartetto. Il pianista capisce che è il momento di fare una pausa, come ogni giorno, sempre alla stessa ora da quando il gruppo si esibisce al Basin Street, rinomato jazz club nell’East Side di New York.

Poggiato lo strumento, il sassofonista esce dal club e si dirige a passo veloce verso il 46th Street Theatre, distante poche centinaia di metri. Giunto lì davanti si appoggia a una colonna, nell’ombra, e fissa l’automobile con autista ferma davanti all’uscita degli artisti. Pochi minuti e, come ogni sera, esce l’attrice Audrey Hepburn. Il tempo di ammirarla mentre sale in auto e l’uomo torna di corsa al club, dove il gruppo lo aspetta per la seconda parte dello spettacolo. Lui era Paul Desmond, sax contralto nella formazione del pianista Dave Brubeck. Mister “Take Five”, come lo chiamavano in molti riferendosi alla sua più nota composizione, brano dallo straordinario successo, primo nel jazz a superare il milione di copie vendute. E come il titolo Take Five giocava sull’equivoco tra il tempo del brano in 5/4 e fare un break durante il lavoro (“take five minutes”), ogni giorno Desmond si prendeva una pausa per andare ad ammirare, non visto, l’attrice per cui si era preso una cotta. Audrey Hepburn, fresca di Vacanze romane con Gregory Peck e di Sabrina con Humphrey Bogart, in quel 1954 interpretava il dramma Ondine nel teatro newyorchese insieme a Mel Ferrer, che sposò in quel periodo.

Gli occhioni da cerbiatta di Audrey non videro mai di persona lo sguardo timido dietro gli occhiali di Paul, che non ebbe il coraggio di avvicinarla. «Quando tornò al club chiesi a Paul: “Cosa le hai detto?”. E lui: “Niente, stai scherzando?”», ricordò Brubeck. Ma per lei Desmond compose una bellissima dichiarazione d’amore, intitolata Audrey, che interpretò sempre e che è rimasta una delle più malinconiche e dolci ballad del jazz moderno, un blues che si risolve con un melodico e inaspettato finale. Mai rivelò pubblicamente quale fosse il sentimento che lo aveva ispirato. Il suono flautato e inconfondibile di Paul Desmond si spense a soli 52 anni, nel 1977, per un tumore ai polmoni. Un eccezionale artista, un uomo altrettanto straordinario, coltissimo, ricco di talento quanto di humor. Quando gli diagnosticarono la neoplasia disse solo: «Beh, però ho il fegato come nuovo, nonostante lo abbia sempre tenuto a bagno nel whisky». Se ne andò conservando per sempre il suo amore segreto per l’attrice britannica. Ma le strade del sentimento sono impensabili. Audrey morì nel 1993 dopo essere diventata un’icona del cinema mondiale, anche lei a causa di un cancro. Essendosi impegnata nell’ultima parte della sua vita in attività benefiche per i bambini delle aree più povere del mondo con l’Unicef, di cui era Ambasciatrice speciale, le Nazioni unite le tributarono una cerimonia funebre nella sede di New York. In quell’occasione il suo ex marito, lo psichiatra italiano Andrea Dotti, chiamò il pianista Dave Brubeck e gli chiese il permesso di poter far interpretare durante la cerimonia il brano Audrey, rivelando che era dagli anni Cinquanta uno dei preferiti dell’attrice. Brubeck restò senza parole: «Non credevo che lo conoscesse…». «Altroché, lo ascoltava tutti i giorni» disse Dotti, «prima di andare a dormire e con le cuffie quando passeggiava nel suo giardino in Svizzera». «Avrei voluto che Paul fosse vivo», commentò commosso Brubeck. Quanto Audrey tenesse a quel pezzo è testimoniato anche dal fatto che un anno prima di morire un amico le inviò una copia del disco, ristampato per la prima volta in cd. E lei rispose con una lettera: «Grazie per un regalo così adorabile, sono entusiasta di avere il cd con la mia canzone». Il messaggio d’amore di Paul Desmond era quindi giunto a destinazione. Audrey e Paul saranno per sempre uniti da quella composizione.

Audrey (Brubeck Time – 1954 Columbia Records). Dave Brubeck (piano), Paul Desmond (sax alto), Bob Bates (basso), Joe Dodge (batteria).

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Audrey, un amore segreto

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Aurora, che fece innamorare un papero

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uante donne possono vantare di aver ballato con Paperino e di aver fatto fare bo−bom bo−bom al suo cuore? Non parliamo di cartoni animati ma di una ballerina e cantante in carne e ossa, anzi in gambe, sorriso e ritmo: Aurora Miranda.

Una regina del carnaval di Rio de Janeiro, scelta nel 1942 da Walt Disney per essere in The Three Caballeros, il primo essere umano a interfacciarsi sugli schermi con un personaggio di fantasia. Una scena indimenticabile in cui Paperino si strugge per Aurora a ritmo di samba, col sostegno del pappagallo José Carioca e lo sfondo del carnevale a Salvador de Bahia. Un’innovazione nella storia dei cartoon, una tecnica tra live action e animazione poi divenuta consueta.

L’irresistibile papero disneyano non fu l’unico a essere conquistato dal fascino di Aurora, a quei tempi celebrata in Brasile e Argentina ma non ancora nota negli Usa, dove invece spopolava sua sorella Carmen, a metà degli anni Quaranta la diva più pagata d’America. Fu proprio Carmen Miranda, la Brazilian bombshell di Hollywood, simbolo di vitalità sexy nel mondo, a chiamare la più giovane sorella Aurora a Los Angeles. Nate nel 1909 e 1915, le sorelle Miranda da Cunha, cui si aggiungeva Cecilia anch’essa cantante, avevano mosso insieme i primi passi nel mondo dello spettacolo. Più che un sodalizio artistico un legame profondo, che le rese inseparabili per tutta la vita. Fu Carmen a prestare ad Aurora la gonna che indossò per il provino con la Disney, la stessa utilizzata per il film Weekend in Havana. E fu ancora Carmen a fornire alla produzione la propria band per la registrazione del brano Os Quindins de Yayà, cantato da Aurora nel travolgente siparietto con Paperino, quando dà magicamente vita a una Bahia addormentata. Aurora era così popolare in Brasile che nel mercoledì delle Ceneri del 1940 Màrio Lago compose una canzone a lei ispirata, quantomeno nel titolo. Si trattava di una marchinha de carnaval, marcetta destinata ad accompagnare i blocos carnavalescos nella sfilata di strada a Rio de Janeiro. Un grande successo: Aurora, a 80 anni di distanza, è ancora uno dei brani immancabili durante la marcia di festa carioca.

Le Andrews raggiunsero il massimo successo durante la seconda guerra mondiale, con tour che le portarono anche in Italia a cantare per i soldati alleati impegnati nel conflitto. Si esibirono con le principali big band dell’epoca dello Swing, da Glenn Miller a Benny Goodman, da Buddy Rich ai fratelli Dorsey, fino a Gene Krupa. Il loro stile, canzonettistico ma di qualità, ha influenzato nei decenni successivi una miriade di gruppi vocali, dai Beach Boys ai Manhattan Transfer. Uno dei brani preferiti dalle Andrews fu Aurora, di Lago e Roberto Roberti, il cui testo era stato già nel 1941 riscritto in inglese dall’americano Harold Adamson. Le liriche conservarono il tono scanzonato: “Aurora comes from Rio de Janeiro, she dances in a little street cafe. Oh Aurora, with your manner so brazilian, when you smile and call me honey, is it me or just my money? Oh Aurora, I’ll buy you this and buy you that if you’ll be true to me” (“Aurora viene da Rio de Janeiro, balla in un piccolo caffè di strada. Oh Aurora, con i tuoi modi così brasiliani, quando sorridi e mi chiami dolcezza lo fai per me o solo per i miei soldi? Oh Aurora, ti comprerò questo e quello, se mi sarai fedele”). L’esecuzione delle Andrews Sisters ebbe un grande riscontro negli Stati Uniti e in Inghilterra, fino a essere rappresentata nel film comico-horror del 1941 di Abbott e Costello, i nostri Gianni e Pinotto, Hold That Ghost (L’inafferrabile spettro). Aurora Miranda, abbandonate le scene nei primi anni Cinquanta, ha avuto una vita lunga e ricca di soddisfazioni prima di andarsene nel 2005, a 90 anni, circondata dalla famiglia nella sua amata Rio de Janeiro.

Aurora (Their All−Time Greatest Hits – 1994 Mca Records) The Andrews Sisters (LaVerne Sophie, Maxene Anglyn e Patricia "Patty” Marie).

“Se você fosse sincera, oh, oh, oh, Aurora, veja só que bom que era, um lindo apartamento com porteiro, elevador, um ar refrigerado para os dias de calor” (“Se tu fossi stata sincera, oh, oh, oh, Aurora, guarda come sarebbe stato bello, ti avrei dato un magnifico appartamento con portiere, ascensore, aria condizionata per le giornate calde”). Testo spensierato e allegro, ritmo serrato: una perfetta marchinha. La canzone, adottata in repertorio da Carmen Miranda, approdò alla notorietà internazionale grazie a un altro gruppo di sorelle, le Andrews Sisters. Americane di origine greco−norvegese, le sorelle Andrews erano nate sull’onda delle Boswell Sisters, ulteriore trio vocale “di famiglia” popolarissimo negli anni Trenta. © 2021 by Edizioni Curci S.r.l. - Milano. Tutti i diritti sono riservati.

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omincia la primavera, in Scozia. Barbara Allen cammina sull’erba verso la casa in cui Jimmy Grove giace in punto di morte. Le gemme stanno sbocciando, ma nel suo cuore è pieno inverno. Jimmy, che con le sue ultima forze l’ha mandata a chiamare, implora il suo amore. Lei non vuole andare da Jimmy ma sua madre la obbliga: «Alzati! Vai a trovarlo!». Barbara è riluttante: «Proprio tu ora mi parli così, mamma? Tu che mi consigliavi di rifiutarlo?». La ragazza giunge a casa di Jimmy, che dal letto di morte supplica ancora una volta la sua amata. Ma Barbara è colma di rancore: «Ti ricordi come te la spassavi in città, sempre pronto a far girare i boccali e versare il vino alle belle donne, mentre mi ignoravi?».

Barbara Allen (Be Still – 2012 Greenleaf Music). Dave Douglas (tromba), Jon Irabagon (sax), Matt Mitchell (piano), Linda Oh (basso), Rudy Royston (batteria), Aoife O’Donovan (voce, chitarra).

«È vero, davo il mio vino a qualcuna, ma il mio amore era per te, Barbara Allen!», risponde lui, allo stremo delle forze. Barbara, irremovibile, va via. Mentre la ragazza torna a casa per i campi, sente le campane che suonano a morto. Le pare allora che gli uccelli cantino: «Hai un cuore di pietra, Barbara Allen». Allora piange, piange e ogni lacrima pare sussurri “indegna Barbara Allen”. Il rimorso si fa strada dentro di lei. Tornata a casa si dispera: «Madre, oh madre, non mi hai permesso di sposarlo! Jimmy è morto a causa di un vero amore… e io ora morirò per lui dal dolore». Jimmy fu seppellito in una tomba, Barbara in un’altra. Dalla terra di lei spuntò un rovo, da quella di lui una rosa. Crebbero e si svilupparono fin sulla cima della chiesa, sino a unirsi stringendosi in un nodo, la rosa rossa e il verde rovo. Si conclude così la straziante, romantica ballata di Barbara Allen, una delle canzoni popolari in lingua inglese più note al mondo. Un classico finale rose-briar (rosa-rovo), tipico dei temi tradizionali, dove due amanti, separati nella morte dalla crudeltà di uno di essi, vengono sepolti accanto e si uniscono, intrecciando finalmente le piante che nascono dal loro destino e formano un true-lovers’ knot, un nodo d’amore. Perché l’amore deve prevalere, anche sulla morte. Era una hit a metà del 1600, Barbara Allen. Tornò a esserlo negli Stati Uniti dell’800. Testimonianze raccontano che questa ballata fosse una delle canzoni preferite dai cowboy del Texas quando la struggente storia, accompagnata da un’accattivante melodia, era ormai divenuta un pezzo forte del repertorio popolare americano. Fu la cantautrice Joan Baez, nel 1961, a ridarle smalto e tensione emotiva proponendola al grande pubblico. Ma sono centinaia le incisioni, in tutto il mondo, che ripercorrono la vicenda. La storia di Barbara e Jimmy ha commosso milioni di ascoltatori rivivendo attraverso la voce di tanti artisti, da Simon e Garfunkel all’italiano Angelo Branduardi (Il rovo e la rosa). Bob Dylan ha affermato di esserne stato influenzato per sue composizioni. Nel jazz, specie anglosassone, il tema è stato affrontato più volte. In particolare, una bellissima versione è quella incisa nel 2012 dal quintetto del trombettista Dave Douglas, con ospite Aoife O’Donovan, nel disco Be Still. Un lavoro costruito in memoria della madre di Dave, Emily, scomparsa per una grave malattia poco tempo prima: «Un album nato per contenere inni e canzoni che mia mamma mi consigliava di suonare».

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Aisha, la donna che fu incisa due volte L’ultimo volo di Ana Maria Audrey, un amore segreto Aurora, che fece innamorare un papero La crudeltà di Barbara Bess, la bella di Catfish Row Chi ha visto Corrina? Mary, la cugina del jazz Nellie, la forza e l’anima Dinah, che diede il nome a Dinah I tanti volti di Donna Lee È tempo d’amore per Emily Il tormento di Florence Le quattro anime di Nina Helô, la ragazza di Ipanema Il passo di Gloria Miss Jones riuscirà a sposarsi? Helen, che uccise Lee Ciao Dolly, bentornata! Violette, l’assassina che divise la Francia Ida Lupino, madre di tutti noi Juana, fiore dell’Alto Perù Julie, il talento e la bellezza

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Indice

I fantasmi di Giulietta Katia, artista senza confini Laura, mistero e desiderio Biografia di un amore Piccola ragazza triste e infelice Liza, che rotola sulle nuvole Il blues africano di Liza Jane Una solitudine senza nome Mai fidarsi di Lorelei Lorraine, una scia di luce Lucille, che salvò il Blues Boy Mahakali, la morte e la vita Oh Margie, per te rinuncio a bere Margot, una questione di timbri Maria, il nome dell’amore Minnie la scroccona Emily Brown, più Lady che Miss Le cento vite di Laurie e Art La donna mammificata Maybelle, malinconico tesoro Naima, spiritualità e incanto Potere e bellezza, Nefertiti è arrivata Lulù, 100 anni e non li dimostra

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Oh Susie, sii buona con me Nica, la farfalla del jazz La vita colorata di Sally Rosalie nel regno del tip tap Rose Sélavy, idea di donna Rubie, primo infelice amore Sacajawea, la Donna Uccello Bambola, sei una gatta morta Valerie, che sparò a Andy Warhol Non chiamatemi Sister Sadie Adriana e i sette nani Una sofisticata maestra elementare Uno spettro alla luce delle stelle Sue e la reincarnazione di Charles Sweet Lorraine, che incoronò il Re Gli occhioni della dolce Sue Quella ragazza è una vagabonda Le donne che amarono Michel L’ascesi mistica di Alice Il mondo incantato di Debby Lola ottiene sempre ciò che vuole Una donna selvaggia non è mai triste

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Fonti

libri e articoli

AA.VV., Antologia del Blues, Parma, Guanda, 1969 • Adriana Caselotti, 80, Voice of Snow White, articolo del “New York Times” (21 gennaio 1997) • Luca Billi, West Side Story: la forza di Maria, articolo online su ancorafischiailvento.org – “AFV Cultura e società” (23 aprile 2019) • André Breton, Violette Nozières, Bruxelles, Nicolas Flamel, 1933 • Natalie Curtis Burlin, Negro Folk-Songs, New York, Dover, 2001 • Ian Carr, Keith Jarrett. The Man and His Music, New York, Da Capo Press, 1992 • Julie Coryell, “Interview with Julie Coryell”, in Jazz-Rock Fusion: The People-The Music, New York, Dell Publishing, 1978 • Miles Davis con Quincy Troupe, Miles, l’autobiografia, Roma, Minimum Fax, 2019 • Jacques Derrida intervista Ornette Coleman, The Other’s Language, (originariamente apparso in francese nella rivista “Les Inrockuptibles”, n. 115, 1997) • Geoff Dyer, Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz, Torino, Instar Libri, 1993 (ed. orig. But Beautiful: A Book About Jazz, London, Jonathan Cape, 1991) • Pat Evans, The Two Brothers, As I Knew Them Harry and Bill Evans, Matt H. Evans, 2011 • Ted Gioia, The Jazz Standards. A Guide to the Repertoire, New York, Oxford University Press, 2012 • Sue Graham Mingus, Tonight At Noon. Un’indimenticabile storia d’amore e di jazz, Milano, Baldini e Castoldi Dalai, 2004 (ed. orig. Tonight At Noon. A Love Story, New York, Da Capo Press, 2003) • Benjamin Halay, Michel Petrucciani, Parigi, Editions Carpentier, 2011 • Peter Hay, MGM: When the Lion Roars, Atlanta, Turner Publishing, 1991 • Edward M. Komara, Encyclopedia of the Blues, Londra, Routledge, 2005 • Adriana Langtry, Juana Azurduy de Padilla, articolo online su enciclopediadelledonne.it – “Enciclopedia delle donne” • Libretti d’Opera del Teatro alla Scala • Charles Mingus, Peggio di un bastardo, Foligno, Il Formichiere, 1979 (ed. orig. Beneath the Underdog. His World as Composed by Mingus, Charles Mingus and Nel King, 1971) • Laurie Pepper, ART. Why I Stuck with a Junkie Jazzman, CreateSpace, 2014 • Lewis Porter, Blue Train. His Life and Music, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2000 • Nancy Rawles, My Jim. A Novel, New York, Crown, 2006 • Barry Singer, The Baroness of Jazz, articolo del “New York Times”, 17 ottobre 2008 • Ben Sisario, Julie Coryell, Jazz-Rock Historian, Dies at 61, articolo del “New York Times” (28 maggio 2009) • Valerie Solanas, SCUM Manifesto, 1967 • Mark Twain, The Adventures of Huckleberry Finn, 1885 • Laurie Verchomin, The Big Love. Life & Death with Bill Evans, CreateSpace, 2011 • Stefano Zenni, Che razza di musica: jazz, blues, soul e le trappole del colore, Torino, EDT, 2016

documentari e film

Kasper Collin, I Called Him Morgan, documentario, 2016 • Otto Preminger, Laura, film, 1944

siti web

allmusic.com • archive.org – Internet Archive • chicagotribune.com • classicjazzstandards.com • greatamericansongbook.net • IMDb.com – Internet Movie Database • jazzbiographies.com • jazzprofiles.blogspot.com • Wikipedia.org Illustrazioni: Marilena Pasini Progetto grafico e impaginazione: Anna Cristofaro Artwork di copertina e redazione: Samuele Pellizzari Curatore editoriale: Pino Pignatta L’editore, esperite le pratiche per acquisire i diritti relativi alle immagini cui sono ispirate alcune illustrazioni presenti nel libro, è a disposizione degli aventi diritto per eventuali lacune od omissioni. Proprietà per tutti i Paesi: Edizioni Curci S.r.l. – Galleria del Corso, 4 – 20122 Milano © 2021 by Edizioni Curci S.r.l. – Milano Tutti i diritti sono riservati EC12280 / ISBN: 9788863953787​ www.edizionicurci.it Prima stampa in Italia nel 2021, da Ciscra S.p.A., via S. Michele, 36 – 45020 Villanova del Ghebbo (RO)

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