Erickson - Disimpegno morale

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ALBERT BANDURA

DISIMPEGNO COME FACCIAMO DEL MALE CONTINUANDO A VIVERE BENE

LEGGI IN ANT I L P R I M O C A PE P R I M A I TO LO !


«Profondo, originale... questo libro ci fa capire quanto il male si insinui ogni giorno in ogni sfera della nostra vita»

Philip Zimbardo, autore del bestseller «L’effetto Lucifero»

«Un contributo al sapere e alla conoscenza che porta avanti la tradizione di innovazione di questo Paese, e che continuerà ad aiutarne moltissimi altri in tutto il mondo. Un testamento dell’ingegno americano»

Barack Obama, nell’assegnazione a Bandura della National Medal of Science


Albert Bandura

Disimpegno morale Come facciamo del male continuando a vivere bene

Traduzione di Riccardo Mazzeo


Indice

Prefazione

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1 La natura dell’agency morale

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2 I meccanismi del disimpegno morale

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3 L’industria dell’intrattenimento

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4 L’industria delle armi

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5 Il mondo aziendale

243

6 La pena capitale

319

7 Terrorismo e controterrorismo

365

8 La sostenibilità ambientale

435

Epilogo

517

Indice completo

523

Indice dei nomi

529

Indice analitico

543

Bibliografia

555


Questo libro è dedicato alla memoria di mia moglie Virginia e alla vita piena di soddisfazioni che abbiamo avuto. Il suo impegno umanitario per migliorare la vita delle persone è molto in linea con le questioni morali che questo testo affronta.


Prefazione

Questo libro affronta la dimensione morale della vita delle persone. Le società concepiscono politiche e pratiche istituzionali che modellano la qualità della vita dei loro membri e il modo in cui vengono gestite le infrazioni, le trasgressioni, gli illeciti. Adottano criteri rispetto a ciò che è giusto e a ciò che è sbagliato a seconda dei valori che le informano e fanno valere tali criteri attraverso svariate sanzioni legali e sociali. Spesso però tali tipi di sanzioni non bastano a tenere a freno i comportamenti nocivi perché, situate come sono all’esterno, possono essere eluse. Una società benigna e autonoma è radicata nelle autosanzioni morali. Le persone dirigono continuamente il proprio comportamento e devono vivere nella consapevolezza delle conseguenze autovalutative di ciò che fanno. Le autosanzioni morali fanno sì che i comportamenti siano in linea con i criteri morali. Tuttavia, il loro potere può essere neutralizzato, e la teoria sociocognitiva mette in luce i meccanismi psicosociali attraverso cui tale neutralizzazione viene effettuata. Il disimpegno dalle autosanzioni morali rispetto a comportamenti nocivi consente alle persone di comportarsi male e di continuare a vivere in pace con se stesse. La concezione dell’agency morale è solidamente radicata nella teoria sociocognitiva dell’autoregolazione. Oggetto di quest’opera è il disimpegno dall’agency morale, le sue conseguenze sociali e i modi per eluderle. La verifica della causazione nelle scienze sociali necessita di evidenze convergenti attraverso metodologie divergenti, e ciò è vero soprattutto nella verifica delle teorie dell’autoregolazione morale. A causa di proibizioni sociali ed etiche, i ricercatori non sono liberi di riprodurre degli atti inumani, o semplicemente crudeli, in condizioni laboratoriali controllate. Gli studi sperimentali sono quindi limitati a trasgressioni morali relativamente minori e a scenari ipotetici. A causa di queste rigide limitazioni sperimentali, i ricercatori devono investigare le pratiche nocive in condizioni che si verificano naturalmente e valendosi di una varietà di metodi. Questo libro presenta un’analisi teorica del disimpegno morale che opera a livello personale alimentato da influenze sociali che entrano in


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gioco nel flusso della vita quotidiana. L’analisi a livello micro del modo in cui le persone gestiscono, a livello sia individuale sia collettivo, gli aspetti morali delle loro vite conferisce un aspetto umano al disimpegno morale. Questo livello di analisi consente una comprensione più profonda dei processi causali quando si verificano in contesti naturali. Le ricognizioni storiche permettono un’analisi longitudinale del disimpegno morale sistemico nel corso di molti anni. Per valutare la generalizzabilità dello schema concettuale, il disimpegno dalle autosanzioni morali è stato esaminato in sfere radicalmente differenti della vita. Benché questo libro si focalizzi soprattutto su microanalisi di influenze causali che si verificano in contesti naturali, prende anche in considerazione le evidenze scaturite da esperimenti controllati e studi di correlazione con controlli multipli per non trascurare altri possibili fattori contributivi. Il libro ha avuto origini che andavano in una diversa direzione. Ogni cinque anni Jeffrey Zeig, il direttore della Erickson Foundation, indìce una conferenza pluralistica sull’evoluzione della psicoterapia. Nel corso di tali conferenze di solito tengo due relazioni: Le applicazioni della teoria sociocognitiva nel cambiamento individuale e sociale e Il disimpegno morale nella perpetrazione di atti crudeli. Jeffrey continuava a spronarmi a scrivere un libro sul disimpegno morale sottolineando che avrebbe affrontato questioni fondamentali della teoria morale e che il disimpegno morale è un problema sociale sempre più pressante in tutte le traiettorie della vita. La mia risposta fu: «Non se ne parla. Scrivere un libro comporta un enorme investimento sulla propria vita». Peraltro, avevo già pubblicato diversi capitoli e una serie di articoli di ricerca sul disimpegno morale dalla prospettiva agentica della teoria sociocognitiva. Jeffrey mi fece un’offerta che non avrei potuto rifiutare. La Erickson Foundation avrebbe pubblicato un volume contenente una rassegna degli articoli che avevo pubblicato su questo argomento. Tutto quel che avrei dovuto fare, spiegò, sarebbe stato mettere insieme i vari contributi e scrivere un capitolo introduttivo che situasse il disimpegno morale nel contesto più ampio della teoria morale e fornisse una prospettiva estesa delle questioni chiave nell’esercizio dell’agency morale. Quando cominciai a raccogliere i testi che avevo pubblicato, mi accorsi di alcune cospicue lacune che avrei potuto facilmente colmare. Le aggiunte lievitarono fino a capitoli di 75 pagine! Mi trovai quindi di fronte a un volume particolarmente ibrido che conteneva due capitoli molto voluminosi e un insieme di articoli brevi. Colmare quelle lacune con interpolazioni così ampie accese il mio interesse rispetto a come avrebbe potuto essere un libro sul disimpegno morale che offrisse una trattazione approfondita e una sfera adeguatamente estesa. Ero giunto a un punto di non ritorno. Il libro che avevo in mente a quel punto sarebbe stato più adatto a una casa editrice di maggiore importanza, dotata di risorse tali da consentire di raggiungere sia i lettori accademici sia le persone comuni. Sono profondamente grato a Jeffrey per avermi indotto a intraprendere un progetto


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che non avevo alcuna intenzione di perseguire. A metà della realizzazione mia moglie morì e lasciarmi assorbire dalla stesura di questo libro mi aiutò ad alleggerire la solitudine e il dolore che provavo. Resto sempre grato ai collaboratori preziosi che mi hanno assistito in vari progetti di ricerca sul disimpegno morale. Gian Vittorio Caprara, Claudio Barbaranelli e Concetta Pastorelli hanno seguito il nostro studio longitudinale all’università di Roma La Sapienza, dove abbiamo esaminato il disimpegno morale dei bambini e il suo impatto sul loro sviluppo psicosociale. Michael Osofsky, che era allora uno studente di Stanford, ha dato un contributo importante alla ricerca sul ruolo dell’influenza del disimpegno morale nei boia di alcuni penitenziari del Sud. Alfred McAlister, dell’università del Texas, ha rivestito un ruolo rilevante nello studio del disimpegno morale nelle campagne militari contro l’Iraq e i rifugi dei terroristi dopo gli attacchi dell’11 settembre. Jenny White e Lisa Bero, dell’università del California San Francisco Medical Center, hanno avuto un ruolo fondamentale rispetto alla ricerca sul disimpegno morale nello sviluppo aziendale e nel marketing di prodotti nocivi per la salute degli esseri umani. Desidero esprimere il mio debito nei confronti di Katie Bramlett e Priyanka Sumanadasa per la loro assistenza relativamente alle prime versioni di questo libro. Una particolare gratitudine va a Karen Saltzman per la accuratissima preparazione del manoscritto prima della pubblicazione. La ringrazio per la pazienza che ha avuto con le mie numerose revisioni, con la guida collegiale degli assistenti e per aver costruito le vaste sezioni bibliografiche che comprendevano nebulose sigle aziendali e altri documenti interni. Sono altresì profondamente grato per l’assistenza offerta dal gruppo di laureandi di Stanford che si sono prodigati sotto l’entusiastica guida di Tommy Tobin: oltre a Tommy, Michael Sexton, Kelsey Mrkonic, Alexander Paraschuk, Nadia Stoufflet e Vanna Tran. Essi hanno scovato oscure pubblicazioni vagliando fonti inconsuete e hanno digitato le infinite revisioni a cui il libro è stato sottoposto. Roxana Godinez ha fornito un aiuto considerevole con le citazioni bibliografiche. Anche le mie due figlie sono state d’aiuto in questa impresa. Carol nell’identificazione di malfattori che si valgono di modalità particolarmente ingegnose di disimpegno morale in inconsuete situazioni moralmente difficili, Mary nella sua veste di mia spietata editor. Ha mondato il manoscritto da tantissime ambiguità, ripetizioni, elementi superflui ed errori di organizzazione. Grazie al suo editing così rigoroso il libro è venuto molto meglio. Ho avuto la fortuna che Christine Cardone supervisionasse in qualità di editor la pubblicazione di questo libro. Considerandolo un’opera pionieristica, ha svolto con devozione il suo lavoro in ogni fase del processo di pubblicazione. Desidero anche esprimere il mio debito con Barbara Curialle che ha fatto a sua volta un editing meticoloso del manoscritto.


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Parte del materiale di questo libro è tratto da mie precedenti pubblicazioni. In ogni caso, la maggior parte di tali contributi è stata revisionata, ampliata, riorganizzata e aggiornata. Sono profondamente grato agli editori che mi hanno dato l’autorizzazione a usare questo materiale: American Psychological Association; Association for Psychological Science; Annual Reviews, Inc.; Cambridge University Press; Gage Cengage Press; Kluwer Academic Publishers; Lawrence Erlbaum Associates; Oxford University Press; Prentice Hall; Sage Publications; Springer Science + Business Media.


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La natura dell’agency1 morale

Una comprensione esauriente della moralità deve spiegare non solo come le persone riescano a comportarsi moralmente, ma anche come possano comportarsi in modo inumano e tuttavia continuare a nutrire rispetto per se stesse e sentirsi a posto. La sfida esplicativa più difficile, va da sé, è racchiusa nella seconda parte dell’affermazione relativa all’esercizio dell’agency morale: come possano comportarsi in modo disumano e nondimeno continuare a nutrire rispetto per se stesse e sentirsi a posto. Di fatto, è più facile spiegare l’adesione ai principi morali che il paradosso della violazione dei propri principi senza la perdita di una buona considerazione di sé. Tale violazione può essere compiuta grazie al disimpegno selettivo delle autosanzioni morali dalla condotta lesiva. Tipicamente, è nelle situazioni morali difficili e nelle crudeltà di vasta portata che si parla di disimpegno dalla moralità. In realtà, esso è comune in tutte le situazioni morali impegnative in cui si trovano persone comuni in qualunque frangente della vita quotidiana. Nello sviluppo di un sé morale gli individui adottano criteri di giusto e sbagliato che svolgono la funzione di guide e deterrenti per la condotta. Fanno ciò che dà loro soddisfazione e sensazione di «valere», ed evitano di compiere azioni contrarie ai loro criteri morali perché tali condotte li porterebbero all’autobiasimo. L’agency morale è quindi esercitata grazie al vincolo delle autosanzioni negative, che entrano in gioco qualora la propria condotta violi i propri criteri morali, e al sostegno delle autosanzioni positive per una condotta fedele ai propri criteri morali personali. Di fronte 1

Utilizzo qui il termine originale usato dall’Autore, agency, che era stato reso nella traduzione italiana della summa da lui dedicata all’autoefficacia (Autoefficacia: teoria e applicazioni, Trento, Erickson, 2000) con «agentività». Dopo una serie di conversazioni con Bandura e con il suo più grande amico italiano, il prof. Gian Vittorio Caprara, avevo pensato di optare per la recente dizione italiana «agenticità», ma l’ultimo libro di Adriano Zamperini, Violenza e democrazia, scritto con Marialuisa Menegatto (Milano, Mimesis, 2016), mi ha persuaso a mantenere agency che è oggi la forma più usata anche in Italia [Ndt].


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a stimoli situazionali che inducono a comportarsi in modo disumano, le persone possono scegliere di agire in altro modo esercitando la propria autoinfluenza o imparando a farlo. Le autosanzioni fanno in modo che la condotta sia coerente con i criteri interni. L’esercizio dell’agency morale ha due aspetti: uno inibitorio e uno proattivo. La forma inibitoria si manifesta nella capacità di non comportarsi in modo inumano. La forma proattiva, radicata in un’etica umanitaria, si manifesta con la compassione per coloro che si trovano in difficoltà e le azioni tese a promuovere il loro benessere, spesso pagando un prezzo a livello personale (Rorty, 1993). Nel caso del coraggio morale proattivo gli individui, nel loro agire morale, si contrappongono alle pratiche sociali consolidate, se sono ingiuste e disumane. Una moralità onnicomprensiva include il fare cose buone e non soltanto l’astenersi dal farne di cattive. In ogni caso, le teorie della moralità si concentrano sulle forme inibitorie della moralità più che su quelle proattive. La maggior parte delle teorie e delle ricerche sulla moralità si focalizza con particolare insistenza sull’acquisizione dei criteri morali e del ragionamento morale, spesso disgiunti dalla condotta morale. Tuttavia, l’acquisizione di criteri morali è soltanto un aspetto dell’agency morale. I criteri morali, che si definiscano coscienza, prescrizioni morali o principi, non regolano la condotta sempre e comunque. Spesso siamo spinti a compiere azioni nocive che ci consentirebbero di ottenere risultati vantaggiosi ma che sono contrarie ai nostri criteri morali. Per intraprendere tali attività, e continuare a vivere in pace con noi stessi, dobbiamo mettere da parte le considerazioni morali sulle nostre azioni, oppure attribuire loro un fine meritevole. Il disimpegno dalle autosanzioni morali consente di venire a patti con i propri criteri morali riuscendo comunque a mantenere un senso di integrità. I meccanismi di autoregolazione non entrano in gioco a meno che non vengano attivati. Per disimpegnare le autosanzioni morali da una condotta inumana possono essere usate molte manovre psicosociali. L’attivazione selettiva e il disimpegno delle autosanzioni consentono diversi tipi di condotta a persone caratterizzate dagli stessi criteri morali. In realtà, atti crudeli su vasta scala vengono perpetrati tipicamente da persone che possono essere premurose e compassionevoli in altri ambiti della loro vita. Può accadere perfino che siano simultaneamente spietate e benigne nei confronti di individui differenti, a seconda di chi includano ed escludano dalla loro categoria di umanità. Un buon esempio di tale selettività dell’impegno morale è Amon Goeth, famoso comandante nazista di un campo di concentramento. Mentre dettava una lettera piena di empatia e compassione per suo padre malato, vide un prigioniero che gli pareva non lavorare abbastanza. Estrasse la pistola e gli sparò con freddezza. Questo comandante era sopraffatto dalla compassione e al tempo stesso tremendamente crudele. La figura 1.1 presenta schematicamente otto meccanismi psicosociali con cui le persone disimpegnano selettivamente la propria autoregolazio-


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ne morale dalla condotta lesiva che mettono in atto. Questi meccanismi operano in quattro aree nel processo di autoregolazione morale. Al livello comportamentale, le persone legittimano certi mezzi, di per sé nocivi, investendoli di fini sociali e morali meritevoli. I fini nobili vengono usati per giustificare mezzi lesivi. Si può anche rendere benigna o perfino altruistica una condotta deleteria grazie al confronto vantaggioso: la convinzione che le proprie azioni lesive impediranno una sofferenza umana maggiore di quella che causano fa apparire altruistico il proprio comportamento. Le formule eufemistiche, nelle loro forme addolcite e contorte, dissimulano un comportamento nocivo con un linguaggio innocuo riuscendo così a spogliarlo di qualunque umanità. Questi tre meccanismi a livello del comportamento sono particolarmente potenti poiché adempiono a una duplice funzione: fanno posto alla moralità nella missione lesiva ma disimpegnano la moralità dalla sua esecuzione. Ad esempio, nel caso dei militari, i capi giustificano moralmente la missione militare sostenendo che sia al servizio di obiettivi umanitari. In ogni caso, i soldati che devono combattere sollevano la moralità dalle loro azioni letali per riuscire a uccidere il nemico senza essere tormentati dal rimorso.

Giustificazione morale Confronto palliativo Etichettatura eufemistica Pratiche lesive

Minimizzare, ignorare o distorcere le conseguenze Effetti lesivi

Deumanizzazione Attribuzione della colpa

Vittima

Spostamento della responsabilità Diffusione della responsabilità Fig. 1.1 Otto meccanismi attraverso i quali le autosanzioni morali vengono disimpegnate selettivamente dal comportamento lesivo in quattro punti dell’autoregolazione morale. Da A. Bandura, 1986. Ripubblicato con il permesso di Pearson Education, Inc., Upper Saddle River, NJ.

Al livello dell’agency, le persone si sottraggono alla responsabilità personale rispetto a condotte lesive spostando la responsabilità su altri e distribuendola in modo ampio, affinché nessuno sia alla fine responsabile. Ciò le assolve dalla colpa del danno causato. Al livello del risultato, i perpetratori ignorano, minimizzano, distorcono o perfino mettono in discussione gli effetti nocivi delle proprie azioni. Finché gli effetti nocivi sono fuori dalla vista e fuori dalla mente non è necessario fare i conti con alcuna questio-


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ne morale poiché non è stato arrecato alcun danno percepito. Al livello della vittima, i perpetratori escludono coloro che maltrattano dal proprio concetto di umanità, spogliandoli delle qualità umane o attribuendo loro caratteristiche animalesche. Il fatto di rendere subumane le proprie vittime indebolisce gli scrupoli morali legati al fatto di trattarle duramente. Un ulteriore disimpegno morale rispetto alle vittime consiste nell’incolparle dei maltrattamenti che ricevono o nell’attribuire tali maltrattamenti a circostanze forzate. Con questa modalità di autoassoluzione, i perpetratori si considerano vittime costrette a nuocere per via del comportamento offensivo dei malfattori o a causa di circostanze che non lasciano alternativa. Considerandosi vittime, possono sentirsi nel giusto quando agiscono per reazione. Questo insieme di meccanismi permette di indebolire o eliminare il potere regolatorio delle autosanzioni morali in relazione alle pratiche lesive. Il disimpegno morale non modifica i criteri morali. Fornisce piuttosto, a coloro che si disimpegnano moralmente, i mezzi per eludere i criteri morali, sottraendo alla moralità i comportamenti lesivi e alleggerendo la propria responsabilità. Comunque, in altri aspetti della vita, queste stesse persone aderiscono ai propri criteri morali. È la sospensione selettiva della moralità che permette loro di mantenere una considerazione positiva di sé mentre commettono il male.

La teoria sociocognitiva La concezione della natura e della funzione della moralità è inserita in una più vasta teoria sociocognitiva dell’agency umana (Bandura, 2006c, 2008). Prima di affrontare le questioni relative all’agency morale e al suo disimpegno selettivo, vi presento una breve panoramica dello schema concettuale agentico della teoria sociocognitiva. Essere un agente2 significa esercitare un’influenza intenzionale sul proprio funzionamento e sul corso degli eventi determinati dalle proprie azioni. È la capacità di essere personalmente influenti a dare significato all’esercizio della moralità. Se il comportamento umano fosse controllato esclusivamente da forze esterne, sarebbe inutile ritenere gli individui responsabili del loro comportamento. L’agency umana si manifesta attraverso il pensiero anticipatorio, l’autoreazione e l’autoriflessione. Nel pensiero anticipatorio, le persone si motivano e orientano il proprio comportamento creando piani di azione, adottando obiettivi, raccogliendo sfide e immaginando gli esiti probabili dei propri sforzi. Una condizione futura non ha un’esistenza materiale, e dunque non può essere la causa di un comportamento attuale finalizzato alla sua realizzazione. Tuttavia, attraverso la rappresentazione cognitiva, 2

«Il termine “agent” indica “qualcosa o qualcuno che produce o è capace di produrre un effetto: una causa attiva o efficiente”» (Bandura, Autoefficacia, cit.).


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il futuro immaginato viene portato nel presente e fornisce una guida e una motivazione all’azione. In questa forma di autoguida anticipatoria il comportamento è governato da obiettivi immaginati e da risultati anticipati, più che essere spinto da una condizione futura non realizzata. La capacità di collegare gli obiettivi e le conseguenze anticipate alle attività attuali promuove il comportamento intenzionale e lungimirante. Il pensiero anticipatorio permette di trascendere i dettami dell’ambiente immediato e di modellare e regolare il presente per realizzare un futuro desiderato. Se applicata a un corso d’azione di lungo periodo in questioni dotate di valore personale, una prospettiva lungimirante fornisce orientamento, coerenza e significato alla propria vita. La regolazione del comportamento trasgressivo attraverso le aspettative di risultato opera grazie a tre tipi di sanzioni: legali, sociali e autovalutative. Queste sanzioni regolatorie si basano sull’anticipazione delle conseguenze. Nella forma legale, le persone si astengono dal comportarsi trasgressivamente per paura di essere scoperte e di subire conseguenze giudiziarie. Nella forma sociale, ci si astiene per paura della censura sociale e di altre ricadute sociali sgradite. Nell’autoregolazione basata sulle autosanzioni, è l’autocensura a dissuadere le persone dal comportarsi trasgressivamente. I sistemi di controllo legale e sociale, basati su sanzioni esterne, vengono chiamati «controllo della paura». Il controllo basato sulle autosanzioni viene chiamato «controllo della colpa». L’autoregolazione attraverso le autosanzioni si manifesta in due modi. Il primo implica l’esercizio dell’astensione dal comportamento che viola i propri criteri perfino quando è improbabile essere scoperti. Il secondo viene vissuto come colpa, rimorso, autocritica e induce a tentare una riparazione per essersi comportati trasgressivamente. Un contesto sociale riuscito tende a sostituire l’autocontrollo al controllo sociale esterno. Come verrà ampiamente dimostrato nei capitoli seguenti, quando vengono compiute attività trasgressive profittevoli senza alcun riguardo per la moralità, i malfattori trovano modi creativi per aggirare le sanzioni legali. Se le norme sociali concernenti la riprovazione delle attività trasgressive si sono sgretolate, le sanzioni sociali hanno scarso peso come deterrenti. Nonostante la centralità delle autosanzioni nella regolazione del comportamento, esse in genere non vengono riconosciute o non vengono misurate nelle teorie psicosociali ed economiche. Che siano «buone» o «cattive», le persone devono comunque vivere in pace con se stesse, con le scelte fatte e con il modo in cui si sono comportate nella vita quotidiana. È impossibile governare una società civile soltanto con il controllo della paura. Sarebbero necessari una sorveglianza sociale enorme e un sistema di sanzioni punitive molto esteso per reprimere la mancata obbedienza. In realtà, una società civile è prevalentemente una società che si autogoverna. La seconda proprietà agentica è l’autoreazione. Gli agenti non sono solo pianificatori dotati di pensiero anticipatorio, ma si autoregolano. Come ha notato Searle (2003), dopo aver concepito un’intenzione e un piano d’azione,


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non si può semplicemente restare inerti, stare a guardare e attendere che i risultati auspicati si producano. L’agency quindi non implica soltanto la capacità deliberativa di effettuare scelte e di concepire piani di azione, ma anche la capacità di adottare corsi di azione appropriati e di motivarne e regolarne l’esecuzione. Nel processo di autoregolazione, gli individui adottano criteri valutativi di condotta, giudicano il proprio comportamento relativamente a quei criteri e rispondono con l’autoapprovazione o l’autocensura a seconda che il comportamento sia o non sia all’altezza dei criteri adottati (Bandura, 1991a). Nei casi di fallimento morale, i criteri morali sono svincolati dal comportamento nocivo. La terza proprietà agentica è l’autoriflessione. Gli individui non sono soltanto autori di azioni, ma anche esaminatori del proprio funzionamento. Essi riflettono sulla propria efficacia personale, sulla bontà dei loro pensieri e azioni, sui loro valori e sul significato e la moralità dei propri scopi. È a questo più alto livello di autoriflessione che le persone affrontano i conflitti rispetto ai vari corsi di azione e a valori conflittuali, per poi scegliere una condotta piuttosto che un’altra. La capacità metacognitiva di riflettere sulla propria natura e sull’adeguatezza dei propri pensieri e azioni è la proprietà più tipicamente umana dell’agency. È innanzitutto al livello dell’autoriflessione che gli individui affrontano le situazioni problematiche e, quando scelgono corsi di azione trasgressivi, prendono le distanze dalla propria condotta lesiva e si assolvono. Queste funzioni agentiche si fondano sulla convinzione delle proprie capacità causative. Tale autoconvinzione fondamentale, chiamata «autoefficacia», è la base delle aspirazioni, della motivazione e dei successi umani (Bandura, 1997). A meno che le persone non credano di poter produrre gli effetti desiderati grazie alle proprie azioni, avranno scarsi incentivi ad agire o a perseverare di fronte alle difficoltà. Qualunque essi siano, gli altri fattori che orientano e motivano il comportamento si fondano comunque sulla convinzione fondamentale di poter influenzare il corso degli eventi con le proprie azioni. Le convinzioni di autoefficacia influenzano la qualità del funzionamento umano attraverso processi cognitivi, motivazionali, emozionali e decisionali e più in particolare sul fatto di pensare in termini ottimistici o pessimistici, in modo autoabilitante o autodebilitante. Esse contribuiscono all’autoregolazione della motivazione influenzando le sfide e gli obiettivi perseguiti, l’impegno verso tali obiettivi, l’energia investita nelle attività intraprese e la perseveranza di fronte alle avversità. Le convinzioni di efficacia modellano anche le aspettative di risultato delle persone, ovvero l’aspettativa che i propri sforzi producano risultati favorevoli o avversi. Inoltre, determinano la percezione delle opportunità e degli impedimenti. Le persone con basse convinzioni di autoefficacia si convincono facilmente della inutilità dei loro sforzi di fronte alle difficoltà. Ben presto smettono di provare. Quelle con alte convinzioni di autoefficacia ritengono che gli ostacoli possano essere superati migliorando le proprie


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abilità di autoregolazione e perseverando nei loro sforzi, e di fronte alle difficoltà tengono duro fino in fondo. Le convinzioni rispetto all’efficacia della propria resistenza rivestono a loro volta un ruolo fondamentale nella qualità della vita emotiva e riguardo alla vulnerabilità a stress e depressione. L’ultimo modo in cui le convinzioni di autoefficacia modellano la vita delle persone riguarda la scelta di attività e ambienti in occasione di decisioni importanti: con le scelte compiute, le persone influiscono su ciò che diventeranno e tracciano la rotta che la loro vita prenderà. La convinzione resiliente delle proprie capacità di causazione è una risorsa altamente adattiva nello sviluppo personale, nell’adattamento e nel cambiamento. Tuttavia, la capacità agentica non è parte di un sistema di valori predefinito. Può essere usata per fini benigni o distruttivi. I malfattori provvisti di un incrollabile senso di efficacia possono causare un danno enorme. Ad esempio, una fiducia collettiva esagerata nel potere della forza militare ha fatto sì che gli Stati Uniti si impantanassero in guerre che i gradi più alti consideravano moralmente giustificate, e che si sono rivelate disastrose (Halberstam, 1972; Purdam, 2003).

Condeterminazione triadica Nel corso degli anni, gli studiosi si sono inutilmente divisi tra chi sosteneva che le cause del comportamento umano risidono nell’individuto (i disposizionisti) e chi le individuava invece nell’ambiente (i situazioninsti). La teoria sociocognitiva rifiuta una simile causazione unidirezionale, proponendo invece una causazione interattiva a tre vie (Bandura, 1986). In questa condeterminazione triadica, come mostrato nella figura 1.2, il funzionamento umano è un prodotto dell’interazione tra influenze personali, comportamento assunto dagli individui e forze dell’ambiente che influiscono su di essi. Le determinanti personali includono la dotazione biologica e le influenze intrapsichiche in termini di competenze, sistemi di convinzioni, autoconcezioni, stati emotivi, obiettivi, atteggiamenti e valori. Questi fattori intrapersonali influenzano il modo in cui gli individui percepiscono l’ambiente e il modo in cui si comportano. Il secondo fattore è la natura del comportamento che viene messo in atto e che può assumere forme psichiche, sociali ed emotive. Nelle transazioni della vita quotidiana, il comportamento modifica le condizioni dell’ambiente ed è, a sua volta, modificato dalle stesse condizioni che crea (Patterson, 1976). Gli individui possono suscitare reazioni stereotipate nel loro ambiente sociale, indipendentemente da quel che dicono o fanno, in base alla loro etnia, al loro genere, all’età e alle caratteristiche fisiche. Inoltre, possono suscitare diverse reazioni sociali a seconda dei ruoli e dello status loro conferiti socialmente. Il terzo fattore, nell’interazione a tre vie fra le determinanti, è la profusione di influenze ambientali. L’ambiente non è una forza monolitica che agisca unidirezionalmente sugli organismi. La teoria sociocognitiva distingue tre tipi di ambienti: imposto, selezionato e creato. L’ambiente


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fisicamente e socioculturalmente imposto influenza le persone, che esse lo vogliano o no. Queste ultime esercitano uno scarso controllo sulla sua presenza, ma dispongono di qualche margine di libertà quanto al modo di interpretarlo e reagirvi. In ogni caso, per la gran parte, l’ambiente è soltanto una potenzialità che non si realizza finché non viene selezionata e resa effettiva con le azioni intraprese dalle persone. L’ambiente vissuto selettivamente è questo. Ad esempio, benché gli studenti di college vivano tutti nello stesso ambiente del campus, ne fanno un’esperienza differente a seconda dei corsi che seguono, degli eventi extracurricolari cui partecipano e degli amici che si scelgono. All’interno del medesimo ambiente potenziale, alcune persone traggono vantaggio dalle opportunità che esso offre e dai suoi aspetti abilitanti e gratificanti. Altri, invece, restano irrevocabilmente intrappolati nei suoi aspetti debilitanti e avversi. Queste scelte influenzeranno il genere di situazioni moralmente difficili che si troveranno a fronteggiare. Le persone arrivano perfino a costruire nuovi ambienti fisici, tecnologici e sociali per migliorare le condizioni della loro vita. Generando ambienti di loro gradimento che prima non esistevano, esercitano un migliore controllo sulla loro vita. Le condizioni di vita che offrono una vasta gamma di opzioni e opportunità per modificare gli ambienti esistenti e crearne di nuovi richiedono livelli crescenti di agency personale.

Determinanti personali

Determinanti comportamentali

Determinanti ambientali

Fig. 1.2 Interazione delle influenze personali, comportamentali e ambientali nella motivazione e nella regolazione del comportamento (Bandura, 2008).

L’ambiente non è confinato alle influenze fisicamente vicine. L’integrazione della teoria sociocognitiva con la teoria delle reti sociali specifica le fonti e i modelli delle influenze sociali all’interno di ampie reti sociali (Bandura, 2006b). Inoltre, i recenti e rivoluzionari progressi nelle tecnologie elettroniche, che consentono una comunicazione istantanea da un capo all’altro del mondo, hanno trasformato la natura, la portata, la velocità e i luoghi dell’influenza umana (Bandura, 2002d). Oggi le persone trascorrono buona parte della veglia nell’ambiente simbolico del cyberspazio. La vita nel cyberspazio trascende il tempo, le distanze, i luoghi, i confini


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nazionali e modifica le concezioni che abbiamo di essi. Questa tecnologia trasformativa ha espanso enormemente l’esercizio dell’agency personale e della capacità di creare ambienti personalizzati. Grazie a internet, gli individui hanno sulla punta delle dita i mezzi per trasmettere informazioni e opinioni personali in tutto il mondo, indipendentemente dal tempo e dallo spazio. La capacità di bypassare i gatekeepers fornisce la grande libertà di selezionare e creare ambienti simbolici che possono essere trasmessi via internet a un enorme numero di persone. Per giunta, oggi è possibile trascendere il proprio ambiente immediato con i microdispositivi wireless, grazie ai quali un ambiente simbolico immenso diventa portatile e può essere attivato in ogni momento e in ogni luogo. La capacità agentica, comunque, non è parte di un sistema di valori precostituito. Può essere usata a fini benigni o disumani. Le teorie psicologiche tradizionali sono state formulate molto prima di questi progressi rivoluzionari delle tecnologie informatiche. Oggi, nella nuova era elettronica, viviamo in un mondo molto diverso. Le battaglie morali adesso vengono combattute attraverso i confini nazionali da persone esperte di internet che condividono informazioni moralmente rilevanti attraverso blog, podcast e dispositivi wireless di messaggistica istantanea, senza limiti. Queste modalità di influenza globalizzate vengono usate sia al servizio del disimpegno morale sia per denunciare tali azioni immorali.

La libertà nel contesto dell’interazione triadica delle influenze L’esercizio dell’agency morale solleva alcune questioni connesse al tema della libertà e del determinismo. Dalle opinioni in proposito dipendono le valutazioni sul grado in cui gli individui possono essere ritenuti responsabili delle proprie azioni. Gli esseri umani non si limitano a reagire alle sollecitazioni esterne in modo preprogrammato o robotico. Nel modello dell’interazione triadica, hanno un ruolo causale anche le determinanti intrapersonali. Quindi, gli individui contribuiscono a determinare le condizioni che influiscono su di loro. Una concezione agentica è incompatibile con la prospettiva radicale del determinismo causale, secondo cui il comportamento umano sarebbe controllato completamente e inevitabilmente da forze esterne antecedenti. Murray Gell-Mann, che fu insignito del premio Nobel per la fisica, riconobbe acutamente la complessità causale del comportamento umano, dovuta all’intervento del pensiero nella catena causale, quando commentò: «Immaginate quanto sarebbe ardua la fisica se le particelle potessero pensare» (Gruman, 2006). Poiché le influenze intrapersonali sono parte delle condizioni determinanti, la libertà non è incompatibile con l’idea che le azioni personali siano determinate. Con la loro influenza, le persone contribuiscono a modellare gli eventi e il corso della loro vita. Nella sua analisi filosofica della causazione, Ismael (2006, 2007) sostiene efficacemente che il pensiero deliberativo e autoreferenziale produce una varietà di influenze intrapersonali capaci


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di interrompere la catena di determinazione che va dalle influenze ambientali all’azione. Il pensiero deliberativo non solo influenza le reazioni all’ambiente ma è anche un mezzo per creare e modificare gli ambienti fisici e sociali. Nella prospettiva sociocognitiva, la libertà non viene letta semplicemente in termini passivi, come assenza di limiti e coercizioni nella scelta dell’azione, ma viene vista proattivamente come esercizio dell’autoinfluenza al servizio degli obiettivi scelti e degli scenari futuri desiderati. Ad esempio, le persone hanno la libertà di votare, ma il fatto che si persuadano a farlo e il livello e la forma del loro impegno politico dipendono, in gran parte, dall’autoinfluenza che esse esercitano. Attraverso l’influenza sociale dell’azione collettiva, modificano il sistema politico e altri sistemi sociali. Oltre a regolare le proprie azioni, le persone vivono in un ambiente psichico che in gran parte sono loro stesse a generare. In questo ambito, l’autogestione della propria vita interiore consente loro di liberarsi di un flusso di pensieri sgraditi (Bandura, 1997). Lo sviluppo delle capacità agentiche permette di calare nella concretezza i discorsi su libertà e determinismo. Le persone che sviluppano le proprie competenze, abilità autoregolatorie e convinzioni abilitanti su di sé generano e perseguono una gamma più vasta di opzioni, che espande la loro libertà di azione (Bandura, 1986). Riescono inoltre a realizzare meglio gli scenari futuri desiderati rispetto a quelle con risorse agentiche meno sviluppate. Anche lo sviluppo di strategie utili a esercitare un controllo sui pensieri disturbanti e autodebilitanti è un fattore di emancipazione in termini intrapsichici. Non esiste una libertà assoluta. Paradossalmente, per ottenere una maggiore libertà, gli individui devono negoziare alcune regole di comportamento connesse ad attività specifiche, dovendo così rinunciare in parte alla loro autonomia. Senza un codice della strada, ad esempio, la circolazione stradale sarebbe caotica, pericolosa, imprevedibile e incontrollabile per chiunque. Grazie a una serie di opportune regole stradali si ha una maggiore prevedibilità ed è più facile arrivare a destinazione sani e salvi in tempi calcolabili. L’esercizio della libertà implica diritti, opzioni e mezzi per perseguirli. A livello di società, le persone stabiliscono, con un’azione collettiva, sanzioni contro le forme non autorizzate di controllo sociale (Bandura, 1986). Meno giurisdizione sociale c’è rispetto a determinate attività, maggiore è la libertà di azione in quegli ambiti. Nel momento in cui si introducono in un sistema sociale delle leggi di tutela, una società non può più fare certe cose a chi mette in discussione i valori convenzionali o gli interessi acquisiti, per quanto possa desiderarlo. Le proibizioni legali contro il controllo sociale non autorizzato creano libertà personali reali, e non più illusorie e astratte. Fra una società e l’altra esistono alcune differenze sotto il profilo delle istituzioni che favoriscono la libertà del numero e tipo di attività ufficialmente esenti dal controllo istituzionale. Ad esempio, le società che depenalizzano il dissenso, e i siste-


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mi sociali che proteggono i giornalisti dalle sanzioni penali per le critiche nei confronti dei funzionari e delle politiche del governo, sono più libere rispetto a quelle in cui il potere autoritativo può essere utilizzato per ridurre al silenzio i critici e i loro mezzi di espressione. Le società che hanno una magistratura indipendente dalle altre istituzioni governative assicurano più libertà sociale di quelle in cui il potere giudiziario è tenuto al guinzaglio.

L’interazione tra influenze sociali e autoinfluenze Le persone non operano come agenti morali autonomi, indifferenti alle realtà sociali di cui sono parte. Come prevede una struttura causale socialmente situata, la teoria sociocognitiva inquadra la moralità in una prospettiva interazionista. Quando l’individuo adotta determinati criteri morali, il comportamento produce di solito due tipi di conseguenze: esiti sociali e reazioni autovalutative. Questi effetti possono operare come influenze complementari o antagoniste sul comportamento (Bandura, 1986). In condizioni di criteri morali condivisi, l’autoregolazione della condotta morale crea il minimo di tensioni, e ciò avviene perché la condotta socialmente approvata è fonte di soddisfazione e orgoglio mentre la condotta socialmente punibile viene autocensurata. Se i criteri morali sono invece eterogenei, gli individui generalmente preferiscono frequentare persone che hanno la loro stessa forma mentis e condividono valori e criteri morali simili. Le persone compatibili assicurano un sostegno sociale al proprio sistema di autovalutazione. La frequentazione selettiva riduce il conflitto personale nella diversità sociale. Il comportamento è particolarmente sensibile alle influenze esterne quando mancano criteri interni compensativi: le persone poco fedeli ai propri criteri personali, infatti, adeguano il proprio comportamento a ciò che la situazione sembra richiedere o fanno ciò che più conviene loro (Snyder e Campbell, 1982). Nei conflitti di portata morale più vasta, non c’è conseguenza più devastante del disprezzo di sé. Se l’attrattiva delle ricompense o le pressioni sociali hanno la meglio sull’autocensura per certe azioni che l’individuo considera spregevoli, possono subentrare una mesta rassegnazione, disincanto e un atteggiamento cinico verso il proprio agire. Tuttavia, le persone escogitano vari modi per ridurre il costo dell’autosvalutazione; come ho già osservato, si può sviluppare la capacità di riconciliare la fastidiosa disparità fra i criteri personali e la condotta dissonante disimpegnando selettivamente le proprie autosanzioni morali. Alla nascita degli Stati Uniti d’America si verificò un chiaro caso di sospensione selettiva della moralità, dovuto a una forte pressione politica. La Dichiarazione di indipendenza afferma che «tutti gli uomini sono stati creati uguali» e sono provvisti di «diritti inalienabili». Ciò nondimeno, nell’abbozzare la Costituzione, i fondatori furono costretti a contravvenire ai propri principi morali rispetto al possesso di schiavi perché le economie degli Stati del Sud dipendevano fortemente dal lavoro degli schiavi. Questo blocco di Stati si valse della


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sua considerevole influenza politica per mantenere il possesso di schiavi, mentre gli Stati del Nord avevano già avviato un processo di graduale emancipazione. Questi ultimi non volevano che gli schiavi figurassero come parte della popolazione poiché li consideravano proprietà dei loro padroni e temevano che il Sud potesse avere più rappresentanti alla Camera. Gli Stati del Sud, che avevano una popolazione bianca più esigua di quella del Nord, volevano invece che fossero contati anche gli schiavi, temendo che in caso contrario gli altri avrebbero avuto la superiorità numerica alla Camera dei rappresentanti. Si giunse così a un compromesso, e i delegati della Convenzione costituzionale decisero di contare cinque schiavi come tre bianchi. Nella convinzione erronea che la schiavitù sarebbe venuta meno nei successivi due o tre decenni, i fondatori basarono così l’Unione sull’esclusione razziale, lasciando alle generazioni future una penosa eredità da correggere (Urofsky, 1988; Wood, 2009). I fondatori giustificarono il loro compromesso morale dicendo che avevano creato i meccanismi istituzionali per una successiva abolizione della schiavitù, per raggiungere la quale mancavano del necessario potere politico. Per quanto l’intento potesse essere lodevole, la strategia politica di privare un intero gruppo di persone del riconoscimento di una piena umanità ha favorito ufficialmente una visione pubblica riprovevole di quel gruppo. Alcuni firmatari della Dichiarazione di indipendenza erano proprietari di schiavi, e dovettero giustificare ai propri occhi il fatto di tenere in una condizione di schiavitù dei neri come loro proprietà. Nella sua bozza originale della Dichiarazione di indipendenza, Thomas Jefferson biasimò i commercianti britannici di schiavi per aver portato in America i neri, ma tacitamente assolse gli americani dalla responsabilità di possederli. Alcuni proprietari di schiavi furono in grave difficoltà nel giustificare il proprio comportamento, che consideravano «vergognoso per l’umanità» – come George Mason, uno dei «padri della Dichiarazione dei diritti dell’uomo» [sic], definì il commercio di schiavi (Pavao, 2014). Costoro pensavano di essere proprietari compassionevoli, che concedevano ai loro schiavi una vita migliore, date le circostanze. Alcuni di loro, come George Washington, diedero disposizioni nel loro testamento affinché i loro schiavi venissero liberati. Patrick Henry, che aveva dichiarato: «Datemi la libertà o datemi la morte», ammise la forza della convenienza nel possesso di schiavi, affermando: «Cedo alla scomodità di farne a meno». Decise così di accettare il compromesso morale senza cercare di giustificare la schiavitù: «Non posso giustificarlo, non lo farò, la mia condotta è comunque colpevole» (Pavao, 2014). La condanna vigorosa della pratica della schiavitù permise loro di considerarsi compassionevoli e di fatto consentì loro di avere degli schiavi. I Padri fondatori non erano semidei, a differenza di quanto spesso si fa credere. La lotta per l’uguaglianza continuò a lungo prima che gli schiavi venissero liberati legalmente. Il sistema legislativo e quello giudiziario messi a punto dai fondatori crearono i presupposti che permisero ad Abramo Lincoln di convincere il Congresso a ratificare il Tredicesimo emendamen-


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to, che abolì la schiavitù più di mezzo secolo dopo. Il presidente dovette cimentarsi in formidabili sfide, poiché buona parte dell’opinione pubblica non vedeva di buon occhio l’iniziativa. Perfino il suo stesso partito era profondamente diviso sulla questione, che minacciava di prolungare la terribile Guerra civile. Lincoln era un moralizzatore convinto per quanto riguarda principio cardine dell’uguaglianza razziale, ma era un uomo pragmatico quanto ai mezzi con cui realizzarlo. Si valse della sua notevole influenza e delle efficaci manovre politiche di Thaddeus Stevens, un potente membro della Camera, per portare dalla propria parte i membri del Congresso riluttanti. Si ricorse a intimidazioni, promesse clientelari di lavoro e tangenti. Nella recensione del film Lincoln, commentando questi mezzi di coercizione, A. O. Scott (2012) scrisse: «I migliori angeli fra noi hanno talvolta bisogno di incentivi terreni per emergere». Sebbene il Tredicesimo emendamento avesse abolito la schiavitù, la lotta per l’uguaglianza giuridica e la giustizia continuò. Lungo il percorso furono raggiunti molti compromessi morali che di fatto impedivano la realizzazione dei diritti umani fondamentali. Ci volle un altro secolo affinché, in seguito a un gigantesco movimento di protesta per i diritti civili, il presidente Lyndon Johnson si imponesse sul Congresso e giungesse a firmare il Civil Rights Act del 1964 che finalmente proibiva la segregazione razziale. Riflettendo su questa azione legislativa, commentò: «Abbiamo appena consegnato il Sud al Partito repubblicano, e per molto tempo» (Germany, 2010). Il ritmo del cambiamento sociale è estremamente lento quando il coraggio morale è ostacolato da costi politici ingenti. Un altro tipo di conflitto fra conseguenze sociali e personali sorge quando gli individui vengono puniti per attività cui attribuiscono un alto valore. A trovarsi in questi frangenti sono soprattutto i dissidenti e gli anticonformisti mossi da buoni principi. Il fatto che un corso di azione venga portato avanti o abbandonato dipende dal peso relativo dell’autoapprovazione e della censura opposta dall’esterno. In ogni caso, ci sono individui disposti a sacrificare la propria vita per i principi che li animano. Da adolescente, Alexander Hamilton, che sarebbe diventato uno dei fondatori degli Stati Uniti, disse che avrebbe preferito rischiare la vita piuttosto che perdere l’onore (Freeman, 2001). Quando il suo rivale politico Aaron Burr lo accusò di essere un politico subdolo, lui lo affrontò in un duello riportando una ferita che lo condusse alla morte il giorno successivo.

I modi dell’agency Le teorie dell’agency umana si focalizzano quasi esclusivamente sull’agency esercitata a livello individuale. La teoria sociocognitiva distingue invece tre modi di agency, ciascuno dei quali si fonda sulla convinzione della propria capacità di influire sul corso degli eventi con le proprie azioni (Bandura, 1997). Essi sono l’agency individuale, l’agency per procura e l’agency collettiva.


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Nell’agency individuale, le persone dirigono la propria influenza su attività su cui possono esercitare un controllo diretto. In molti ambiti di funzionamento, però, le persone non hanno un controllo diretto sulle condizioni che incidono sulla loro vita. Si affidano allora a un’agency per procura, mediata socialmente, esercitando un’influenza su chi possiede le risorse, le conoscenze e i mezzi necessari ad agire nel loro interesse, allo scopo di raggiungere i risultati che loro desiderano. I figli, ad esempio, si valgono dei genitori per ottenere quello che vogliono, i partner dei rispettivi consorti, i lavoratori dei sindacati, le aziende degli appalti e le persone in generale dei funzionari eletti. Comunque, spesso ci si rivolge ad agenti per procura anche in ambiti della vita su cui si potrebbe esercitare un controllo diretto, e si sceglie di farlo per diverse ragioni: perché non si sono sviluppate le competenze necessarie per gestire da soli determinate attività, perché si ritiene che altri possano farlo meglio, perché si desidera evitare di accollarsi pesanti richieste e stress, oppure perché non si vuole avere la responsabilità morale delle attività lesive che verranno svolte. Molti obiettivi che ci si prefigge possono essere ottenuti soltanto lavorando insieme, con un impegno interdipendente. Nell’esercizio dell’agency collettiva, si mettono in comune le conoscenze, le energie, le risorse e si agisce di concerto per modellare il proprio futuro (Bandura, 2000; Stajkovic, Lee e Nyberg, 2009). In questo modo multiagentico dell’agency collettiva, i partecipanti possono contare sull’unità degli sforzi prodigati per una causa comune, e devono coordinare sottofunzioni che vengono distribuite a una varietà di individui. A seconda delle culture, varia la particolare mescolanza di agency individuale, per procura e collettiva, ma c’è bisogno di tutt’e tre le forme di agency per riuscire nei propri intenti, quale che sia il luogo in cui si vive (Bandura, 2002d). L’allargamento della sfera dell’agency aumenta la generalizzabilità della teoria sociocognitiva, consentendone l’applicazione a società orientate collettivisticamente. Non esiste una mente di gruppo incorporea che effettui il ragionamento, il disimpegno morale e le azioni: ogni gruppo opera attraverso il comportamento dei suoi membri. Tuttavia, le convinzioni di un gruppo non sono semplicemente la somma delle convinzioni individuali dei suoi membri. L’interattività produce i cosiddetti «effetti emergenti». Sono le persone che creano un gruppo, agendo in modo coordinato sulla base di convinzioni condivise. Gli effetti emergenti possono essere descritti con l’adagio «l’insieme è maggiore della somma delle sue parti». Nella comparsa di una qualità emergente, gli elementi costituenti assumono nuove proprietà fisiche e funzionali non riducibili a tali elementi. Ad esempio, le nuove proprietà emergenti dell’acqua, come la fluidità e la viscosità, non sono semplicemente le proprietà combinate dei suoi microcomponenti idrogeno e ossigeno (Bunge, 1977). Attraverso i loro effetti interattivi, i costituenti vengono trasformati in nuovi fenomeni. Quindi, per fare un altro esempio, può darsi che i membri di un gruppo non siano particolarmente capaci come individui, ma che collettivamente riescano a lavorare in modo tale


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da far emergere il meglio da ciascuno, ottenendo ottimi risultati. Un leader trasformativo può mutare un gruppo carente in un gruppo di successo. Ciò nondimeno, non si può neppure affermare che l’agency collettiva emergente sia sempre preferibile: non di rado gruppi composti da persone piene di talento funzionano male collettivamente perché i membri non riescono a lavorare bene insieme. In un caso del genere, l’insieme è meno della somma delle sue parti. Il disimpegno morale opera a ciascuno di questi tre tipi di agency. Nel disimpegno morale a livello di agency individuale, gli individui cercano di emendare e nobilitare moralmente alcune attività nocive che ricadono nella loro sfera di controllo, spostando la responsabilità di tali attività in qualche altro punto della catena di comando. L’agency per procura viene invece usata largamente dalle organizzazioni per non assumersi la responsabilità di alcune loro politiche discutibili, generalmente attraverso gruppi di facciata per procura, che vengono fatti passare per la voce indipendente della base, del pubblico generale. La loro mission è nascosta dietro un nome fuorviante e l’identità dello sponsor non viene rivelata. I critici chiamano astroturf3 queste pseudobasi popolari e astroturfers coloro che agiscono per conto delle industrie invisibili. Non tutti gli agenti per procura operano in modo clandestino. Ci sono scienziati indipendenti e membri di istituti di ricerca costituiti e finanziati dalle industrie sponsorizzatrici che mettono in discussione l’attendibilità delle evidenze scientifiche sgradite ai loro sponsor, e che ne promuovono gli interessi alle conferenze, nella letteratura scientifica e nelle testimonianze rese ad agenzie governative. I think tanks sono gli agenti per procura d’élite. I loro membri analizzano i dati e stendono relazioni politiche che favoriscono gli interessi e le prospettive ideologiche dei loro donatori. Sono loro quelli che trovano regolarmente spazio nei mass media. Una forma di agency per procura su vasta scala, accesamente dibattuta, riguarda l’esternalizzazione, in particolare la delocalizzazione all’estero di attività industriali e di servizi ai clienti, per ridurre i costi dei salari. Qui gli agenti per procura (proxy) sono i freelance, i venditori e le fabbriche che lavorano in appalto. Tali pratiche hanno ricevuto un impulso dalla globalizzazione e da internet. Sull’etica della delocalizzazione assistiamo a battaglie vigorose fra i protezionisti e i sostenitori del libero mercato. *** I protezionisti si focalizzano sui danni prodotti da queste pratiche, e sostengono che esse fanno perdere il lavoro ai lavoratori del proprio Paese, riducono gli investimenti nella produzione nazionale e, all’estero, favoriscono lo sfruttamento dei dipendenti, costretti ad accettare condizioni poco 3

Nel marketing, l’astroturfing consiste nella creazione di un consenso artificiale intorno a un’idea o a un prodotto [Ndt].


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rispettose dei diritti umani e del diritto del lavoro. Inoltre, dal loro punto di vista, queste pratiche degradano l’ambiente nei Paesi di produzione, che spesso mancano di tutele regolatorie. Per i protezionisti, la delocalizzazione è una forma di colonialismo economico e di sfruttamento. I difensori del libero mercato, al contrario, pongono l’accento sui benefici della delocalizzazione. Ritengono che, se non si delocalizzasse, le attività produttive non potrebbero sopravvivere in un mercato altamente competitivo, cosa che creerebbe ancora maggiori perdite di posti di lavoro all’interno del Paese. Un sistema privo di vincoli, affermano, va a vantaggio di tutte le società coinvolte. Quanto alle ricadute negative, dicono, le barriere imposte al commercio e le altre politiche protezioniste distorcono e soffocano il sistema del libero mercato, con conseguenze penalizzanti per tutti. Fra le questioni etiche legate alla delocalizzazione, quelle più preoccupanti sono le condizioni di lavoro disumane e illecite. Gli esternalizzatori e i delocalizzatori etici dovrebbero stabilire standard da rispettare nei luoghi di lavoro, sorvegliare che siano rispettati e comminare sanzioni in caso di violazione. C’è una crescente tendenza, nelle guerre, ad appaltare le operazioni di sicurezza e i servizi militari rischiosi ad agenti per procura privati, i cosiddetti contractors. La delega contrattuale della responsabilità solleva questioni complesse. Chi dà le autorizzazioni? Chi va ritenuto responsabile per la condotta di dipendenti privati che svolgono operazioni rischiose esponendosi a gravi pericoli (Francioni e Ronzitti, 2011)? Le azioni effettuate da questi dipendenti sono quelle di un’azienda privata, non di uno Stato-nazione. Per giunta essi conducono tali operazioni all’estero, fuori dalla giurisdizione nazionale, e dunque non devono rispondere alle leggi dello Stato. Non è chiaro in che misura dei dipendenti privati possano essere ritenuti responsabili di abusi e violazioni dei diritti umani secondo le leggi internazionali e umanitarie. Le operazioni esternalizzate sono caratterizzate da ambigue catene di comando, da una supervisione irregolare, da deboli sistemi di regolazione e dall’imposizione di norme di comportamento e codici di silenzio rispetto alle condotte trasgressive. Sono condizioni tali da fornire un terreno fertile a corruzione e abusi. Talvolta la delocalizzazione di un prodotto controverso a un appaltatore straniero viene proibita dai dirigenti governativi del Paese ospite (Eckholm e Zezima, 2011). L’unico produttore americano di tiopental sodico, che viene usato per le esecuzioni di Stato dei condannati a morte, ne appaltò la produzione a uno stabilimento italiano, ma il governo italiano proibì che fosse esportato per compiere esecuzioni. Anche la Gran Bretagna aveva agito allo stesso modo in precedenza, e l’Unione Europea ne aveva bandito collettivamente l’esportazione. Ciò ebbe l’effetto di rendere difficili le esecuzioni capitali e, con una svolta sorprendente, la Drug Enforcement Administration si impadronì di una scorta di tiopental importato illegalmente da un fornitore britannico privo di licenza affinché lo Stato della Georgia potesse procedere alle esecuzioni che aveva in programma (Savage, 2011).


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Nell’agency collettiva posta al servizio di scopi lesivi, il disimpegno morale opera attraverso il sistema sociale in modi tali da esonerare il sistema nel suo complesso. L’agency collettiva coinvolge molti partecipanti preposti a svolgere la loro parte nel miglior modo possibile in uno schema più ampio di cose. Inoltre, la perpetrazione di inumanità su vasta scala richiede il contributo di tipi diversi di professionisti, in sistemi sociali diversi, che agiscano di concerto in modi moralmente disimpegnati. Ad esempio, l’industria del tabacco, i cui prodotti uccidono quasi mezzo milione di persone all’anno solo negli Stati Uniti, dipende da una vasta rete di collaboratori che non hanno scrupoli di coscienza per la produzione e la vendita di tali prodotti tossici. Gran parte della sospensione della moralità nelle pratiche lesive che analizzerò nei capitoli seguenti avviene collettivamente al livello dei sistemi sociali.

Determinanti fortuite dei percorsi di vita Le persone fanno molte cose programmate per modellare il corso della loro vita, ma spesso esso dipende dagli effetti di eventi casuali. Infatti, alcune delle determinanti più significative dei percorsi di vita sono frutto del caso (Bandura, 1982; Merton e Barber, 2004). Un editor entra in una sala che si sta riempiendo rapidamente per ascoltare una conferenza sulla psicologia degli incontri casuali e dei percorsi di vita, adocchia una sedia vuota vicino all’ingresso e poi finisce per sposare la donna che va a sedersi accanto a lui. Se solo fosse entrato due minuti prima o due minuti dopo si sarebbe seduto in un altro posto, e la vita di tutti e due avrebbe seguito un corso differente. In un caffè di Guatemala City, Diana, sensibile e generosa volontaria di Voluntary International Service Assignments (VISA), conosce per caso Howard, un cinico visiting scholar americano. Conversando con lei sulla necessità di un cambiamento sociale radicale, lui la pone sulla strada che la condurrà a Weather Underground.4 Diana perderà la vita confezionando una bomba in un’abitazione del Greenwich Village (Franks e Powers, 1970). Se non fosse stato per quell’incontro casuale, la vita di Diana con ogni probabilità avrebbe continuato il suo corso pacifico. Più avanti, analizzando il disimpegno morale nel terrorismo, esamineremo più dettagliatamente come si fosse innescato il disimpegno morale in questa persona tanto compassionevole. In casi del genere un evento apparentemente banale, fortuito, mette in moto costellazioni di influenze che indirizzano la direzione della vita in meglio o in peggio. Un incontro sociale fortuito è un incontro involontario fra persone che non si conoscevano. I singoli percorsi hanno ognuno le sue determinanti, e restano causalmente indipendenti fra loro finché non si incrociano; a quel punto l’incontro genera una particolare convergenza di influenze che può modificare il corso della vita delle persone coinvolte. Nella vita quotidiana 4

Organizzazione della sinistra radicale statunitense [Ndr].


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esiste una miriade di catene di eventi distinte e una miriade di opportunità di simili incontri fortuiti. Quand’anche conoscessimo tutte le condizioni determinate che agiscono su particolari individui, non potremmo prevedere il punto di confluenza di eventi socialmente disconnessi. Nel mondo naturale, le scienze fisiche riconoscono l’indeterminazione al livello della meccanica dei quanti. Nelle scienze comportamentali, gli eventi fortuiti introducono un elemento di indeterminazione. La maggior parte degli eventi fortuiti non altera la vita delle persone, altri hanno conseguenze in qualche modo durevoli, altri ancora producono nuove traiettorie di vita. La scienza psicologica non è in grado di predire il verificarsi di incontri fortuiti, tuttavia le propensioni personali, il tipo di ambienti intersecati e il tipo di persone che popolano quegli ambienti rendono alcuni tipi di incontri più probabili di altri. Il fatto che certi eventi siano fortuiti non significa che i loro effetti siano incontrollabili. Gli eventi fortuiti possono essere imprevedibili ma, una volta avvenuti, le condizioni che essi creano incominciano a influenzare i processi causali allo stesso modo in cui lo fanno gli eventi concepiti intenzionalmente. La psicologia può quindi favorire la conoscenza degli effetti degli eventi fortuiti sui percorsi di vita. In varie linee di ricerca, infatti, le caratteristiche personali e le proprietà degli ambienti in cui gli individui entrano casualmente sono predittori interattivi della probabile natura, portata e forza degli effetti degli incontri casuali sulla vita delle persone (Bandura, 1982, 1986). Questi studi ambiscono ad applicare all’accidentalità della vita i metodi scientifici di studio.

La natura della natura umana Le concezioni della natura umana non sono solo una questione filosofica. Quando si agisce in base a esse, assumono importanti conseguenze sociali e morali. Nell’ambito morale, da esse può dipendere se le persone credono di avere un qualche controllo sul loro agire e possono derivare i tipi di attribuzioni causali che fanno e il loro senso di responsabilità morale per la propria condotta. Nell’antica teologia, la natura umana era imposta da un originario disegno divino. Avendo ricevuto da Dio la facoltà del libero arbitrio, gli individui erano liberi di scegliere come comportarsi, quasi avessero un’agency assoluta. Il libero arbitrio è un’enigmatica forza autonoma che si autonega nel suo stesso funzionamento. Infatti, se gli individui dispongono del libero arbitrio, perché scelgono di seguire la via sbagliata in presenza di influenze negative? Un libero arbitrio autonomo che soccomba a influenze deleterie è una contraddizione in termini. Nel corso degli anni, questa designazione erronea è stata al centro di numerosi accesi dibattiti. L’evoluzionismo ha trasformato la concezione della natura umana asserendo che essa è modellata dalle pressioni ambientali che agiscono


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sulle mutazioni genetiche casuali e sulle ricombinazioni riproduttive. In questo processo non teleologico non ci sono piani e fini prestabiliti. In questa prospettiva, la natura umana è il frutto di brute forze ambientali. Tuttavia, l’evoluzione del cervello ci ha fornito delle strutture neuronali che ci consentono di sostituire l’agency cognitiva a una cieca selezione ambientale. La comparsa del linguaggio e della capacità simbolica di comprendere, predire e modificare il corso degli eventi fornisce considerevoli vantaggi funzionali. Grazie al potere del pensiero anticipatorio, i nostri antichi predecessori si sono evoluti fino a diventare una specie senziente e agentica. Una raffinata capacità simbolica ha permesso agli esseri umani di trascendere il dettato dell’ambiente circostante e ha conferito loro un potere unico di modellare il loro ambiente e le loro traiettorie di vita. Grazie all’autoregolazione cognitiva, gli esseri umani possono immaginare degli scenari futuri che agiscono nel presente come guide e fonti di motivazione per il comportamento intenzionale; possono mettere ordine nelle loro preferenze sulla base dei loro valori personali; possono costruire, valutare e modificare corsi di azione alternativi per ottenere risultati personalmente importanti; e, se necessario, possono prevalere sulle influenze ambientali. Abbiamo già visto come gli individui contribuiscano alla qualità del loro funzionamento e alle circostanze della loro vita nel contesto di un’interazione reciproca di influenze personali e ambientali.

La natura come determinista o potenzialista L’evoluzione biologica fornisce strutture corporee, sistemi di elaborazione delle informazioni e altre potenzialità fisiche. Le influenze psicosociali operano attraverso queste dotazioni biologiche per promuovere l’autosviluppo, l’adattamento e il cambiamento. In un’acuta analisi, Stephen Jay Gould (1987) rileva che la più importante battaglia esplicativa non riguarda il peso relativo di natura e cultura come comunemente si ritiene bensì, piuttosto, il fatto che la natura operi con un determinismo che controlla la cultura in modo stretto, come sostenuto da Edward Wilson (1998), o in modo potenzialista, con un controllo meno serrato, come sostiene Gould (1987). I dati disponibili supportano la prospettiva potenzialista. Gli esseri umani hanno creato società di varia natura: aggressive o pacifiche, egualitarie o dispotiche, altruistiche o egoistiche, individualistiche o collettivistiche, illuminate o retrograde. L’aggressività porta a molti atti disumani. Poiché essa ha un ruolo di primo piano nel disimpegno dalle autosanzioni morali, la valutazione della sua natura riveste una particolare importanza. L’aggressività è spesso considerata il primo esempio di tratto innato e universale. Questa visione afferma che le crudeltà che le persone si infliggono vicendevolmente hanno una base genetica. Nel valutare il ruolo dei fattori biologici nell’aggressività è importante distinguere fra i regolatori prossimali del comportamento aggressivo, di tipo ormonale e neuronale, e le influenze cognitive e sociali


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che controllano tali meccanismi biologici. La differenza fra i livelli biologici e sociostrutturali del controllo è illustrata efficacemente negli studi sul comportamento aggressivo di primati in contesti sociali che danno validità ecologica alla ricerca. La stimolazione elettrica dell’ipotalamo in prossimità del nucleo ventromediale generalmente suscita comportamenti di attacco negli animali. In uno studio ingegnoso, Delgado (1967) ha incluso una determinante sociale nella ricerca, che ha gettato nuova luce sul controllo ipotalamico dell’aggressività. L’autore ha osservato il comportamento sociale di una colonia di scimmie in condizioni normali e nei casi in cui alcuni membri selezionati, con elettrodi impiantati nel cervello, ricevevano stimolazioni elettriche radiotrasmesse. La stimolazione ipotalamica di una scimmia dominante nella colonia la induceva ad attaccare altri maschi, ma non le femmine, né i suoi subordinati maschi di rango immediatamente inferiore con cui aveva rapporti amichevoli. Quel che più colpisce è che la stimolazione elettrica della medesima regione cerebrale specializzata può suscitare comportamenti notevolmente differenti nello stesso animale quando il suo rango sociale viene modificato semplicemente cambiando la composizione della colonia. La stimolazione ipotalamica di una femmina al gradino più basso ha suscitato un atteggiamento timoroso e sottomesso anziché aggressività. Tuttavia, quando il suo rango è stato elevato, semplicemente rimpiazzando i membri dominanti con altri subordinati, se veniva sottoposta a stimolazione ipotalamica lei li picchiava. Quindi, la stimolazione della stessa zona del cervello provocava aggressività o sottomissione a seconda del livello di potere sociale dell’animale. Le relazioni di potere modulano in modo analogo gli effetti di certe sostanze sull’aggressività (Martin, Smith e Byrd, 1990). In una scimmia dominante, dosi elevate di amfetamina hanno aumentato l’aggressività, mentre le amfetamine somministrate a una scimmia con ruolo subordinato hanno ridotto il comportamento aggressivo. I risultati di questi studi sottolineano l’importanza di situare la ricerca sulla regolazione biochimica e neuronale dell’aggressività nel contesto delle relazioni di potere e tenendo conto di altre determinanti sociali dell’aggressività. Alcuni studi etnografici sulla diversità riscontrabile nelle varie culture evidenziano chiaramente il ruolo delle influenze socioculturali nelle manifestazioni di aggressività umana. Le variazioni considerate, che permettono di contestare l’idea del carattere innato dell’aggressività, hanno tre forme: diversità interculturale, diversità intraculturale e cambiamento sociale trasformativo. Alcune culture bellicose alimentano i comportamenti aggressivi con processi diffusi di modellamento, connettendoli al prestigio e attribuendo loro un valore funzionale per l’acquisizione di status sociale, benefici materiali e potere. In altre culture, di carattere pacifico, l’aggressività interpersonale è un evento raro poiché è svalutata, ci sono poche opportunità per apprenderla attraverso l’osservazione di modelli ed è priva di valore funzionale (Alland, 1972; Bandura, 1973).


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Un esempio di società guerriera sono i Dugum Dani, che vivono negli altipiani della Nuova Guinea (Gardner e Heider, 1969). Nella cultura tradizionale Dani gli uomini dei villaggi, separati fra loro da terre coltivate, ingaggiavano regolarmente guerre fra tribù, una delle attività di maggiore valore sociale nella vita della comunità. I Dani non lottavano per la terra, il cibo, le risorse, i partner o per soggiogare i rivali, poiché la lotta era posta al servizio di obiettivi sociali e spirituali. La guerra dei Dani, fortemente regolamentata negli aspetti formali, avveniva in appositi campi di battaglia adiacenti ai villaggi. C’erano sentinelle che vigilavano in continuazione dalle loro alte torri per proteggersi dalle imboscate nemiche. Gran parte della vita dei Dani ruotava attorno alla guerra e comprendeva lunghi turni di guardia, fabbricazione di armi, il taglio dei prati, finalizzato a prevenire le imboscate, e rituali magici intesi a rafforzare i sistemi di difesa. Le battaglie ufficiali avevano inizio con urla di sfida nella terra di nessuno. Dopo alcuni confronti rituali fra gruppi di guerrieri in avanscoperta i combattenti, armati di lance, archi e frecce, sferravano brevi offensive mortali per tutto il giorno. Sebbene l’origine di questa guerra istituzionalizzata resti sconosciuta, i combattimenti venivano sollecitati e perpetrati soprattutto per paura della rappresaglia da parte di spiriti invendicati. Erano voluti da agenti spirituali che minacciavano sanzioni severe. I Dani credevano che, quando un guerriero ucciso fosse stato cremato, ne sarebbe emerso uno spettro dotato del potere di provocare incidenti, malattie, raccolti scarsi e altre calamità per i parenti rimasti in vita fino a che non fosse stata perpetrata una vendetta togliendo la vita a un nemico. Un altro metodo per placare gli spiriti maligni consisteva nell’amputare e bruciare il dito di una ragazzina. Oltre alle minacce degli spettri non vendicati, a motivare la lotta c’erano gli incitamenti delle donne che chiedevano vendetta per la morte dei familiari e la ricompensa di uno status superiore conferito ai bravi guerrieri. I ragazzi Dani venivano sottoposti a un programma di addestramento progressivo per imparare a essere guerrieri, un programma sorprendentemente efficace di allenamento e apprendimento (Bandura, 1997). Tale addestramento comprendeva una formazione, il perfezionamento delle abilità in condizioni simulate e un programma di applicazione graduale in cui i giovani esercitavano le abilità recentemente acquisite nel contesto di scenari progressivamente più impegnativi. I polinesiani tradizionali delle Isole della Società, di cui fa parte Tahiti, presentavano differenze marcate rispetto ai Dani nella socializzazione dell’aggressività (Levy, 1969). Infatti, nella società tahitiana, c’erano pochissime occasioni di apprendimento osservativo del comportamento aggressivo ed esso era piuttosto svalutato. Diversamente dal sistema di credenze dei Dani, gli spiriti ancestrali erano castigatori invece che fomentatori di aggressività. I tahitiani erano persone affabili e difficili alla collera, che passavano sopra a qualunque malumore o rancore e che non presentavano alcuna aggressività vendicativa e ostile. Erano del tutto restii a


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creare situazioni generatrici di rabbia e, quando esprimevano aggressività, in genere lo facevano a parole piuttosto che con scontri fisici. Nelle occasioni infrequenti in cui mettevano in atto aggressioni fisiche, lo facevano con danni estremamente limitati e con modalità volutamente inoffensive. Fin dalla più tenera età, i tahitiani imparavano a temere le conseguenze del montare della rabbia e delle azioni aggressive. Sostenevano che la rabbia avesse effetti tossici sul corpo e che per questo motivo bisognasse evitarla. Se provocati, i tahitiani credevano che le minacce da loro proferite avrebbero risvegliato gli spiriti ancestrali, i quali avrebbero potuto punire il provocatore. La capacità di anticipare le conseguenze avverse alimentava un comportamento conciliatorio persino in situazioni altamente irritanti. Benché i genitori all’inizio permettessero un’aggressività simulata ai bambini piccoli, scoraggiavano energicamente le azioni suscettibili di arrecare danni e la rabbia prolungata. Il controllo dell’aggressività veniva conseguito soprattutto con le minacce di punizione, che sarebbe giunta specialmente per l’intervento degli spiriti, che avrebbero punito gli aggressori facendoli ammalare o con qualche altro risultato nocivo. Poiché la cultura tahitiana forniva scarse opportunità per apprendere comportamenti aggressivi e negava il valore funzionale di tali comportamenti, l’aggressività ha sempre rivestito un ruolo minore nello stile di vita locale. Si potrebbero citare molti altri esempi di società differenti che generano nature differenti. Negli ambienti culturali in cui l’aggressività interpersonale viene scoraggiata e svalutata, mentre l’affabilità e la propensione a cooperare sono considerate comportamenti funzionali, le persone vivono in pace (Alland, 1972; Lantis, 1959; Mead, 1935; Turnbull, 1961). In altre società, che forniscono un cospicuo addestramento all’aggressività e che le conferiscono valore funzionale, le persone trascorrono una gran quantità di tempo minacciandosi, combattendosi, mutilandosi e uccidendosi a vicenda (Bateson, 1941; Chagnon, 1968; Whiting, 1941). Il fatto che pratiche culturali divergenti diano vita a nature umane differenti è ulteriormente dimostrato mettendo a confronto gli stili di vita di persone che coesistono per secoli in diverse regioni della stessa nazione. Pratiche di socializzazione dissimili hanno prodotto caratteristiche marcatamente differenti in diversi popoli nativo-americani. Gli Apache e i Comanche insegnavano ai figli a essere valenti guerrieri (Goodwin, 1942; Linton, 1945), mentre gli Hopi e gli Zuni, che avevano stili di vita pacifici, insegnavano ai figli ad avere atteggiamenti gentili (Goldfrank, 1945). Esistono forti differenze interculturali anche rispetto al fenomeno della violenza sessuale. Nel suo studio interculturale sulla prevalenza dello stupro, Sanday (1997) ha rilevato che la violenza sessuale è espressione di una ideologia culturale di dominanza maschile. Lo stupro è diffuso nelle società dove la violenza è un modus vivendi, la supremazia maschile viene custodita gelosamente, le donne sono trattate come una proprietà e la sessualità aggressiva è un segno importante di virilità. Nelle culture inclini allo stupro, quest’ultimo viene accettato socialmente; in alcune società,


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viene persino celebrato moralmente come un atto di onore per riparare la dignità di una famiglia offesa. Lo stupro è raro invece nelle società che ripudiano l’aggressività, che apprezzano l’uguaglianza di genere e che trattano le donne in modo rispettoso. Per contro, sia gli stupratori, sia gli uomini che ammettono che potrebbero stuprare una donna se fossero certi di non essere scoperti, credono nei miti dello stupro (Burt, 1980; Check e Malamuth, 1986), in cui possiamo riconoscere alcuni dei meccanismi del disimpegno morale: le vittime sono ritenute responsabili di indurre allo stupro con un abbigliamento seducente e un comportamento provocante, screditate come promiscue o depravate, e incolpate di invitare inconsciamente allo stupro poiché per loro i maltrattamenti sarebbero sessualmente stimolanti. Anche la diversità intraculturale mette in discussione l’idea che l’aggressività sia un aspetto innato della natura umana. Benché gli Stati Uniti abbiano la loro quota non trascurabile di violenza, i quaccheri, pur facendo parte della cultura comune, adottano la nonviolenza come modus vivendi. La prova più pregnante che si possa contrapporre all’idea che l’aggressività sia un tratto innato è la trasformazione di intere nazioni da società guerresche a società pacifiche. Un tempo gli svizzeri erano i maggiori procacciatori di mercenari in Europa ma, da quando il loro Stato è diventato una società pacifica, conservano un esercito in forza destinato solo a missioni di pace o umanitarie (Swiss Armed Forces, s.d.). Forse l’aspetto più noto del loro passato bellicoso è quello delle uniformi sgargianti delle guardie svizzere vaticane. Anche gli svedesi hanno saccheggiato per decenni altre nazioni. Una preghiera diceva: «Liberaci, o Signore, dalla furia degli scandinavi». Dopo una lunga guerra contro la Russia, che prosciugò le risorse della nazione, il popolo svedese insorse e obbligò lo Stato a una modifica costituzionale che proibiva ai re di imbarcarsi in altre avventure militari (Moerk, 1995). Questo atto politico ha trasformato una società militaristica in una società pacifica. Oggi la Svezia è un mediatore di pace fra nazioni in guerra e, in linea con il suo ethos pacifico, c’è scarsa violenza nella sua società. La diversità culturale e il rapido cambiamento trasformativo delle società supportano la prospettiva secondo cui la risposta all’aggressività umana riposa più nell’ideologia che nella biologia. La prospettiva del determinismo biologico soffre di problemi ancora più spinosi a causa della rapidità dei cambiamenti sociali. Le persone sono cambiate poco sotto il profilo genetico nell’ultimo millennio, ma sono cambiate moltissimo nelle convinzioni, i costumi, i ruoli sociali e occupazionali, le situazioni di coabitazione, le pratiche familiari e gli stili di comportamento perfino negli ultimi decenni, attraverso un’evoluzione molto rapida sia culturale, sia tecnologica. Dobzhansky (1972) ha sostenuto in modo convincente che gli esseri umani sono una specie generalista, che la natura ha selezionato per la sua capacità di apprendere e per la malleabilità del suo comportamento, non per la fissità comportamentale. I segni distintivi della natura umana sono la modificabilità e la capacità agentica,


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per quanto esse non siano illimitate. A causa di una programmazione innata limitata, gli esseri umani hanno bisogno di un periodo prolungato di sviluppo per padroneggiare le competenze essenziali. Inoltre, i vari periodi della vita pongono nuove necessità di competenza che richiedono un autorinnovamento periodico, se si vogliono vincere le sfide poste dai cambiamenti delle situazioni esistenziali (Bandura, 1997). A rendere ancora più necessaria la capacità di cambiare contribuisce il fatto che le epoche in cui le persone vivono introducono enormi innovazioni tecnologiche, mutamenti nelle condizioni socioeconomiche, modificazioni culturali radicali e cambiamenti politici che rendono la vita marcatamente diversa e impongono nuovi adattamenti vantaggiosi (Elder, 1994). Questi diversi cambiamenti adattivi vengono effettuati con mezzi psicosociali. Le diverse concezioni della natura umana hanno importanti implicazioni politiche. I deterministi biologici sposano una prospettiva conservatrice della società, che enfatizza il dominio della natura, le costrizioni e le limitazioni intrinseche. Essi sostengono che le persone non dovrebbero cercare di modificare se stesse e le loro società contro il dominio della natura per come i deterministi lo interpretano. I potenzialisti biologici attribuiscono invece maggior peso al fatto di stabilire condizioni sociali che promuovano lo sviluppo personale e il cambiamento della società, ed enfatizzano le possibilità umane e il modo di realizzarle. Secondo Gould (1987), il determinismo biologico viene spesso formulato dai suoi sostenitori con il linguaggio dell’interazionismo, per renderlo più gradito. Si ammette la coevoluzione bidirezionale biologia-cultura, ma poi si attribuisce il ruolo dominante alla dotazione biologica, senza prestare la dovuta attenzione al versante culturale di questa causazione a due vie. Gould rileva inoltre che il determinismo biologico è spesso mascherato dal linguaggio della modificabilità. Viene riconosciuta la malleabilità delle disposizioni, ma poi la potenza determinativa a esse ascritta viene limitata, circoscrivendo gli sforzi al cambiamento delle situazioni e delle pratiche sociostrutturali. Per contro, la teoria sociocognitiva è radicata in una concezione agentica della natura umana e, in quanto tale, è conforme alla prospettiva potenzialista della dotazione biologica.

La crescente supremazia dell’agency umana nel processo di coevoluzione Le persone non sono semplicemente il prodotto passivo della selezione operata dalle pressioni ambientali in un processo evoluzionistico unilaterale. Non solo sono gli attori principali del processo di coevoluzione, ma acquistano influenza nel processo di condeterminazione modificando le proprie condizioni di vita a una velocità impressionante. Altre specie sono fortemente programmate in modo innato, e si specializzano in un repertorio comportamentale stereotipato adatto a sopravvivere in un particolare habitat. Al contrario, attraverso l’azione agentica, gli esseri umani trovano il modo di adattarsi flessibilmente ad ambienti assai diversi sotto


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il profilo geografico, climatico e sociale. Riescono a vivere persino in zone inabitabili portando con sé degli ambienti abitabili; ad esempio, navicelle spaziali o sottomarini. Inoltre, trovano il modo di trascendere i propri limiti biologici; l’uomo, ad esempio, non si è evoluto morfologicamente per volare, eppure riesce a librarsi in aria, e persino nell’ambiente privo di aria dello spazio, viaggiando a velocità folle. Per spostarsi in aereo e coprire vastissime distanze in volo, gli esseri umani hanno fatto ricorso alla loro inventiva agentica, applicando i principi aerodinamici per avere la meglio sul proprio progetto biologico. Le persone usano l’ingegno per eludere le pressioni della selezione ambientale e proteggersene. Creano tecnologie tali da compensare enormemente i limiti delle loro limitate capacità sensoriali e fisiche. Giusto per fare un esempio, non possono trasportare un gran peso con il proprio corpo, ma possono sollevare tonnellate servendosi di giganteschi carrelli elevatori a forca. Costruiscono e ridisegnano ambienti complessi secondo i loro desideri, molti dei quali sono capricci e mode creati socialmente per mezzo di seducenti pratiche di marketing. Creano complessi stili di comportamento necessari a prosperare in sistemi sociali sofisticati. Attraverso il modellamento sociale e altre forme di guida sociale, trasmettono alle generazioni successive la conoscenza e le pratiche efficaci che hanno accumulato. Trascendono il tempo, lo spazio e le distanze interagendo in tutto il mondo con l’ambiente virtuale del cyberspazio. Grazie a tale inventiva, aumentano le loro probabilità di successo nel gioco biopsicosociale dell’adattamento. L’aumento di conoscenza sta estendendo sempre di più il potere umano di controllare, trasformare e creare ambienti di complessità e importanza crescenti. Questo potere creativo si estende persino alla modificazione delle caratteristiche biologiche. Attraverso ingegnosi metodi contraccettivi, che disgiungono la sessualità dalla procreazione, gli esseri umani hanno vinto con l’astuzia i propri sistemi riproduttivi e ne hanno assunto il controllo impedendo la fecondazione. Stanno sviluppando tecnologie riproduttive per riuscire addirittura a separare la sessualità dalla fecondazione. Attraverso l’ingegneria genetica gli esseri umani stanno creando nature biologiche, anziché aspettare i lenti processi dell’evoluzione naturale. Oggi sostituiscono geni difettosi con geni modificati e alterano la struttura genetica di piante e animali impiantando geni provenienti da altre fonti. Piante indigene uniche che si sono evolute nell’arco di millenni stanno sparendo poiché l’agribusiness le sostituisce con cloni e ibridi geneticamente uniformi. Gli umani non stanno solo tagliando e cucendo il materiale genetico della natura ma, con la biologia sintetica, stanno anche creando nuovi tipi di genomi. In una nuova forma di biotecnologia, che spinge per bypassare i processi genetici evolutivi, gli esseri umani stanno perfino giocando con la prospettiva di plasmare alcuni aspetti della propria natura biologica progettandoli geneticamente. Insomma, gli esseri umani sono una specie agentica che può modificare l’eredità dell’evoluzione e forgiare il futuro.


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Se Darwin potesse scrivere oggi, documenterebbe la schiacciante dominazione degli umani sull’ambiente, anche se non sappiamo se i risultati di questa miglioreranno o peggioreranno lo stato delle cose. Se qualcosa è tecnologicamente possibile, è probabile che verrà tentata da qualcuno. Possiamo aspettarci un aumento degli sforzi volti alla costruzione sociale della nostra natura biologica attraverso l’ingegneria genetica, e questi sviluppi ci pongono di fronte alla grande sfida di tenere a freno una manipolazione genetica senza limiti (Baylis e Robert, 2004). Ciò che diventeremo e il corso che daremo al nostro destino dipenderanno in larga misura dai nostri valori e criteri morali e dai sistemi sociali che escogiteremo per sorvegliare l’uso del nostro potere tecnologico. Concepire gli esseri umani come una specie malleabile non significa negare loro una natura (Midgley, 1978), una struttura e dei limiti biologici. È vero semmai il contrario. La modificabilità intrinseca alla natura umana dipende da strutture e meccanismi neurofisiologici che si sono evoluti nel tempo. Questi sistemi neurali progrediti si sono specializzati nel canalizzare l’attenzione, scoprire strutture causali nel mondo esterno, trasformare le informazioni in rappresentazioni astratte, e integrare e usare la conoscenza per scopi adattivi. Tali sistemi evoluti di elaborazione delle informazioni ci conferiscono proprio la capacità necessaria alle caratteristiche agentiche più distintamente umane: la simbolizzazione generativa, la comunicazione simbolica, il pensiero anticipatorio, l’autoregolazione e l’autocoscienza riflessiva. Né la supremazia umana agentica nel processo di coevoluzione, né le modificazioni sociali così rapide a cui assistiamo oggi sarebbero possibili senza la dotazione biologica delle capacità cognitive astratte. La teoria sociocognitiva evidenzia l’impatto proattivo della nostra dotazione biologica, invece di formulare speculazioni post hoc sul modo in cui i nostri antenati preistorici si sono adattati a condizioni primitive a noi sconosciute. Lo studio di come gli esseri umani coltivano le loro potenzialità, aggirano le costrizioni biologiche e modellano il proprio futuro con l’evoluzione sociale e tecnologica fornisce uno schema concettuale alternativo per chiarificare l’interazione dei fattori biologici e psicosociali nell’autosviluppo, l’adattamento e il cambiamento dell’uomo. La teoria sociocognitiva fornisce anche uno schema concettuale per analizzare l’effetto delle considerazioni morali sull’utilizzo di tali tecnologie biologiche trasformative.

La teoria sociocognitiva della moralità Sono state proposte svariate teorie morali, fondate su principi morali diversi, per giudicare la correttezza o l’erroneità della condotta. Tale pluralismo morale include, fra gli altri principi, la giustizia sociale, i doveri, la benevolenza e l’equità oltre a svariate combinazioni di essi. Fra gli studiosi dei grandi principi morali non c’è accordo su un principio universale che


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governi il comportamento morale di tutti, in ogni cultura, in qualunque condizione. In realtà, viviamo vite morali basate su una moltitudine di principi. La maggior parte delle teorie tradizionali riguarda solo alcuni aspetti della regolazione del comportamento morale. Si tende a focalizzarsi quasi interamente sulla componente cognitiva della moralità e ad attribuire al pensiero morale un potere decisivo. Ad esempio, i sostenitori del razionalismo in genere hanno poco da dire sui meccanismi con cui i criteri morali vengono tradotti in condotte morali. Ciò dipende dal fatto che i razionalisti ritengono che le persone facciano quel che sono obbligate a fare. Secondo la teoria deontologica, ad esempio, la condotta morale è governata dall’ottemperanza ai principi adottati indipendentemente dalle circostanze e dalle conseguenze morali. Se però consideriamo il cospicuo disimpegno morale ampiamente documentato da questo volume, notiamo che le persone non si attengono così strettamente ai principi morali che sposano in linea teorica, e non è affatto infrequente che si avvalgano dei più svariati mezzi psicosociali per aggirarli. Il più importante sostenitore del metodo razionalistico come mezzo per scoprire la massima giustizia è stato Immanuel Kant (Guyer, 1998). Nella sua qualità di difensore di un determinismo cognitivo forte, Kant riteneva che solo l’analisi razionale dei concetti morali fosse il metodo appropriato per scoprire i principi fondamentali della moralità. Allorché un principio morale cardinale viene rivelato dalla ragione, viene consacrato da una volontà razionale e autonoma come un comandamento che deve essere accettato universalmente e applicato in modo incondizionato. In questo assolutismo morale, ciò che si è obbligati a fare in ossequio al dovere della regola morale prevale su qualsiasi altra influenza. Ad esempio, «Non si deve mentire» è una regola morale universale che deve essere rispettata solo per amor della ragione e in ogni circostanza, indipendentemente dalle conseguenze che possono derivarne. Ciò nondimeno, una teoria del razionalismo morale assoluto è in contrasto con l’esercizio della moralità nella vita quotidiana. Non esiste qualcosa come un’agency autonoma che sia impermeabile alle influenze ambientali. L’agency autonoma è un’illusione. Nel gestire le situazioni morali difficili, non si aderisce inflessibilmente ai propri principi morali prescindendo dalle circostanze. Basti ricordare la partecipazione affettiva del comandante nazista per suo padre e la sua insensibile barbarie nei confronti del prigioniero, un vivido esempio della condizionalità della moralità basata sull’inclusione o sull’esclusione di un individuo dalla categoria «umanità». Nel disimpegno morale, le persone usano il ragionamento per nobilitare attività nocive e per allontanare da sé la responsabilità rispetto a esse. Kohlberg (1984) ha adottato il modello razionalistico della moralità in una teoria degli stadi di sviluppo basata sulla teoria dello sviluppo cognitivo di Piaget. Quando la teoria di Piaget era particolarmente in voga, la teoria di Kohlberg fu il punto più alto di riferimento della ricerca sullo sviluppo


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della moralità, ma con il tempo cominciò a ricevere critiche per il fatto di sostenere che fosse solo la ragione a determinare la condotta morale, riducendo la moralità alla giustizia sociale e perdendo di vista il legame fra il ragionamento morale e l’azione morale. In realtà la condotta morale è troppo varia, è determinata da troppi fattori ed è troppo selettivamente indissolubile dalle autosanzioni per essere spiegata adeguatamente in termini di forme di ragionamento ordinate gerarchicamente. Fondamentalmente, la progressione per stadi nel ragionamento morale fa emergere giustificazioni sempre più sofisticate per il comportamento in svariate situazioni moralmente difficili. E non è detto che livelli più alti di «maturità» morale predicano un impegno maggiore nei confronti di una condotta benigna. Ciò dipende dal fatto che le giustificazioni, a qualunque livello si pongano, possono essere usate al servizio di attività sia lesive sia benevole. Nel suo libro The Best and the Brightest, David Halberstam (1972) racconta come alcuni consulenti presidenziali animati dai migliori principi, che avevano appreso i valori cardinali nelle università più prestigiose, abbiano fatto impegolare inestricabilmente la loro nazione nella disastrosa guerra con il Vietnam. La giustificazione alla base di questa azione dissennata era la teoria metaforica del domino, secondo cui tutte le deboli nazioni vicine sarebbero cadute in mano ai comunisti. Alcune concezioni della moralità si basano sull’etica della virtù (Hursthouse, 2012). Questo approccio si focalizza sul carattere della persona più che sui principi morali. Le virtù presenti nel carattere possono essere giustizia, onestà, integrità, lealtà, generosità e consimili. Nell’etica della virtù, il carattere di una persona è profondamente radicato in una disposizione generalizzata. Quindi, in questa prospettiva, gli individui dotati di un carattere virtuoso aderiscono alla condotta morale in circostanze che possono variare. Secondo l’etica della virtù, un comportamento buono discende naturalmente dalle virtù morali. Ma la realtà non è così semplice. L’attribuzione causale al carattere morale è più descrittiva che esplicativa. I sostenitori dell’etica della virtù dovrebbero spiegare attraverso quali meccanismi ciò che una persona è motiva e regola ciò che essa fa. Si tratta di una lacuna esplicativa difficile da colmare. L’etica della virtù è essenzialmente una teoria disposizionale della moralità. Le teorie che attribuiscono alle disposizioni un assoluto potere di controllo sulla condotta predicono una coerenza del comportamento morale indipendente dal variare di situazioni e scenari di vita maggiore di quella effettivamente osservabile (Bandura, 1999). In realtà, gli individui virtuosi possono comportarsi male sotto l’influenza di certi fattori sociali, o perfino porre le loro virtù al servizio di mezzi violenti finalizzati al perseguimento di scopi ideologici o religiosi. Quando vengono usati mezzi violenti per fini positivi, le virtù entrano in conflitto, perché fare del male è moralmente reprensibile, ma migliorare il benessere delle persone è moralmente lodevole. La teoria del disimpegno morale risolve il conflitto fra virtù e danno indicando i vari meccanismi psicosociali che permetto-


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no alle persone virtuose di comportarsi in modo nocivo, continuando a considerarsi rette. Benché le virtù siano considerate determinanti importanti del comportamento nelle varie situazioni, i teorici dell’etica della virtù riconoscono che gli individui virtuosi non sono infallibili. Essi attribuiscono i loro comportamenti nocivi a mancanza di conoscenze e di saggezza pratica, che maturano con l’esperienza di vita. Questi fattori condizionali vengono chiamati «comprensione situazionale» (Hursthouse, 2012). Se la saggezza pratica e la conoscenza comprendono le probabili conseguenze di determinati corsi di azione, allora l’etica della virtù adotta alcuni aspetti del consequenzialismo, in cui la correttezza di un atto viene valutata sulla base del bene che produce. Esistono vari tipi di virtù. In mancanza di un accordo su quali di esse siano moralmente rilevanti e in assenza di misure valide della saggezza pratica e delle aspettative di risultato, la teoria non può essere sottoposta a verifica empirica. Inoltre, sorge il problema della circolarità causale, se le disposizioni e i motivi virtuosi vengono fatti derivare dalle abitudini virtuose e poi trattati come cause di tali abitudini. Il disimpegno morale non è un tratto disposizionale che possa essere valutato con un’unica misura universalmente valida. I meccanismi di disimpegno operano in diversi aspetti della vita, ma si manifestano in modo differente a seconda della sfera di attività (Bandura, 2006). Ad esempio, le giustificazioni addotte per la pena di morte si focalizzano sulla efficacia della punizione, sulla sicurezza pubblica e sulla preservazione dell’ordine sociale. L’industria del tabacco giustifica le campagne pubblicitarie per indurre i giovani al fumo chiamando in causa la libertà di parola. In entrambi i casi vengono utilizzati meccanismi di giustificazione, ma c’è una grande differenza nella loro forma: la pena capitale si appella all’utilità della punizione, la pubblicità del tabacco alla libertà di parola. Ecco perché le misure del disimpegno vanno adattate alle necessità di ciascun ambito di attività specifico. Per sviluppare misure valide è necessaria una piena comprensione di come i meccanismi di disimpegno si manifestino in determinate sfere di attività. La filosofia morale non può essere separata dalla psicologia morale, poiché fa affermazioni di tipo empirico. Abbiamo visto sopra come il funzionamento umano sia il prodotto di un’interazione complessa tra influenze intrapersonali, comportamentali e ambientali. Quindi la moralità non è una questione esclusivamente intrapsichica, ma è profondamente radicata nelle relazioni umane, con i loro diritti, obblighi, coinvolgimenti emotivi e reti di codici normativi sostenuti da sanzioni sociali. I principi morali scoperti con l’analisi razionale dagli intuizionisti necessitano perciò di verifiche empiriche. In verità, i dati empirici dimostrano che la forma assoluta di razionalismo è per molti versi incompatibile con il modo in cui le persone regolano effettivamente la propria condotta morale. L’autoregolazione della moralità non avviene attraverso il solo pensiero morale né con una prova di forza di volontà, che da sola prevale su tutte le


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altre influenze. Di fatto, i propositi morali soccombono spesso alle emozioni, agli incentivi allettanti o alle pressioni sociali coercitive. David Hume, contemporaneo di Kant, sottolineò che la moralità può essere acquisita più attraverso l’esperienza che per tramite dell’intuizione, e ridimensionò il potere della ragione che spesso, scrisse, è «schiava delle passioni» (Denis, 2012). Hume fondò la sua teoria della moralità sulla benevolenza. Le persone non adottano ovunque gli stessi criteri morali fondamentali e non aderiscono sempre ai criteri morali che hanno adottato; anzi, quando si trovano in realtà sociali problematiche, che implicano decisioni morali difficili, possono scendere a compromessi sui propri criteri morali o perfino scollegare del tutto la moralità dalla propria condotta lesiva. Una teoria esauriente della moralità deve necessariamente prendere in considerazione i suoi due aspetti. Il primo, incentrato sull’acquisizione di criteri morali e di ragionamento morale, è sostanzialmente il versante cognitivo della moralità. Il secondo riguarda invece i meccanismi motivazionali e autoregolatori con cui il pensiero morale viene tradotto nell’azione morale. La specificazione dei meccanismi che legano il pensiero all’azione è un aspetto fondamentale di ogni teoria della moralità che possa dirsi completa, perché si focalizza sul locus in cui viene esercitata l’agency morale. Purtroppo, di solito i teorici della morale trascurano questa lacuna della loro teorizzazione, lasciando credere che l’azione morale possa discendere automaticamente dal pensiero morale. Secondo la teoria agentica, come vedremo fra poco, il più importante meccanismo che ci permette di vivere in accordo con i nostri criteri morali è quello delle autosanzioni affettive. I meccanismi autoregolatori che governano la moralità operano attraverso alcune sottofunzioni principali (Bandura, 1991b), quali l’automonitoraggio del comportamento moralmente rilevante, la sua valutazione rispetto ai propri criteri personali e alle circostanze ambientali, e le reazioni autovalutative di tipo affettivo al comportamento valutato. Esaminiamo brevemente queste sottofunzioni. Per l’esercizio dell’autoinfluenza è necessario prestare attenzione a ciò che si sta facendo e alle condizioni in cui si agisce, e riflettere su questi aspetti. Il processo dell’automonitoraggio non è semplicemente un controllo meccanico delle proprie prestazioni e delle influenze sociali cui si è sottoposti. Le convinzioni, i valori, gli atteggiamenti, le condizioni situazionali, le inclinazioni emotive e gli effetti delle proprie azioni influiscono sulla percezione e l’elaborazione cognitiva del proprio agire e dei fattori sociali che vi contribuiscono. Una questione particolarmente importante nell’automonitoraggio del comportamento riguarda i tipi di attività ascritti all’ambito morale. Tradizionalmente, le convenzioni sociali vengono distinte dalla moralità (Turiel, 1983). Esse attengono alle regole sociali relative alle condotte ritenute accettabili, che vengono stabilite di comune accordo all’interno di un determinato gruppo. Le convenzioni variano a seconda del tempo, dello spazio e dell’ambiente culturale. La moralità riguarda i comporta-


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menti che possono essere lesivi sotto il profilo psicologico o fisico, quelli che arrecano un danno ad altri, li umiliano e violano i loro diritti umani. Tuttavia, l’inclusione di certe attività deleterie nel dominio della moralità, o la loro esclusione, dipende da una serie di fattori sociali (Bandura, 1991b). Nel disimpegno morale, l’automonitoraggio è il locus in cui si reinterpreta il comportamento dannoso, se ne sminuisce l’ingiustizia e se ne mette in discussione la nocività. Prestare attenzione a quel che si sta facendo è il primo passo per esercitare un’influenza sul proprio comportamento, ma le informazioni acquisite in questo modo non sono di per sé sufficienti come base per una reazione autodeterminata. L’impatto comportamentale dell’automonitoraggio dipende dai criteri morali con cui lo si confronta. Da essi dipende se una azione viene giudicata giusta o sbagliata. Per formulare i loro criteri di moralità, gli individui si basano su una pluralità di fonti (Bandura, 1986) e in parte sul modo in cui le persone importanti nella loro vita hanno reagito alla correttezza o scorrettezza del loro comportamento. Sono influenzati in modo particolare dalle reazioni valutative di coloro a cui sono legati emotivamente o che stimano. La formulazione di criteri personali può essere influenzata anche dai valori che vengono insegnati direttamente o con mezzi simbolici. In questa forma di influenza, i criteri morali emergono sia dagli insegnamenti provenienti dal proprio ambiente sociale, sia da criteri descritti nelle opere di autori influenti. Inoltre, le persone importanti nella vita di una persona modellano tali criteri attraverso le reazioni che manifestano ai loro stessi comportamenti, autoapprovandosi quando rispettano i propri criteri personali e criticandosi quando li violano. Si dovrebbe notare che le persone non assorbono criteri morali preconfezionati da qualunque influenza li raggiunga, ma ne formulano di propri riflettendo sulle varie fonti di influenza dirette e vicarie (Bandura, 1986). La formulazione di criteri personali è complicata, anche per via della varietà e incoerenza dei criteri socialmente prescritti e posti a modello. Persone differenti adottano criteri differenti e spesso predicano bene e razzolano male. L’esercizio della moralità comporta una discreta dose di selettività e ipocrisia. Capita perfino che lo stesso individuo aderisca a criteri morali differenti a seconda del contesto e del tipo di attività che sta svolgendo. Ad esempio, ci si può comportare correttamente nel contesto delle relazioni sociali e scorrettamente al momento della compilazione della dichiarazione dei redditi. Insomma, i criteri che adottiamo non sono una semplice copia di quello che ci è stato insegnato o prescritto o che abbiamo visto fare. Sono piuttosto costruzioni che si basano sulle riflessioni in merito a una varietà di fonti di informazione moralmente rilevanti. Le situazioni dotate di implicazioni morali contengono numerosi elementi di giudizio, che non solo variano per importanza, ma possono pesare di più o di meno a seconda della costellazione degli eventi. Nel processo di ragionamento morale, gli individui estraggono, ponderano e integrano


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le informazioni moralmente rilevanti presenti nella situazione (Bandura, 1991b; Leon, 1980). I fattori cui si può dare molto peso in alcune circostanze possono essere trascurati o considerati meno importanti in altre. Nella perpetrazione di atti disumani, le situazioni moralmente spinose presentano un’ambiguità sufficiente a mettere in campo una flessibilità interpretativa che consenta di negare la propria responsabilità, biasimare le vittime e sminuire la portata delle proprie azioni lesive. Il giudizio morale stabilisce il criterio di reazione al proprio comportamento. La teoria sociocognitiva basa l’esercizio comportamentale della moralità sulla componente autosanzionatoria del meccanismo di autoregolazione. Queste autoreazioni possono assumere forme autovalutative, affettive e comportamentali. L’aspetto autovalutativo consiste nell’autoapprovazione e stima di sé per essersi comportati in linea con i propri principi e nell’autocondanna per averli violati. L’aspetto affettivo consiste nel senso di colpa e nel rimorso. Per quanto riguarda l’aspetto comportamentale, gli individui si gratificano concedendosi attività che gradiscono e a cui danno importanza e si puniscono rinunciando ad attività gradite o imponendosene di sgradite. In caso di danni causati da violazioni morali, un effetto comportamentale comune è la riparazione. A governare la motivazione e l’autoregolazione nella condotta morale non sono tanto i principi o i criteri morali in sé, quanto piuttosto il fatto di legare la propria autostima alla capacità di riuscire a rispettarli. Il rispetto dei propri criteri morali vale come una conferma dell’opinione positiva di sé, mentre la loro violazione ci induce a punirci. Le autoreazioni affettive alle proprie azioni evidenziano l’aspetto agentico nella gestione della propria vita morale. Queste molteplici conseguenze anticipatorie danno un contributo importante alla motivazione e all’autoregolazione nel comportamento morale. Dovendo convivere con noi stessi, ci teniamo molto a poterci considerare persone decorose e rispettabili. Non c’è niente di più devastante del disgusto per se stessi. L’importanza del rispetto di sé emerge chiaramente dagli esempi seguenti. Una persona fa di tutto per restituire un portafoglio smarrito che contiene 34 mila dollari. La sua autostima è più importante del guadagno in denaro: «Certo, i soldi sono importanti, ma quel che senti dentro vale una montagna rispetto al denaro». Gil Meche, un lanciatore dei Kansas City Royals, esemplifica ancora meglio la straordinaria influenza del rispetto di sé sul proprio comportamento (Kepner, 2011). In seguito ad alcuni infortuni alla spalla, Meche non poteva più fare il lanciatore, ma gli vennero comunque riconosciuti i 12 milioni di dollari che gli spettavano per contratto. Sorprendendo tutti, però, egli rifiutò il denaro. Come spiegò, era questa la cosa giusta da fare: «Quando cominciai a rendermi conto che non mi stavo guadagnando quei soldi, mi sentii male». Proseguì chiarendo che per lui la considerazione di sé valeva più del denaro: «Sentivo di non meritarlo. Non volevo più sentirmi così». Non è infrequente trovarsi in situazioni in cui si viene puniti, apertamente o per vie traverse, per convinzioni e attività a cui si attribuisce


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grande valore. Sono soprattutto i dissidenti animati da forti principi e i non conformisti a trovarsi in simili situazioni. Il fatto che un corso di azione moralmente rilevante venga perseguito o abbandonato dipende dalla forza relativa dell’autoapprovazione e della censura sociale per l’adesione a certi principi. In presenza di gravi minacce sociali, è facile che in situazioni rischiose ci si astenga da comportamenti personalmente importanti ma puniti socialmente. Ciò nondimeno, vi sono individui il cui senso del valore personale è così profondamente investito in determinate convinzioni che essi si sottomettono a maltrattamenti prolungati piuttosto che acconsentire a ciò che ritengono ingiusto o immorale. Tommaso Moro, che fu decapitato per essersi rifiutato di giungere a compromessi sulle sue convinzioni religiose, ne è un esempio notevole consegnatoci dalla storia. Spesso i riformisti sociali sopportano innumerevoli privazioni a causa di una inflessibile adesione ai loro principi ideologici e morali. Fra i riformatori che sacrificarono il loro benessere e in qualche caso perfino la vita per i loro principi figurano Mahatma Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela, per citarne solo alcuni. In ogni caso l’eroismo morale non è confinato ai più grandi riformatori, e in analisi successive citerò l’esempio dello straordinario coraggio morale di persone comuni e illustrerò i fattori psicosociali che le motivarono. Sull’altro versante, notiamo che un disimpegno morale sviluppato elimina sia i freni a una condotta lesiva sia qualunque autoreazione di condanna. Una condotta deleteria può essere perfino entusiasmante quando chi la perpetra riesce a investirla di un alto scopo morale, ad addolcirla e a privare chi ne è vittima di qualunque umanità. Quando una malefatta consente di raggiungere un obiettivo e la moralità viene totalmente disimpegnata dai mezzi usati per conseguirlo, non ci si preoccupa di quel che si sta facendo. In ogni caso, non è sempre così facile disimpegnarsi dalla moralità, e il disimpegno morale non è sempre sostenibile, ad esempio quando si è troppo deboli per astenersi da un’azione cattiva ma si è abbastanza forti da esserne scontenti. Ce ne offre una testimonianza la vita tormentata di Emma O’Reilly, la massaggiatrice del ciclista tanto famoso quanto poi screditato Lance Armstrong, che illustra i pesanti costi sociali e personali dell’impegnarsi in un’attività illecita provandone vergogna (Ranieri, 2012). Pur avendo cominciato a fare la massaggiatrice per la squadra U.S. Postal Service quando Armstrong gareggiava al Tour de France, O’Reilly in poco tempo si trovò coinvolta, con sentimenti contrastanti, in un complicato intrigo di doping: si procurava i farmaci, faceva sparire le siringhe, nascondeva i segni delle iniezioni con il trucco, dispensava prodotti dopanti ad altri membri della squadra e aiutava a occultare queste operazioni. Si cacciò in questa sofisticata truffa per il suo attaccamento emotivo e la sua lealtà nei confronti di Armstrong: «Stravedevo per Lance». Si sentiva perfino in difetto per non essere capace di fare di più: «Mi dispiaceva non riuscire a fare tutto il possibile per lui» (Lance Armstrong «sold his soul» to doping, 2012). Per mitigare l’autobiasimo per quello che stava facendo, O’Reilly si


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concentrava sull’efficienza metodica e sugli sforzi per nascondere il doping invece che sulla moralità del suo operato: «Allora era solo un aspetto delle necessità della squadra. Non ci si interrogava, non si rifletteva» (Ranieri, 2012). Nei discorsi la scorrettezza del doping veniva mitigata parlando di adesione al «programma medico», mentre l’assunzione delle sostanze dopanti era il «recupero». Data la sua diffusione nel ciclismo, il doping veniva considerato una normale pratica competitiva e ogni considerazione morale era messa da parte. I ciclisti che non si dopavano venivano scherzosamente descritti come persone che pedalavano a pane e acqua. Pur essendo una funzionaria diligente, la O’Reilly era ossessionata dalle proprie reazioni autosvalutative per il coinvolgimento nell’intrigo del doping. Quando la convinsero a portare illegalmente delle pillole in un altro Stato, si sentì «una specie di trafficante di droga» (Rankin, 2013). «Certe cose mi facevano vergognare», ammise. Era al centro di un conflitto fra lealtà e autocensura. La lealtà prevaleva sulla moralità. «Mi sentivo vincolata a farlo per un senso di lealtà, anche se sapevo di agire male». E a un certo punto, nonostante la sensazione profonda di agire slealmente, per riparare il suo torto rivelò pubblicamente le pratiche di doping, essendo sempre più preoccupata che la cultura del doping stesse corrompendo il ciclismo professionale. Armstrong respinse le accuse con veemenza, calunniò la O’Reilly definendola una «prostituta» e un’«ubriacona», e le intentò una causa per diffamazione. Poi non accadde nulla di particolare, finché un giorno i compagni di squadra di Armstrong confermarono uno a uno le accuse della donna. Dopo qualche tempo, ad Armstrong furono tolti i sette titoli conquistati al Tour de France e fu bandito a vita da qualunque sport competitivo. Riflettendo sull’inferno che aveva vissuto, la O’Reilly riconobbe che «se non si dice nulla, si è parte del problema» (Pilon, 2012). Le fu di gran conforto il fatto di aver contribuito a ripulire il ciclismo. Lance Armstrong concesse a Oprah Winfrey una lunga intervista televisiva sulle sue complicate operazioni di doping (Armstrong e Winfrey, 2012). Si apprese così come un atleta fenomenale fosse riuscito a compiere intrighi complicati che lo avevano portato a vincere sette titoli prestigiosi; eludere il controllo dei commissari sportivi sul doping; proclamare la propria innocenza in numerose apparizioni televisive; denigrare i suoi compagni di squadra chiamandoli «bugiardi», benché sapesse che dicevano la verità sul suo doping; vincere una causa contro la O’Reilly, pur conscio che le sue accuse erano vere; tradire la sua prestigiosa fondazione per la ricerca sul cancro e, nonostante ciò, continuare a sentirsi evidentemente in pace con se stesso. Tanto per incominciare, Armstrong non trovava che il doping fosse eticamente scorretto. «Non aveva l’impressione che ci fosse qualcosa di sbagliato?», gli chiese Oprah. «No», rispose Armstrong. «La cosa la turbava in qualche modo?» «No», ripeté. Per lui, l’uso di sostanze per migliorare le prestazioni era una pratica normale nella cultura ferocemente competitiva dello sport professionale. Se si riesce a dipingere


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il proprio comportamento come il prodotto di un’epoca e di un luogo, il senso di responsabilità personale si riduce. Vedendosi rivolgere l’accusa di essere un imbroglione, Armstrong consultò un dizionario: «Ho controllato la definizione di “imbroglio”. E la definizione di “imbroglio” è “conseguire un vantaggio su un rivale o un nemico che non può contarci a sua volta”». Concluse così che quella descrizione non gli corrispondeva. «Non consideravo le cose in questo modo; per me era giocare alla pari». Equivaleva a mettersi sullo stesso piano degli altri, e non ad avvantaggiarsi. Bisogna imbrogliare per vincere. Quel che non riuscì ad ammettere era che anche lui contribuiva ad alimentare la cultura del doping. Era un faccendiere navigato, non una semplice vittima delle circostanze. Armstrong sminuì il doping equiparandolo a una qualsiasi altra attività, come «gonfiare le gomme o riempire d’acqua una bottiglia». Nel suo linguaggio edulcorato, le sostanze dopanti erano il «cocktail». Commentando la profonda ingiustizia della punizione comminatagli, Armstrong lamentò che i suoi compagni di squadra avevano subito una sospensione di sei mesi, mentre lui aveva ricevuto una «condanna a vita», un bando a vita dallo sport competitivo. Per i critici di Armstrong, la sua ammissione riguardo al doping non diceva niente di nuovo (WFAA Staff, 2013). Dal loro punto di vista, non era che un espediente per cercare di riscattarsi e ottenere una riduzione del periodo di esclusione dalle gare. Invece, dal punto di vista di Armstrong, il problema era quello di essersi lasciato coinvolgere in una pratica diffusa, e non di aver commesso una violazione etica tale da suscitare rimorso e autocensura. Questione a parte erano le ingiurie spietate da lui rivolte ai compagni di squadra e alla O’Reilly. A questo riguardo, la sua autoassoluzione prese una forma del tutto particolare, ovvero quella di uno scenario dissociativo in terza persona. Armstrong le attribuì a un difetto del proprio carattere, al quale reagì come una personalità astratta che giudica il proprio comportamento: «Ed è uno che si aspettava di ottenere qualunque cosa volesse e di controllare qualunque risultato». Poi disapprovò il comportamento di quell’«uno»: «Ed è imperdonabile». Anche per eludere le crudeltà nei confronti della O’Reilly ricorse allo scenario dissociato in terza persona. Dopo aver ammesso che il suo attacco brutale alla O’Reilly era stato «imbarazzante» e «umiliante» per lei, scivolò nel ruolo in terza persona dell’osservatore giudicante: «Se vedessi mio figlio fare una cosa del genere, si scatenerebbe una fottuta guerra in casa nostra» (Lance Armstrong comes face to face with whistleblower Emma O’Reilly, 2013). Armstrong descrisse il suo difetto personale come un «incessante desiderio di vincere a ogni costo». Tuttavia, non lo considerava una mancanza, bensì una preziosa risorsa che gli consentiva di riuscire in imprese straordinarie. Gli eventuali danni correlati sono un effetto secondario inevitabile. Questa era stata la forza, spiegò, che gli aveva consentito di sconfiggere il cancro in metastasi e i ciclisti avversari. Questi due successi erano la prova che il suo difetto poteva portare a cose buone oltre che cattive. Armstrong


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si gloriò anche del buon lavoro portato avanti dalla sua fondazione per la ricerca sul cancro per la quale aveva raccolto milioni di dollari. In un’intervista alla BBC, Armstrong continuò a dipingersi come una vittima dell’imperante cultura del doping (Roan e Slater, 2015). Gli dispiaceva non tanto del doping in sé e dei suoi gravi costi interpersonali, ma di esservi stato costretto dalla funesta cultura dominante. «E sapete che cosa ci dispiace? Ci dispiace di essere stati portati lì. Nessuno di noi voleva essere lì. Avremmo tutti voluto competere da uomo a uomo, a pane e acqua, puliti, o comunque lo si voglia dire». (Roan e Slater, 2015). Quando fu invitato a scusarsi con le persone offese, passò nuovamente a modalità in terza persona: «Mi piacerebbe cambiare l’uomo che ha fatto queste cose, magari non la decisione, ma il modo in cui ha agito». Armstrong prevedeva di chiedere scusa alle persone a cui aveva rovinato la vita, ma sottolineava di essere «solo all’inizio». La promessa di scuse permette di respingere le critiche per le proprie malefatte. All’inizio di un processo di riparazione non ci si dovrebbe attendere che l’offensore vada oltre l’ammissione del proprio rammarico. In ogni caso, un difetto radicato non si presta facilmente all’autocensura morale o al pentimento. Dato che in passato Armstrong ha già mentito più volte, si è portati a non credere alla sincerità delle sue intenzioni di riscatto. Il ciclista fissò un incontro con la O’Reilly, ma esso si trasformò in chiacchierata artificiosa su conoscenti e familiari. Parlando dell’incontro, la O’Reilly disse: «Sto pensando che non mi ha mai chiesto veramente scusa» (Lance Armstrong comes face to face with whistleblower Emma O’Reilly, 2013). Dati i progressi delle biotecnologie, le competizioni sportive pulite sono ormai un ricordo passato. Qualunque siano le sostanze proibite, ci saranno sempre atleti intraprendenti e capaci non solo di escogitare un modo per aggirare i controlli ma anche di trovare sofisticati enhancers biochimici più difficili da rilevare. Lo sport è profondamente immerso nella cultura imprenditoriale. Le aziende traggono profitti dalle competizioni sportive e da tutti i servizi che vi ruotano attorno. Lo sport è altresì un importante mezzo per pubblicizzare innumerevoli servizi e prodotti che non hanno niente a che fare con lo sport stesso. Gli atleti sono fortemente incentivati a fare di tutto per raggiungere i gradini più alti: stipendi elevati, celebrità, sponsorizzazioni redditizie e opportunità di lavoro molto vantaggiose a fine carriera. Armstrong ha dichiarato che la sua confessione pubblica gli è costata 75 milioni di dollari solo in termini di sponsorizzazioni. È necessaria una solida autoregolazione morale per resistere a tutto ciò che si potrebbe ottenere con il compromesso morale.

Aspetti evolutivi del disimpegno morale Stiamo cominciando a comprendere lo sviluppo del disimpegno morale nei bambini e il modo in cui esso modella il corso della loro vita. Nello studio evolutivo del disimpegno morale i vari meccanismi vengono misurati nel linguaggio concreto che assumono nell’infanzia (Bandura,


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Barbaranelli, Caprara e Pastorelli, 1996). Nelle giustificazioni morali dei bambini, gli scontri e le bugie rispondono all’obbligo sociale di proteggere gli amici e preservare la rispettabilità del loro gruppo di pari o della loro famiglia. I furti, le aggressioni e la distruzione di cose vengono giustificati con un confronto vantaggioso, ovvero paragonandoli ai danni più ingenti perpetrati nella società in generale. La gravità dei maltrattamenti viene attenuata considerandola semplicemente «una lezione» alla vittima. Con uno spostamento di responsabilità, i bambini possono sostenere che non dovrebbero essere biasimati per una condotta trasgressiva, se vi sono stati indotti da altri o da circostanze avverse. Quanto alla diffusione della responsabilità, possono affermare che non sia giusto incolpare un singolo bambino per il disturbo causato da un intero gruppo. Sminuendo e deformando le conseguenze, i bambini affermano che le provocazioni fisiche, gli insulti e le molestie sono inoffensivi, o solo un modo di scherzare. Quanto all’attribuzione della colpa, essi sostengono che le vittime si sono attirate i maltrattamenti con il loro comportamento stupido. Infine, nella deumanizzazione, affermano che qualcuno dev’essere trattato con durezza perché non ha la sensibilità di una persona normale o perché merita di essere trattato da subumano. Il disimpegno morale persuasivo ha un valore funzionale per i perpetratori. Esonerandosi dal male causato, essi possono allontanare da sé la censura sociale. In realtà, i bambini apprendono sin da piccoli che possono ridurre o evitare i rimproveri per le loro malefatte dando la colpa ad altri o invocando circostanze attenuanti (Bandura e Walters, 1959; Darley, Klosson e Zanna, 1978; Sears, Maccoby e Levin, 1957). Comunque, con lo sviluppo dei criteri morali, i bambini si rendono conto di dover vivere in pace con se stessi e non limitarsi a dipendere dalle valutazioni degli altri, e questo determina lo spostamento evolutivo nella regolazione del comportamento dalle sanzioni sociali alle autosanzioni (Bussey e Bandura, 1992). Per neutralizzare le proprie autosanzioni negative devono convincersi di potersi assolvere, e non soltanto persuaderne gli altri; quindi, se utilizzano intenzionalmente in modo manipolatorio dei mezzi per discolparsi, hanno il doppio problema di essere cinici e ipocriti oltre che scorretti. Benché i vari meccanismi di disimpegno operino di concerto con il processo autoregolatorio, essi variano in termini evolutivi nella misura in cui i bambini vi fanno ricorso (Bandura et al., 1996). I mezzi di autoassoluzione più usati consistono nel figurarsi che un comportamento nocivo sia al servizio di scopi meritori, disconoscere la responsabilità degli effetti dannosi dandone la colpa ad altri e svalutare coloro che vengono maltrattati. Naturalmente occorrono abilità cognitive raffinate per camuffare le attività censurabili con un linguaggio edulcorato e contorto, o renderle positive attraverso il confronto con comportamenti peggiori. Quindi, non è molto frequente che i bambini usino simili strategie. Nella tarda adolescenza, però, i ragazzi hanno ormai appreso un vasto assortimento di pratiche di disimpegno. Come ho notato sopra, la progressione evolutiva


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va dalla neutralizzazione della censura sociale alla neutralizzazione dell’autocensura, a mano a mano che la varietà e la complessità del disimpegno morale aumentano con lo sviluppo sociale e cognitivo. Nei primi anni non si notano differenze di genere ma, ben presto, i maschi acquisiscono una maggiore disinvoltura delle femmine nel disimpegno morale. La propensione differenziale di genere al disimpegno morale dipende spesso, in larga parte, dalla socializzazione di genere dell’aggressività. Nei maschi, gli stili di comportamento aggressivi sono esemplificati più estesamente, sono socialmente tollerati e vengono investiti di valore funzionale (Bandura, 1973; Bussey e Bandura, 1999). Tutto ciò rende più facile legittimare moralmente l’uso di mezzi offensivi. Inoltre, poiché i maschi adottano comportamenti trasgressivi e lesivi più frequentemente, hanno un maggiore bisogno di perfezionare le proprie giustificazioni assolutorie. Quando i vari meccanismi vengono raggruppati a seconda del locus di disimpegno morale, i predittori più forti sono: quanto al locus del comportamento, la reinterpretazione di un comportamento aggressivo come qualcosa che sia posto al servizio di un fine positivo, e, quanto al locus delle vittime, la denigrazione delle vittime, che avviene incolpandole e svalutandole (Bandura et al., 1996). In simili circostanze, nuocere è più facile. Anche mascherare la responsabilità e minimizzare gli effetti dannosi sono predittori significativi, ma a un livello più basso. Maggiore è il disimpegno morale, maggiore sarà il coinvolgimento in comportamenti aggressivi e antisociali (Bandura et al., 1996; Kwak e Bandura, 1998). Il disimpegno morale continua a predire la delinquenza anche quando vengono controllati gli effetti dei comportamenti illeciti passati e di altri fattori che possono contribuire alle attività trasgressive, come l’efficacia scolastica percepita, l’efficacia sociale e l’efficacia nel resistere alle pressioni dei pari verso il coinvolgimento in attività trasgressive (Bandura et al., 2001). Il fatto che il disimpegno morale non sia collegato allo status socioeconomico testimonia che esso riguarda sia i benestanti, sia i meno abbienti. Alcuni dati di tipo correlazionale mostrano che tali pratiche non dipendono dall’età, dal genere, dall’etnia, dalla classe sociale, dal livello di trasgressività e dall’affiliazione religiosa (Elliott e Rhineahart, 1995). Esse operano anche interculturalmente (Bandura, 1997; Kwak e Bandura, 1998; Pastorelli et al., 2001). Questi dati sottolineano la pervasività e la centralità del disimpegno morale nella gestione di situazioni moralmente difficili negli anni formativi. Le ricerche sullo sviluppo hanno anche cominciato a chiarire alcuni dei processi attraverso cui si manifesta il disimpegno morale. Essi vengono mostrati nella figura 1.3 (Bandura et al., 1996). Uno di questi processi disinibitori è la riduzione del senso di colpa anticipatorio per un comportamento lesivo, dove l’aggettivo «disinibitori» si riferisce all’allentamento dei fattori che trattengono dalla perpetrazione di comportamenti lesivi. Quando i mezzi lesivi vengono nobilitati considerandoli funzionali al raggiungimento di fini meritori, i malfattori non hanno ragione di essere


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turbati dal senso di colpa o di sentire il bisogno di fare ammenda. Al contrario, si inorgogliscono se riescono a fare bene qualcosa di nocivo e, quando il danno viene ignorato o sminuito, non esiste più una situazione moralmente difficile che richiede autosanzioni.

Comportamento prosociale – .28 Disimpegno morale – .10

– 18 .51 .31

Propensione all’aggressività .30

Senso di colpa e riparazione

– .11 .31

.22 Comportamento delinquenziale

– .22

Fig. 1.3 Contributo del disimpegno morale al comportamento delinquenziale in modo diretto e attraverso la sua influenza su uno scarso senso di colpa, su una limitata prosocialità e sulla ruminazione vendicativa (Bandura et al., 1996). ©1996 American Psychological Association. Riprodotto con il permesso dell’editore.

Il secondo processo disinibitorio opera attraverso gli effetti del disimpegno morale sul comportamento prosociale e il clima emotivo e sociale che crea. La prosocialità è caratterizzata dalla tendenza a cooperare, dalla disponibilità e dalla condivisione, e induce empatia per le situazioni sfavorevoli degli altri, spingendoci a consolarli nei momenti difficili. Coloro che si comportano in modo prosociale creano ambienti sociali amichevoli, mentre coloro che si comportano in modo aggressivo sono pronti ad attribuire intenzioni ostili agli altri e ad alimentare l’ostilità ovunque vadano (Raush et al., 1974). È facile che relazioni disarmoniche nei primi anni formativi spingano un bambino verso percorsi asociali. Nella loro ricerca sullo sviluppo della devianza, Patterson e Bank (1989) hanno mostrato che un comportamento disarmonico provoca il rifiuto da parte dei pari, la qual cosa a sua volta aumenta la probabilità di unirsi ad altre persone antisociali. Se nelle situazioni conflittuali ci si assolve dalla responsabilità e si scarica la colpa sulle vittime dei maltrattamenti, si può conservare il senso di rettitudine e la sensazione di essere nel giusto. Tale forma mentis genera un’ostilità ruminativa e pensieri di rivalsa per i torti percepiti. Spesso ci si ferma alla ruminazione, senza passare all’azione; tuttavia, una volta liberati dal freno delle autosanzioni morali, è più facile agire per sfogare i propri rancori. La deumanizzazione indebolisce le autocostrizioni morali minando la prosocialità, riducendo l’empatia per le sofferenze altrui ed


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escludendo le persone svalutate dal concetto di umanità. L’autoefficacia percepita per l’empatia non solo riduce i comportamenti disumani ma alimenta anche i comportamenti umani prosociali (Bandura et al., 2003). La ricerca sul ruolo del disimpegno morale nel comportamento delinquenziale minorile ha fornito un supporto empirico ai meccanismi di disimpegno morale (Bandura et al., 1996). I risultati sono riassunti nella figura 1.3. In confronto a chi presenta un basso disimpegno morale, chi è caratterizzato da un alto disimpegno morale esprime minore senso di colpa anticipatorio rispetto alla condotta delinquenziale ed è meno prosociale nelle relazioni interpersonali, più incline a ruminare sui presunti torti subiti e più facile preda della rabbia. Il disimpegno morale contribuisce al livello di delinquenza in modo sia diretto sia indiretto, attraverso l’influenza sui processi disinibitori descritti sopra. Nella verifica di percorsi causali alternativi, la teoria secondo cui il disimpegno morale governa i processi disinibitori risulta in linea con i dati empirici, mentre la teoria alternativa – secondo cui una bassa prosocialità, uno scarso senso di colpa, il disimpegno morale e il comportamento delinquenziale sarebbero semplicemente effetti di una predisposizione all’aggressività – non trova riscontro. Neppure trova riscontro la teoria secondo cui la propensione all’aggressività influenzerebbe il comportamento delinquenziale sia direttamente sia con la mediazione di una bassa prosocialità, le reazioni al senso di colpa e il disimpegno morale. La speciale predittività del disimpegno morale e di alcuni dei processi disinibitori che lo accompagnano ha trovato conferme in studi longitudinali sui perpetratori di gravi reati, che ricorrevano al disimpegno morale per mantenere una buona considerazione di sé (Bandura et al., 2001). Il livello di disimpegno morale contribuisce direttamente alla condotta delinquenziale riducendo la prosocialità e alimentando le ruminazioni di vendetta. Nella path analysis del modello teorico, il disimpegno morale ha mantenuto la sua predittività di un impegno futuro in attività delinquenziali anche quando i ricercatori avevano controllato l’effetto delle condotte delinquenziali precedenti, dell’autoefficacia percepita rispetto alla scuola, delle influenze sociali e della pressione dei pari. Sono stati testati anche altri modelli causali e, in uno di essi, la trasgressività precedentemente manifestata risultava la causa principale della trasgressività successiva sia direttamente, sia attraverso il suo impatto sull’autoefficacia percepita, il disimpegno morale, la prosocialità e l’affettività ruminativa. Un altro modello riteneva che la causa principale fosse l’affettività ruminativa, la quale contribuisce alle azioni delinquenziali successive sia direttamente, sia attraverso la sua influenza sulla serie di fattori descritti prima. In realtà questi modelli causali alternativi non trovano una buona corrispondenza nei dati empirici. L’analisi longitudinale dei mutamenti evolutivi nel disimpegno morale fa emergere quattro traiettorie accompagnate da livelli differenti di comportamento aggressivo (Paciello et al., 2008). Gli adolescenti che hanno


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ripudiato le pratiche di disimpegno morale da piccoli e che continuano a farlo una volta entrati nell’età adulta si astengono dai comportamenti lesivi. Al contrario, quelli che presentavano un alto disimpegno morale e hanno continuato ad astenersi dal sanzionare le loro malefatte sperimentano uno scarso senso di colpa e sono inclini a una condotta aggressiva e violenta. I loro omologhi che avevano iniziato praticando il disimpegno morale ma che poi vi avevano rinunciato sono meno propensi a comportarsi aggressivamente da giovani adulti. In genere lo sviluppo morale è stato studiato in termini di principi astratti di moralità. Elliott e Rhinehart (1995) riferiscono però che gli adolescenti che differiscono quanto alle condotte delinquenziali non differiscono nei valori morali astratti. Siamo quasi tutti virtuosi in astratto, ma le differenze sono nella facilità con cui facciamo ricorso al disimpegno morale in determinate circostanze della vita quotidiana. Ad esempio, grazie a un creativo ragionamento assolutorio, alcuni adolescenti con condotte trasgressive equiparano il furto a un atto di altruismo. Ritengono sia giusto rubare materiali scolastici perché tanto l’assicurazione li rifonderà, oppure giustificano i furti facendo notare che i negozianti aumentano i prezzi delle merci per coprire in anticipo le perdite derivanti dai furti, e così facendo spremono i clienti. È possibile insegnare ai bambini a giudicare la moralità in termini di giustizia sociale, e in astratto lo fanno, ma nella concretezza dell’agire essi trovano giustificazioni, che variano in base alle situazioni, per violare quel principio. La discordanza fra una forte moralità astratta e una sua scarsa osservanza nella pratica non riguarda certo solo i ragazzi, e questo volume documenta doviziosamente come spesso gli adulti adottino nobili principi morali trovando però giustificazioni convincenti per venire a compromessi trasgredendoli.

Bullismo e cyberbullismo Il bullismo è un problema molto diffuso e alimenta le paure dei ragazzi e le preoccupazioni dei genitori, specialmente in seguito all’attenzione mediatica riservata ai casi di suicidio registrati fra coloro che ne cadono vittime. Esso consiste nel ripetersi di maltrattamenti fisici e verbali, nella diffamazione attraverso pettegolezzi e in una dolorosa esclusione sociale nell’esercizio del proprio potere su vittime deboli e vulnerabili. Il bullismo non solo danneggia la vita dei ragazzi ma si ripercuote sugli stessi perpetratori, che hanno una vita adulta tormentata (Olweus, 1991). Spesso infatti costoro finiscono davanti a un tribunale, una sorte che molto più difficilmente tocca a chi da adolescente non si è comportato da bullo. Abbiamo visto prima che le persone più inclini al disimpegno morale tendono ad avere comportamenti aggressivi e antisociali (Bandura et al., 1996), e lo fanno con scarso senso di colpa e poco riguardo per i sentimenti altrui. In una cospicua rassegna di ricerche sul bullismo, Hymel e i suoi collaboratori riportano prove coerenti del fatto che i bulli escludono la moralità dalla propria condotta violenta (Hymel et al., 2010). Tanto più


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alto è il disimpegno morale, tanto più aggressivamente si comportano i bulli (Gini, Pozzoli e Hymel, 2014). Liberati dai freni morali, i bulli sono rinforzati nel proprio comportamento dalla convinzione della propria efficacia nell’esercizio di un controllo con mezzi violenti (Barchia e Bussey, 2011). Il bullismo si manifesta nel clima sociale delle scuole, che possono contrastarlo in modo più o meno esplicito. Può essere opera di gruppi di amici o di singoli individui. Nel disimpegno morale collettivo, i compagni di classe si influenzano a vicenda e il livello di disimpegno morale della classe è in genere maggiore della somma dei contributi individuali. Cosicché il livello di disimpegno morale della classe spiega una quota di bullismo scolastico di molto superiore a quella che potrebbe essere predetta in base al disimpegno morale dei singoli (Gini, Pozzoli e Bussey, 2013). Il bullismo è socialmente situato, e prevede la presenza di spettatori che assistono agli abusi fisici e verbali inflitti alle vittime. Nel gran parte dei casi, gli spettatori sono riluttanti a interferire negli episodi di bullismo: molti semplicemente prendono le distanze dal problema ritenendo che non sia affar loro. Tuttavia, gli spettatori si trovano nella situazione moralmente difficile di permettere che gli abusi nei confronti di compagni indifesi continuino. Con il disimpegno morale possono trovare sollievo rispetto all’autocensura. Inoltre, possono sminuire la gravità del bullismo considerandolo un aspetto normale della crescita; attribuire a esso finalità positive, per esempio temprare le vittime, dar loro una lezione o far valere le norme sociali; possono allontanare da sé ogni responsabilità per il problema; denigrare le vittime chiamandole «perdenti» e biasimandole per il fatto di attirare i maltrattamenti con la loro passività (Hymel et al., 2010). Gli spettatori non sono un gruppo omogeneo, e il loro livello di disimpegno morale influenza il modo in cui rispondono ai maltrattamenti cui assistono. Thornberg e Jungert (2013) hanno rilevato che i ragazzi con un alto disimpegno morale incitano i bulli a maltrattare le vittime. Per contro, gli spettatori che si rendono conto della scorrettezza delle condotte abusive sono inclini a difendere le vittime, anche se il fatto di intervenire comporta il rischio di diventare a loro volta un bersaglio dei bulli. Gli spettatori più convinti della propria capacità di mediare i conflitti e tenere a freno i bulli sono quelli che passano all’azione, mossi dal turbamento morale. Obermann (2011) ha rilevato inoltre che gli spettatori che tollerano gli abusi presentano un disimpegno morale più elevato rispetto a quelli che si sentono in colpa o che corrono in difesa delle vittime. Gli spettatori che si sentono in colpa riconoscono la scorrettezza del bullismo, ma evidentemente non hanno il coraggio di intervenire, e quindi per andare in aiuto alle vittime è necessaria l’empatia per le vittime combinata con l’autoefficacia per la gestione delle relazioni sociali difficili (Gini et al., 2008). L’esibizione di un coraggio morale da parte degli spettatori può essere influenzata dalle aspettative di risultato, che a loro volta influenzano l’autoregolazione del comportamento. Talvolta gli spettatori dubitano di poter fare cessare l’abuso da soli e possono trovare il coraggio di interve-


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nire se a loro si uniscono altri compagni: è nell’intervento congiunto che entra in gioco il potere dell’efficacia collettiva (Bandura, 2000). Barchia e Bussey (2011) hanno verificato il ruolo dell’efficacia collettiva in uno studio sul cambiamento delle aggressioni nei confronti dei pari nel corso di un anno scolastico. Maggiore era l’efficacia collettiva di studenti e insegnanti rispetto al cooperare per ridurre le aggressioni, minore è stato il numero di aggressioni alla fine dell’anno scolastico. L’efficacia collettiva conserva la sua influenza pacificatrice, come si evince controllando l’aggressività all’inizio dell’anno scolastico successivo. Non si può pensare di sradicare il flagello del bullismo limitandosi a contare sull’eroismo morale di qualche studente che vi assiste: per riuscirvi sono necessari cambiamenti sistemici nella cultura della scuola, con il coinvolgimento delle parti interessate a tutti i livelli di influenza. Lo sforzo più ambizioso per eliminare il bullismo è stato compiuto in Norvegia, con un programma su scala nazionale ideato da Dan Olweus, pioniere della ricerca sul bullismo (1991). Il programma trovò attuazione in seguito alla preoccupazione generalizzata diffusasi dopo che alcuni studenti si erano suicidati nello stesso giorno a causa di un bullismo incessante: i mass media diedero ampio risalto alla gravità di questo problema sociale e l’intervento coinvolse insegnanti, genitori e studenti di tutto il Paese. Al livello scolastico, si tenne una conferenza sul bullismo e sul processo di vittimizzazione indicando criteri espliciti e sottolineando che il bullismo è inaccettabile. Per promuovere un senso di responsabilità collettiva, a tutto il personale furono indicate alcune linee guida su come contrastare il problema. Al livello delle singole classi, furono stabilite regole e sanzioni per opporvisi. Attraverso il role playing, gli studenti appresero a disinnescare i conflitti affinché non sfociassero nella violenza fisica, e vennero adottate attività cooperative di classe per alimentare un senso di interdipendenza fra i compagni. Al livello dei genitori, si tennero incontri fra il personale scolastico e i genitori sulla creazione di un clima scolastico favorevole e, al livello individuale dei genitori, ci furono incontri fra i bulli, le vittime e i loro genitori. Insomma, si trattò di un programma globale di abilitazione collettiva in cui venne condivisa la responsabilità di sradicare il bullismo. Da una valutazione rigorosa emerse che il programma aveva ridotto notevolmente il bullismo in ogni fascia di età (Olweus, 1991). Talvolta gli interventi per ridurre l’aggressività spostano il problema altrove, ma in questo caso il bullismo non si trasferì all’ambiente extrascolastico. Il programma ebbe peraltro ulteriori effetti positivi generalizzati: ridusse le assenze ingiustificate e i comportamenti antisociali e aumentò la soddisfazione per la vita scolastica. Anche le applicazioni in cui furono attuati fedelmente i diversi elementi del programma testimoniano la sua efficacia nel contenimento del bullismo (Olweus e Limber, 2010). Il cyberbullismo è diventato la forma più pervasiva e devastante di cattiveria fra pari, poiché esce dalle scuole per approdare alla vita online dei ragazzi. Gli smartphone sono dispositivi che si prestano facilmente a


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mandare messaggi cattivi e minacciosi per posta elettronica, sms e altri sistemi di messaggistica istantanea nonché per postare dicerie malevole, pettegolezzi e foto imbarazzanti sui siti dei social network. Questi attacchi hanno lo scopo di danneggiare la reputazione delle vittime e minarne il benessere. L’umiliazione può essere perpetrata in forma anonima, dovunque, in qualunque momento, e pubblicizzata affinché sia visibile da chiunque. I cyberbulli sono difficili da studiare perché fanno ogni sforzo per celare la propria identità. Di conseguenza, gli studi basati sulle autonarrazioni dei cyberbulli sono viziati da un bias di autoselezione di entità ignota. Su internet le persone, protette dall’anonimato, dicono parole crudeli che non pronuncerebbero mai pubblicamente. In un episodio particolarmente tragico, una madre vendicativa usò un falso profilo Facebook per lanciare una campagna di odio contro la figlia della sua vicina, Megan Meier. Al riparo dell’anonimato e fingendosi un ragazzo, la sedusse con messaggi provocanti, per poi scagliarsi contro di lei dicendole che era una brutta persona e una puttana. Quando il malessere di Megan raggiunse l’apice, la madre pubblicò un post particolarmente acrimonioso: «A O’Fallon sanno tutti chi sei. Sei una brutta persona che tutti detestano. Passa in modo merdoso il resto della tua vita. Il mondo sarebbe migliore se tu non ci fossi» (Pokin, 2007). Pochi minuti dopo, Megan si impiccò. A causa della vaghezza delle leggi sulle violenze verbali nel cybermondo, l’azione legale contro l’artefice di questa tragedia andò a vuoto. In alcune delle forme più crudeli di cyberbullismo giovanile, i ragazzi votano la persona più brutta o più impopolare fra i pari, talvolta corredando i voti di foto. Nondimeno, il cyberbullismo non è una prerogativa esclusiva dei giovani, poiché riguarda anche gli adulti, specialmente sul posto di lavoro. Alcune caratteristiche del cyberbullismo rendono questo fenomeno particolarmente devastante; infatti, il suo raggio d’azione è illimitato e gli attacchi verbali postati online possono rimanere lì per sempre ed essere visti ovunque, in ogni momento, da chiunque. Quando l’aggressore non ha un nome, non c’è modo di proteggersi e non si sa che provvedimenti prendere. L’imprevedibilità e l’incontrollabilità di queste minacce creano un’ansia generalizzata (Bandura, 1986; Miller, 1981). Il fatto di non conoscere l’identità del proprio aggressore provoca uno stato di intensa apprensione, essendo difficile stabilire chi sono gli amici e chi i nemici. Le vittime, naturalmente, possono evitare di leggere i messaggi, ma se i ritratti denigratori messi in rete scatenano i pari contro di loro non hanno alcun luogo sicuro in cui rifugiarsi.

La neuroetica Il ruolo della neuroetica in una teoria della moralità andrebbe distinto dal ruolo della bioetica. Quest’ultima si occupa principalmente di questioni etiche di carattere biologico, come l’uso di farmaci per migliorare la presta-


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zione, la consulenza genetica riguardo ai difetti del nascituro, l’ingegneria genetica e la clonazione, l’uso di cellule staminali, lo status morale del feto, il consenso informato per la ricerca e le pratiche mediche, l’utilizzazione di animali nella ricerca biomedica e simili (Arras, 2010). La neuroetica si occupa invece di questioni fondamentali per il locus della causazione nelle teorie agentica e subpersonale del comportamento umano, teorie che hanno implicazioni differenti per la responsabilità morale delle proprie azioni.

La teoria agentica e la teoria subpersonale della moralità I neuroscienziati che prediligono la teoria filosofica dell’epifenomenalismo considerano gli eventi mentali (pensieri, coscienza e attività cognitive) come semplici sottoprodotti non funzionali di stati fisici di basso livello. Si tratta di uno status peculiare per la coscienza e gli eventi mentali, dato che essi occupano l’intera vita psichica della veglia e determinano, in larga parte, se essa sia piacevole o sconvolgente. Le scienze comportamentali continuano a essere assillate dal problema della coscienza, che è un veicolo importante per le attività cognitive ma la cui natura non riesce a essere spiegata. Gli epifenomenalisti eludono il problema della coscienza trascurandolo semplicemente in quanto del tutto inutile. Tuttavia, guardando le cose da una prospettiva evoluzionistica, se la coscienza e le attività cognitive fossero prive di funzioni si sarebbero estinte da molto tempo. Gli epifenomenalisti sostengono che il comportamento è regolato da reti neurali che operano al di fuori della consapevolezza e del controllo personale. I pensieri sarebbero quindi eventi epifenomenici che, pur dando un’illusione di controllo, non avrebbero in realtà alcun effetto sul modo in cui ci si comporta. Questa visione subpersonale priva gli esseri umani della loro identità personale, delle capacità agentiche e della coscienza funzionale. Le attività sarebbero orchestrate inconsciamente non già da individui pensanti ma da loro parti subpersonali. Ho già presentato una critica dettagliata dell’epifenomenalismo e delle evidenze addotte dai suoi sostenitori per avvalorarla (Bandura, 2008). Secondo questa prospettiva, gli individui non potrebbero essere ritenuti responsabili per ciò che intrinsecamente non possono controllare. Gli esseri umani sono dotati di sistemi cerebrali e di una coscienza funzionale che permette loro di intraprendere attività cognitive complesse, ed è al livello della coscienza operativa che si svolge il cosiddetto «lavoro mentale», ovvero l’elaborazione delle informazioni nel ragionamento, nei processi decisionali, nell’autovalutazione, eccetera. Nell’attuale era elettronica è possibile recuperare istantaneamente immense quantità di informazioni su pressoché ogni argomento con il clic di un mouse. La teoria sociocognitiva adotta una concezione fisicalista dell’agency umana (Bandura, 2008) e secondo questa prospettiva la mente è la personificazione di processi cerebrali di livello superiore anziché un’entità immateriale disincarnata. I pensieri sono eventi neurali generati inter-


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namente in una regolazione top-down del comportamento. Gli esseri umani sono in grado di funzionare come agenti consapevoli grazie a una capacità avanzata di simbolizzazione, distribuita fra i neuroni e riccamente interconnessa a svariati sistemi sensoriali e motori. Per la teoria sociocognitiva, gli epifenomenalisti affrontano la questione del controllo personale in termini erronei e a un livello di controllo sbagliato. C’è una differenza fra il controllo di primo livello dei micromeccanismi biologici e un controllo agentico di secondo livello dei sistemi biologici preposto a determinate funzioni. Ad esempio, è ovvio che gli individui non siano mai in grado di incidere intenzionalmente sulle fibre muscolari cardiache atriali e ventricolari affinché si mettano in moto, o sulle valvole aortiche e polmonari perché si aprano e chiudano, né siano consapevoli del fatto che ciò sta avvenendo. Questa microregolazione biomeccanica, che si è evoluta nel corso di millenni, opera al primo livello del controllo. Tuttavia, al secondo livello del controllo, gli individui possono intenzionalmente accelerare o rallentare il proprio battito cardiaco con l’attività fisica o con pensieri eccitanti o tranquillizzanti, senza avere la più vaga idea di come i meccanismi neurofisiologici che vi contribuiscono lavorino meccanicamente. Inoltre, con un addestramento alla resistenza nel controllo di secondo livello, possono aumentare la propria capacità cardiovascolare con numerosi benefici per la salute. Per illustrare ulteriormente la differenza fra i due livelli di controllo, considerate la seguente analogia. Guidando un’automobile, il conducente compie una serie di atti coordinati per cambiare le marce, sterzare, regolare l’acceleratore e frenare. L’assemblaggio dei sottosistemi dell’auto rende possibile questo intricato meccanismo operazionale. Ciò non di meno, la guida richiede un’attivazione e una regolazione di livello più elevato. Le azioni necessarie, che il conducente controlla direttamente, regolano l’assemblaggio meccanico consentendo di arrivare dove si desidera. Ma il conducente non ha consapevolezza dei processi di combustione chimica nel motore dell’automobile, e non controlla direttamente le reazioni chimiche che alimentano l’auto. Per agire agenticamente, l’autista non deve comprendere il funzionamento correlativo grazie a cui una pressione sul pedale dell’acceleratore fa muovere l’automobile: basta la conoscenza della relazione funzionale fra l’azione e gli scopi desiderati. La programmazione deliberata di dove andare in vacanza, quale strada scegliere, cosa portare con sé, cosa fare una volta giunti a destinazione e come effettuare la prenotazione con grande anticipo richiede una considerevole regolazione proattiva di tipo top-down su un tempo prolungato. La strutturazione temporale proattiva del comportamento determina il corso delle attività dell’individuo. Dopo aver formulato un progetto di vacanza, i viaggiatori non possono restare inerti ad aspettare che l’attività sensomotoria di livello più basso completi inconsciamente i preparativi per la vacanza. L’autoregolazione prossimale di ciò che deve essere fatto e quando farlo fornisce nel qui e ora la guida, le strategie e gli stimoli per


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prepararsi al viaggio futuro (Bandura, 1991a). È inoltre necessaria una certa flessibilità nell’esecuzione, perché è raro che un piano d’azione sia specificato in ogni dettaglio fin dal principio (Bratman, 1999). Di solito un piano d’azione viene ulteriormente dettagliato, adattato, rivisto e perfino riconsiderato alla luce delle nuove informazioni che emergono lungo il percorso. Oggi stiamo assistendo a un pervasivo riduzionismo biologico, ma il fatto di sapere in quale parte del cervello avvengano le cose non ci dice come farle accadere. Ad esempio, la conoscenza delle aree e dei circuiti cerebrali che permettono l’apprendimento può rivelare ben poco su come progettare le condizioni di apprendimento in termini di livello di difficoltà, mezzi per indurre allo studio di determinati argomenti e utilità di forme di apprendimento indipendenti oppure cooperative o competitive. Questi fattori non hanno alcuna controparte concettuale nella teoria neurobiologica e, di fatto, non possono essere derivati dalla teoria biologica. Il modo in cui far accadere le cose è fra i principi più importanti delle teorie psicologiche e sociostrutturali. Insomma, le persone danno il proprio contributo alle attività che pongono in essere e non sono semplici ospiti e spettatori di reti subpersonali che creano e regolano autonomamente le loro prestazioni. Gli individui immaginano dei fini e si applicano risolutamente per conseguirli. Sono agenti di esperienze, non soltanto oggetti passivi di esperienze. Nelle loro transazioni con l’ambiente, nella loro qualità di agenti consapevoli, sono generativi, creativi, proattivi e riflessivi, non semplicemente reattivi a input esterni. Questi sistemi sensoriali, motori e cerebrali sono strumenti che le persone utilizzano per adempiere i compiti e conseguire gli obiettivi che danno significato, direzione e soddisfazione alle loro vite (Bandura, 1997; Harré e Gillett, 1994). Questi strumenti biologici non sono pienamente prestrutturati per abilità complesse. Dunque, ad esempio, per padroneggiare gli effetti pirotecnici di un concerto di violino, un aspirante violinista deve trascorrere innumerevoli ore ad addestrare un cervello considerevolmente versatile a ricordare ed eseguire la profusione di note, possedere la forza muscolare e la destrezza, e affinare l’acutezza sensoriale. Gli epifenomenalisti usano la mancanza di un controllo di primo livello dei micromeccanismi biologici per negare le teorie psicosociali che si basano su un controllo cognitivo di secondo livello.

Il dilemma neuroetico Alcune delle forme più radicali di teorizzazione neuroscientifica, che escludono l’autoinfluenza dal novero delle condizioni determinanti del comportamento, ignorano l’esercizio dell’autoregolazione morale. Secondo tale prospettiva, gli input ambientali attiverebbero i moduli subpersonali che causano le azioni; questo avverrebbe sotto la soglia della consapevolezza e del controllo. Se le azioni personali fossero il prodotto del funzionamento inconscio di sistemi neuronali, e se gli stati coscienti


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fossero semplicemente i prodotti epifenomenici di processi cerebrali di basso livello, nessuno potrebbe essere considerato responsabile delle proprie scelte e delle proprie azioni. I trasgressori non dovrebbero essere giudicati personalmente responsabili dei loro crimini, né la polizia dei suoi metodi violenti, né i membri di una giuria di avere emesso sentenze poco imparziali, né i carcerieri dei maltrattamenti inflitti ai prigionieri, né la cittadinanza delle condizioni sociali deleterie alimentate dalle sue politiche e pratiche pubbliche. Tutti potrebbero negare di essere responsabili delle proprie azioni lesive: sarebbero state le reti neurali a indurli a compierle. Le reti neurali sono amorali. I processi neurali inconsci non hanno né un senso di responsabilità personale né alcuna moralità. La questione della moralità riguarda il fine dell’azione, le sue conseguenze umane e i mezzi utilizzati. Di fatto, la tesi deterministica secondo cui gli esseri umani non potrebbero controllare coscientemente quel che fanno è una posizione morale, e più in particolare una posizione di non responsabilità morale. Una visione del genere ha una ricaduta sociale. Infatti, una concezione della natura umana non agentica non intacca l’etica personale e sociale che sostiene la società civile? Come sarebbe possibile creare e mantenere una società civile se i suoi membri fossero privi di ogni capacità di regolazione cosciente delle proprie azioni? In verità, l’insostenibilità funzionale della posizione secondo cui il comportamento etico e socialmente responsabile sarebbe il prodotto di processi neuronali amorali è una sfida formidabile per le teorie non agentiche del comportamento umano. Le soluzioni proposte di solito fanno qualche discutibile concessione selettiva alla regolazione cosciente nell’ambito del comportamento morale. In questo modo possono salvare sia l’automatismo del comportamento sia la responsabilità morale. Da una ricerca di Libet (1985) emerge che il movimento volontario di un dito prende avvio da alcuni eventi neurali inconsci che avvengono prima che si manifesti l’intenzione cosciente di compiere tale movimento. Questo studio viene spesso citato come prova del fatto che il comportamento umano è organizzato a livello inconscio; l’esercizio del controllo cognitivo sarebbe quindi solo un’illusione. Tuttavia, la presenza di vari difetti metodologici induce a dubitare della validità di questa scoperta (Bandura, 2008; Gomez, 2002; Klein, 2002; Libet, 1999). Libet (1999) non vorrebbe pensare che l’uomo sia un automa e un illusionista serafico. Ha ipotizzato quindi un sistema a doppio controllo in cui gli individui non potrebbero controllare i precursori neurali di un atto volontario ma potrebbero decidere consciamente se tradurlo in azione o bloccarlo. Esistendo questa sorta di «veto della coscienza», le persone potrebbero essere ritenute moralmente responsabili della propria condotta. I critici di Libet hanno bocciato l’idea della funzione del controllo cosciente adducendo l’argomento del diallelo: il veto della coscienza sarebbe esso stesso il prodotto di eventi neurali inconsci precedenti, e quindi gli individui non potrebbero essere ritenuti responsabili di qualcosa che non possono


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controllare consciamente. Questo punto di vista, però, priverebbe gli esseri umani di ogni capacità di controllo cosciente del comportamento. Anche Wegner (2002) ha proposto di risolvere lo spinoso problema della moralità ipotizzando una sorta di controllabilità selettiva, con il modello concettuale che Nahmias (2002) ha definito «epifenomenalismo modulare». Gli input ambientali attiverebbero subconsciamente sia il sistema di azione, sia un modulo interpretativo epifenomenico, che crea delle spiegazioni del comportamento post hoc. Questo modulo non può influenzare il modo in cui ci si comporta perché è disconnesso dal sistema di azione. Per Wegner, questo modulo non causale è un «punto morto» (loose end); esso produrrebbe false spiegazioni post hoc, nell’illusione personale di essere causa delle proprie azioni. Perché un fattore epifenomenico privo di influenza sul comportamento dovrebbe averne la responsabilità morale? Di fronte a questa impossibilità funzionale, Wegner (2004) ha attribuito all’epifenomeno illusorio potenti proprietà causali che «possono avere copiosa influenza». L’autopercezione illusoria di avere agito male farebbe sentire in colpa, indurrebbe ad atti riparatori e stimolerebbe a comportarsi in maniera responsabile in futuro. Ma nel modello concettuale di Wegner, l’autopercezione fenomenica non può produrre nessuno di questi effetti morali perché è strutturalmente disgiunta dal sistema comportamentale. In questa contraddittoria connessione strutturale, gli epifenomeni non funzionali assumono proprietà causali. La rinuncia selettiva di Wegner all’epifenomenalismo recupera la responsabilità del comportamento dannoso, ma solleva il difficile problema concettuale di stabilire perché l’autopercezione causativa sia limitata al comportamento morale restando scollegata dal sistema comportamentale in tutti gli altri ambiti di attività. Come per il veto della coscienza di Libet, lo sforzo di fare spazio a un’eccezione nella teoria epifenomenica, in cui l’autopercezione opererebbe in modo causale in ambito morale, genera contraddizioni teoriche. Quindi, dopo il veto della coscienza di Libet e l’epifenomenalismo di Wegner, non si sa ancora come un automa cosciente possa essere moralmente responsabile della sua condotta. Il grande neuroscienziato cognitivo Michael Gazzaniga (2005) dubita che le neuroscienze abbiano attinenza con il problema della moralità. Sulla questione, tuttavia, ha opinioni eterogenee (Carey, 2011). Da un lato, sostiene che i dati neuroscientifici non sono in grado di dirci se un certo comportamento sia giusto o sbagliato o di determinarne la responsabilità. I giudizi di correttezza e responsabilità, sostiene, trovano una spiegazione ai livelli psicologico e sociostrutturale della causazione. Dall’altro lato, è uno dei promotori dell’idea che il comportamento sia controllato automaticamente a livello micromeccanico subpersonale: «Il cervello agisce in gran parte in modo automatico; prima agisce e poi fa le domande» (Carey, 2011). In questa prospettiva, i processi di pensiero sarebbero, per la maggior parte, resoconti inventati più che vere determinanti del comportamento. Un pilota automatico che operi sotto il livello della coscienza


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non può essere ritenuto responsabile del comportamento che genera. Se il pensiero cosciente è privo di influenza causale, le neuroscienze e le scienze comportamentali sono irrilevanti per la moralità. Essa resta inspiegata. Roskies (2006) rassicura i suoi lettori: non si deve avere paura che le neuroscienze mettano in discussione l’idea di sé in quanto agenti responsabili; infatti i giudizi di responsabilità sono indipendenti da una visione del mondo deterministica o indeterministica. In realtà, è vero il contrario. Nella fattispecie, chi crede di essere una semplice rotella di un ingranaggio non si sente responsabile delle proprie azioni, mentre chi pensa di avere qualche influenza su ciò che fa si ritiene almeno in parte responsabile. Queste diverse visioni hanno una ricaduta personale e sociale. Per questo, chi attua il disimpegno morale trova modi complicati per assolversi dalla responsabilità del danno che ha causato. Roskies spiega poi che, data l’enorme quantità di neuroni che interagiscono tra loro, il fatto che un neurone si attivi, e il tipo di potenziale d’azione che genererà, è un fatto più probabilistico che deterministicamente inevitabile. Quindi, Roskies afferma che le neuroscienze non possono minare la libertà e la responsabilità morale perché, allo stato attuale delle conoscenze, non sono in grado di dirci se il cervello sia una macchina deterministica. Se tale variabilità rifletta processi indeterministici o processi deterministici complessi, conclude l’autrice, deve essere stabilito dalla teoria fisica e non a livello dei neuroni. Per queste ragioni, nella prospettiva di Roskies, il problema morale è la percezione di un problema, che lei considera malposto. I teorici della neuroetica e della metafisica non sono i soli ad aver preso in considerazione le implicazioni etiche di una visione neuroscientifica della natura umana. Anche alcuni perspicaci scrittori al di fuori di questo campo, come Tom Wolfe (1996), sono intervenuti autorevolmente con prospettive stimolanti sul tema. Troppo spesso le controversie sul controllo personale sono formulate in termini dicotomici e assoluti, in particolare nel campo filosofico. O si può esercitare un controllo illimitato oppure si è automi coscienti guidati da condizioni che eccedono il proprio controllo. Nell’agency morale gli individui possono esercitare un certo controllo su come le situazioni li influenzano e su come loro modellano le situazioni. Nell’interazione triadica intrapersonale, comportamentale e degli eventi ambientali, gli individui immettono la propria influenza personale nel ciclo di causazione con le proprie scelte e le proprie azioni. Varia, di conseguenza, il grado di controllabilità delle attività. Le capacità autoregolatorie, che possono essere apprese, possono consentire il raggiungimento di obiettivi ardui. Inoltre, la perdita del controllo è il risultato finale di una catena di eventi la cui controllabilità varia lungo il percorso. Nel gradiente sequenziale di controllabilità è più facile esercitare il controllo nelle fasi iniziali di un’attività che dopo essersi trovati costretti da circostanze stringenti a comportarsi diversamente. Un forte bevitore, ad esempio, ha più probabilità di arrivare a casa sobrio dopo un incontro serale se sulla via del ritorno non incontra


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bar, che non nell’eventualità che il suo percorso sia costellato di locali invitanti che gli lanciano la sfida di dover, innanzitutto, resistere a una breve sosta, e poi quella ancora più ardua di controllare la quantità di alcol che assumerà se inizierà a bere. Ciò che è apparentemente incontrollabile in circostanze difficili è controllabile nelle sue fasi iniziali. Se prendesse in considerazione le conseguenze presumibilmente avverse di una sosta per un bicchiere, il bevitore che desidera resistere al suo vizio dovrebbe scegliere il percorso privo di bar. Anche la convinzione personale della propria efficacia autoregolatoria influisce sulla controllabilità. Le persone con un’alta efficacia autoregolatoria percepita compiono sforzi di controllo più strenui, perseverano di fronte alle difficoltà e sono inclini ad attribuire le ricadute a condizioni esterne e modificabili piuttosto che a deficit personali intrinseci che rendono impotenti nelle circostanze difficili (Bandura, 1997). Maggiore è l’efficacia autoregolatoria percepita per la resistenza alle pressioni sociali a comportarsi trasgressivamente, minore sarà il coinvolgimento in attività antisociali (Caprara, Regalia e Bandura, 2002). Il controllo personale non viene praticato nell’isolamento sociale. Nell’esercizio dell’agency per procura, gli individui conservano l’autocontrollo valendosi dell’aiuto di altri. Il sostegno sociale rafforza l’autocontrollo nelle situazioni difficili, e nell’era elettronica in cui viviamo i social media possono fornire un sostegno per procura istantaneo. Nell’esercizio dell’agency collettiva, il controllo è reso possibile e praticato al livello del gruppo. L’idea che la controllabilità sia qualcosa che varia in funzione del contesto sociale è più in linea con le realtà quotidiane di autogestione rispetto alla prospettiva dicotomica secondo cui il comportamento è necessariamente controllabile oppure incontrollabile. Nel caso del disimpegno morale, le influenze personali e sociali vengono utilizzate per togliere i freni inibitori a una condotta lesiva, più che per rafforzarli. Il fatto che una prospettiva neuroscientifica indebolisca o meno la responsabilità morale dipende dalla portata della teorizzazione e dai tipi di sperimentazione che produce. In una prospettiva bottom-up governata dallo stimolo, il comportamento umano è attivato automaticamente da processi neuronali che avvengono al di fuori della consapevolezza e del controllo, e i pensieri si riducono a sottoprodotti privi di qualunque funzione. Evidentemente, nell’ambito di questo filone teorico, è inutile ritenere qualcuno responsabile di qualcosa che si situa al di là della sua consapevolezza e possibilità di controllo. Si ricordi la distinzione fra la comprensione del funzionamento del meccanismo biologico che produce il comportamento e la sua organizzazione agentica nel perseguimento dei vari scopi. Per usare un’analogia, la conoscenza delle leggi della chimica e della fisica implicate nella produzione delle immagini in un apparecchio televisivo non spiega l’infinita varietà dei programmi che tale apparecchio trasmette. Le attività neuronali creative nell’uomo devono essere distinte dalla produzione biomeccanica di immagini nel cervello. Secondo la metateoria agentica (Bandura, 2008; Sperry, 1993), le attività cognitive,


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Disimpegno morale

operando principalmente nelle strutture cerebrali di livello superiore, hanno una funzione regolatoria verso il basso sui processi cerebrali di livello inferiore che generano le azioni. Nella prima parte della vita, gli individui acquistano il senso del proprio carattere individuale contrassegnato da un’identità distinta e da caratteristiche personali. Quindi, elaborano la maggior parte delle loro esperienze quotidiane attraverso la propria rappresentazione di sé. Partendo da esperienze in cui producono effetti con le proprie azioni, sviluppano anche un senso di agency. L’esercizio dell’agency morale si fonda a livello cerebrale sul ragionamento morale, e l’influenza autoregolatoria sui criteri morali e le autosanzioni valutative. Come ho spiegato sopra, nell’interazione triadica delle influenze gli individui sono parte delle determinanti che governano il corso degli eventi. Con l’esercizio dell’agency si affaccia in misura sempre maggiore la responsabilità. In una prospettiva neuroscientifica cognitiva e affettiva che riconosca il controllo di secondo livello esercitato attraverso le autosanzioni morali, le persone possono essere ritenute parzialmente responsabili di quello che fanno. In questo capitolo introduttivo ho presentato la concezione della natura umana su cui è fondato l’esercizio dell’agency morale. Il prossimo capitolo passa in rassegna in modo molto dettagliato i vari meccanismi di disimpegno morale e mostra come essi operino di concerto, a livello di sistema individuale e sociale, al servizio di pratiche disumane. I capitoli seguenti documentano come ciò avvenga nei diversi ambiti della vita.


Albert Bandura Albert Bandura è il più eminente psicologo contemporaneo. Le sue ricerche — rinomate in tutto il mondo — sull’apprendimento sociale e la teoria sociale cognitiva hanno ispirato e influenzato trasversalmente accademici, teorici e decisori politici in campi diversi ed eterogenei. I suoi studi sul modeling hanno ampliato la nostra cognizione dell’apprendimento umano, mentre la riflessione sul costrutto di «autoefficacia percepita» ha posto le fondamenta della teoria dell’agentività umana, fornendo un contributo decisivo allo studio dei rapporti di condizionamento tra fattori cognitivi, comportamentali e ambientali. Ha trascorso la maggior parte della sua carriera alla Stanford University ed è stato presidente della American Psychological Association. Ha ricevuto innumerevoli e prestigiosi riconoscimenti scientifici, tra i quali il William James Award dall’Association for Psychological Science, l’E.L. Thorndike dall’American Psychological Association e il Distinguished Scientific Contributions Award come «magistrale esempio di ricercatore, insegnante e teorico». Nel maggio 2016 Barack Obama ha conferito a Bandura la National Medal of Science, il più alto riconoscimento che il governo statunitense assegna a chi ha contribuito in modo significativo all’avanzamento della conoscenza e alla promozione della scienza. Tra i suoi lavori principali: Social Learning through Imitation (1962, University of Nebraska Press), Principles of Behavior Modification (1969, Holt, Rinehart & Winston), Psychological Modeling: Conflicting Theories (1971, Aldine Atherton), Aggression: A Social Learning Analysis (1973, Prentice-Hall), Social Learning and Personality Development (1975, Holt, Rinehart & Winston), Social Learning Theory (1977, Prentice Hall), Self-efficacy: The Exercise of Control (1997, Freeman), Social Foundations of Thought and Action: A Social Cognitive Theory (1986, Prentice-Hall). Di Albert Bandura, le Edizioni Erickson hanno pubblicato Il senso di autoefficacia (1996), Autoefficacia (2000) e Adolescenti e autoefficacia (2000).


IL CAPOLAVORO DI UN MAESTRO DEL NOSTRO TEMPO Cosa hanno in comune un terrorista e un banchiere dell’alta f inanza? L’industria delle armi e quella dell’intrattenimento? I crimini ambientali e la pena capitale? Bandura descrive il meccanismo grazie al quale gli individui riescono a «disimpegnarsi» temporaneamente dalla morale senza sentirsi in colpa, come se questa fosse un interruttore che si può accendere e spegnere a proprio piacimento. Un libro forte e necessario, che ci mostra come gli esseri umani riescano a fare cose crudeli e a continuare a vivere in pace con se stessi.

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