Canti popolari d'Europa (anteprima)

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Grafica musicale e impaginazione: Cristiano Perazzolo

Revisione dei testi letterari: Benedetta Belloni (spagnolo), Francesca Caraceni (inglese), Tzortzis Ikonomou (svedese), Matteo Rei (portoghese), Anna Rinaldin (veneziano), Lucia Salvato (tedesco), Agnieszka Tomczak (polacco)

Artwork di copertina: Enrica Cavaletti

Si ringrazia per la collaborazione il Centro Nazionale Coralità

Proprietà per tutti i Paesi: Edizioni Curci S.r.l. – Galleria del Corso, 4 – 20122 Milano

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Tutti i diritti sono riservati

EC12404 / ISMN: 9790215921351 www.edizionicurci.it

Prima stampa in Italia nel 2023 da INGRAF Industria Grafica S.r.l., Via Monte San Genesio, 7 – Milano. Inquadra il QR Code per ascoltare la playlist dei brani contenuti in questo volume.

PRESENTAZIONE

Questo volume ha l’ambizioso obiettivo di far incontrare, sul terreno della canzone tradizionale, la coralità di ispirazione popolare e la musica di Ludwig van Beethoven. Quest’ultimo si dedicò con assiduità all’elaborazione di Volkslieder, armonizzando per voce con accompagnamento di pianoforte, violino e violoncello oltre 150 canzoni provenienti da tutta Europa, dalle Isole britanniche agli Urali passando per la penisola iberica, la Scandinavia, l’Italia. L’importanza di questa produzione “minore” del genio di Bonn non era sfuggita a Luigi Pigarelli (1875-1964), magistrato e musicista trentino, che più di settant’anni fa consegnò al coro della SAT di Trento la partitura di Crudele fu mio padre, “elaborazione corale e traduzione italiana” della canzone O Cruel Was My Father, uno dei 25 brani scozzesi che costituiscono l’op. 108 di Beethoven. Sebbene fra le carte autografe di Pigarelli confluite nell’archivio di Silvio Pedrotti e ora depositate presso l’Università di Trento si ritrovino gli abbozzi delle traduzioni ritmiche in italiano dei testi di altre cinque canzoni scelte tra quelle armonizzate da Beethoven, Crudele fu mio padre rimase alla fine un unicum. Ed ecco che, con un’operazione allo stesso tempo retrospettiva e però ben centrata nella contemporaneità, il coro CeT, ideatore e curatore di questo progetto, ha reso nuovamente vitale quel filone, innestando la sperimentazione su un atto di fiducia nel valore di quanto ci è stato consegnato dalla storia; lo stesso atto di fiducia che sta alla base della scelta di chi decide di praticare il repertorio “tradizionale”. In questo senso si comprende anche il mandato consegnato dal Coro CeT ai compositori che hanno realizzato le versioni corali dei 16 brani contenuti in questo volume, ovvero quello di rispettare non solo il testo e le melodie delle canzoni, ma di tenersi vicini al tracciato beethoveniano, creando così delle nuove partiture che rendono accessibili, nel contesto di un arrangiamento per coro maschile, le idee musicali pensate per questi brani dal grande compositore tedesco. Questo lavoro, strutturatosi in gran parte nei difficili mesi della pandemia, e condotto di pari passo con l’incisione dei brani da parte dello stesso coro CeT, vede così ora finalmente la luce, offrendo ai cori una nuova proposta di qualità per ampliare il loro repertorio. Il Centro Nazionale Coralità del Club Alpino Italiano, che con i suoi 80 cori su tutto il territorio nazionale ha la missione di conservare, trasmettere, valorizzare il grande patrimonio del canto popolare, è orgoglioso di aver collaborato con il coro CeT alla realizzazione di questa iniziativa di alto valore culturale.

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Gianluigi Montresor Presidente del Centro Nazionale Coralità del CAI

INTRODUZIONE di Giovanni Cestino

Non c’è epoca, in quella che con troppa semplificazione chiamiamo “storia della musica” (che è storia, perlomeno, di una “nostra” musica), in cui non si sia verificata una relazione, uno scambio, tra musica colta e musica popolare. Queste due pericolose etichette, più che definire insiemi di fenomeni distinti e separati, stabiliscono piuttosto gli estremi di un continuum di pratiche e di dinamiche creative: da un lato una (solo una?) cultura ufficiale, professionale, accademica, che si realizza – oltre che nel suono – attraverso la scrittura e la lettura musicale; dall’altro molte culture, più o meno legate a luoghi e comunità specifiche, i cui attori appartengono a gruppi sociali subalterni, che si esprimono perlopiù attraverso forme non scritte di creazione e trasmissione. Com’è noto, l’interesse da parte della cultura “alta” per questa dimensione del far musica si è tradotto, a seconda delle epoche, in vari modi: tra l’imprestito di una melodia popolare nelle Variazioni Goldberg, l’attività di ricerca sul campo di Béla Bartók e i Folk Songs di Luciano Berio vi sono ovvie ed enormi differenze. Ma tale relazione – di essa ci importa in questa sede – le accomuna e le pone, se non sullo stesso piano, su un livello in cui è possibile operare un confronto proficuo. Questo si muove all’interno di un triangolo ai cui vertici stanno tre aspetti: il rapporto con il materiale popolare (ma lo stesso può valere, a parti invertite, per il materiale colto), l’operazione creativa a cui lo si sottopone e la destinazione della nuova musica che ne scaturisce. Tra i molti compositori che hanno prestato attenzione a tali materiali, il caso del compositore par excellence, Ludwig van Beethoven, possiede diversi aspetti di particolare interesse. Per cominciare, il rapporto con il canto popolare, nel suo caso, ebbe per intermediario un solo personaggio: lo scozzese George Thomson, musicista dilettante che consacrò la propria vita alla valorizzazione del canto popolare del Regno Unito, nelle sue varie tradizioni nazionali, commissionando arrangiamenti e pubblicandoli in proprio. Il suo intento era semplice: dare dignità internazionale a un patrimonio musicale altrimenti negletto, attraverso una specifica operazione creativa, ovvero l’arrangiamento. Benché Thomson non si rivolgesse solo a Beethoven, ma a molti altri maestri come Haydn, Hummel o Weber, gli esiti a cui giunse il genio di Bonn furono per lui insuperabili. Nel presentare al pubblico il primo frutto di questa collaborazione, i 26 irische Lieder WoO 152 editi nel 1814, scrisse infatti che

[s]e Carolan, il bardo irlandese, potesse alzare la testa e sentire le proprie melodie cantate con gli accompagnamenti di Beethoven, farebbe dell’artista il proprio idolo, poiché dai suoi disegni egli è riuscito a produrre immagini così squisitamente colorate e altamente rifinite.1

Nella proporzione “melodia popolare sta a disegno come arrangiamento sta a colore” Thomson faceva diretto riferimento al Dictionnaire de musique di Jean-Jacques Rousseau (1768), portando però tale idea all’estremo: se la melodia popolare possiede l’immediatezza del disegno in bianco e nero, la sua piena e più vera realizzazione può compiersi solo grazie al colore, elemento che è appannaggio esclusivo di chi ha pieno controllo di ogni sfumatura della propria arte – nel caso della musica, il compositore.

Considerando il caso dalla prospettiva opposta, ovvero quella di Beethoven, l’armonizzazione per voce e pianoforte (con violino e violoncello ad libitum) rappresentò per il maestro un’occasione per esplorare, più che il canto popolare come forma espressiva, le possibilità dell’arrangiamento come strumento per conferire coerenza formale a materiali che in origine ne erano sprovvisti – o, per meglio dire, le cui originali logiche strutturali non seguivano quelle della musica d’arte. Va precisato che Beethoven lavorò in condizioni piuttosto particolari: nonostante le sue numerose richieste, non ottenne da Thomson i testi poetici completi, e dovette peraltro sottostare a precise richieste musicali nell’affrontare il lavoro di arrangiamento. Al netto di queste condizioni piuttosto particolari, il compositore

1 «If Carolan, the Irish Bard, could raise his head, and hear his own Melodies sung with Beethoven’s Accompaniments, he would idolize the Artist, that, from his designs, could produce such exquisitely coloured and highly finished pictures»: George Thomson, “Preface,” in A Select Collection of Original Irish Airs ... Composed by Beethoven, vol. 1 (Edinburgh: Preston, 1814), 1–2: 2.

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rinsaldò un interesse per l’esplorazione di zone di confine tra generi che si legava senza difficoltà a molta parte della sua produzione tarda.2

Ed è proprio su questa stessa premessa che si impernia l’operazione messa in atto in questa raccolta: una sorta di “reindirizzamento al quadrato” di un materiale popolare – già non più tale per via della sua fissazione da parte di Thomson prima (o di altri ignoti, ancor più a monte del processo) e di Beethoven poi – da esporre poi a una seconda operazione di arrangiamento, questa volta per un organico (il coro maschile a voci pari) la cui collocazione all’intersezione di generi diversi è ormai tradizione, e cifra di una peculiare identità. Questo volume presenta sedici brani tratti da diverse raccolte beethoveniane,3 a loro volta derivanti da tradizioni diverse e in varie lingue: delle sedici melodie, otto sono in inglese, benché provenienti da ambiti diversi (irlandese, gallese, scozzese e inglese); due sono in italiano, o per meglio dire in dialetto veneziano; mentre una sola è in svedese, in polacco, spagnolo, portoghese e tedesco (benché si tratti, in questo caso, di un canto cosacco).

I brani sono arrangiati da cinque compositori italiani, tutti particolarmente attivi nell’ambito della musica corale: Sandro Filippi, Armando Franceschini, Mario Lanaro, Bruno Zanolini e Mauro Zuccante. Non stupisce che nessuno di loro, per definire la propria operazione creativa, impieghi in realtà la parola arrangiamento. Piuttosto, ritroviamo i termini elaborazione o adattamento, a sottolineare il lavoro compositivo “a partire da”, nel primo caso, e il processo di adeguamento del materiale a un diverso mezzo espressivo, e talvolta a diverse intenzioni autoriali, nel secondo. Ciò che stupisce comparando gli “originali” beethoveniani con queste nuove composizioni sono in particolare due fenomeni. Il primo pertiene al rapporto con il modello: da questo punto di vista, se l’indirizzo generale della raccolta pare essere quello di una “trascrizione” che evidenzi quanto gli accompagnamenti beethoveniani possano essere traslati efficacemente nella scrittura corale, non mancano casi in cui i compositori hanno scelto di muoversi con maggiore libertà rispetto all’ipotesto. Il secondo fenomeno, forse ancor più interessante, risiede nell’emergere di una sorta di “dialetto di scrittura” che accomuna tutti gli arrangiamenti: la presenza cioè di una serie di stilemi ricorrenti, tra i vari autori, che si ascrivono più genericamente a uno stile corale che caratterizza e definisce il repertorio italiano – il corsivo è dirimente – per cori a voci pari maschili.

Sotto questa etichetta, in verità piuttosto tecnica, se ne celano altre ben più caratterizzate: “cori popolari”, “cori di montagna”, e così via. Esse fotografano non soltanto un tipo di formazione vocale, ma anche un repertorio, un’identità sonora e performativa, oltre che una storia esecutiva e mediale. Al netto dei tratti caratteristici della scrittura di ciascun compositore, il repertorio che queste formazioni praticano – e soprattutto producono, ideando e catalizzando progetti come questo – è caratterizzato da una cifra ricorrente: esso incarna e trasmette l’idea schilleriana dell’artista naïve nella sua accezione più alta e positiva, ovvero di colui che tramite il mezzo della canzone popolare riesce a esprimere il sublime quotidiano, negli aspetti più comuni dell’esistenza.4

In questo contesto, il concetto di canzone popolare assume ovviamente connotazioni specifiche: popolare connota la sua provenienza da una regione o da una comunità piuttosto che le sue modalità performative originali, dal momento che ogni brano, nel contesto di questo genere musicale, non può esistere senza un’operazione creativa di mediazione e assimilazione, demandata a un compositore la cui attività può concentrarsi su tale repertorio (come avviene nel caso di Bepi De Marzi) oppure no (un nome tra tutti: Bruno Bettinelli). Non bisogna fraintendere questo passaggio, bollandolo come causa di una involontaria banalizzazione dell’aggettivo popolare. Alla facile accusa di fare “finto” repertorio popolare, la replica è che questa semplificazione confonde la causa con l’effetto: popolare è il materiale e non la sua presentazione, che al contrario, per mezzo di questo scarto tra fonte ed elaborazione, si salva da ogni pericoloso rischio di scadere nella folklorizzazione – ossia l’alterazione e la riduzione di un patrimonio tradi-

2 Su questo aspetto cfr. Amanda Glauert, “Beethoven’s Songs and Vocal Style,” in The Cambridge Companion to Beethoven, ed. Glenn Stanley (Cambridge, UK; New York: Cambridge University Press, 2000), 186–199: 187ss.

3 Per la precisione: i 26 irische Lieder, WoO 152 (1808-12, ed. 1814), i 26 walisische Lieder, WoO 155 (1809, ed. 1817), e le tre raccolte note come Lieder verschiedener Volker, rispettivamente WoO 157 (1815-20, ed. tra il 1816 e il 1839), WoO 158a (1816-17, ed. postuma) e WoO 158b (1813-17, ed. postuma). La monografia più esaustiva sul rapporto tra Beethoven e i canti popolari resta a oggi Barry Cooper, Beethoven’s Folksong Settings. Chronology, Sources, Style (Oxford; New York: Clarendon Press; Oxford University Press, 1994).

4 Friedrich Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung [1795], mit e. Nachw. u. Reg. von Johannes Beer (Stuttgart: Reclam, 1978), 75–77.

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zionale locale a tratti stereotipici, con connessa mediatizzazione e spettacolarizzazione.5 Al contrario, de-localizzando il materiale popolare per mezzo dell’arrangiamento, i cosiddetti “cori popolari” lo trasportano in una dimensione alternativa, in grado di creare una sua autonoma tradizione.

Ma nell’aggettivo popolare si cela per la verità qualcosa di più. Di popolare questi cori conservano spesso alcuni aspetti che il canto tradizionale conosce (e perlopiù conosceva) nelle sue manifestazioni originarie: la piena identificabilità dei tratti stilistici del proprio repertorio, e la loro tendenza a una certa loro conservazione; l’apprendimento delle parti sovente per imitazione; il ruolo ristretto – ma non per questo di scarsa portata – del litteralismo musicale, ovvero la capacità di leggere la notazione e di pensare la musica tramite essa; e una non trascurabile dimensione umana in cui il far musica, come attività amatoriale e aggregativa, diviene un’esperienza dal valore irriducibile a qualsiasi valutazione estetica e a qualsiasi logica produttiva. I “cori popolari” fanno della musica un’arte trasformativa che pone la qualità dell’esperienza del cantare insieme come finalità primaria. In questo senso, lavorano in una zona di confine che dissolve ogni facile etichetta di genere si voglia loro affibbiare, e possono pertanto concedersi di esplorarne diversi in una “intersezione” delineata da una solida tradizione, a cui si aggiungono via via nuove voci e nuovo repertorio.

Considerata sotto questa luce, la presente raccolta costituisce un’operazione coraggiosa, e quasi provocatoria, poiché sposta in questa intersezione una musica e un nome, quello di Beethoven, che al di là di ogni presunta (ed erronea) universalità, si colloca nettamente in un genere – la musica d’arte occidentale – fin quasi a identificarlo. Togliere il busto del genio dal piedistallo, trafugarlo dal museo immaginario del canone e consegnarlo a un mondo musicale per molti versi distante, in cui risuonano con forza La montanara e Sui monti Scarpazi, ha il sapore avventuroso di un’incursione scientemente pianificata più che di un trito e ritrito episodio di crossover. Ovunque porterà questa impresa, sarà di estremo interesse e di grande arricchimento osservarne – ma soprattutto ascoltarne – i frutti.

5 Il concetto di folklorizzazione è al centro di un articolato dibattito in ambito antropologico ed etnomusicologico, che ha determinato una certa flessibilità nel significato e soprattutto nella sua connotazione come concetto più o meno negativo. La definizione che ne ho proposto qui parte da Peter Seitel, “Proposed Terminology for Intangible Cultural Heritage: Toward Anthropological and Folkloristic Common Sense in a Global Era,” International Round Table “Intangible Cultural Heritage” – Working Definitions (Piedmont, Italy, 14 to 17 March 2001), 2001, 6, <https://ich.unesco.org/doc/src/05297-EN.pdf> (ultimo accesso: marzo 2023).

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van Beethoven, Lieder verschiedener Völker, WoO 158a

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Elaborazione di Armando Franceschini

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PRESENTAZIONE di Gianluigi Montresor INTRODUZIONE di Giovanni Cestino.................................................................................................

TRASCRIZIONI CORALI

Da brava, Catina elab.A. Franceschini...............................................................................

La gondoletta elab.A. Franceschini....................................................................................

Lilla Carl elab.M. Lanaro...................................................................................................

Love Without Hope elab.S. Filippi..................................................................................

Merch Megan, or Peggy’s Daughter elab.M. Lanaro.....................................................

Oh Was Not I a Weary Wight adatt.M. Zuccante

Poszla baba trascr.B. Zanolini...........................................................................................

Schöne Minka elab.A. Franceschini

Seus lindos olhos trascr.B. Zanolini..................................................................................

The Dairy House elab.S. Filippi

The Dream adatt.M. Zuccante...........................................................................................

The Massacre of Glencoe adatt.M. Zuccante

The Parting Kiss elab.S. Filippi........................................................................................

The Soldier’s Dream elab.S. Filippi.................................................................................

Tiranilla española elab.M. Lanaro....................................................................................

Yo no quiero embarcarme elab.S. Filippi.......................................................................

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SOMMARIO
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