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Il silenziatore della camorra

Ieri avvenne di Chiara Paoli

Il silenziatore della camorra

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Il 23 settembre del 1985 viene ammazzato Giancarlo Siani, giornalista napoletano. La sua colpa è stata quella di aver sollevato un polverone, che la camorra voleva sepolto sotto un tappeto. In quella fatidica giornata, sono le 20.50 circa quando viene colpito al suo rientro a casa in via Vincenzo Romaniello mentre è ancora in auto, nella sua Citroën Méhari, 10 colpi di pistola sparati da due Beretta 7.65mm, lo raggiunsero alla testa.

Questi i fatti che 35 anni fa scuotono il quartiere napoletano dell’Arenella, ponendo prematuramente fine alla vita di Giancarlo Siani, appena ventiseienne. Giancarlo nasce a Napoli, in una famiglia della media borghesia, il 19 settembre del 1959 i suoi studi lo portano ad ottenere nel 1978 la maturità classica con il massimo dei voti. Dall’anno precedente è entrato a far parte dei movimenti studenteschi e dopo la maturità si iscrive a Sociologia all’Università degli Studi Federico II. In questo periodo hanno inizio anche le sue collaborazioni con alcuni periodici locali che lo portano ad interessarsi e scrivere soprattutto di problemi di emarginazione e di disagio sociale, dove la criminalità organizzata si insidiava e reperiva i suoi “tirapiedi”. Con Gildo De Stefano, Antonio Franchini e altri giovani giornalisti Giancarlo fonda il Movimento Democratico per il Diritto all’Informazione, di cui si fece ambasciatore nei convegni nazionali dedicati alla libertà di stampa. Seguono i primi articoli per il periodico mensile “Il lavoro nel Sud”, testata promossa dalla CISL e la collaborazione con il quotidiano di Napoli “Il Mattino”, per cui operava come corrispondente da Torre Annunziata. Nel suo lavoro giornalistico si interessa per lo più alla cronaca nera, parlando anche di camorra e dedicandosi ai rapporti tra le famiglie che controllavano la zona. Inizia quindi a collaborare anche con l’Osservatorio sulla Camorra, periodico che ha come direttore il sociologo Amato Lamberti. Il suo sogno era poter ottenere un contratto per fare il praticantato e sostenere così l’esame da giornalista professionista e nel giro di un anno, grazie al suo impegno sempre in prima linea, ci riesce. Tra le sue rivelazioni anche quelle relative ai favoreggiamenti che seguono al terremoto dell’Irpinia e legano alcuni politici locali al clan di Valentino Gionta, un tempo pescivendolo e poi dedito all’illegalità, dal contrabbando di sigarette al controllo del mercato della droga. Quello che però porta alla sua sentenza di morte è un articolo pubblicato il 10 giugno 1985, in questo scritto Giancarlo accusa il clan Nuvoletta di voler scalzare il boss Valentino Gionta, divenuto scomodo, denunciandolo alla polizia. Questa “soffiata” gli era arrivata da un amico carabiniere e si rivelerà vera, Gionta viene infatti arrestato proprio mentre si allontana dalla tenuta di Lorenzo Nuvoletta a Marano di Napoli. I Nuvoletta sono affiliati ai Corleonesi di Riina e al clan Bardellino, insieme costituiscono quella che è stata soprannominata la “Nuova Famiglia”. Gionta verrà rivelato in seguito fu il prezzo da pagare al clan Casalesi per stringere un accordo di pace. L’articolo scatena le ire dei fratelli Nuvoletta, diffamati nell’onore di uomini di mafia. A ferragosto la decisione di “eliminare” Siani è presa, si pensa inizialmente di ucciderlo al di fuori del circondario di Torre Annunziata per sviare così le indagini. I fatti andranno diversamente e si compiranno nella serata del 23 settembre. Dalla morte del giornalista passano ben 12 anni, prima che la giustizia faccia il suo corso. La sentenza di ergastolo per i mandanti, Lorenzo e Angelo Nuvoletta con Luigi Baccante e per gli assassini Ciro Cappuccio e Armando Del Core, viene pronunciata il 15 aprile del 1997. Tra i mandanti dell’omicidio presenzia anche Valentino Gionta, che condannato in Appello all’ergastolo, verrà poi scagionato in Cassazione. Tra i misteri legati a questa

scomparsa, la telefonata per chiedere un incontro faccia a faccia ad Amato Lamberti, direttore dell’Osservatorio sulla Camorra con cui aveva collaborato. Ignoto il tema del colloquio, ma secondo le testimonianze si sarebbe trattato di un argomento “scottante” di cui parlare a voce, forse Siani temeva per la propria vita. Un libro-inchiesta pubblicato nel 2014 dal giornalista partenopeo Roberto Paolo, fa riemergere dubbi sulla sua morte, che hanno indotto Giovanni Melillo, coordinatore della Direzione antimafia della Procura di Napoli, a riaprire le indagini, affidate ai sostituti procuratori Enrica Parascandolo e Henry John Woodcock. Molte sono le scuole, le vie e le sale intitolate a Paolo Siani, oltre al cinema teatro di Marano di Napoli e a lui è dedicato il mensile “Narcomafie” del Gruppo Abele e Libera. Nel 2016 è stato svelato al pubblico un murales dedicato al giovane giornalista, l’opera compiuta dalla coppia di artisti italiani, noti come Orticanoodles è bicromatica, i colori sono: il verde della sua Citroën Mehari e il grigio seppia dell’inchiostro della Olivetti M80 con cui scriveva i suoi articoli.

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Qui USA di Francesca Gottardi

La pena di mortenegli Stati Uniti

Nostra corrispondente dagli USA

Gli Stati Uniti sono uno dei 54 Paesi al mondo dove ancora si applica la pena capitale. Il tema rimane tra i più dibattuti nelle cronache. Questo in luce del numero progressivo di Stati al mondo che la hanno abolita, attualmente 120 su 196.

Inizialmente, la pena di morte più utilizzata in USA era quella per impiccagione, diffusasi per scelta degli inglesi. Era prevista per crimini allora considerati gravi come l’adulterio, la sodomia, la stregoneria e l’omicidio. La funzione della pena era quella di deterrenza e di esempio per la comunità, per questo veniva spesso portata a termine in luoghi pubblici. Con l’avvento dell’illuminismo del XIX secolo, prese piede la tesi abolizionista. Seguì un calo delle esecuzioni, che culminò con una temporanea de facto abolizione della pena di morte con lo storico caso Furman v. Georgia. La sentenza sollevò l’opinione pubblica, in un periodo nel quale la criminalità ed il tasso di omicidi erano in drammatica crescita. Si ritiene che tale aumento fosse attribuibile ai moti di protesta degli anni settanta e ad un tasso di disoccupazione particolarmente elevato. Con il caso Gregg v. Georgia venne quindi reintrodotta la pena capitale. Il dibattito continua ancora oggi. La legislazione federale prevede l’utilizzo della pena capitale per i crimini come alto tradimento, omicidio plurimo, aggravato o di agenti federali, spionaggio ed attentato alla sicurezza nazionale, terrorismo. In alcuni casi la pena è prevista per reati che implicano stupro o tortura, minorenni o il traffico di droga. Dal 1º marzo 2005, la Corte Suprema USA ha dichiarato la pena di morte incostituzionale nei confronti di chi è minorenne all’epoca del reato. La sentenza, considerata storica, ha avuto l’effetto di tramutare immediatamente la condanna a morte di 70 detenuti in ergastolo. Non sono inoltre giustiziabili i malati di mente, anche se vi sono dibattiti nel determinare chi sia affetto da una condizione mentale. Storicamente, i metodi di esecuzione più utilizzati erano la sedia elettrica, l’impiccagione, la fucilazione e la camera a gas. Oggi la maggior parte delle esecuzioni avviene per iniezione letale. In alcuni Stati al condannato viene data la possibilità di scegliere il metodo di esecuzione. A causa della resistenza dei produttori di farmaci a fornire i farmaci tipicamente utilizzati nelle iniezioni letali, alcuni Stati ora consentono l’uso di metodi alternativi se l’iniezione letale non può essere eseguita. Le controversie relative al metodo da utilizzare hanno avuto l’effetto di ritardare le esecuzioni in molti stati, contribuendo a un declino generale nell’uso della pena di morte. Se a livello federale la pena di morte è legale, a livello statale vi sono notevoli differenze. In 21 Stati la pena capitale è stata formalmente abolita. Ad oggi, 29 su 50 sono gli Stati USA che ancora la prevedono, ma in 4 di questi è stata sospesa (vedi inciso). Lo Stato con il maggior numero di esecuzioni è il Texas, 565 dal 1982. Anche negli Stati abolizionisti, la pena di morte è comunque prevista per reati federali e militari. L’ultima esecuzione federale è stata quella di Timothy McVeigh, nel 2001, responsabile dell’attentato di Oklahoma City nel 1995. Il dibattito sulla pena di morte è tuttora molto acceso nell’opinione pubblica americana. Da anni organizzazioni come Amnesty International, Human Rights Watch, e la World Coalition to Abolish the Death Penalty (WCADP) si battono per abolirne l’uso. La situazione è incerta. Chissà che le imminenti elezioni 2020 possano portare ad ulteriori cambiamenti in materia.

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