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IL SAPORE DEL BOSCO
A CAVALESE, IN VAL DI FIEMME, PER SCOPRIRE
LA CUCINA DOLOMITICA, TRA RISPETTO DELL’AMBIENTE E INNOVAZIONE TECNOLOGICA
Sono montanaro, amo passeggiare nei boschi e lo faccio fin da quando sono piccolo. Mi piace calpestare le foglie secche, sentire il profumo del muschio e vedere i colori della natura nelle varie stagioni. Ho nel tempo maturato la convinzione che ogni bosco abbia il suo odore e il suo sapore e così decido di andarne a scoprire uno in Trentino, precisamente a Cavalese, ai piedi dell’Alpe Cermis. Comincio la mia passeggiata su un sentiero ben tracciato e mentre cammino assorto nei miei pensieri sento alcune voci in lontananza. Seguo il suono e capisco che provengono dal bosco inoltrato, fuori dal sentiero. Sono indeciso se seguire o meno il vociare ma alla fine mi faccio coraggio e mi avvio. Vedo un gruppo di persone e, arrivato a pochi metri, vengo invitato a unirmi. Uno di loro si presenta: «Piacere, sono Alessandro Gilmozzi e i ragazzi che stanno con me sono tutti membri della mia brigata». Penso siano i partecipanti a uno di quei giochi di guerra nei boschi che tanto vanno di moda ma il loro abbigliamento non è consono a una battaglia. Chiedo di che tipo di brigata si parla e uno dei ragazzi mi dice: «Lui è il nostro chef e patron di El Molin, un ristorante stellato a cui la Michelin ha attribuito anche la stella verde per la sostenibilità, e noi oggi stiamo facendo un’uscita di foraging, cioè raccogliamo bacche, fiori, licheni, foglie e cortecce».
Interviene Alessandro che mi spiega meglio: «Io e i ragazzi usciamo almeno due volte alla settimana, talvolta più spesso. La mia cucina vive di erbe, funghi e cortecce selvatiche, ma anche di prodotti che acquisto dal contadino sulla base delle disponibilità o da masi specializzati nella coltiva- zione di erbe aromatiche tradizionali. Durante queste escursioni cerco di trasmettere loro ciò che ho ricevuto da ragazzo, affinché non vada perduto. La montagna è parte di me, sono nato qui, in un luogo unico al mondo. Sono cresciuto passeggiando nei boschi con mio padre e mia zia, le mie caramelle erano le bacche, e ho imparato fin da piccolo a riconoscere le erbe e i funghi commestibili, ad allenare la vista e l’olfatto per individuarli. Qualcosa che non si studia sui libri, o meglio, per cui i libri non bastano». La passeggiata procede con la calma che solo un uomo abituato a rispettare il tempo della montagna conosce. A ogni passo ci sono infiniti spunti per lo chef, che non smette di cercare con lo sguardo qualcosa che per noi è invisibile. Alessandro è generoso e risponde volentieri a tutte le mie domande, ma a un certo punto si ferma, con sguardo concentrato, e d’improvviso si china. Poi raccoglie un lungo pezzo di corteccia e l’appoggia con delicatezza nel cesto di vimini che ha con sé. Gli chiedo perché tanta delicatezza e lui risponde: «Per consentire a spore e pollini di continuare a diffondersi anche dopo la raccolta». Sono stupito dal suo grande rispetto per il bosco e lo incalzo chiedendogli cosa ne farà.
«È corteccia di pino cembro, o cirmo - lo. Un tempo, per raccoglierne la resina, che è la linfa e l’olio essenziale della pianta, si praticavano dei fori sugli alberi vivi con delle piccole trivelle. Ora, grazie alla tecnologia, possiamo effettuare questa raccolta in modo più sostenibile, senza danneggiare la pianta e limitandoci a scegliere i pezzi di corteccia che si sono già naturalmente staccati, ma rimangono ricchi di resina. Una volta rientrati, grazie all’uso di una pressa, possiamo estrarre dalle varie scaglie un elisir davvero incredibile. Un lavoro rispettoso della pianta, che richiede pazienza e viene effettuato goccia a goccia». Poi mi spiega che il cirmolo è un sempreverde molto resistente: cresce fino a un’altitudine di 2.400 metri e, nei secoli, ha rappresentato una grande risorsa gastronomica per quella terra. Il suo legno ha anche proprietà calmanti e rilassanti, tanto che se ne usavano i trucioli per riempire cuscini e costruire culle e giacigli.
Così Alessandro ha deciso di utilizzarlo nel suo ristorante. «El Molin è stato ricavato da uno dei mulini antichi che un tempo utilizzavano le acque del torrente Avisio. Io l’ho ristrutturato realizzando con il cirmolo la struttura interna del salottino di accoglienza e alcune stoviglie con cui presento i miei piatti, come la zangola che uso per montare il burro direttamente al tavolo o la scatola in cui serviamo le praline», mi spiega sorridendo. Poi cambia tono, si ferma e aggiunge: «Non è solo il legno a essere importante, pensa che con le pigne effettuiamo ben sette diverse lavorazioni, che ci consentono di ricavare resine e oli aromatici, ma anche estratti per cocktail e polvere da utilizzare per il risotto, ricreando il profumo della baita in inverno. Gli scarti delle lavorazioni, poi, vengono usati per alimentare i bracieri e scaldare l’ambiente».
Continuiamo a camminare, i ragazzi lo seguono e ascoltano attentamente, qualcuno raccoglie qualche fiore. Io guardo Alessandro e sorrido, stupito dalla sua filosofia di vita, che richiede tempo e impegno. Lui mi svela che dietro la dedizione si cela anche un intelligente utilizzo della tecnologia: «In passato, per alcuni procedimenti di stagionatura e maturazione servivano molti mesi, mentre adesso con alcune tecniche bastano poche ore per ottenere risultati uguali o addirittura migliori. Per esempio, dopo aver marinato il sedano rapa, l’ho maturato a ultrasuoni per qualche ora, come si fa con i salumi, con l’ulteriore vantaggio che questo processo elimina la carica batterica del prodotto. In questo modo, un vegetale povero riesce a sorprendere l’ospite al tavolo». Lo chef va avanti a parlarmi dei suoi piatti, nati grazie a intuizioni improvvise o per raccontare una storia. Come quella dei macaron, conosciuti come specialità parigina ma diffusi in Italia sin dal XVI secolo: «Nel periodo della Controriforma, durante il Concilio di Trento, ai vescovi piacevano moltissimo i cosiddetti basin de Trent, dolcetti fatti con albume d’uovo e polvere di mandorla. Io ho rielaborato questa tradizione disidratando la pasta e utilizzandone la polvere ottenuta al posto della farina di mandorle, per poi farcirli con una preparazione a base di rosa canina e fragola».
Alessandro è così legato alle dolomiti e alla Val di Fiemme che mi chiedo se abbia mai pensato di lavorare in un contesto internazionale. Mi risponde guardando a terra: «Da giovane ho avuto delle esperienze fuori, la mia famiglia ha sempre lavorato nel settore dell’ospitalità e io ero impaziente di vedere il mondo. Al mio ritorno, però, ho sentito che il mio posto era qui, che volevo proseguire una filosofia di cucina autenticamente dolomitica. Quando è stata assegnata la stella Michelin al mio ristorante, ho ricevuto una pro - posta molto interessante per lavorare in Canada, e non ti nascondo che in quel momento ho esitato». Alza lo sguardo, mi guarda fisso e aggiunge: «Alla fine, però ho scelto di rimanere, non riesco a immaginarmi altrove. Nei boschi sento il suono dei miei passi da bambino, la voce dei miei che m’insegnano cosa mangiare o come usare la resina di betulla per sigillare un taglio alle mani. So che questo è il mio posto nel mondo: i miei boschi sono anche i miei orti». di Padre Enzo Fortunato padre.enzo.fortunato padrenzo padreenzofortunato [Giornalista e scrittore]