FILIPPO DEL CORNO PUCCINI ’900
Prefazione di Riccardo Chailly
LA SEDUZIONE DELLA MODERNITÀ
Correnti è una collana diretta da Carlo Boccadoro
Fotografia a p. 13, per gentile concessione della Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini
Direzione e coordinamento editoriale: Laura Moro
Progetto grafico: Studio Temp
Consulente editoriale: Jansan Favazzo
Redazione: Ileana Tomasiello
Impaginazione: Anna Cristofaro
Proprietà per tutti i Paesi: Edizioni Curci S.r.l. – Galleria del Corso, 4 – 20122 Milano
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EC 12466 / ISBN: 9788863954722 www.edizionicurci.it
Prima stampa in Italia nel 2024 da
PREFAZIONE
Nella collezione di cimeli pucciniani custoditi a Torre del Lago vi è anche una fotografia di Gustav Mahler, con dedica autografa a Puccini. L’omaggio risale agli anni in cui, al Teatro di Amburgo, Mahler diresse un allestimento di Le Villi, di cui probabilmente si appassionò soprattutto all’aspetto sinfonico, che si esprime con forte intensità nell’intermezzo La tregenda , pagina alla quale mi sono dedicato nei miei programmi concertistici a Berlino. Quella dedica riveste un significato molto particolare perché è un evidente tratto di stima, che presto si deteriorerà quando Mahler, non più interprete ma semplice spettatore, reagirà addirittura con repulsione a Tosca. Tuttavia l’attenzione rivolta dal grande sinfonista austriaco al giovane operista italiano rivela che già in partiture come Le Villi o come Edgar si possono cogliere i primi segni di un cammino destinato a esercitare una notevole influenza sul Novecento; segni che si evidenziano anche in quelle parti delle opere in seguito sottoposte da Puccini a tagli e rimaneggiamenti, e che dimostrano la straordinaria attitudine sperimentale del compositore, come nell’Atto Quarto poi soppresso di Edgar, con il caso unico in tutto il teatro pucciniano di un’eroina, la controversa Tigrana, con vocalità di mezzosoprano.
La genialità di Puccini si paleserà al mondo, poco dopo l’esecuzione di Le Villi diretta da Mahler, con Manon Lescaut ; curiosamente è proprio questo titolo ad aprire la mia lunga storia di incondizionato amore per il suo autore. Nel 1973, ancora ventenne © 2024 by
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e studente di conservatorio nelle classi di Bruno Bettinelli per composizione e di Franco Caracciolo per direzione d’orchestra, ricevetti l’invito di Thomas Schippers a seguire la sua produzione di Manon per il Festival dei Due Mondi di Spoleto, in uno degli ultimi allestimenti di Luchino Visconti: il mondo sonoro pucciniano mi travolse, e quella partitura rappresentò un’autentica scoperta che non ho mai cessato di approfondire quando poi mi ci sono accostato da interprete a Monaco, Lipsia, Bologna e infine alla Scala. Anche la storia delle molteplici versioni di Manon Lescaut conferma la predisposizione alla sperimentazione e all’innovazione sia sul piano drammaturgico che propriamente compositivo, come nella prima stesura del Finale dell’Atto Primo, in cui compare una sovrapposizione di tre ritmi composti, con una notevole complessità di realizzazione e un’indiscutibile modernità di effetto.
Le partiture di Puccini vanno quindi analizzate e studiate con una grande attenzione a ogni minimo dettaglio, spesso rivelatore di conseguenze espressive inaspettate. L’impatto emotivo delle sue opere è infatti enorme, e io non posso dimenticare l’emozione che mi colse al primo incontro, da giovanissimo spettatore, con la splendida Bohème allestita da Franco Zeffirelli per la Scala, di cui nel 1967 assistetti a una produzione con Mirella Freni e Gianni Raimondi protagonisti e Nino Sanzogno sul podio. In seguito, quando ho avuto la possibilità di dirigere quest’opera, mi sono avvalso dell’edizione critica di un grande musicologo come Francesco Degrada, e ho quindi potuto accostarmi a questo titolo con nuova consapevolezza riguardo al significato di piccoli dettagli solitamente trascurati, come una frase ascendente del flauto che durante l’aria Che gelida manina dona un colore speciale alla melodia del tenore. La prima dell’opera risale al 1896;
eppure basta pensare alla travolgente onda di eventi sonori molteplici che popola l’Atto Secondo per capire come di fatto questa partitura anticipi in realtà il nuovo secolo. Nonostante sia ancora troppo diffuso il cliché che lo colloca in un contesto tardo ottocentesco, è evidente che Puccini sia un autore pienamente inserito nel quadro del Novecento storico. Questa convinzione ha sempre animato il mio lavoro di interprete, e l’impostazione di questo libro registra una forte sintonia con tale prospettiva.
Vi è poi un titolo come Tosca che conferma definitivamente la modernità del pensiero pucciniano, e forse fu proprio questo a indispettire Gustav Mahler… ma anche per un’opera accolta fin da subito nel repertorio di tutti i grandi teatri del mondo è utile aprire la porta del laboratorio compositivo e immergerci nei dubbi, nei cambiamenti, nei tagli che Puccini, spesso animato da uno spirito implacabilmente autocritico, ha apportato in continuazione ai suoi lavori. In origine il Finale dell’opera era infatti ben più lungo di quello che si esegue oggi: la citazione della melodia proveniente da E lucean le stelle viene proposta infatti in una versione più ampia, e la percezione del tempo si dilata in una dimensione in apparenza contraddittoria con quella dell’evento scenico, ossia il suicidio della protagonista. In un capitolo di questo libro si approfondisce il tema dell’importanza della coincidenza tra tempo della musica e tempo della realtà, e forse questa può essere una chiave per provare a rispondere ai dubbi generati dalla difformità tra partitura pubblicata e prima versione. Riproporre oggi la versione integra del finale di Tosca rispetta un’esigenza d’ordine prevalentemente musicologico; eseguire Madama Butterfly nella forma in cui debuttò nel 1904, così come ho fatto nella produzione scaligera che ho diretto, è invece un autentico risarcimento morale per l’insuccesso, probabilmente preorganizzato e orchestrato
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ai danni di Puccini, proprio al Teatro alla Scala in occasione della sua prima assoluta: quel fiasco clamoroso fu la sua più grande sofferenza artistica. La caduta di Butterfly agì da pungolo per la severa inclinazione autocritica e perfezionistica del compositore, che sottopose il lavoro a diversi tagli e semplificazioni per approdare alla redazione oggi conosciuta. Puccini era in effetti autore capace di mettersi nei panni dell’ascoltatore, non per compiacerne le aspettative, come purtroppo molta della musicologia novecentesca lo ha ingiustamente accusato, ma per esercitare la funzione critica di uno sguardo esterno, distaccato da quell’eccessivo coinvolgimento proprio di chi è protagonista di un fatto creativo. Questo mi riporta all’aula del Conservatorio di Milano in cui seguivo le lezioni di composizione di Bettinelli, che ricordava sempre a noi allievi come sia necessario, dopo aver realizzato un qualsiasi lavoro compositivo, fosse anche un esercizio scolastico di contrappunto, controllarne le proporzioni con “occhio esterno”, senza avere paura di intervenire per abbreviare o sintetizzare ciò che al compositore magari appare indispensabile, ma all’ascoltatore risulta pleonastico. Ancora fresco di studi, fu proprio Madama Butterfly l’opera di Puccini con cui Bruno Bartoletti mi invitò a debuttare a Chicago nel 1974, non prima di avermi chiamato a seguire le sue prove di Butterfly a Firenze, per immergermi nel suono dell’orchestra pucciniana. E mi ci sono letteralmente immerso, dal momento che il direttore mi fece sedere non alle sue spalle in platea, come abitualmente si usa, bensì proprio in mezzo all’orchestra. Da quell’esperienza, condotta seguendo un grande interprete pucciniano come Bartoletti, acquisii una consapevolezza, perfezionata poi nel tempo, del valore unico e fondante che il suono orchestrale riveste per la musica di Puccini, e che lo pone in netta antitesi con la maggior parte degli autori
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operistici a lui contemporanei. In particolare colsi il ruolo determinante che riveste l’arpa nel connotare l’universo sonoro pucciniano, fino ad assumere un protagonismo in orchestra che è opportuno mettere nel giusto rilievo, anche perché rappresenta un possibile punto di contatto proprio con Mahler, nelle cui sinfonie questo strumento gioca così spesso una funzione cruciale.
L’importanza del suono occupa un capitolo intero di questo libro, in un’ottica specificatamente compositiva: ritengo sia di particolare utilità il confronto tra questa prospettiva e la pratica dell’interprete, che davanti a ogni titolo della produzione pucciniana deve innanzitutto porsi la questione della ricerca sonora più adeguata a dare corpo alle intenzioni dell’autore. Spesso questa ricerca sonora inizia proprio con il soddisfare le richieste strumentali, a volte apparentemente bizzarre, che Puccini pone nel compilare gli organici orchestrali. Ad esempio, nelle battute della Madama Butterfly del 1904 in seguito tagliate troviamo il cimbalom, strumento che probabilmente Puccini aveva ascoltato nei ristoranti di Budapest: e non si tratta affatto di un esotismo di maniera, ma dell’individuazione accurata di una componente timbrica indispensabile. Le battute in cui viene usato il cimbalom sono in realtà pochissime, ma per me è molto importante restituire concretezza a quelle intuizioni sonore di cui Puccini ha costellato le sue pagine e che poi sono state sacrificate magari a ragioni di opportunità o comodità esecutiva.
Addirittura l’invenzione di strumenti, come la famigerata fonica introdotta per il finale dell’Atto Primo di Fanciulla del West, testimonia la sua spinta innovatrice e altamente sperimentale; purtroppo non mi è riuscito di utilizzare nella produzione che ho diretto un prototipo funzionante dello strumento, ma ho cercato comunque di cogliere la potente novità del suono pucciniano così
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come si configura in quest’opera. Anche nel caso di Fanciulla bisogna infatti riconoscere che gli interventi operati da Toscanini in occasione della prima a New York, e riportati poi nell’edizione stampata della partitura, riducono e in alcuni casi addirittura soffocano gli aspetti più rivoluzionari della scrittura pucciniana, che senz’altro collocano questa opera nel novero dei grandi capolavori musicali del Novecento storico. Qui si evidenzia infatti un’altra caratteristica così precipuamente novecentesca, ossia la tensione a esprimere in maniera autentica il contesto in cui è ambientata l’opera, con la presenza costante nell’Atto Primo di musica americana popolare e di consumo, che ne diventa una vera e propria matrice compositiva.
Ed è forse proprio la presenza di musica di consumo in qualità di elemento costitutivo della tessitura orchestrale che ha sempre impedito un’esatta collocazione della Rondine, che invece per la sua ricerca timbrica e per il suo linguaggio molto evoluto – lo si vede emergere soprattutto là dove si configura una sovrapposizione di altezze che rasenta la dodecafonia – mi è sempre apparsa opera di insuperabile genialità; lo testimonia il modo in cui alla fine dell’Atto Secondo la voce di Magda scontorna alcune delle note che hanno costituito il profilo della bellissima melodia del brindisi appena avvenuto, sussurrando con trepidazione la sua paura per il futuro che la aspetta, lontano dal superficiale clamore mondano e salottiero.
La restituzione dello spessore timbrico di questa partitura mi ha impegnato molto nel recente allestimento scaligero, fin dalla decisione di eseguire la primissima edizione dell’opera, che precede addirittura quella di Montecarlo. Sono convinto che La rondine, depurata dai pregiudizi che ancora oggi ne condizionano la ricezione, costituisca il miglior ponte possibile per capire fino in
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fondo la sbalorditiva modernità del Trittico, che realizzai diversi anni fa sempre alla Scala per la regia di Luca Ronconi, nell’ultima occasione di lavoro comune che abbiamo avuto. Nelle tre opere l’identità novecentesca di Puccini mi appare infatti evidente, sia in termini di riferimenti contemporanei che di singolare prefigurazione. Ad esempio, ritengo che la perfetta macchina ritmica di Gianni Schicchi si richiami esplicitamente a Stravinskij, mentre vi sono alcune formulazioni melodiche che annunciano non solo Kurt Weill, come si argomenta nel libro, ma anche Nino Rota, il suo teatro musicale e la sua produzione per il cinema d’autore. In Suor Angelica riproporre, così come ho fatto, la cosiddetta Aria dei fiori, espunta poi forzatamente dall’edizione definitiva, rende ancora più manifesta la presenza aleggiante in ogni pagina dell’opera di Claude Debussy e del suo Le martyre de Saint Sébastien, che la precede di pochi anni e che presenta la stessa identica caratteristica di scrittura “in bianco”: apparentemente semplice nella sua immacolata purezza, ma al tempo stesso innervata della tragica inquietudine di figure musicali ambigue, serpeggianti, vere e proprie Nebenstimmen alle quali è fondamentale dare il giusto risalto in termini di fraseggio e presenza dinamica. Infine, e percorrendo a ritroso l’impaginato teatrale, si trova il Tabarro, dove invece Puccini sembra addirittura presagire la Naturlaut cittadina che trova voce in Edgar Varèse con lavori come Déserts, che arriva ben trent’anni dopo. Musica concreta, quella che echeggia nei rumori di automobili e sirene di rimorchiatori, ed entra in relazione potentissima con la fluviale densità della tessitura armonica e strumentale dell’inizio dell’opera. Tutti i richiami tematici che percorrono la partitura hanno uno studiato significato drammaturgico, e per questa ragione sono rimasto molto colpito dalla scoperta che ho fatto poco tempo fa: nel libro di Arnaldo
Fraccaroli La vita di Giacomo Puccini, la cui prima edizione risale al 1925, compaiono due battute, autografe e già orchestrate per mano di Puccini, che si riferiscono al finale dell’Atto unico, proprio al momento in cui Michele apre il suo tabarro rivelando agli occhi di Giorgetta il cadavere di Luigi appena trucidato. Nella partitura pubblicata, Giorgetta reagisce con un grido espressionista, che rapidamente conduce alla chiusura del sipario. Invece, nelle due battute riportate in Fraccaroli – che devono essere state tagliate da Puccini in un secondo momento – Giorgetta canta con vocalità estremamente tesa e lacerata la stessa identica melodica che prima era stata intonata da Luigi sulle parole “preferisco morire, alla sorte che ti tiene legata!”. Anche in questo caso è probabile che la scelta di Puccini sia stata operata nel nome di una maggiore efficacia e sintesi drammaturgica, e tuttavia desidererei impegnarmi nell’eseguire almeno una volta la versione con queste due battute in più, per capire fino in fondo quale significato attribuiva l’autore a un ritorno tematico così preciso che rappresenta crudamente l’inevitabilità del destino a cui lo stesso Luigi sembra condannarsi nel momento in cui pronuncia parole tragicamente profetiche. Il viaggio all’interno della produzione operistica di Puccini che ho inteso tratteggiare per orientare la lettura del libro, organizzato invece per aree tematiche e non in successione cronologica, non può che terminare con Turandot, titolo in cui il mio vincolo pucciniano si è ulteriormente rafforzato in virtù del fatto che ho avuto il privilegio e il piacere di essere primo interprete del Finale dell’opera ricomposto da Luciano Berio. Con i complessi del Concertgebouw ne ho dato una prima lettura in forma di concerto a Las Palmas per il Festival delle Canarie, per proseguire con l’allestimento scenico ad Amsterdam nel 2002 e infine nella produzione scaligera del 2015 con la quale si è aperta Expo. © 2024 by Edizioni Curci S.r.l. - Milano. Tutti i diritti sono riservati.
La coincidenza che unisce le ultime righe di questa prefazione all’ultimo capitolo del libro mi riporta al ricordo indelebile di quanto avvenne in coda a una delle prime prove d’insieme, in cui ritrovai Berio in platea, profondamente commosso, che mi disse: «Ma tu hai idea di cosa è stato capace di scrivere Puccini con l’Atto Primo di Turandot ? Si tratta certamente della più grande pagina di musica di tutto il primo Novecento italiano». Una collocazione cronologica precisa, e soprattutto identificativa di un ambito compositivo che è pienamente coincidente con quello delle avanguardie storiche cui partecipano gli autori che sono posti in relazione a Puccini nel corso di questo libro, da Schönberg a Ravel, da Stravinskij a Berg, da Webern a Debussy. Nel corso delle prove abbiamo poi lavorato in strettissimo dialogo con Berio per perfezionare alcuni dettagli importanti di quel
Finale, dalle indicazioni metronomiche ai raddoppi strumentali, cercando di mettere in pratica fino in fondo quelle enigmatiche parole vergate da Puccini nei suoi appunti – “poi Tristano” –, su cui Berio richiamava sempre la mia attenzione. L’estrema dedizione che Berio ha profuso in questo Finale di Turandot sembra riportare Puccini vicino all’altro autore al quale Berio ha rivolto nel corso della sua vita analoga attenzione, ossia proprio Gustav Mahler, a partire dalle orchestrazioni dei Lieder per arrivare al terzo movimento di Sinfonia.
In questo punto il filo tracciato all’inizio di questo testo trova la propria strada riconnettendo, attraverso Berio che rilegge entrambi, Mahler e Puccini, due compositori che hanno seminato il futuro della musica nel momento stesso in cui ne interpretavano, da visuali opposte, il tormentato presente.
Riccardo Chailly