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prefazione Il cinema di John Carpenter: l'ipotesi possibile

di Davide Di Giorgio

Osservando la carriera di John Carpenter si nota un'aderenza alla causa cinematografica pressoché totale: a parte qualche incursione, comunque significativa, nel campo televisivo (si pensi a Elvis, il re del rock), la filmografia onora un forte amore per il grande schermo e per le possibilità linguistiche del cinema, figlie di un'epoca che credeva di poter trattare da pari a pari con la realtà attraverso le possibilità insite nel racconto per la sala.

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È forse il dato che più lo avvicina a quello che in fondo era il suo vero sogno. Può infatti apparire per molti versi sorprendente, considerata la sua natura di maverick, ma il dato di fatto – e il regista lo ha confermato anche nella recente Masterclass a Cannes, durante il conferimento della Carrosse d'Or – è che il giovane Carpenter sognava di essere un regista buono per gli Studios, con cui realizzare film di vari generi. Quindi un professionista pienamente all'americana, prima ancora che un autore all'europea, più vicino al suo idolo Howard Hawks che a quell'Hitchcock cui è stato diversamente accostato.

Magari buono per una riscoperta a posteriori in fase critica, che gli avrebbe in ogni caso riconosciuto la capacità di costruire storie in modo personale, difendendo il suo punto di vista.

Tutto il contrario, insomma, non solo di ciò che poi il destino ha scelto per lui, ma anche della percezione che noi oggi abbiamo, ovvero quella di un autore fieramente controcorrente, restio al lavoro su budget alti e scientemente dedito al fantastico. Il giovane John Carpenter, in ultima istanza, ha dovuto imparare a diventare l'icona che oggi è considerato. In mezzo ci sono stati anni di produzione con ritmi molto elevati (la media è di circa un film all'anno), in un contesto che cambiava e che, pur ritrovando sempre più l'idea di uno studio system dopo l'esperienza della New Hollywood, ha faticato a stargli dietro, anche quando il suo cinema era pienamente calato nel suo tempo. La Cosa, in fondo, riprendeva il filo interrotto da Alien per celebrare definitivamente l'approdo del body horror nel mainstream, saldando il filo con le dinamiche che nello stesso periodo si consumavano quasi esclusivamente negli ambiti indipendenti, in cui sguazzavano ancora George Romero, Joe Dante, Sam Raimi e Wes Craven. Grosso guaio a Chinatown guardava dritto negli occhi la contemporanea new wave del cinema di Hong Kong che avrebbe contaminato Hollywood un decennio dopo. Il seme della follia è forse l'opera più compiuta nei territori della meta-narrazione che l'horror abbracciava negli anni Novanta.

Strano quindi che proprio un regista così coerente, calato nella sua contemporaneità e disponibile al lavoro interno alle dinamiche del cinema industriale sia poi diventato il simbolo di tutto ciò che si oppone a una simile visione. Per capirlo c'è voluto tempo: persino in Italia la vulgata era quella di un promettente artigiano affetto da cronica discontinuità.

Poche e coraggiose le voci fuori dal coro: penso al gruppo di Sentieri Selvaggi che, negli anni in cui Fuga da Los Angeles veniva liquidato come una deludente copia del precursore, gli dedicava un magnifico speciale sul numero 361 di «Cineforum» dall'illuminante titolo Fine della visione. Perché in ultima istanza la visione del tempo è sempre stata dalla parte di Carpenter: pur operando ai margini di un sistema che non lo capiva, il suo cinema era attuale e descriveva un'ipotesi possibile in cui autorialità e professionismo non erano in competizione, ma si incontravano. Il cinema raccontava il fantastico, ma attingendo sempre dalla realtà. È anche per questo che si moltiplicano i testi sul suo cinema, la bibliografia su di lui è fra le più ampie tra quelle dedicate ai registi del cosiddetto New Horror.

E ogni libro, come questo di Edoardo Trevisani, diventa un modo per ricordarci cosa quel giovane regista pieno di speranza è stato capace di fare mentre sognava di portare avanti la storia di quella settima arte che tanto amava. Un cinema che non cercava altro alibi che essere cinema. E che oggi, anche di fronte al semi ritiro più volte annunciato, ha ancora argomenti a suo merito: mentre leggete queste pagine, infatti, Carpenter lavora a nuovi progetti riguardanti fumetti, dischi, videogame e serie tv. L'autore è ancora pienamente nella contemporaneità e la sua avventura per fortuna continua.

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