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Racconti d’Arte: un vuoto di gatti e di topi
Racconti d'arte di Daniela Zangrando*
UN VUOTO DI GATTI E DI TOPI
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Penso che più o meno tutti noi abbiamo uno spazio che potremmo definire studio. Una stanza, un garage, un giardino, una soffitta, o magari l’automobile. Un luogo franco, nostro, dove teniamo pezzi di progetti, dove costruiamo qualcosa, in cui appendiamo biciclette e controlliamo freni, dove potiamo e facciamo innesti, o leggiamo. Dove ripetiamo scale per doppie terze e doppie seste, cantiamo, distilliamo grappa. A ognuno il suo. È un piccolo mondo, di cui ci pare di possedere tutti i segreti. Sappiamo se il giorno prima abbiamo appoggiato la matita sul davanzale invece che sul tavolo, conosciamo il momento in cui abbiamo sepolto qualcosa sotto una pila di scartoffie. Non dimentichiamo mai il chiodo a cui appendere il martello, che deve stare proprio lì e assolutamente non a fianco. Quando ci stiamo dentro, siamo in una dimensione che ci permette anche il silenzio, ci concede di sederci su uno sgabello nell’angolo, o per terra, a guardare il tempo e ascoltare i pensieri. Nel 2000 Bruce Nauman – classe 1941, uno degli artisti più significativi nel panorama artistico mondiale di cui si è appena chiusa una grande mostra a Punta della Dogana a Venezia e si sta tenendo una personale al Pirelli HangarBicocca di Milano – si trova nel suo studio, in New Mexico. Ha chiuso da poco un progetto impegnativo e ha l’impressione di non avere assolutamente alcuna idea su cui lavorare. Si sente frustrato. Si guarda attorno. «È stato il topo ad innescare questo lavoro»[i] – ci racconta. «C’è stata una grossa affluenza di topi di campagna quell’estate, in casa e in studio. Erano da tutte le parti ed era impossibile sbarazzarsene. Ce n’erano così tanti che anche il gatto si era stufato. Passavo la sera in studio a leggere e il gatto stava lì seduto con me, i topi correvano lungo i muri mentre noi li guardavamo. So già che ne aveva presi alcuni perché avevo trovato dei pezzi sul pavimento la mattina. Insomma, me ne stavo seduto in studio depresso perché non avevo idee nuove e allora decisi di lavorare con quello che avevo.» E quello che Bruce Nauman ha, è proprio il suo studio. «Quello che avevo era questo gatto, il topo, e una videocamera che poteva filmare ad infrarossi». Decide di montare la videocamera e di lasciarla accesa una notte, mentre non era lì. Ripensa a tutte le cose che ci sono in giro per lo studio, ai resti di qualche lavoro, agli appunti, ai materiali di progetti non finiti, e immagina di andare in qualche modo a mappare lo studio stesso. Anzi, lui vuole star fuori dalla scena, e lasciar che a mappare lo studio siano le presenze animali che lo abitano. Si rende presto conto che per mappare davvero quello spazio e dar senso alla mappa deve almeno lavorare su sette punti diversi, scelti in base ai passaggi che vede fare più frequentemente a gatto e topo, ma ha una sola videocamera che può girare un’ora per notte, per cui la sposta una notte qui, una lì. La accende prima di andare a letto, non tutti i giorni, al mattino guarda il girato, e tiene un diario di quel che succede. Da fine agosto a fine novembre-inizio dicembre costruisce una sorta di compilation: quarantadue ore di riprese che hanno al centro uno spazio vuoto, dove gli attori – che altri non sono se non le cimici, il gatto, il topo e qualche falena – decidono se e quando farsi vedere. L’azione, lo spazio agito, è una questione di possibilità, anzi di grossa possibilità. Questo materiale diventa poi la base per opere distinte ma tra loro collegate[ii], che consistono in una serie di proiezioni in DVD. In una versione, ad esempio, i nastri vengono proiettati in tempo reale per circa cinque ore e quarantacinque, in un’altra il nastro è stato montato in una sequenza molto più breve, di circa mezz’ora. Noi stiamo davanti alla proiezione. Guardiamo il suo studio. Capiamo che potrebbe non succedere proprio nulla, che la scena rischia di restare vuota, ma ci abituiamo presto alla sensazione, e smettiamo di cercare qualcosa in particolare. La percezione che abbiamo del nostro
corpo di fronte all’opera è la stessa che abbiamo negli spazi che eleggiamo a studi nel nostro quotidiano. Il tempo cambia modi, si dilata a dismisura per poi comprimersi inaspettatamente per un attimo quando un topo entra ed esce da un buco o si intravede il riflesso degli occhi del gatto fuori attraverso la porta a vetri. Il nastro scorre, e vediamo che alcune porte dello studio si aprono sull’esterno. «Si sentono i cani abbaiare ogni tanto, e i coyote che ululano qui e lì.» Ci sono un dentro e un fuori dunque. Dialogano. E questo dialogo «ha a che fare con l’essere in studio, con tutta l’attività che ne consegue e l’essere consapevoli che al di fuori di quello spazio c’è in realtà una natura molto più grande.» [i] Questa e le citazioni a seguire sono tratte da Janet Kraynak (a cura di), Please Pay Attention Please. Le parole di Bruce Nauman, Postmedia Books Srl, Milano 2004, pp. 113-118. [ii] Mapping the Studio I (Fat Chance John Cage), 2002 [Mappare lo studio I (Grossa possibilità John Cage)]; Mapping the Studio II with color shift, flip, flop & flip/flop (Fat Chance John Cage) All Action Edit, 2001 [Mappare lo studio II con cambi di colore, tagliare, saltare & tagliare/saltare (Grossa possibilità John Cage) versione con tutte le azioni]; Office Edit II with color shift, flip, flop & flip/flop (Fat Chance John Cage) Mapping the Studio, 2001 [Versione d’ufficio II con cambi di colore, tagliare, saltare & tagliare/saltare (Grossa possibilità John Cage) Mappare lo studio].
Daniela Zangrando è Direttrice del Museo d'Arte Contemporanea Burel di Belluno,