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La copertina del 1° numero del nostro periodico
L’EDITORIALE di Armando Munaò
A tutti Voi, un grande GRAZIE Care lettrici, cari lettori, fra un paio di mesi saranno due anni dalla nascita di Valsugana News e, com’è per ogni data in cui lo si voglia, sorge spontanea l’esigenza di fare il punto, di chiederci dove siamo e dove stiamo andando. Al di là di ogni valutazione autoreferenziale dalla quale mi tengo distante, credo che la rivista parli da sé di se stessa. Basti la considerazione del fatto che in molti degli oltre 540 punti di distribuzione in tutta la Valsugana, nel giro di poche ore è subito esaurita. Va via come il pane, per dirla con un’immagine popolare. Gran parte del suo successo lo deve certamente allo staff (29 collaboratori assidui nello scrivere molti dei quali iscritti all’Ordine dei giornalisti, che comprendono anche 2 avvocati, 2 psicologhe e 4 medici) che mese dopo mese la compone, con entusiasmo e competenza, senza risparmiarsi fatiche e nell’apertura massima a raccogliere e raccontare i fatti della nostra valle, o del resto del mondo, trasformandoli in storie, siano essi lieti, come sempre ci auguriamo, o purtroppo tristi. In ogni caso sono comunque portatori di notizia e informazione, utile e indispensabile al costruirsi del tessuto sociale della nostra vasta comunità valligiana. Una comunità, permettetemi di sottolinearlo, che sempre più dimostra di apprezzare i contenuti e la dinamicità del nostro giornale. Un successo che deve molto, anzi, moltissimo, alla storia de LA FINESTRA, il primo mensile gratuito della Valsugana ed uno dei primi in Italia,
che fondai nel 1989 della quale sono rimasto direttore responsabile fino al 2010, quando per motivi personali e di salute cedetti la proprietà ad Athesia, e Jonny Gadler, per dieci anni mio condirettore, ne assunse la guida firmando il suo primo editoriale da direttore responsabile col numero di aprile 2010. Come si svolsero poi le vicende del “mio” primo giornale è storia nota: pochi mesi dopo l’avvento di Valsugana News, il mensile La Finestra chiuse. La nuova avventura editoriale iniziata da qualche mese dal suo ultimo direttore è stata salutata con entusiasmo, almeno da quanto si legge ne “il Cinque”, e riceve qui anche i miei più sentiti auguri. Come ci racconta l’intervista “impossibile” a Benito Mussolini, il Trentino è sempre stato una terra prolifica di “fogli”, ricca di lettori formatisi in misura plebiscitaria sotto l’innovativa riforma scolastica dell’impero austroungarico, e dunque non può che far piacere il proseguire di questa tradizione che alimenta il valore della lettura e della diffusione della stampa nel suo mai sopito germogliare. Ragioni di marketing però non possono confondere la storia. L’eredità originale de La Finestra l’ha raccolta solo Valsugana News, che continua nello stesso solco fecondo tracciato dal sottoscritto 28 anni fa. Una “Finestra”, questo Valsugana News, rinnovata, migliorata, nella carta, nel disegno grafico, nell’impaginato, ma che ha mantenuto, come negli anni che furono, quell’atten-
zione agli sponsor che si vedono presentati come un’evidenza ineludibile al pubblico valsuganotto. Camminando su un sentiero di crinale, tra marketing e informazione, passo dopo passo (e La Finestra usciva anche 17 volte all’anno) continuiamo questo nostro andare sostenuti da un “giornalistico” impegno rivolto a una corretta informazione, alla garanzia di offrire sempre ai nostri lettori un prodotto di qualità, con notizie, fatti, avvenimenti, cronache, interviste e quanto è in grado di attirare e coinvolgere il lettore. Soprattutto, però, indirizzato ai nostri inserzionisti che con il loro apporto ci sostengono e ci spronano a continuare e a superare le difficoltà che una stampa libera e gratuita incontra sulla sua strada. Ed è a tutti loro, ai nostri sponsor, ai lettori e ai validissimi collaboratori che si indirizza il mio più sentito e doveroso ringraziamento.
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IL SOMMARIO Editoriale.......................................................... 3 La SAT di Borgo Valsugana ................................ 7
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Mussolini a Trento ........................................... 11 Rosa Broll, la Santa di Susà ............................. 11 Benito, giornalista a Trento .............................. 13 Walter Kaswalder, autonomista DOC ................. 15 Solidarietà ...................................................... 17 Cari ciclisti ...................................................... 18 Smart Working................................................ 20 La mostra “Oltre le scollature”.......................... 22 L’estrazione della torba.................................... 24 Intervista impossibile ...................................... 26 Psicologia & salute .......................................... 28 BAUMAN, scelta vincente................................. 40 AGIRE, coordinamento di Levico Terme ............ 64 L’amministratore di sostegno............................ 65 Altro Consumo: quanto costa il tuo conto ......... 66 Le cronache.................................................... 67 Kids as dolphins .............................................. 68 La Corale di Calceranica................................... 70 Le cronache.................................................... 71 L’avvocato risponde......................................... 72 Le cronache.................................................... 73 Tra storia e leggenda: Castel San Pietro............ 74 Le cronache.................................................... 75 Viaggio attraverso il territorio............................78
Grazie Presidente Boldrini..... 31 La prima Santa del Trentino.. 32 Donna, professione pittrice... 35 Escort, evoluzione o involuzione ....................... 37 Gli abiti più famosi nel cinema .......................... 38 Amelia Earhart..................... 42 Violenza sulle donne ............ 44 La danza del ventre ............. 46 Donne e proverbi................. 48 Erboristeria ......................... 50 I massaggi .......................... 51 Intervista a Patrizia Patelli .... 52 Belle dentro, belle fuori ........ 54 Osteoporosi......................... 55 Una squadra tutta al femminile ........................ 56 Vintage, la moda che non passa ..................... 59 Aborto oggi ......................... 61
ANNO 3 - MARZO 2017 DIRETTORE RESPONSABILE Armando Munao’ - 333 2815103 direttore@valsugananews.com VICEDIRETTORE Franco Zadra COORDINAMENTO EDITORIALE Enrico Coser - Silvia Tarter COLLABORATORI Roberto Paccher - Luisa Bortolotti - Elisa Corni Erica Zanghellini - Francesco Cantarella Francesca Gottardi - Veronica Gianello Maurizio Cristini - Alice Rovati - Daniele Spena Alessandro Dalledonne - Mario Pacher - Franco Zadra Laura Fratini - Francesca Schraffl - Sabrina Mottes Chiara Paoli - Tiziana Margoni - Patrizia Rapposelli Zeno Perinelli - Adelina Valcanover Giampaolo Rizzonelli CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA Dott.ssa Cinzia Sollazzo - Dott. Alfonso Piazza Dott. Giovanni Donghia - Dott. Marco Rigo EDITORE Edizione Printed srl Viale Vicenza, 1 - Borgo Valsugana IMPAGINAZIONE, GRAFICA Grafiche Futura STAMPA Grafiche Futura PER LA PUBBLICITÀ SU VALSUGANA NEWS info@valsugananews.com www.valsugananews.com info@valsugananews.com Registrazione del Tribunale di Trento: nr. 4 del 16/04/2015 - Tiratura n° 7.000 copie Distribuzione: tutti i Comuni della Alta e Bassa Valsugana, Tesino, Pinetano e Vigolana compresi COPYRIGHT - Tutti i diritti di stampa riservati Tutti i testi, articoli, interviste, fotografie, disegni e pubblicità, pubblicati nella pagine di VALSUGANA NEWS e sugli Speciali di VALSUGANA NEWS sono coperti da copyright EDIZIONI PRINTED e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore, del Direttore Responsabile o dell’Editore è vietata la riproduzione o la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni, per altri giornali o altre pubblicazioni, possono farlo richiedendo l’autorizzazione scritta all’Editore, Direttore Responsabile o Direttore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che, utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio e quindi fatta pervenire, a EDIZIONI PRINTED, le loro pubblicità, le loro immagini i loro testi o articoli. Per quanto sopra EDIZIONI PRINTED si riserva il diritto di adire le vie legali per di tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
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di Armando Munaò
LA SAT DI BORGO VALSUGANA L
a sezione SAT di Borgo nasce ufficialmente il 16 aprile 1920, data del riconoscimento da parte del Consiglio della Società degli Alpinisti Tridentini della costituzione della sezione autonoma di Borgo. Già da diversi anni comunque l'attività alpinistica in valle era radicata e si contavano numerosi soci SAT, alcuni già dagli anni 1875-80 come l'avv. Carlo Dordi, il dott. Agostino de Bellat, o Luigi Fezzi. Successivamente se ne aggiunsero altri, erano già comparse le prime guide alpine di valle, si parlava e si scriveva delle prime imprese alpinistiche, degli itinerari di montagna. Si organizzò nel 1896 un convegno SAT a Roncegno, e si inaugurò nel 1908 il primo rifugio di Cima d'Asta. Con tale fervore di iniziative si affermò, sempre più, l’esigenza di effettuare all'interno della SAT un certo decentramento organizzativo. Esso si rese concreto attraverso la figura dei "delegati locali" nominati dalla Presidenza della società e residenti in zone decentrate del Trentino. Tra i primi delegati di Borgo troviamo negli anni 1880-1903, Luciano De Bellat e Augusto Lenzi. Prima ancora della SAT, a Borgo un’altra associazione operava già in ambito alpinistico e sportivo in generale, era la società sportistica "Il Giovane Trentino" guidata da don Cesare Refatti, sacerdote educatore e alpinista, socio della SAT e valente foto-
grafo; a lui si deve tra l’altro il primo libro di vetta della croce di cima Dodici, del 1909. Dopo la Grande Guerra quindi nacque la sezione di Borgo, che fu subito attiva con numerose gite domenicali. Reggente era il Delegato Ruggero Lenzi (senior), sostenuto dall’entusiasmo di don Cesare Refatti, vero e proprio filo conduttore della sezione che in quegli anni trascinò in montagna intere generazioni di borghigiani. Dopo la seconda guerra, la SAT di Borgo si ricostituisce il 17 ottobre 1945 sotto la guida del rag. Flavio Dellai, e già nel ’46 si contano 90 soci. Tra alti e bassi l’attività prosegue, si organizzano gite sempre più lontane, si trova il posto per la sede (in casa Rinaldi – 1952), si cerca di rifare il rifugio di Cima d’Asta, nasce il Soccorso Alpino (1953), il villaggio SAT in Celado (1954), il coro SAT che poi sarà il Valsella (1956), si segnano i sentieri. Nel ’66 entra nella SAT la sezione Grotte Selva di Grigno e si tiene a Borgo il congresso provinciale della società. Nel ’69 viene eretta in cima Dodici una nuova grande croce, l’anno dopo si inaugura il bivacco Argentino. Nel ’76 nasce il 1° Meeting del Lagorai e si inaugura il nuovo bivacco "Busa delle Dodese". Il numero dei soci è in continua crescita, nel 1980 sono 166.
ANDREA DIVINA
IL DIRETTIV O
Presidente
MARIO LORENZIN Vicepresidente - Referente gite
LUISA MARCHETTO Segretaria - Cassiera
LIVIO ZOTTELE Responsabile e referente sentieri
REMO CAPRARO Referente sentieri
FAUSTINO TERRAGNOLO Referente tesseramenti e assicurazioni
NADIA DELLA MARIA Segretaria e responsabile sede
RIKI SEGNANA Referente per collegamento con le tradizioni e le parti storiche della SAT
GIANFRANCO TOMIO Referente settore alpinismo-arrampicata e corsi per giovani
Nell’85 si inaugura il nuovo rifugio di Cima d’Asta. Nel ’92 si realizza la sede attuale con un imponente lavoro da parte dei soci più volenterosi.
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ttualmente i soci della sezione SAT di Borgo Valsugana – www.satborgo.it (che ha sede in Piazza Degasperi al piano terra del Municipio ed è aperta per i soci e non, tutti i venerdì sera dalla 20,30 alle 23,00), sono più di 400, e partecipano attivamente a tutte le attività sociali che puntualmente e periodicamente vengono organizzate e messe in atto. Attività che comprendono in primo luogo gite escursionistiche in montagna (2-3 volte al mese) con vari gradi di difficoltà, camminate in montagna, dalle meno impegnative a quelle più faticose, fino a quelle per alpinisti esperti. Escursioni che di consueto vedono la partecipazione di 50/60 persone. Il tutto integrato da una gita all'anno di 3-4 giorni all'insegna del divertimento, dell'allegria e del vivere insieme. Di media, come evidenzia il Presidente Divina, vengono organizzate due escursioni al mese che possono essere effettuate con pullman o con mezzi propri, a seconda della distanza del luogo da raggiungere. Di particolare interesse è stato l’inizio di una collaborazione con le scuole elementari e medie che ha visto i soci SAT relazionarsi con alunni e insegnanti per presentare il territorio sia sotto l’aspetto storico che montano. Altri soci invece hanno organizzato per il 2016-2017 escursioni con ragazzi e insegnanti, con l’obiettivo di far nascere la sezione giovanile della SAT di Borgo Valsugana. Altra iniziativa in essere è stata la partecipazione al progetto “1000 ore” proposto alle varie associazioni dalla Comunità di Valle, che permetteva ai giovani che vi aderivano di poter svolgere un servizio in una delle associazioni presenti nel progetto. L'attività ludico-ricreativa della SAT di Borgo Valsugana comprende anche incontri e serate presso la sede sociale, all'interno della quale si intavolano discussioni a tema inerenti la montagna, anche con la partecipazione di esperti, oppure proiezioni di fotografie e filmati. E come tradizione vuole non manca l'annuale ritrovo di fine anno e il partecipato pranzo sociale.
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LE ATTIVITà SOCIETARIE A tutto questo deve essere aggiunto uno degli aspetti più importanti che riguarda proprio la sezione di Borgo, ovvero la manutenzione dei sentieri. Nel direttivo, infatti, ci sono dei responsabili di questo settore che si occupano di monitorare i 42 sentieri (per un totale di oltre 200 km) che la SAT di Borgo ha in assegnazione, e quindi coordinare in maniera organizzativa e funzionale i vari tipi di intervento che vanno eseguiti per la sicurezza e il buon mantenimento del percorso. Nello specifico si fa manutenzione della segnaletica, sfalcio
di siepi, liberazione dei percorsi da tronchi o massi caduti, il controllo e la sostituzione dei cartelli di segnaletica, la comunicazione alla sede centrale di Trento di eventuali variazioni che possono sorgere durante i percorsi e che possono essere di ostacolo alla percorribilità degli stessi. Tutta questa attività, coordinata dai responsabili, viene svolta dai vari soci della sezione. Dal 2015 la SAT di Borgo è anche referente e coordinatrice della gestione del “Baito delle Dodese”. Un’attività quindi meritoria di unanime consenso e di reale gratitudine. Ricordiamo infine che per essere soci della SAT e usufruire dei benefici collegati (agevolazioni sulle quote delle gite, sconti su pernottamenti nei rifugi, riviste del settore alpino, assicurazione infortuni durante le escursioni, diritto di partecipazione a tutti gli eventi e proposte della sezione) è necessario avere la tessera CAI rinnovabile annualmente.
Dal ’45 a oggi, questi sono stati i Presidenti della nostra sezione: 1. Flavio Dellai 2. Giuseppe Sollenni 3. Ruggero Lenzi senior 4. Dario Segnana 5. Gigi Cerbaro 6. Marco Ciola 7. Ezio Menapace 8. Giuseppe Ianeselli 9. Renzo Rinaldi
(1945) (1946) (1947) (1948) (1948 / 1949) (1950 / 1951) (1952 / 1956) (1957 / 1959) (1960 / 1963)
10.Tullio Zotta 11. Franco Gioppi 12. Carlo Galvan 13. Luca Alberini 14. Roberto Rosso 15. Lucio Cazzanelli 16. Riccardo Segnana 17. Faustino Terragnolo 18. Andrea Divina
(1964 / 1977) (1978 / 1985) (1986 / 1993) (1994 / 2001) (2002 / 2003) (2004 / 2005) (2006 / 2011) (2012 / 2015) (2016 / 2018)
La SAT, una storia trentina
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a Società Alpinistica del Trentino nasce il 2 settembre 1872 nel neonato Stabilimento Alpino di Campiglio, per iniziativa del suo proprietario, Giambattista Righi, di Prospero Marchetti, che ne assunse la carica di presidente, e Nepomuceno Bolognini, garibaldino nel 1860 con i Mille a Milazzo e nel 1866 a Bezzecca, primo vice-presidente. L’Associazione aveva l’intento di promuovere la conoscenza delle montagne, lo sviluppo turistico delle vallate, e l'italianità del Trentino. Una poesia dell’americano Henry Wadsworth Longfellow, “Excelsior!” fu adottata come proclama ideale della SAT. Fu proprio in conseguenza delle sue tendenze irredentistiche che nel 1876 l'Imperial Regio Tribunale di Trento sciolse la Società, rifondata a Milano l'anno successivo con l'attuale nome. Nel suo programma, la costruzione di rifugi, la realizzazione di sentieri, finanziamenti agli albergatori, organizzazione delle guide alpine, ascensione di cime e pubblicazione di scritti geografici e alpinistici. Negli anni andò aumentando la sensibilità nei confronti dell'ambiente montano, dalla promozione di un rapporto semplice e a misura d'uomo con la
montagna. Un impegno appassionato che vide sempre un costante aumento di soci, fino a più di 27mila, coinvolti in prima persona in un’opera di volontariato nella manutenzione di sentieri e iniziative a tutela dell'ambiente montano, in corsi di alpinismo, scialpinismo e speleologia, nello studio sul campo di ghiacciai, flora e grotte del Trentino. Nel 1881, su progetto dell'ing. Annibale Apollonio, venne costruito il rifugio alpino Tosa, nel settore centrale delle Dolomiti di Brenta. Si trattava del primo rifugio costruito dalla SAT. Nel 1904 venne pubblicato il primo numero del Bollettino dell'alpinista che dal 1932 sostituirà definitivamente la pubblicazione degli Annuari. Nel 1908 si inaugurarono quattro nuovi rifugi, ampliandone altri due: XII Apostoli, Stoppani, Cevedale, Mantova, Cima d'Asta e il rifugio-albergo Venezia alla Fedaia. Nello stesso anno venne fondata anche la SUSAT (Sezione Universitaria della SAT). Nel primo dopoguerra (1920) la SAT divenne sezione del Club Alpino Italiano (CAI), mantenendo però la sua autonomia. Gli anni che portano alla seconda guerra mondiale sono caratterizzati soprattutto dal ripristino dei
rifugi e delle opere danneggiate dalla guerra e dall'apertura dell'alpinismo a tutti gli strati sociali con la nascita della SOSAT (Sezione Operaia della SAT) che tiene il suo primo concerto nel 1926. Nel 1928 nasce il Comitato scientifico della SAT suddiviso nelle sezioni: glaciologica, limnologica e speleologica. Nel secondo dopoguerra la SAT si distingue per aiuti ai danneggiati da catastrofi naturali, il Natale alpino nelle zone disagiate, corsi, gite e incontri culturali. Nel 1952 nasce, primo in Italia, il Corpo Soccorso Alpino SAT, e il Festival Internazionale del Film di Montagna. Sempre in prima linea in battaglie ambientaliste per la salvaguardia dell’ambiente montano, attualmente la SAT è suddivisa in 81 Sezioni e 7 Gruppi; possiede 34 rifugi, 5 capanne sociali, 12 bivacchi e vari punti d'appoggio, cura la segnaletica e la manutenzione di 745 sentieri (3.955 km), 118 sentieri attrezzati (851 km) e 74 vie ferrate (309 km) per un totale di 5.116 km; il Soccorso alpino, dal 2002 è parte della Protezione civile della Provincia di Trento con il nome di Soccorso alpino del Trentino.
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Forse è il caso di precisare che scrivendo di Benito Mussolini abbiamo ben presente che la legge italiana considera l’apologia del Fascismo un grave reato, e sanziona “chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”. I fatti storici e le persone che ne sono state protagoniste vanno però raccontati come di fatto lo sono in migliaia di pubblicazioni dedicate al periodo fascista. Non per questo s’intende farne l’apologia, come il lettore accorto se ne potrà ben rendere conto. Solo un piccolo contributo alla memoria che è sempre bene tenere allenata perché la storia sia davvero maestra di vita e non abbiano a ripetersi certi suoi disastrosi errori.
Mussolini
a Trento
Benito Mussolini arrivò a Trento nel febbraio 1909 perché chiamato dal Partito Socialista austriaco per dirigere l'Avvenire del Lavoratore e la Camera del Lavoro di Trento. Sotto braccio teneva la «Gazzetta dell'Emilia» che titolava «Cro di Andrea Casna nache letterarie, il Futurismo»: un primo assaggio del Manifesto Benito Mussolini quando era futurista di Filippo Tommaso Direttore dell’Avanti Marinetti. Ad aspettarlo alla stazione c’erano Cesare Battisti con la moglie Ernesta Bittanti, e altri amici socialisti. Mussolini divenne ben presto caporedattore del Popolo (giornale socialista diretto da Battisti). I suoi articoli infiammarono l’animo dei “compagni trentini” scandalizzando gli esponenti del ceto medio e del clero. Considerato una minaccia, il pretesto per emanare il decreto di espulsione non tardò ad arrivare. Il furto alla Banca Cooperativa e la diffusione per mezzo stampa, alla redazione dell’Alto Adige, di un’edizione sequestrata dell’Avvenire del Lavoratore, fornirono alla polizia la giustificazione per arrestarlo. Processato a Rovereto fu poi scarcerato e condotto in auto a Mori, in treno ad Ala (dove fu salutato da un gruppo di compagni), per poi partire per Verona. Si chiudeva così l'esperienza a Trento del futuro Duce d'Italia: un'esperienza giornalistica e politica descritta da Luigi Sardi nel libro Il compagno Mussolini (2009, Temi). Nella città fedele all’Austria e al Papa, Mussolini contribuì a diffondere il verbo socialista e l'anticlericalismo con articoli come l’intervista alla Santa di Susà.
Il Popolo di sabato 12 giugno 1909. Il titolo della famosa intervista alla "Santa" di Susa’ di Pergine
Rosa Broll,
santadiSusà
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«La santa di Susà. Intervista» titolava il Popolo sabato 12 giugno 1909. Era l'intervista che Benito Mussolini fece a Rosa Broll, la donna «in odore di santità», che passò alla storia grazie a un articolo pubblicato proprio sulla testata socialista di Battisti.
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ell'estate 1909 Mussolini sentì la storia di una donna conosciuta come la «santa di Susà». La storia, in sintesi, è la seguente. Rosa Broll sposò un prete, di nome Antonio Prudel, il quale la nascose in casa facendola passare per santa. La relazione fu scoperta dalla gendarmeria e tutto, a seguito di un processo, fu messo a tacere per evitare lo scandalo. Mussolini non perse tempo e una mattina di giugno partì da Trento a piedi per andare a intervistare la donna. Giunto in paese «mi trovo davanti alla santa -scrive Mussolini. Quali amarissime delusioni sono riservate alle anime romantiche! Io mi aspettavo di vedere la Santa discendere dall'alto, adorna dalle sacre costellazioni, e invece la Santa compare da un uscio cigolante e sgangherato». All'epoca Rosa Broll aveva circa cinquant'anni e Mussolini iniziò l'intervista chiedendo: «Voi supponeste forse lo scopo della mia visita.... Ho saputo dei vostri casi giovanili... Desidererei qualche informazione esatta. La storia la conosco, però ignoro molti dettagli». La Broll rispose: «Oh, tutti sanno le mie avventure». Mussolini: «Ricordate l'anno in cui avete conosciuto don Antonio Prudel?» Rosa Broll: «Fu nel 1874» Mussolini: «E vi conobbe subito?» Broll: «Anca massa. Avevo all'ora 16 anni e lui ne aveva 20. Mi fece la corte alcune settimane e mi conquistò. Diventai la sua amante». Mussolini: «E mai sposa?» Broll: «Anca. Dopo due mesi andammo insieme a Trento a comprare le gioie». Mussolini: «Dove lo avete celebrato il matrimonio?»
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Broll: «Alla Madonna di Piné. Don Prudel mi accompagnò davanti all'altare e in presenza di due testimoni mi lesse una carta di dispensa che egli asseriva di aver ricevuto dal Papa e colla quale poteva sposarmi. Alla sua domanda risposi Sì. Egli aveva fatto chiudere le porte della Chiesa e salvo i due testimoni, nessuno al mondo avrebbe mai dovuto conoscere il nostro matrimonio segreto. Dopo, fui condotta in canonica e presentata come cugina dal lato materno di don Prudel. C'erano cinque o sei giovani preti che banchettavano. Non osai entrare in loro compagnia, malgrado i calorosi inviti. Restai un po' confusa e mi ritirai in cucina a mangiare con le serve. La sera stessa, a tarda ora, ritornammo a Susà. Il nostro appartamento era preparato nella Casa del Beneficio. Vi ho vissuto tre anni. Io stavo chiusa giorno e notte nella Casa del Beneficio, ma la gente cominciava a mormorare perché trovava strana la mia situazione. Allora don Antonio Prudel si mise a propagare la novella della mia santità. Due volte alla settimana veniva a comunicarmi, seguito da un gran codazzo di fedeli. Ogni venerdì, poi, regolarmente, mi faceva sudare sangue. Diventavo santa patoca. I contadini dei dintorni e dei paesi lontani muovevano in pellegrinaggio a Susà, mi chiedevano delle grazie e mi colmavano di regali. La gendarmeria nutriva forti sospetti sull'autenticità dei miei miracoli, ma finché i rappresentanti della forza pubblica non mi trovassero in canonica, don
Prudel aveva scavato un nascondiglio nel muro che esiste ancora, e quando si annunciavano i gendarmi, io mi seppellivo in quella specie di armadio e sfuggivo alle ricerche. Una sera, don Antonio organizzò un'apparizione in cui io avrei rappresentato la parte della Madonna. Mi vestii di bianco e assieme a una mia compagna, la Beata Martini, mi posi dietro a un filare nei prati ai Restellani presso Costasavina. Don Antonio soleva riunire seralmente i suoi coloni e distribuiva loro, con prodigalità, dell'acqua vite. Era appunto intento a conversare, quando un Martini fratello della Beata e già d'accordo nel trucco, corse ad annunciare l'apparizione. Subito vennero tutti quanti verso di noi, ma don Antonio li precedeva e a un certo punto li costrinse a inginocchiarsi. Dopo essere apparsa, io approfittai di quel momento per scomparire». Mussolini: «Il vostro matrimonio è stato fecondo?». «Oh, sì abbastanza -risponde la Broll. Ma poco fortunato. Il primo figlio, un maschio, fu abbandonato sulla porta della chiesa di Pergine da uno che non ricordo. Venne quindi raccolto e mantenuto dalla mamma Andreatta. Ma dopo 15 mesi morì». «Chi vi assisteva durante il parto? chiede Mussolini». «Ma lui, don Prudel. Poi dopo un anno e mezzo circa, ebbi una bambina. Questa fu portata di notte a Levico dentro una sporta e lasciata sulla soglia della chiesa. Ma i gendarmi che battevano in quell'epo-
Santuario Montagnaga - archivio A.p.t. Pine-Cembra - ph P. Fiorini
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La Santa bambina ca la campagna per trovare gli autori di una serie di furti, avevano notato l'individuo della sporta. Alla mattina il prete di Levico, aperta la chiesa, trovò la neonata che vagiva. Fatta immediatamente la denuncia, i gendarmi identificarono immediatamente l'uomo del misterioso carico e trattolo in arresto, ottennero da lui una confessione completa. In seguito al parto mi trovavo ancora a letto, quando vennero i gendarmi. Che scena! Don Prudel sembrava fulminato. Mi adagiarono su una barella e mi portarono a Pergine. Vi rimasi cinque giorni e poi fu condotta a Trento, non alla Vanga, bensì all'ospedale». La bambina morì dopo una ventina di mesi. Vi fu poi un processo e il parroco di Santa Maria Maggiore invitò la Broll a «dichiarare davanti al giudice che la bambina abbandonata non era di don Prudel, ma di un vagabondo, anzi di un soldato che mi aveva presa per forza. Io promisi, per evitare lo scandalo, di non fare il nome di don Prudel». Durante il processo «quando si trattò di giurare che io non avevo avuto relazioni con don Prudel, non fui capace di mentire e dichiarai: è stato il prete e non altri. Così dissi. Lo possono dire i testimoni presenti». Il processo si concluse senza condanne. Don Prudel, si legge nell'articolo di Benito Mussolini, partì per San Lorenzo in Banale e Rosa Broll fu abbandonata al suo destino. Le foto del servizio sono state tratte dal libro “ Il compagno Mussolini” di Luigi Sardi Tipografia Editrice TEMI Trento – Ottobre 2009
Intervista impossibile a Benito Mussolini
di Franco Zadra
BENITO, GIORNALISTA A TRENTO
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’intervista alla “Santa di Susà” di cui ci ha raccontato Andrea Casna nel suo articolo, divenne un libricino venduto a 6 centesimi “Pro Avvenire del Lavoratore”. Nella prefazione – scrive Luigi Sardi – si legge: “Per molte insistenze di compagni che non leggono e non possono leggere giornali quotidiani, mi sono deciso a ripubblicare in opuscolo l’intervista che vide la luce sulle colonne del Popolo. Il processo e i casi per cui la povera contadina di Susà ebbe per qualche tempo gli onori della santità, sono forse analoghi a quelli delle altre sante che la chiesa cattolica ha posto sugli altari. Superstizione, miseria, ingenuità da una parte; raggiro, abuso, furberia dall’altra, e una solenne documentale smentita a certi voti di castità che non possono essere mantenuti senza forzare la natura umana. Lo so che l’episodio non è l’unico, ma giova rilevarlo perché molti sono i ciechi che non vogliono vedere, i sordi che non vogliono sentire, gli ignavi che subiscono e si rassegnano invece di reagire e di lottare. Prescindete dai personaggi che vi figurano, e di questo racconto storico, o compagni, o lettori riflettendo, voi troverete l’ultima morale. Io credo di aver fatto opera utile per la nostra causa”. Ventiseienne, Mussolini arriva a Trento in treno il 6 febbraio 1909 per esserne espulso sette mesi dopo, il 27 settembre. Per conoscere, al di là di quanto tramandato dalle cronache, alcuni aspetti più personali del suo soggiorno in Trentino, abbiamo deciso di intervistarlo. Impossibile? Leggere per credere!
Eccellenza, come sta? Scusi se la disturbo… Bene, grazie. Non mi disturba affatto. Stavo giusto per chiamarla dopo aver letto le bozze di quanto scrivete su Valsugana News. Volevamo ricordare il suo soggiorno a Trento.
Già. Un periodo intenso. Ero giovane. Vi trovai tanti compagni che mi volevano bene, come fratelli. Quando vi ritornai, dopo 25 anni, il 31 agosto del 1935, dissi: “Non è senza emozione che io ritorno a Trento che è stata e sarà nei secoli il baluardo incorruttibile, inespugnato e inespugnabile della lingua e della razza”. Ricordiamo quel discorso, belle parole… In effetti… con le parole ci sapevo fare, ma da giornalista mi dava più gusto giocarci. Mi piaceva il potere delle parole che sperimentavo, molto di più delle parole di potere che ho usato poi da “duce”. Ma preferisco non parlare di politica. Leggevo molto. Trascorrevo tutto il mio tempo libero nella bella sala di lettura in via Roma. I venerdì sera li passavo in birreria dove intrattenevo i molti che mi aspettavano, con discorsi a braccio che piacevano molto. Allora non c’era la televisione. I comizi in birreria. Ne ricorda qualcuno? Uno in particolare impressionò anche me, tanto che poi non riuscii a prendere sonno una volta rincasato nella stanzetta al secondo piano di via della Cervara, 4 (ora il civico 29, Ndr.). Tutti sapevano del mio ateismo, prima di arrivare a Trento mi firmavo “Vero Eretico”, ma in quella città in mano ai pipistrelli (i preti, Ndr.), c’erano di quelli che ne dubitavano. Mi dicevano che un vero ateo non può esistere. Allora, mi ricordo, mi aprii la camicia facendo saltare qualche bottone, salii su di un tavolino e, guardando tutti dall’alto, dissi: “che il Signore Iddio mi strafulmini ora per tutte le bestemmie che sto per dire, se esiste!”. Così, per buoni cinque minuti inanellai tutte le bestemmie più truculente che conoscevo
e anche qualcuna che m’inventai al momento. Dio non m’ha fulminato. Com’è stato fare il giornalista a Trento? Be’, a parte il fatto che si veniva pagati poco, ma non m’interessavano i soldi, in Austria le riforme dell'istruzione volute da Maria Teresa facevano si che tutti sapessero leggere, e come leggevano! Vi erano tre quotidiani, che si chiamavano così anche se uscivano al massimo tre volte in settimana, e fare il giornalista era molto stimolante, venivi guardato con rispetto e considerazione da tutti. Poi, non per vantarmi ma, L’Avvenire del Lavoratore lo compravano soprattutto per leggere le mie storie su Claudia Particella, l’amante del cardinale. Con la Chiesa poi fece pace, visto che ha sottoscritto i Patti Lateranensi… Diciamo che ai tempi avrei bruciato il Vaticano con tutti i preti dentro, ma quando si tratta di governare, scendere a patti è una questione di opportunità. Anche se governare gli italiani, lo sapevo, è stata un’impresa impossibile. Altro che questa intervista… Qualche rimpianto? Non mi perdonerò mai per come finì la storia con Ida Dalser (di Sopramonte, Ndr.) e mio figlio Benito Albino. Ragioni di Stato m’imposero di rinchiuderli in manicomio, ma me ne vergognerò in eterno. Ora però debbo andare. Addio!
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WALTER KASWALDER
di Armando Munaò
autonomista DOC Nato a Trento il 4 aprile 1956, vive da sempre a Vigolo Vattaro. Dal padre, medico condotto, eredita lo spirito di servizio e l'impegno incondizionato verso gli altri, che si riflettono anche nel proprio modo di interpretare la politica. Iscritto al P.P.T.T. (Partito Autonomista Trentino Tirolese) dall'età di 18 anni, è stato prima Segretario e poi Presidente del PATT fino al marzo 2016. Consigliere comunale di Vigolo Vattaro dal 1983, è stato vicesindaco dal ‘92 al ‘95 e sindaco dal 2000 fino alla data della sua elezione in consiglio provinciale. Dal 2005 al 2012 è stato responsabile del patto territoriale della Vigolana e componente del Consiglio delle autonomie locali e del Consorzio dei Comuni. Rappresentante Anci e Uncem dal 2010 al 2013, particolarmente attento e critico sull'evoluzione delle istituzioni territoriali, strenuo difensore dei Comuni, gli sono cari i temi dell'Euregio ed è da sempre sostenitore dell'importanza della cooperazione transfrontaliera e dei rapporti con i vicini territori Tirolo e Sudtirolo. È eletto Consigliere provinciale del Patt nel 2013. Nel gennaio 2017 il Collegio di disciplina del partito lo espelle nonostante sia considerato dalla base autonomista una delle figure più carismatiche e importanti nella storia degli autonomisti.
L’INTERVISTA Come e quando nasce il Kaswalder politico? Inizio la mia attività all’interno del Partito Popolare Trentino Tirolese all’età di 18 anni allorquando incontro Enrico Pruner, storica figura di riferimento per tutti gli autonomisti trentini. Mi appassiono alle sue battaglie ed ai vecchi valori autonomisti del Partito che sono a tutt’oggi attualissimi per me e per moltissimi trentini. Ricordando Silvius Magnago, in che misura ne valuta la figura di politico e quale la sua eredità e i suoi insegnamenti? Magnago è stato per me un punto di riferimento nel corso della mia crescita politica. Mi ha sempre spiegato che il politico deve innanzitutto essere un esempio di moralità e di correttezza. Da “Lui” ho appreso l’abnegazione al lavoro, sempre e comunque, e la fedeltà negli ideali dell’autonomia. Un uomo dagli altissimi valori morali che può esser descritto solo con una parola: un ESEMPIO. Che cosa intende, concretamente, quando parla di impegno politico per la comunità? Ciascuno di noi che abbia intenzione di impegnarsi in politica deve avere chiare alcune visioni del domani. In questo momento i temi più importanti sono la necessità di dare un futuro lavorativo ai nostri giovani, perché è il lavoro che da un senso compiuto alla nostra esistenza; la gestione del nuovo rapporto anziani e società in ragione dell’esponenziale aumento del
numero degli anziani; la gestione e la salvaguardia del territorio, nostra vera ricchezza come trentini ed il collegato concetto di sviluppo economico nel pieno rispetto della natura. In quali cause e in quali progetti è attualmente impegnato? Sono impegnatissimo nella preparazione di alcune iniziative. La prima, già pronta, è un disegno di legge che riguarda l’abolizione del parametro ICEF per le persone che abbiano più di 70 anni con i requisirti di residenza di legge. La seconda è una forte iniziativa pubblica per la rinascita del mondo cooperativo a tutti i livelli: i recenti passi falsi dimostrano come le nostre cooperative debbano essere rivitalizzate e rinnovate, sempre nel solco della tradizione. La terza, più importante per il nostro territorio, è dare corpo al mio Ordine del Giorno approvato in Consiglio provinciale il 17 dicembre 2015 sull’elettrificazione della ferrovia della Valsugana, pietra miliare per lo sviluppo della VALSUGANA, del PRIMIERO e del TESINO.
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A suo avviso che ruolo ha la politica in famiglia? Fin da ragazzo la politica è entrata nella mia famiglia come argomento di conversazione quotidiano. A tavola si è sempre discusso con serenità e passione dei più disparati argomenti politici ed il mio impegno è sempre stato incoraggiato sia dai miei genitori che dai miei fratelli. L’Autonomia spiegata a un bambino, come è nella sua visione personale, e corrisponde a quanto si è realizzato finora in Trentino? Questo è un tema che mi è particolarmente caro perché credo che la nostra autonomia non sia mai stata spiegata appieno ai nostri giovani. Quando arrivano in consiglio alunni delle elementari o delle medie mi piace molto coinvolgerli e far capire loro il significato della nostra autonomia e i suoi valori. È cambiato il modo di fare politica rispetto gli inizi della sua carriera? Ai miei tempi ci venivano insegnate la modestia, l’umiltà e l’importanza della gradualità della crescita: andavamo ad attaccare i manifesti elettorali, facevamo volantinaggio, ascoltavamo e imparavamo. Il dottor Pruner era un esempio, nessuno lo contraddiceva. Era grande il rispetto dell’autorità costituita e ogni contestazione se non era adeguatamente motivata veniva frustrata sul nascere. Oggi nessuno fa la cosiddetta “gavetta”, anzi, sembra che il fatto di
non avere mai fatto politica sia trasformato in un merito. Qualcuno pensa forse che si possa iniziare un percorso dall’arrivo? Trasparenza e partecipazione sono principi fondamentali nel fare politica? Certo. Da sempre gli autonomisti sono per la partecipazione dei cittadini nelle decisioni. La partecipazione è certamente un valore ed io nel mio piccolo ho appoggiato in ogni modo i pochissimi disegni di legge popolari che sono arrivati in Consiglio provinciale e regionale. Non più tardi di due settimane fa ho votato a favore sul disegno di legge popolare proposto dalle ACLI sull’abolizione dei vitalizi e la riduzione dello stipendio dei Consiglieri provinciali. La definizione della sua appartenenza politica è cambiata in conseguenza della sua espulsione dal Patt? Assolutamente no. Io sono più autonomo e più autonomista di prima. Ho la certezza di non aver mai tradito i principi ispiratori del partito nel quale ho militato per 43 anni. Forse è qualcuno
Kaswalder con Luis Durnwalder
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Kaswalder con Silvius Magnago di quel partito che ha dimenticato i valori per i quali i nostri padri hanno lottato. Voglio ricordare che io sono stato accusato, fra le altre cose, di aver votato in difformità rispetto al mio ex partito sul mantenimento dei crocifissi nelle aule di scuola (io ero ovviamente a favore), sulla necessità di chiamare padre e madre i genitori di un bambino o di una bambina (anziché genitore 1 e genitore 2), sulla salvaguardia della famiglia tradizionale che io ho sempre difeso e sempre difenderò in ogni modo. Non è quindi cambiata la mia appartenenza. Io non sono un autonomista OGM come qualcun altro è diventato! Cosa vuole fare da “grande”? Voglio umilmente cercare di mettere assieme i tantissimi trentini e trentine che si riconoscono nella autonomia che i loro genitori e i loro nonni hanno lasciato: una autonomia da difendere e da rilanciare, per trasmettere ai nostri figli il valore della politica fatta per il bene comune e non per i tornaconti personali. L’ambizione che ho è quella di creare un gruppo di persone che sappia far rinascere la voglia di fare politica assieme, la voglia di crescere nella nostra autonomia e di far crescere la nostra autonomia.
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In Sud Sudan si sta abbattendo una catastrofe spaventosa che cresce esponenzialmente. La carestia è stata appena dichiarata nella parte centro-settentrionale del Paese: il che significa fame per 100.000 persone. Uomini, donne e bambini stanno già morendo per mancanza di cibo, 1 milione di bambini soffrono per malnutrizione acuta. Se non raggiungiamo in brevissimo tempo questi bambini, e tutte queste persone con aiuti alimentari, molti di loro moriranno. Il World Food Programme è già in Sudan in alcune delle zone più colpite e in queso momento sta distribuendo razioni di cibo a 66.000 persone, ma deve raggiungerne di più. È per questo che anche noi di Valsugana News ci
foto: WFP/Alexis Masciarelli
rivolgiamo ai nostri lettori, perchè un vostro aiuto tempestivo aiuterebbe il WFP a dare assistenza alimentare immediata a coloro che stanno rischiando la morte per fame. Ogni giorno conta. Quando il numero di persone bisognose è così alto, è difficile immaginare come ognuno di noi possa fare la differenza, ma anche con poco si può salvare una vita: insieme al World Food Programme una piccola donazione (50 euro) diventa cibo per 3 mesi, salvezza e vita per un bambino in Sud Sudan. Ciò significa che con 25.000 Euro possiamo insieme garantire cibo per 3 mesi a 500 bambini che rischiano la vita per mancanza di cibo, salvandoli. Con 50.000 Euro ne salveremo 1.000! Ogni donazione conta. Ogni vita conta. Grazie a tutti Voi per quanto farete.
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CARI CICLISTI… non basta il casco…
ci vuole anche la testa
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on l’arrivo della primavera si ripresenta come ogni anno, ma sempre in misura maggiore perché la maleducazione è contagiosa come certe malattie infettive, il problema dei ciclisti che viaggiano sulle strade in doppia, tripla e anche quadrupla fila, convinti forse che con l’acquisto della bici abbiano ottenuto anche il diritto all’uso esclusivo delle strade. Ormai è diventato uno sport diffuso da parte di molti ciclisti, che non si possono definire della domenica perché imperversano in mezzo alla strada ogni giorno della settimana, quello di mandare al paese tutti gli automobilisti che si permettono di suonargli. Che poi spesso viene fatto per indicare ai ciclisti di stare attenti e per tutelare la loro incolumità. Appena suona il clacson, apriti cielo, partono una serie di offese e di volgarità da far impallidire anche Vittorio Sgarbi. Non tutti i ciclisti si comportano così, per fortuna, ma viene da
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pensare che i maleducati trovino rigenerante non tanto una bella pedalata all’aria aperta, ma passare la giornata sui pedali a urlare agli automobilisti tutta la loro frustrazione. Comprendiamo che i tempi non sono facili per nessuno, che la crisi ha dimezzato le risorse economiche e raddoppiato i pensieri, e che i nervi siano a fior di pelle, ma allora, a maggior ragione, quale migliore soluzione di una giornata in bicicletta tranquilla anziché passarla a inveire contro il mondo intero a quattro ruote? Invece niente. Poverini,
di Roberto Paccher
agli scatti sui pedali preferiscono gli scatti d’ira. E poi questi “novelli” Coppi e Bartali, non avranno mai valutato l’ipotesi di andare sulle piste ciclabili, che sono state fatte appositamente per le biciclette? La nostra Provincia ne ha fatte ovunque, ha speso fior di milioni per renderle attrezzate e sicure, e i “nostri eroi” preferiscono anche le superstrade con tutti i disagi ed i pericoli che ne derivano. Strana gente, certi ciclisti, sarebbe come se gli appassionati di golf giocassero in mezzo alla strada anziché andare nei
campi da golf, e si lamentassero perché gli automobilisti passano con le macchine e chiedono di scansarsi. Con l’attenuante però che certe strade, per via delle buche potrebbero anche essere scambiate per dei campi da golf. Il paradosso è che non si comportano in questo modo ragazzini adolescenti o bambini, ma gente adulta che per di più quasi sempre ha la patente e che quando scende dalla bici e si mette alla guida della propria auto sa quanto siano pericolosi i ciclisti in mezzo alla strada. E probabilmente per farli scansare gli suona pure, magari per sentire cosa gli urlano dietro in modo di arricchire il proprio dizionario di insulti. È però utile ricordare che anche chi va in bicicletta è tenuto al rispetto delle norme previste dal codice della strada. L’articolo 182 prevede infatti che “i ciclisti devono procedere su unica fila in tutti i casi in cui le condizioni della circolazione lo richiedano e, comunque, mai affiancati in numero superiore a due; quando circolano fuori dai centri abitati devono sempre procedere su unica fila, salvo che uno di essi sia minore di anni dieci e proceda sulla destra dell'altro” ed un altro comma prevede che le biciclette hanno l’obbligo di "transitare sulle piste loro riservate quando esistono". Come l’automobilista viene multato se non indossa le cinture di sicurezza, o parla al telefono mentre guida, ed altro ancora, sarebbe utile che anche ai ciclisti fosse elevata qualche contravvenzione che non rispettano quanto previsto dal codice, magri dove a pochi metri di distanza c’è una splendida pista ciclabile tutta per loro. Non è una questione di repressione, ma di sicurezza, perché, purtroppo, ci sono sempre più incidenti che vedono coinvolti ciclisti, con conseguenze anche gravi. Perché per certi tipi di ciclisti calza a pennello uno spot pubblicitario di qualche anno fa sulla prevenzione degli incidenti. Per evitare gravi infortuni non basta il casco… ci vuole anche la testa.
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SMART WORKING: PRO E CONTRO DEL LAVORO AGILE
di Silvia Tarter
Nel decreto legge collegato alla Legge di Stabilità 2016 lo smart working è definito così: “una modalità flessibile di lavoro subordinato, che può essere svolto in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, utilizzando strumenti tecnologici, seguendo gli orari previsti dal contratto di riferimento e prevedendo l’assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti all’esterno dei locali azienda".
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on una diversa tipologia contrattuale e nemmeno mero telelavoro svolto da casa, ma una differente organizzazione del lavoro che dà modo di lavorare per alcuni giorni a settimana lontano dall’ufficio: a casa, in un caffè o magari in un parco. Realtà parecchio diffusa all’estero, specie nel Nord Europa, anche da noi mostra una crescita continua. Secondo il report 2016 dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, infatti, le aziende con più di 10 dipendenti che decidono di adottare lo smart working sono passate dal 17% del 2015 all’attuale 30%; il 5%, invece, stabile, per le PMI. Il lavoro agile interessa per ora il 7% dei lavoratori italiani, 250.000 persone, i più nel Nord Italia, che sono soprattutto uomini, ma le donne sono il 31% . Certo, possono svolgere lavori da remoto solo alcuni lavoratori, manager, dirigenti, commerciali, creativi, addetti alla comunicazione... per fare qualche esempio; gli ambiti in cui avvalersi del lavoro agile possono però ampliarsi grazie all’aumento dell’utilizzo di dispositivi e sistemi tecnologici che danno modo di comunicare, collaborare, condividere materiale, a prescindere dal luogo fisico del lavoratore (oltre alla solita posta elettronica, vengono usati messaggi istantanei, videoconferenze, videochiamate ecc.). Quali sono i pro e i contro? Il principale vantaggio è la diversa gestione dell’orario di lavoro. Non conta più svolgere la giornata lavorativa tipo, quanto il risultato, in un’ottica di ottimizzazione del tempo fondata sulla fiducia tra datore e collaboratore. Addio quindi a cartellini da
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timbrare, levatacce e corse nel traffico, poiché nell’arco della settimana il tempo può essere valorizzato diversamente. All’azienda conviene, in quanto può beneficiare di una detassazione, risparmiare su costi fissi e rimborsi per spese di trasferimento, ma anche godere di un miglioramento del clima aziendale, di maggiore produttività e riduzione dell’assenteismo. Ai lavoratori invece permette di migliorare il proprio work-life balance, l’equilibrio tra vita privata e lavorativa, riducendo stress e spostamenti. E anche se per ora sono solo un terzo del totale, anche per le donne è una splendida opportunità per migliorare l’eterno dilemma della conciliazione di vita lavorativa e famigliare. Senza più il vincolo di iniziare a lavorare tutti i giorni alla stessa ora possono accompagnare i figli a scuola o riuscire magari ad avviare una lavatrice in attesa di una chiamata skype dall’altra parte del mondo. Sono infatti le donne a investire maggiormente sulle competenze tecnologiche per migliorare la carriera, e di conseguenza, in parallelo, la vita privata. Sempre secondo l’Osservatorio del Politecnico, infatti, il loro grado di soddisfazione professionale supera del 35% quello delle colle-
ghe che preferiscono il tradizionale lavoro in azienda. A livello retributivo inoltre non cambia nulla: il lavoratore ha le stesse agevolazioni fiscali e contributive di chi rimane tutti i giorni in azienda, e a contare non è la quantità di ore di lavoro, ma il raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Stesso discorso vale per coperture assicurative, aspetti legati a sicurezza (infortuni sul lavoro compresi) e privacy, identici a quelli di un lavoratore non “smart” della stessa azienda. La quantità di giornate in cui è possibile lavorare in remoto, infine, viene concordata con il datore in ogni singola azienda:
possono essere uno, due o anche più giorni alla settimana. La soluzione ottimale, però, è alternare il lavoro smart all’ufficio, per non rischiare un eccessivo impoverimento relazionale. Rimanere sempre a casa riduce infatti il confronto con i propri colleghi sulle attività lavorative e non -pensiamo al valore socio relazionale della pausa caffè -, isolando il lavoratore e indebolendo la sua capacità di lavoro di squadra. Oltretutto, lavorare a casa tutti i pomeriggi, magari per una mamma, comporta il rischio di venire continuamente interrotta dai figli a svantaggio della qualità del lavoro. Altro problema è che flessibilità di orario e perenne connessione tecnologica rendono il lavoratore sempre reperibile, anche in momenti particolari come sera e week end, solitamente dedicati alla famiglia, costringendo anche marito/moglie e figli ad adeguarsi. E con pc e cellulare sempre a portata di mano è facile incorrere nella tentazione di dare un’occhiata in più alle mail aziendali anche prima di andare a dormire... alla faccia dello stress! Per ovviare ciò, è bene
fissare regole che permettano davvero di conciliare al meglio vita privata e lavorativa, mettendo dei “paletti” sulla disponibilità accordata. Alcune aziende a tal pro hanno deciso di concordare delle fasce orarie di “disconessione” dai mezzi tecnologici, e dal primo gennaio 2017 la Francia ha approvato una legge sul “diritto alla disconnessione” dopo l’orario di lavoro, per evitare l’abuso della disponibilità del lavoratore. Ma questo accadrà anche in Italia, se il disegno di Legge sul lavoro autonomo e smart working (ddl n. 2233) sul quale si sta lavorando sarà approvato nei prossimi mesi. Al di là delle grandi aziende, alla luce dei recenti scandali di assenteismo nel pubblico impiego, il Governo (sulla base
Smart Working in Italia, fonte Osservatorio.net del disegno di legge del ministro Madia) ha deciso di accrescere il lavoro agile anche in questo settore. Verranno introdotte quindi misure family friendly per i dipendenti pubblici, come part-time più accessibili, soluzioni per agevolare l’accesso agli asili nido e supporto ai genitori durante la chiusura delle scuole, per permettere entro il 2018 al 10% dei lavoratori pubblici che lo richiedano di avvalersi del lavoro smart.
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“Oltre le scollature” Primo Convegno dei Musei della donna
Apre a Borgo Valsugana il Primo Convegno dei Musei della donna, nazionali e Gect/Euregio, dal titolo “Oltre le scollature”. L'iniziativa, promossa dal Museo Soggetto Montagna Donna, Casa Andriollo di Olle, e dall'Associazione “La Casa di Alice A” in collaborazione con il Frauenmuseum - Museo delle Donne di Merano, con IAWM - International Association of Women’s Museums e con “Se non ora quando - Alto Adige”, si articolerà su due giornate.
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lavori si apriranno la mattina di venerdì 17 marzo con la visita guidata al Museo Soggetto Montagna Donna / Casa Andriollo; a seguire, all'Auditorium del Polo Scolastico di Borgo Valsugana, sarà data voce a ventidue esperte, nazionali e internazionali, che si alterneranno con brevi relazioni intorno a temi legati alle pari opportunità e ai musei delle donne. Si rifletterà su argomenti diversi ma molto attuali, sui quali si giocano oggi sfide importanti con le quali siamo invitati a confrontarci per raccontare, senza cadere in facili stereotipi, il mondo femminile nel terzo millennio. Ad aprire la sessione Annalisa Cicerchia, docente all'Università di Roma Tor Vergata e Primo, ricercatrice Istat, con una relazione dal titolo “Maria, Anna, Francesca e Giulia: 90 anni di storia italiana in 4 donne”. Madrina del convegno sarà la giornalista Rai Maria Concetta Mattei che chiuderà la ricca giornata nell'incontro pubblico serale dal titolo “Giornaliste e mondo dell’informazione”.
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Mentre la prima giornata del convegno sarà aperta al pubblico, il sabato 18 marzo sarà riservato alle operatrici dei musei delle donne e alle volontarie di “Se non ora quando”, con un workshop dal titolo “Oltre le scollature... dentro la rete”, a cura di Nadia Mazzardis e Astrid Schoenweger; nel pomeriggio i lavori verranno chiusi con una visita guidata al museo di Pieve Tesino “Per via - Museo Tesino delle Stampe e dell’Ambulantato”. L'ambizioso obiettivo di "andare oltre", oltre i confini fisici dei soggetti coinvolti, ma anche oltre quella scollatura che è stereotipo comune, intende portare la riflessione sulle donne che oggi non sono solo oggetto di sguardi, ma hanno uno sguardo sul mondo determinato da capacità, competenze e talenti, che però la pigrizia mediatica tende ancora a rappresentare in un ruolo molto privato, cancellando con una rappresentazione parziale il loro vero valore. Nell’ambito del convegno anche due mostre sulle espressioni artistiche femminili contemporanee e del passato. La prima, dal titolo “Le ingegnose. Percorso nella
creatività di 12 artiste contemporanee” sarà allestita dal 4 al 26 marzo presso lo Spazio Klien di Borgo Valsugana e dal 20 maggio al 13 giugno a Palazzo Trentini a Trento. “Le virtuose mani. Preziosi manufatti femminili del XVIII e XIX secolo” si terrà dall'11 al 23 aprile a Trento negli spazi di Torre Mirana. Per informazioni 347 7367893.
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Negli anni Trenta in Valsugana
L’ESTRAZIONE DELLA TORBA di Mario Pacher
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erso la fine degli anni Trenta parte della popolazione dei paesi di Levico e Novaledo trovò una temporanea occupazione in una particolare attività: lo sfruttamento delle torbiere. In passato il fondovalle di questa zona era occupato da paludi malsane e il fiume Brenta, non ancora incanalato, aveva dato origine a due laghi: il Lago Morto e il Lago dei Masi. La presenza di questi acquitrini, oltre a non permettere alcun sfruttamento dei territori situati nella parte bassa della vallata, era fonte di gravi malattie, fra le quali la malaria, in quanto le zanzare portatrici del terribile morbo trovavano lì il loro habitat ideale. A partire dall’inizio dell’Ottocento furono pertanto intrapresi ripetuti lavori per l’eliminazione di queste aree malsane e per recuperare aree coltivabili. I primi rilevanti interventi di questo tipo vennero realizzati fra il 1815 e il 1819 e portarono progressivamente al prosciugamento dei due laghi e al ridimensionamento delle paludi. Nel secolo successivo, all’inizio degli anni Trenta, vennero intrapresi gli imponenti lavori dello scavo Brenta, che proseguirono per circa tre anni, dando occupazione a centinaia di lavoratori. Con la costruzione di giganteschi argini in muratura il fiume Brenta fu incanalato e divenne quindi possibile destinare a coltivazione molti nuovi terreni. In questa occasione si riscontrò che i terreni, al di sotto di uno strato di limo e fango di circa 40 centimetri, appariva uno strato solido scuro finora sconosciuto:
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Alcune lavoratrici di Novaledo al termine della giornata si trattava della torba. Questa sostanza era infiammabile e destò immediatamente grande interesse anche perché all’epoca, in pieno conflitto mondiale, il carbone scarseggiava ovunque. Questo suolo nascondeva quindi un tesoro inatteso, un prezioso combustibile prodotto dalla carbonizzazione di piante acquatiche (cannelle) e che contiene dal 40 al 60% di carbonio con un potere calorifico compreso fra le 3000 e le 3500 calorie per chilogrammo. Lo sfruttamento commerciale di queste torbiere venne intrapreso da un certo signor Bassetti di Milano. I lavori per l’estrazione della torba vennero invece eseguiti da Ermanno Pasqualini di Castello Tesino, che costituì la ditta “Torbiere della Valsugana” con sede a Levico Terme, con lo scopo di raccogliere, lavorare e commercializzare il prodotto. Furono così assunte una sessantina di persone, in prevalenza donne, dei centri di Levico, Barco, Selva e di Novaledo. Il primo cantiere venne allestito nella zona est della stazione di Barco. Compito delle lavoratrici era quello di asportare lo strato superiore del terreno per mettere in evidenza il combustibile naturale che sotto si nascondeva e che, in certi casi, raggiungeva uno spessore superiore al metro. All’attività erano addetti anche uomini,
quasi tutti di età superiore ai 60 anni, dato che tutte le forze giovani erano impegnate in guerra. A costoro veniva affidato il lavoro più pesante, quello di tagliare la torba con l’utilizzo di un ferro a mezza luna, lo stesso attrezzo che un tempo veniva usato per trinciare la paglia. In questo modo si producevano delle grosse mattonelle larghe circa 30 centimetri e spesse dai 10 ai 20. Tutti i pezzi di torba che non potevano essere tagliati o sbriciolati venivano pressati con un‘apposita macchina e poi uniti agli altri. Una particolare apparecchiatura serviva poi a togliere la maggior parte dell’acqua e a sagomare i vari pezzi. Il prodotto ottenuto veniva poi trasportato con la teleferica e lasciato ad essiccare al sole per alcuni giorni. Con le cosiddette “zivière” le donne provvedevano poi a trasportarlo su carri appositamente dislocati nei dintorni, veniva caricato, e su quei rudimentali mezzi trainati sempre da cavalli, muli o buoi, si dirigeva verso la stazione ferroviaria di Levico dove, con il treno, prendeva diverse destinazioni.
Man mano che la torba si esauriva, il cantiere si spostava in direzione di Novaledo e nell’area compresa fra la ferrovia e il corso del fiume Brenta. Dopo essere stato inciso con l’asportazione della torba, il suolo veniva livellato utilizzando i tomi di materiale che erano rimasti ai margini del fiume. Contemporaneamente venivano creati dei fossati fra una proprietà e l’altra per portare i rivoli d’acqua al fiume Brenta. Al termine di tutte queste operazioni, i proprietari di questi terreni chiamati “carezzari” si ritrovarono un suolo bonificato e molto produttivo, adatto soprattutto alla coltivazione del granoturco. Ogni ora di lavoro veniva retribuita, sia per gli uomini che per le donne, con una lira e 90 centesimi e la paga veniva corrisposta settimanalmente al sabato sera. L’attività per l’estrazione della torba si concluse verso la fine del 1943, quando la zona fu occupata dai tedeschi e l’ultimo cantiere fu quello della località Campregher a Novaledo. Sebbene l’attività di sfruttamento della torba sia durata solamente pochi anni, essa offrì una importante opportunità di occupazione e un rilevante sostegno economico a molte famiglie della Valle.
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t ei s i v ibil r e i n tp o s s im
CRISTOFORO COLOMBO
di Adelina Valcanover
. Il 12 un grande esploratore e navigatore italiano fu 06) 15 lid llado 1-Va 145 va eno (G o lomb s la Cristoforo Co are in Asia (Cina e Giappone), Par tì da Palo arriv per te iden occ a o giand viag ca meri l’A ottobre 1492 scoprì una piccola isola di un altro continente. r, ado Salv S. ale ll’attu ne cò sbar obre ott 12 Frontera il 3 agosto e il reali spagnoli. Compì altri viaggi verso le na rago d’A ndo dina Fer e stiglia Ca di ella Il viaggio fu finanziato da Isab rì povero, gli presso la cor te castigliana e anche se non mo razia disg in de cad to, tuna for fu non ma e, Americh vennero tolti titoli e onori. Bongiórno, voriéva presentàme scignôa: són o zenéise Cristóffa Cómbo, navegatô. Penso che à savià chi són. Cristoforo Colombo! Certo che so chi è Lei. Ci hanno fatto una testa così a scuola. So che fa interviste impossibili e ne vorrei una, per sfatare i soliti luoghi comuni che non c’entrano nulla con quello che ho fatto e realizzato. Anzi passiamo subito al tu, come sei solita fare. Ti sarei grato anche se non ci perdessimo nelle solite notizie che conoscono tutti. Va bene, ma che fretta c’è oramai? Comunque cominciamo pure subito con una domanda: come mai dicono che hai scoperto che la terra è rotonda nel tuo viaggio verso ovest? Brava, vedo che hai capito lo spirito con cui dovresti fare questa intervista. Figurati, che la sfericità della terra l’avevano già ampiamente dimostrata diversi matematici nel VI secolo a.C. tra cui Pitagora. Un paio di secoli dopo, Aristotele stesso la dimostrò osservando l’ombra della terra sulla luna; poi noi marinai sapevamo bene questa cosa per la curvatura della costa. E il grande Eratostene di Cirene riuscì a calcolare con un’approssimazione eccezionalmente vicina all’esattezza la dimensione della terra. Si sapeva, si sapeva eccome. È stato un americano che ha messo in giro ‘sta fola. Però hai scoperto l’America! Io sono sbarcato a San Salvador (isole
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Bahamas) volevo andare in Asia, fino in Giappone, e, sia detto chiaro, l’America era abitata da milioni di persone. Era già stata ‘scoperta’ da un pezzo. Pensa a Leif Ericson, (tanto per citarne uno che si sa per certo), scandinavo, che intorno al 1000, quindi 500 anni prima era sbarcato all’isola di Terranova. Io non mi sono mai spinto a nord, mai toccati gli attuali USA per dire. Io, anche nei viaggi successivi, mi sono spinto più a sud. Giovanni Capoto sotto la bandiera inglese approdò all’isola di Terranova nel 1497, ma i primi coloni del Nord America che erano in lite con la madrepatria hanno scelto me. Ho scoperto anch’io l’America, ecco. Tutto qua. Ti hanno accusato di avere importato la sifilide in Europa… Altra stupidaggine. La lue era diffusa sì nel sud America prima del mio arrivo, ma anche se con nomi diversi già nell’antica Grecia veniva descritta una malattia venerea con gli stessi sintomi e uguale decorso. E allora sono stato io a portarla secondo te? Il fatto è che dopo che ero tornato dilagò una grande epidemia di questo morbo. Fu in seguito all’invasione francese di Napoli nel 1494. E forse capisci anche perché è chiamata il mal francese! Sei morto in Spagna, praticamente povero e dimenticato. Che ti è successo? Be’, diciamo che ho avuto momenti dif-
Cristoforo Colombo - Ritratto ficili. I capitani delle altre due caravelle e i comandanti dei viaggi successivi, salvo un paio, mi hanno creato problemi, ma lasciamo perdere. Invidia e rivalità non mi han giovato di sicuro. Sono anche stato incarcerato e spogliato dei miei titoli, accusato di violenza sui nativi americani. Io son innocente di queste accuse, te lo garantisco, ma violenze sono state commesse, e tante, contro i nativi. Sono ancora amareggiato. La prigione mi ha anche minato la salute. Poi, senza che ti dica ogni particolare, fui graziato dal re Ferdinando e dovetti però rinunciare alle ricchezze e ai titoli promessi. So che i miei eredi hanno intentato una causa che durò venti anni, ma ottennero giustizia. Ma oramai non ha molta importanza.
Si dice anche che in fondo non hai fatto granché, a parte errori di calcolo e di navigazione. Ingrati! A parte aver dato un contributo alla colonizzazione delle Americhe, e qui con rammarico dico che forse sarebbe stato meglio di no, ma con i miei studi cartografici insieme a mio fratello Bortolameo, ho fatto scoperte essenziali sui venti oceanici orientali per andare nel Nuovo Mondo e occidentali per tornare in Europa, ma non solo questo. E qui mi sento di ringraziare anche mio suocero, il colto Perestrello. E ti dirò di più, tanto non è un segreto. Hai presente il celeberrimo navigatore e cartografo turco Piri Reis, che conosci anche tu? Egli annotò su una delle sue mappe che la zona delle Antille fu scoperta da un infedele genovese di nome Colombo! La data? 896 dall’Egira che corrisponde a 1490/91! Curiosa sta cosa, non trovi? Lo hanno detto in diversi che sono andato prima, ma tanto cambia poco la storia e tanto vale tenere la data ufficiale. Anche sul tuo luogo di nascita sei conteso tra Spagna, Portogallo e Italia. Si dice anche che tu sia di origine ebraica. Che cosa rispondi? Sono nato a Genova e sì, sono di origini ebraiche. Chiaramente me ne son ben guardato dal dichiararle. Erano tempi che per gli ebrei non era aria. La famosa cacciata dalla Spagna dei sefarditi (ovvero ebrei spagnoli) è proprio del 1492, ad opera dei cattolicissimi Isabella e Ferdinando. Non voglio pensare che le mie disgrazie siano dovute all’antisemitismo, ma non posso certo escluderlo. Pazienza. Noi popolo eletto ne abbiamo sempre tanta. A questo punto concluderei l’intervista, piena di notizie che non si trovano di norma sui soliti testi. Cosa diresti ai lettori di Valsugana news? I vostri orizzonti siano sempre un po’ più in là e con sempre la voglia di raggiungerli. Sono come i sogni: portano all’infinito.
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PSICOLOGIA&SALUTE
QUANDO L'ALTRO
CI FA PAURA
di Erica Zanghellini
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ome possiamo verificare personalmente la nostra società è una comunità tecnologica, dove si fa sempre di più un uso smodato del Web. Ormai acquisti, prenotazioni e addirittura il conoscere gente nuova avviene frequentemente tramite questo mezzo. Di per sé non è un problema se la modalità virtuale è accompagnata da riscontri concreti, ma lo può diventare nel momento in cui una persona utilizza la Rete come mezzo esclusivo per l'ambito sociale. Cominciamo con un po' di dati, in modo da farci un'idea più precisa. L'Istituto Minotauro nel 2009 ha effettuato una ricerca coinvolgendo più di 1000 adolescenti ed ha evidenziato che i ragazzi che utilizzano Internet nella maggior parte dei casi continuano la propria vita nel mondo reale: incontrano i loro coetanei di persona e portano avanti le loro relazioni sociali. Esiste però l'altra faccia della medaglia, cioè i ragazzi in difficoltà, che non riescono a gestire una socialità concreta e che quindi percorrono strade alternative. Sono bloccati nell'avere contatti costanti con eventuali amici, anzi nei casi maggiormente inficiati non hanno proprio un gruppo di pari di riferimento se non on-line. Analizzando il livello psicologico, possiamo individuare alla base di questo fenomeno un senso profondo di vergogna, paura di non essere all'altezza nel confronto con gli altri e delle aspettative talmente irrealistiche (con standard impossibili da raggiungere) per cui i ragazzi non potranno mai sentirsi adeguati nel rapportarsi con l'altro. Questi presupposti cognitivi lasciano spazio a stati ansiosi con conseguenti evitamenti nella quotidianità per disattivare un'emotività insostenibile che si fa strada nei giovani con questa difficoltà.
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Sicuramente è un circolo vizioso in quanto, se sono un ragazzo che ha difficoltà con le relazioni e che per questo evita di avere contatti concreti con gli altri le mie capacità relazionali non si potenzieranno, anzi si degraderanno sempre di più, aumentando di conseguenza il senso di inefficacia e la mia disistima nell'ambito sociale. In aggiunta, l'altra cosa fondamentale da tener presente è che l'uso smodato della modalità virtuale è uno dei fattori di mantenimento del disturbo, in quanto impedisce l'instaurarsi di relazioni concrete e quindi di fare esperienza diretta. Insomma è un cane che si morde la coda, si usa internet perché non si hanno amici, ma proprio questo facilita il compromettersi progressivamente delle abilità sociali senza più riuscire ad affrontare una socialità tangibile. Nei casi più inficiati, il ritiro sociale conseguente non si limiterà solo all'ambito delle amicizie ma coinvolgerà anche ambiti fondamentali della vita dei ragazzi quali la scuola e/o le attività extra-scolastiche, fino ad arrivare alle circostanze estreme dove ci sarà perfino l'isolamento
dai propri genitori. Con questi presupposti è intuibile che i ragazzi siano bloccati in un limbo e che se non si interviene tempestivamente, la situazione nel tempo peggiorerà e di conseguenza la loro qualità di vita risulterà precaria. Più passa il tempo è più i meccanismi diventano rigidi e più difficilmente modificabili. I giovani senza rendersi conto possono ritrovarsi prigionieri delle loro camerette, in quanto solo in quel luogo si sentono al sicuro dai “pericoli” percepiti nella realtà. Si creano la loro zona di comfort in cui i loro aspetti ansiosi sono silenti così come le loro paure sociali. Sebbene sia difficile individuare il numero preciso di adolescenti che si ritrova in questa situazione gli esperti stimano che questo fenomeno sia in continua crescita. Il ritiro sociale è un fenomeno che è stato descritto da uno psichiatra giapponese per la prima volta negli anni novanta (Saito,1999), e l'origine della parola deriva dal termine Hikkomori che significa “stare indietro, isolarsi”. Come accade con ogni comportamento
disadattivo “emergente” si stanno ancora svolgendo ricerche al riguardo. La privazione dalle relazioni avviene sia a livello intellettuale/comunicativo che a livello corporeo e comporta una lenta e graduale ma funesta chiusura in sé. Come accennato sopra, nemmeno i genitori avranno più contatti col proprio figlio nei casi più gravi. Questa sindrome sociale e psicologica si evidenzia soprattutto a livello adolescenziale e nei giovani adulti e implica un rigetto volontario del mondo delle relazioni. Si può assistere inoltre ad un'alterazione del ciclo circadiano che scandisce la veglia e il sonno, arrivando perfino ad una completa inversione. Il ragazzo quindi può stare sveglio di notte e dormire di giorno. Da precisare che il ritiro sociale non ha una relazione diretta e univoca con una vera e propria dipendenza da internet, ma possono presentarsi simultaneamente. Per quanto, infatti, in entrambe le difficoltà (ritiro sociale e dipendenza da internet) si verifichi un uso eccessivo della tecnologia come per esempio il giocare ore e ore con videogiochi oppure avere degli avatar, nel ritiro sociale grave questo diviene il mondo, seppur parallelo, “in cui si vive”, mentre nel caso di dipendenza da internet la parte concreta di relazioni è presente. I ragazzi con difficoltà sociali possono formarsi un’identità specifica, accettabile e ben definita, seppur fittizia. Nel caso, invece, di una vera e propria dipendenza la realtà è modellata ad hoc ed influisce sui comportamenti e azioni che la persona mette in atto. Ricordiamoci che a livello virtuale tendenzialmente si è più disinibiti e cose che non faremmo mai nella realtà lì nella Rete possono avere sfogo. Ambienti affascinanti e irresistibili costruiti alla perfezione, in base ai nostri bisogni, sono alla base di questo tipo di dipendenza. Nel ritiro sociale invece, l'uso della Rete dipende dalle mie difficoltà e risulta essere l'unica strategia compensatoria che riesco ad utilizzare per cercare di gestirle.
Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento - Tel. 3884828675
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Grazie
presidente Boldrini, anche da parte maschile
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li insulti che a vario livello e da svariate provenienze, anche parlamentari, sono giunti purtroppo alla presidente della Camera, Laura Boldrini, rivelano un perdurante, e a tratti becero, sessismo, ancora ben presente nella società italiana di genere maschile. Ha ragione la presidente a dire che si tratta di una cultura diffusa, misogina, ancora ben radicata, anche se talora rimossa o nascosta, nella coscienza collettiva maschile, auspicando un cambiamento di mentalità a partire dalla scuola. Le analisi da fare sarebbero tante, ma qui vorrei principalmente parlare della sessualizzazione nell'immaginario maschile della figura e del ruolo, della donna, soprattutto con incarichi di potere. Prendo spunto da una riflessione di Pierre Bordieu (dal suo libro, Il dominio maschile, Feltrinelli, 1998, p. 82). Più generalmente l'accesso al potere, quale che sia, pone le donne in una situazione di “double mind”: se agiscono come uomini mettono in discussione il diritto naturale dei maschi alle posizioni di potere; se agiscono come donne sembrano incapaci e non all'altezza della situazione... E così, come osservava un'informatrice, di fronte alle battute a sfondo sessuale, le donne non hanno spesso altra scelta se non quella di escludersi o di partecipare, almeno passivamente, per cercare di integrarsi, ma
esponendosi in tal caso al rischio di non poter più protestare se sono vittime del sessismo o di varie forme di molestie sessuali. Bene ha fatto dunque la presidente Boldrini a pubblicare gli insulti ricevuti, esprimendo in questo modo la sua grande dignità di persona, di donna, e anche istituzionale, mettendo in crisi le stereotipie di cui parla Pierre Bourdieu. Ha dimostrato, infatti, che si può essere “donne” al servizio della comunità nazionale, con intelligenza, lungimiranza, autorevolezza, e soprattutto senso e rispetto della libertà propria e altrui. Personalmente, come appartenente al genere maschile non solo la ringrazio, ma mi sento anche rassicurato dalla sua presenza che apporta il dono della diversità e che dunque infrange la “monocultura” maschile ancora imperante. Una monocultura di egemonia del pensiero maschile che purtroppo vive la politica e gli “affari”, anche di cuore, come territorio di caccia. La presidente Boldrini sta intaccando, con la sua stessa autorevole presenza non asservita, il decadente mito, anche politico, dell'“uomo cacciatore”, anche verso la donna percepita come preda debole. Una dimensione che traspare, per esempio, da talk show dal titolo venatorio e guerresco, come “Bersaglio mobile”. In questa chiave si possono capire
di Mario Bolognese
espressioni da “maschio alfa”, come “carniere pieno di voti” o “mirare al bersaglio grosso”, e l'utilizzo talora spregiudicato di esche, specchietti per le allodole e mimetizzazioni per ingannare l'avversario, o per comprarlo. “Caccia” viene da captare, prendere, e non prevede uno scambio di doni. “Guerra” deriva da una radice germanica che significa mischia, mentre “pace” da un etimo indoeuropeo che significa pattuire e cioè dialogare. “Sospetto” deriva dal latino suspectare, guardare dal basso in alto, con diffidenza, in quell'inquieta e ansiogena scala gerarchica di ogni potere. Ovviamente poi è facile e funzionale alla caccia al voto riempire artificialmente la foresta elettorale di nemici.
Il maschio Alpha
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Suor Paolina Visintainer
La prima
Santa del Trentino
È
il 19 maggio dell’anno del Signore 2002, quando a Roma viene proclamata da Papa Giovanni Paolo II la prima santa del Trentino, Paolina del Cuore Agonizzante di Gesù Visintainer. Il pontefice ne aveva riconosciuto le virtù l'8 febbraio del 1989, e a Florianópolis il 18 ottobre del 1991, l’aveva proclamata beata. La nostra santa nasce nella Vigolo Vattaro austroungarica, il 16 dicembre del 1865 con il nome di Amabile Lucia Wisinteiner, è la seconda nata in casa di Napoleone Wisinteiner e Anna Domenica Pianezzer, che ebbero dal loro matrimonio la benedizione di 14 figli. Il cognome che spesso ritroviamo nei
Vigolo Vattaro - La casa di Santa Paolina
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documenti nella forma tedesca viene successivamente italianizzato in Visintainer, in seguito all’annessione del Trentino all’Italia. Come molte famiglie trentine, a causa della crisi economica che nel 1875 mette in ginocchio molte famiglie della regione, anche i Visintainer emigrano in Brasile. Giungono così nello Stato di Santa Catarina, dove il padre Napoleone, assieme ad altri emigrati danno origine nell'attuale comune di Nova Trento, a un paese che viene battezzato Vigolo, in memoria del luogo natio. È qui che Amabile trova la sua vocazione: a soli quattordici anni, insieme all'amica Virginia Nicolodi, figlia del socio del padre (i due si occupavano della gestione di un mulino per la macinazione del granoturco), si dedica all'assistenza dei malati, si offre di occuparsi della catechesi dei bambini e della cura della chiesetta di San Giorgio. Nel naturale succedersi dei parroci in carica a Nova Trento, le giovani amiche vengono confermate nella loro opera apostolica, e il 12 luglio del 1890, con l’accoglimento della prima malata di cancro, vede la luce il piccolo ospedale di San Vigilio, prima pietra costitutiva della nuova congregazione. Il 25 agosto del 1895, con ratifica del vescovo di Curitiba Luigi Rossi, la congregazione
di Chiara Paoli delle Piccole Suore dell'Immacolata Concezione vede la nomina delle prime suore. Amabile acquisisce il nome di Suor Paolina del Cuore Agonizzante di Gesù, mentre l’amica Virginia che con lei ha condiviso questo percorso diviene Suor Matilde dell'Immacolata Concezione. Per far fronte alle spese che una piccola comunità religiosa comporta, suor Paolina avvia una piccola manifattura per la lavorazione della seta. Viene nominata superiora generale nel 1903 e si trasferisce a San Paolo del Brasile da dove dirige con modestia e accortezza la Congregazione, consacrandosi pienamente ai più bisognosi e occupandosi della gestione di scuole, ospedali, laboratori ed educandati. Tra i suoi meriti e le sue opere caritatevoli vanno annoverati anche i progetti a favore dei figli degli schiavi, portati avanti a San Paolo. Nel 1909 le viene chiesto di cedere la guida della Congregazione, seppe in questo frangente dimostrarsi umile e conciliante; lasciato l’incarico si trasferisce a Bragança Paulista. Reclamata nuovamente a San Paolo nel 1918, prosegue il suo cammino di santità in veste di suora, all’interno della casa madre della congregazione, che nel 1933 ottiene da Papa Pio XI il "decreto di lode". Suor Paolina vive gli ultimi anni della sua esistenza nella sofferenza causata dai problemi di salute dovuti in primis al diabete, e poi a una ferita al dito che sfocia in cancrena, causandone l’amputazione e successi-
vamente l’asportazione di tutto il braccio. La Congregazione viene approvata dalla Santa Sede nel 1933, e nel 1940 viene celebrato il 50° di fondazione; è il 9 luglio del 1942 quando suor Paolina si spegne, ormai completamente cieca a San Paolo del Brasile, dove la sua tomba viene venerata. Dal 1967 le sue reliquie sono conservate all'interno della casa generalizia della congregazione, dove possono essere onorate dai fedeli.
La Congregazione conta con circa 560 suore ripartite su 119 comunità, in tre diversi continenti e 11 nazioni: si dedicano all’evangelizzazione, portando avanti il principio del mettersi al servizio dei più bisognosi, sostenendo quelle strutture che vanno incontro alle esigenze dai bambini, dei vecchi e degli ammalati. Collocata appena fuori dal centro storico di Vigolo Vattaro, la casa natale di Santa Paolina, è meta di pellegrinaggi e visitabile su richiesta alle Piccole suore dell’Immacolata Concezione che se ne prendono cura dagli anni ’80. Il palazzo è stato restaurato, ed è possibile vedere le 4 sale, collocate nei sotterranei della casa che sono rispettivamente: la stanza principale, in cui la famiglia trascorreva la giornata, la stanza dei
bambini, la cucina e la camera dei genitori, dove venne alla luce anche Santa Paolina.
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Donna: professione di Chiara Paoli
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pittrice
’arte al femminile non è cosa recente, per quanto nell’antichità le donne artiste non fossero moltissime, i riferimenti a un’arte al femminile si ritrovano già nelle Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (I sec. d.C.), dove si parla delle opere di Timarete, Irene, Calipso e Aristarete. Il mito dell’invenzione dell’arte prende piede dai sentimenti di una donna corinzia che rappresenta su una parete il profilo dell’ombra del suo amato, prima che questi parta. Anche Bocaccio nella sua opera De Claris Mulieribus del 1365 circa, parla di tre donne: Tamari, Irene, e Marzia figlia di Varrone che per prima realizza un proprio autoritratto allo specchio. Nel periodo
medievale gli artisti più genericamente non vengono menzionati, il loro lavoro viene considerato al pari di quello degli artigiani e le opere raramente venivano firmate. Troviamo menzionate le donne come membri delle corporazioni miniaturistiche, in veste di illustratrici di libri o di ricamatrici; esse erano per lo più suore o figlie di aristocratici. È con l’epoca moderna che le donne artiste si riscattano, divenendo professioniste note e riconosciute; tali furono Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi, per citare solamente alcune tra le maggiori pittrici italiane tra Rinascimento e prima metà del ‘600. Sofonisba nasce a Cremona nel 1532 da una nobile famiglia piacentina, fu il padre a indirizzarla allo studio delle arti, come fece d'altronde con le altre figlie che non dimostrarono però lo stesso talento della primogenita. Vista la sua competenza in campo letterario e musicale, Sofonisba prende parte alla vita artistica delle corti italiane. Il padre che curava i suoi interessi inviò a Michelangelo Buonarroti dei disegni della figlia, tra cui un Fanciullo morso da un granchio, in cui la giovane artista riesce a cogliere pienamente l’espressione di dolore e sgomento del piccolo, ottenenGentileschi Artemisia do elogi da parte del grande
Sofonisba Anguissola artista fiorentino. L’opera ne riporta immediatamente alla mente un’altra assai più nota al grande pubblico, realizzata successivamente da Caravaggio e intitolata Ragazzo morso da un ramarro. Sofonisba verrà inserita dal Vasari nelle sue Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architetti. Nel 1559 Sofonisba giunge nella penisola iberica in veste di dama di corte della regina Elisabetta, alla corte di Filippo II di Spagna; fu lei a rivestire la carica di ritrattista della famiglia reale fino alla morte della sua protettrice nel 1568. Sofonisba si sposa per procura con il nobile siciliano Fabrizio Moncada nel 1573, trasferendosi con questo in Sicilia. Il marito muore a distanza di soli cinque anni dal matrimonio; mentre la pittrice viaggia verso la Liguria conosce a Livorno il nobile Orazio Lomellini che sposa nel 1579. Nel 1615 si stabilisce nuovamente in Sicilia con il secondo marito, qui continua a dedicarsi alla pittura finché i problemi di vista non furono tali da costringerla a smettere. Il celebre Antoon van Dyck che le succede come ritrattista ufficiale della corte spagnola, giunge sull’isola nel 1624 per conoscerla e per dimostrare alla pittrice tutta la sua ammirazione. In quell’occasione l’artista realizzò un ritratto di Sofonisba, la quale si spense l’anno seguente alla veneranda età di 93 anni. Lavinia Fontana nasce a Bologna nel 1552 muove i primi passi nella bottega del padre Prospero. Raggiunti i 25 anni d’età, Giovan Paolo Zappi le chiese di sposarlo, la risposta affermativa poneva
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come condizione fondamentale che il marito le concedesse di continuare a dipingere. Lo Zappi divenne quindi marito e assistente, rinunciando al proprio lavoro per curare gli affari di Lavinia. Grande fama ebbe Lavinia come ritrattista, nessuno meglio di lei sapeva rendere i particolari dell’abbigliamento, delle acconciature e dei gioielli femminili. La sua carriera non si limita alla sola ritrattistica, riesce a ottenere anche commesse pubbliche per la realizzazione di pale d’altare. Nel 1603 giunge a Roma, su richiesta di papa
Gregorio XIII, qui ottiene numerose commissioni e viene appellata con il soprannome di «Pontificia Pittrice». All’interno della corte papale si occupa soprattutto di ritratti di diplomatici e nobildonne. Ma Lavinia non fu solo pittrice, diede alla luce ben 11 figli, di cui 8 morti prematuramente. Lavinia Fontana viene colta da crisi mistica nell'ultimo periodo della sua vita e nel 1613 decide di ritirarsi con il marito in un monastero, dove muore l’anno seguente. Artemisia, nata nel 1593, apprende i rudimenti dell’arte dal padre Orazio, caravaggesca nello stile drammatico, la sua fama è dovuta soprattutto al coraggio dimostrato nell’intentare una causa per stupro contro il collega Agostino Tassi. In seguito al processo la sua fama è compromessa e non può più lavorare nella città eterna; per salvare le apparenze il padre combina per lei il matrimonio con un modesto pittore fiorentino. Artemisia si trasferisce a Firenze e nel 1616 è la prima donna a venire accettata nell’Accademia delle Arti del Disegno. Ma dopo un quinquennio Artemisia ritorna a Roma, abbandonando il tetto coniugale e ren-
dendosi indipendente; affitta una casa e cresce le figlie che cerca di avviare alla pittura senza successo. Nel 1630 si trasferisce a Napoli e nel 1638 raggiunge il padre, presso la corte di Carlo I a Londra, dove Orazio è divenuto pittore di corte e reclama il suo aiuto per realizzare un soffitto con l’allegoria del Trionfo della Pace e delle Arti, nella Casa delle Delizie della regina Enrichetta Maria, a Greenwich. La fama di Artemisia era giunta in Inghilterra e il re voleva assolutamente conoscerla; nelle sue collezioni era già presente una tela dell’artista dal titolo Autoritratto in veste di Pittura. Orazio muore inaspettatamente l’anno successivo, Artemisia continua a lavorare oltremare sino al 1642, quando ai primi cenni di guerra civile rientra in Italia e quindi a Napoli dove continua la sua attività artistica. Artemisia muore nel 1653 e viene seppellita nella chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini a Napoli, sotto una lapide con inciso “Heic Artemisia” che oggi risulta dispersa a causa della ricollocazione dell'edificio. La sua figura in particolare è divenuta simbolo del femminismo internazionale, e numerose associazioni sono state a lei intitolate. Ciò è dovuto alla sua figura di donna intenta a perseguire la propria indipendenza e volta a raggiungere la propria affermazione artistica, nonostante le difficoltà e i pregiudizi riscontrati.
Lavinia Fontana - Autoritratto
Artemisia Gentileschi
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Merce di scambio dall’anima-denaro
ESCORT: evoluzione o involuzione?
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l mondo Escort rappresenta una dimensione sociale conosciuta e accettata silenziosamente che oltrepassa il confine tra lecito e illecito, di cui possono godere coloro che hanno disponibilità economiche di livello e associate comunemente a politici, calciatori e sceicchi. Infatti tale tema ha conosciuto gran popolarità occupando le prime pagine di giornali scandalistici e di gossip, in particolare ciò è accaduto in vista del disvelamento progressivo di intrecci di sesso, potere, denaro che hanno visto coinvolte personalità politiche di rilievo. Stefano Bartezzaghi, giornalista e scrittore italiano, scriveva: ”La differenza tra una Escort e una puttana equivale alla differenza tra il lounge bar di un albergo a cinque stelle e una bettola di paese”. L’ingresso della parola Escort nel linguaggio ha dato spazio a una vera e propria rappresentazione del mercato del sesso a cui accedono diverse tipologie d’uomo con status e classe differenti tra loro: che sia un’evoluzione o una degenerazione di un mestiere che di fondo è lo stesso? La risposta sta nella riflessione di ognuno, dipende dalla prospettiva con cui lo si guarda. Escort è un termine moderno e di estrema attualità, la sua antenata era una ragazza-immagine ingaggiata dagli organizzatori di convention e da gestori di locali alla moda, un ruolo da modella speciale della serata con il puro compito di sorridere e conversare; successivamente assunse il ruolo di accompagnatrice a pagamento: rendeva
di Patrizia Rapposelli
invidiabile l’uomo che la scritturava per un evento importante, una “scorta” silenziosa e riservata. La prestazione sulla carta dipendeva poi dal cliente, attualmente da ragazza-immagine è passata ad accompagnatrice, a “steward” con prestazioni sessuali. Possiamo parlare di evoluzione per certi versi, ma per altri di involuzione; ad occhio comune la considerazione di tale ruolo femminile si discosta molto dall’opinione pubblica che si ha della “donna da marciapiede”. Si parla di confine velato tra lecito e illecito, lavorare da escort è sottilmente mestiere giustificato e accettato, visto con occhi diversi, lavorare nelle periferie lerce giudicato e rilegato all’angolo dell’illegalità. Quella sorta di giustificazione probabilmente è dettata dal fatto che la donna di lusso veste con abiti non appariscenti, pochi gioielli, un filo di trucco, appare come una donna di classe, bella e intelligente, che sorride molto e parla poco, dalle movenze garbate nei salotti dell’international high society, si fa oggetto consapevole di uomini di potere. Le cifre cui vengono pagate variano dai 2.000 ai 40.000 euro al giorno, parliamo di Escort e top Escort, uno smercio di corpi tale quale al vecchio mestiere e in ugual modo frequentato; cambia la parterre di clientela, selezionata a cura nel caso della donna lusso, in base all’aspetto, alla posizione sociale e alla disponibilità economica, ma di fondo il cliente è sempre lo stesso, che sia un politico o un nababbo,
un povero o un perverso in via del Campo a Genova, nascondono in sé in eguale misura una bilancia che oscilla tra la devianza e la patologia sessuale. Possono chiamarlo agente invece che protettore, possono parlare di scelte invece di costrizione e fare la bramosia dell’oro il fine più grande di loro stesse accattivandosi l’occhio pubblico, ma di fondo è sempre lo stesso gioco: possesso e sottomissione, denaro e umiliazioni, merci di scambio dall’anima-denaro.
Secondo i dati forniti dall’Associazione Giovanni XXIII fondata da Don Oreste Benzi, che si occupa di vari disagi sociali, si stima che in Italia le prostitute siano tra 75 mila e 120 mila (dati riferiti al 2014). Di queste la maggior parte “lavora” per strada, ben il 65%. Il 37% invece, ma probabilmente la percentuale è persino maggiore, è minorenne. Più della metà sono ragazze straniere, provenienti dall’Europa dell’Est (Bulgaria, Ucraina, Albania, Romania) oppure dall’Africa specialmente dalla Nigeria. Questo mercato inoltre è in continua crescita; dai dati forniti dal Codacons, il fatturato annuo (riferito al 2014) di tale attività è arrivato a 3,6 miliardi l’anno, +25,8% dal 2007, con un giro di clienti di varie estrazioni sociali ed età, che raggiunge i 9 milioni.
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ABITI PIÙ FAMOSI STORIA
GLI DELLA
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di Silvia Tarter Il titolo di abito più bello della storia del cinema, finora, se lo è aggiudicato una creazione piuttosto recente. Il leggero vestito verde smeraldo indossato da Keira Nightley in Espiazione, di Joe Wright (2007), è disegnato dalla costumista statunitense Jacqueline Durran, che per disegnarlo ha letto attentamente la descrizione del vestito fatta da Ian McEwan, autore del romanzo da cui è tratto il film. L’abito, lungo fino a terra, ha una vistosa scollatura e lascia la schiena della protagonista, Cecilia, completamente scoperta. Il taglio raffinato, le scollature e lo strascico, derivano da un attento studio di quella che era la moda in voga negli anni Trenta e Quaranta. Una curiosità: vista l’estrema delicatezza dei materiali, durante le riprese il vestito si è rotto molte volte, tanto che per renderlo più resistente è stato realizzato in due parti separate, unite poi da un corsetto interno. Il colore, un verde incisivo e simbolico che si imprime nella mente con forza evocativa, è stato ottenuto da una combinazione di seta verde acido, organza nera e verde e chiffon verde. Nel 2008 è stato messo all’asta per beneficenza, per destinare fondi a un’associazione californiana che si occupa di bambini vittime di abusi, dove è stato venduto per 46.000 dollari. (Fonte: Wikipedia)
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CINEMA
Il tubino nero indossato da Audrey Hepburn all’inizio del celebre Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edwards, è considerato, nella sua semplicità e linearità, uno dei più bei vestiti della storia del cinema, divenendo negli anni un classico, sinonimo di eleganza ed estrema versatilità. Disegnato per lei dallo stilista francese Givenchy nel 1961, è un abito fatto di raso nero italiano che l’attrice portò abbinato a lunghi guanti neri, occhiali da sole scuri e fili di perle. Nel 2006 una copia è stata venduta all’asta a un anonimo compratore per il prezzo di 467.200 sterline. L’anno dopo, la rivista Daily Mail lanciò un sondaggio per decidere quale fosse il capo d’abbigliamento che non dovrebbe mai mancare nel guardaroba di una donna e il più votato fu proprio il tubino indossato dall’eccentrica Holly Golightly. Ne La finestra sul cortile di Alfred Hitchkok (1954), la splendida Grace Kelly nei panni di Lisa, fidanzata del protagonista Jeff (James Stewart) indossa un abito disegnato per lei dalla costumista della Paramount Pictures Edith Head, il famoso Paris Dress. Corpetto nero, profondo scollo a V sia sul petto che sulla schiena, lunga e drappeggiata gonna bianca in chiffon e tulle, decorata con ricami neri a ramo d’albero, è completato da accessori e da una stola in tulle bianco. Quest’abito è uno dei più amati e imitati della storia e ha contribuito a costruire l’immagine di sofisticata eleganza dell’attrice.
La splendida Claudia Cardinale è regale nella scena del ballo nel celebre film di Luchino Visconti, Il Gattopardo (1963), tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. L’attrice, nei panni di Angelica Sedara, figlia di un borghese arricchito sindaco del paese, indossa un fiabesco abito bianco che mette in risalto la sua figura di borghese in mezzo all’aristocrazia ormai prossima alla decadenza narrata nella vicenda. Si tratta di un abito da ballo in organza color avorio, su una base di seta di un verde chiarissimo. Dotato di scollo a V e fiocco di seta verde, è decorato in tutta la sua lunghezza di ruches in organza color avorio. La sartoria Tirelli nel 2001 ha realizzato una copia in occasione di una mostra dedicata a “La scena del Principe-Visconti e “Il Gattopardo”, a Palazzo Chigi di Ariccia (vicino a Roma).
Arrivando ai giorni nostri, nel celebre colossal Titanic, di James Camerun (1997) l’infelice e annoiata Rose, interpretata da Kate Winslet, indossa un abito molto elaborato la sera in cui tenta di suicidarsi gettandosi dalla nave, noto per questo come the jump dress (il vestito del salto). Realizzato in satin rosso, ricoperto di uno strato di pizzo nero che si trascina con un lungo strascico in cui Rose finisce per inciampare mentre scala il parapetto della prua, è tempestato di perline nere, a partire dal corpetto, dove compongono delle rose nere, fino in fondo, tanto che nella scena del film si può sentire distintamente a ogni passo dell’attrice il rumore di tutte quelle perline!
La scena in cui Marylin Monroe e Tom Ewell escono dal cinema in Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955), è una delle immagini più riprodotte nell’iconografia che ha reso immortale l’attrice californiana. Marylin si ferma su una grata e il vento causato dal passaggio della metropolitana sottostante le solleva il vestito lasciando scoperte le gambe, nonostante lei tenti di abbassarlo. Quell’abito da cocktail bianco fu disegnato, o secondo alcune fonti comprato, da William Travilla, fedele costumista dell’attrice con cui lei ebbe una relazione. Negli anni, il vestito passò poi alla collezionista Debby Reinolds – prima di essere venduto all’asta – che in un’intervista dichiarò alla giornalista Oprah Winfrey, «è diventato di color écru [bianco sporco] perché come sapete è molto, molto vecchio ormai».
Nell’epopea di Via col Vento, la bella e altera Scarlett (Vivien Leigh) sfoggia un’ampia gamma di abiti, dove spiccano i toni del verde che le si addicono particolarmente. Tra i più famosi, il celebre vestito fatto con le tende (The Curtain Dress), color verde bottiglia, opera di Walter Plunkett, accompagnato da cappello, borsa e cintura. Questo abito di recupero simboleggia la tenacia di Rossella nel cercare di difendere la propria dignità, nel momento in cui, dopo la morte del padre e la crescente povertà che non le permette neppure di comprarsi un abito da lutto, va a chiedere aiuto a Rhett. Oggi il vestito è in parte scolorito, a causa delle continue spruzzate di disinfettante subite negli anni per mantenerlo pulito durante le numerose mostre cui è stato esposto.
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Come soddisfare le Vostre esigenze abitative
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Passo Coe – Folgaria
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Castello Tesino (TN)
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a r e i n o i p e d n a r g a n U
t r a h r a E a i l e Am di Chiara Paoli
la quota di due o trecento piedi, seppi che dovevo volare». Il suo più grande desiderio è ora quello di prendere lezioni di volo e raccoglie i soldi necessari svolgendo lavori di vario tipo; grazie anche al contributo della madre riesce ad acquistare il suo primo biplano, con il quale stabilisce il primo dei suoi record femminili, salendo i sono donne pioniere, donne che a un'altitudine di 14.000 piedi. si lanciano in imprese mai tentate La sua insegnante è Anita Snook, un’altra prima dal gentil sesso, che entrano pioniera dell’aereonautica; Amelia è la secosì a far parte della storia. Amelia dicesima donna al mondo a ottenere il Earhart è una di queste. Nasce brevetto di pilota, il 15 maggio 1923. nella casa dei nonni materni il 24 Il capitano Hilton H. Railey nel 1928 proluglio del 1897 ad Atchison, in pone ad Amelia di attraversare l’oceano Kansas, la famiglia vive a Kansas Atlantico, è la svolta della sua carriera: City. Nel 1905 i genitori si trasfe- Amelia diviene la nuova “Regina del’aria”. riscono nell’Iowa a Des Moines, Assieme alla donna, il 17 giugno prendono lasciando Amelia e sua sorella, di due il volo sul velivolo ribattezzato Friendship anni più giovane, con i nonni per ben 3 (amicizia), il pilota Stultz e il copilota-mecanni; le figlie raggiungeranno i genitori canico Gordon; quando giungono in Galles, nel 1908. All’età di diciassette anni Amelia tutti gli onori sono riservati alla prima decide di iscriversi alla scuola per diventare donna che ha avuto il coraggio di sorvolare infermiera; durante la Prima guerra mon- l’oceano. diale presterà servizio in un ospedale Amelia, l'8 aprile 1931, stabilisce il record militare in Canada. A ventitre anni per la mondiale di altitudine raggiungendo i prima volta Amelia spicca il volo a bordo 18.415 piedi, e sposa George Putnam, di un biplano che per un dollaro sorvola scrittore ed editore del libro sull’impresa Los Angeles in un giro turistico di una de- dell’aviatore Lindbergh, che aiuterà la mocina di minuti; l’occasione è un raduno glie nell’organizzazione delle sue imprese. aeronautico presso il Daugherty Airfield L’anno successivo, il 21 maggio, seconda di Long Beach in California. soltanto a Lindbergh compie una transvoLa passione in lei esplode, come disse ai lata oceanica in solitaria, partendo dal giornalisti dell’epoca: «Quando raggiunsi Texas per giungere in Irlanda; è così che
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diviene la più nota eroina della storia dell’aviazione nella sua fase ancora pionieristica. La donna dei record è la prima a percorrere in volo gli Stati Uniti senza scalo il 24 agosto 1932 ed è la prima aviatrice che oltrepassa il Pacifico partendo da Oakland per raggiungere le isole Hawaii. Nel 1935 la Earhart entra alla Purdue University in veste di visiting faculty member ("membro della facoltà in visita") con funzioni di consulente tecnico per il Dipartimento dell'Aeronautica, ma anche per incoraggiare le donne interessate a dare impulso alla loro carriera.
L’anno successivo Amelia inizia a programmare il suo giro aereo del mondo, non sarebbe stata la prima a compiere tale impresa, ma avrebbe percorso la più lunga rotta equatoriale, percorrendo ben 47.000 km. Un monoplano bimotore Electra L10 venne costruito dalla Lockheed Aircraft Corporation, seguendo le richieste della aviatrice, grazie al finanziamento erogato dalla Purdue University. Il 17 marzo 1937, Amelia Earhart parte con l’equipaggio formato da Fred Noonan, Harry Manning e Paul Mantz, percorrendo il primo tratto da Oackland in California sino a Honolulu nelle Hawaii. Dopo questo tragitto l’aereo necessita di manutenzione a Luke Field da dove riescono a ripartire tre giorni dopo. Durante il decollo il velivolo fa un testacoda, pare a causa dello scoppio di uno pneumatico, si rese quindi necessario inviarlo via mare, per effettuare le dovute riparazioni nella fabbrica della Lockheed a Burbank. Nel frattempo Amelia e il marito George Putman raccolgono nuovi fondi per tentare nuovamente di circumnavigare il globo, questa volta dirigendosi verso oriente, in considerazione del cambiamento delle condizioni climatiche, e con il solo Noonan al suo fianco. Il primo volo con partenza da Oakland in California giunge a Miami, in Florida, dove Amelia rende noto al grande pubblico il suo nuovo progetto di circumnavigazione del globo. Riprendono il volo da Miami il 1º giugno e dopo
diversi scali in Sud America, Africa, e Asia, giungono a Lae, in Nuova Guinea, il 29 giugno del 1937. La maggior parte del globo è stata percorsa, ben 35.000 i km effettuati, rimangono da percorrere 11.000 km di volo sull’oceano Pacifico. Il 2 luglio Amelia e Fred Noonan decollano, la loro meta è Howland, una piccola striscia di terra lunga 2 km. Qui si perdono le tracce dei due pionieri, nessuno sa cosa sia successo, moltissime sono le teorie che hanno seguito la fase dei soccorsi. Amelia ricevette, tra gli altri riconoscimenti, la Legion d’Onore e la Distiguished Flying Cross dal Congresso degli Stati Uniti divenendo icona del femminismo e simbolo per tutte quelle donne che vogliono realizzarsi. Alla vita della grande aviatrice è stata dedicata nel 2009 un’opera cinematografica
intitolata semplicemente Amelia, protagonista l’attrice Ilary Swank, diretta da Mira Nair; la nostra eroina dei cieli riprende vita anche nel film Una notte al museo 2 La fuga. Moltissimi sono i libri e gli articoli scritti su di lei, fiumi di parole e infinite teorie sulla sua scomparsa si sono affastellate negli anni; ritrovamenti veri o fantomatici proclamati da più parti hanno messo in allarme la comunità degli aviatori e degli appassionati. La prematura morte dell’aviatrice ha contribuito a costruire il suo mito che non cessa di essere celebrato e ricordato. La sua figura rimane a esempio per tutte quelle donne che credono nei propri sogni e hanno la forza e il coraggio di perseguirli nonostante le avversità.
Amelia Earhart con suo marito, George Putnam - 1931
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Violenza sulleDONNE A
lice Graziadei è nata a Caldonazzo nel 1990, ma da alcuni anni studia e vive a Bologna. E proprio nella città emiliana, Alice si è occupata assieme alla sua docente Valeria Babini di un progetto unico in Italia: la fondazione di un corso universitario aperto a tutta la popolazione che trattasse il tema della violenza sulle donne. E così, gli studenti iscritti a lettere della più antica università del mondo hanno incontrato esperti, letterati, psicologi. L’idea di questo corso è sorta da due urgenze. Una prima accademica e una seconda invece contestuale, come spiega Alice, impegnata al momento con un dottorato di ricerca in filosofia della scienza. «Le università umanistiche - spiega Graziadei, secondo la quale il percorso delle 45 lezioni distribuite in tre anni era uno spunto - sono spesso accusate di mancare di contatto diretto con la realtà. Inoltre questa tematica è sembrata alla coordinatrice del corso di laurea in filosofia Annarita Angelini un ottimo punto di partenza, non solo per formare studenti ma anche per educare i futuri cittadini a una nuova attenzione su questa delicata questione». Un obiettivo certamente ambizioso, ma non per questo la squadra ha desistito, e anzi in tre anni ha proposto agli studenti
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e agli altri partecipanti al corso, incontri con filosofi e letterati del calibro di Dacia Maraini e Remo Bodei, psicoanalisti come Massimo Recalcati, ma anche storici, giornalisti, avvocati e, soprattutto, operatori sociali di centri anti-violenza e di quelli per gli uomini maltrattanti, che sono coloro i quali hanno un contatto diretto con il territorio, con le tematiche e soprattutto con chi, dalla violenza, è travolto. «Ognuno di loro - spiega la giovane dottoranda - ha portato un pezzo di una narrazione estremamente complessa: c’è chi, come la Melandri, ha presentato un contributo estremamente incisivo ed efficace. Ma anche chi ha raccontate esperienze alle volte inaspettate e tragicamente sorprendenti». Per esempio, in alcuni casi le donne ci hanno messo quindici anni a denunciare i maltrattamenti. «Oggi la soglia si è più che dimezzata - spiega Alice - ma comunque molta acqua deve passare sotto i ponti prima che la consapevolezza emerga pienamente». Consapevolezza che si sta allargando in entrambe le direzioni; tanto nelle donne vittime di abusi, per le quali si fa sempre più chiaro cosa significhi questa parola. Ma passi importanti si stanno facendo anche nel mondo maschile che, interrogandosi, sta elaborando il fatto che anche gesti semplici, quotidiani, apparentemente innocui, sono in realtà forme di violenza sulle loro compagne. Stiamo parlando di violenza psicologica, prevaricazioni, situazioni di dipendenza. E, a quanto pare, per i giovanissimi e soprattutto per le giovanis-
di Elisa Corni
sime, questo aspetto che non lascia segni ha meno importanza. «Dai pochi incontri con i giovani - racconta Alice - è emersa una situazione poco rassicurante dato che gesti come il controllo del cellulare sono letti dalle ragazze come gesti di attenzione e gelosia, quando non lo sono. È proprio per questo che, corsi come quello che abbiamo organizzato, sono importanti». E i risultati si vedono, come racconta la valsuganotta: «Ho visto quanto si può fare con una buona combinazione di informazione e sensibilizzazione; i ragazzi che sono venuti al seminario hanno ricevuto lo stesso questionario all’inizio e alla fine del seminario, e abbiamo notato come pregiudizi e preconcetti fossero radicalmente mutati». Da questo duro lavoro è uscita una raccolta di saggi, pubblicata da Pendargon nel febbraio di quest’anno, che permette anche a chi non ha potuto partecipare di persona agli incontri, di approfondire il tema della violenza sulle donna attraverso i diciotto interventi «più efficaci, più incisivi, più forti e, perché no, più belli». Il libro s’intitola “Lasciatele vivere”, «In realtà il nostro è un invito - spiega Alice - a lasciare le donne libere di essere, di decidere, di andare via, di tornare, di fare della loro vita quello che si sentono di fare». La raccolta è accompagnata da un documentario che ripercorre il progetto delle quarantacinque lezioni, “Di genere Umano” del regista Germano Maccioni. Il documentario è stato presentato con successo a Levico Terme lo scorso 14 febbraio. A Marzo, invece, Alice sarà prima a Roma, poi a Bologna, a Trento, e infine a Caldonazzo, per raccontare un progetto che ci fa rendere conto di come «le conquiste di cui godiamo oggi non sono eterne e immutabili, ed è compito nostro difenderle per le prossime generazioni».
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DIALOGO APERTO CON MUN AHNAID’
Danza del Ventre
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di Armando Munaò Questa danza è tradizionalmente praticata dalle donne, perché esprime interamente la femminilità, la vitalità e la sensualità. È una danza mediorientale unica nel suo genere: esistono diversi stili che cambiano a seconda del Paese d'origine, come la danza col velo. In generale, questa danza è caratterizzata dalla sinuosità e dalla sensualità dei movimenti: è di effetto sia con musiche ritmate che lente. Per saperne di più abbiamo intervistato una vera danzatrice di origini italiane che si esibisce sia in Italia che all’estero, grazie alla sua grande esperienza e professionalità maturata in diversi anni di pratica e applicazione.
Come e quando nasce la danzatrice Mun Ahnaid’? Il quando si perde nella mia infanzia, mi ricordo, a scuola di danza classica fin dalle elementari. Il come è più articolato, costellato di vari stop&go, dovuti a demotivazioni, difficoltà fisiche non proprio facili e veloci da risolvere. Avevo difficoltà a stare in piedi o a camminare in equilibrio. In quegli anni ero convinta di dover relegare tutto a un’altra vita. Poi, però, trovai il modo di “curarmi”, e fu davvero un rinascere! Il mio nome d’arte è frutto di una attenta e desiderata ricerca: la radice “mun” sta per sola, unica, il nome anaid è il mio nome, Diana, al contrario. Il tutto simboleggia la spersonalizzazione che acquisto mentre danzo e che mi guida quando, al di fuori della danza, vivo il resto del tempo e del quotidiano. Perche danzatrice del ventre e non di altri balli? In molti anni ho provato e studiato vari stili di danza impegnandomi in progetti differenti tra loro, come danza-teatro a base jazz moderno. E oggi, per la verità e quando posso, li mescolo mentre danzo. Le movenze tipiche orientali, però, sono danzate dal mio corpo senza alcuna fatica. Non le ho mai imparate. Credo di averle avute quasi come un dono naturale. Una essenza che tutt’ora vive in me.
Cosa rappresenta la danza del ventre nel mondo arabo e orientale? Era ed è una forma antichissima di preghiera, di connessione con il divino attraverso il corpo in movimento, e una forma simbolica di rappresentazione di scene importanti della vita di ognuno. Da psicologa curiosa ho studiato in profondità anche questo aspetto culturale e storico. Personalmente credo, e ho sperimentato, in una stessa radice che la danza (yoga in movimento) spartisce con lo yoga, che è danza statica, e con le arti marziali, i cui movimenti in origine si assomigliano, prendendo poi strade diverse dovute alla differenza dell’agire Femminile/maschile. C'è differenza tra il pubblico italiano e quelli degli altri paesi dove lei si è esibita e ancora si esibisce? Molta. In alcune regioni d’Italia c’è un tale filtro culturale, perdita di memoria “storica”, o insensibilità a certe forme artistiche, che spesso tutto quello che si apprezza è chiamato... sensualità. In Oriente la parte mediamente colta, riconosce dalla tradizione e dal proprio istinto l’importanza di saper usare parti del corpo e muoverle: in origine, riuscire a compiere certi movimenti, sia statici (yoga) sia dinamici, era un “sentiero” maestro per acquisire consapevolezza di sé e del divino, e il corpo era ritenuto
un tempio. Ed era vero che non riuscire a muovere il proprio corpo più di un minimo voleva dire non avere che un misero possesso del proprio tempio… Quando si esibisce, in che modo il pubblico maschile o femminile la osserva? Quando danzo e sono concentrata su quello che faccio e guardo negli occhi chi ho davanti poco mi importa che sia femminile o maschile. In quel momento per me sono tutti uguali, poi di solito mi avvicino e cerco di coinvolgere fisicamente nella danza, allora noto un certo e sicuro interesse in quello che faccio. Nel suo curriculum abbiamo letto che lei oltre a essere diplomata in pianoforte al Conservatorio di Verona è anche laureata in Psicologia. Quali le motivazioni che l'hanno spinta a essere maestra di danza del ventre e non piuttosto a esercitare le altre professioni risultato degli studi? Esercito di fatto anche le altre professioni qui in Italia. Ho fondato una associazione culturale che ruota attorno all’insegnamento di yoga, personalizzato con danzaterapia e tecniche del respiro, training
autogeno, conduco il colloquio classico psicologico e il colloquio-counseling esistenziale, personalizzati da un approccio pratico al corpo che, per me, è una base organica di appoggio di ogni trattamento. Ho lavorato ancor prima molti anni in ambito Handicap, forgiandomi una conoscenza e esperienza in situazioni molto particolari, come spesso in questo ambito accade. Lei è esponente della “Bellydancer” e creatrice della “Mother dance” in Italia. Vuole spiegare ai nostri lettori quali sono le caratteristiche di questi due stili di danza? Bellydancer è un termine internazionale, indica la danza del ventre, semplicemente. Danzamadre è un termine da me coniato, che si riferisce a uno stile di danza istintivo e senza premeditazione mental-razionale, quindi ben lontano da qualsivoglia tentativo di coreografia e relativa sicurezza emotiva che questa comporta, e di ripetizione, che presuppone comunque un corpo molto “sano” e capace di muoversi, e una connessione già lavorata e levigata con il proprio istinto. In questo modo si riesce a danzare la propria “danza madre”. Per molti osservatori la danza del ventre ha un suo proprio linguaggio erotico e sensuale. È così?
Vedere erotismo in una danza è una questione squisitamente culturale e personale. Lei ha fondato, nel 2008, l'Associazione culturale Perle di Danzamadre e della compagnia di danza associata. Quando si esibisce in Italia o all'estero lo fa da solista oppure con sue allieve o altre colleghe? I primi anni, sull’onda di una moda passeggera che spingeva la danza del ventre come novità qui in Italia, ho danzato con le mie allieve migliori. Negli ultimi anni sono una solista, anche se qualche volta mi può capitare di danzare con colleghe con le quali ho un rapporto occasionale. Si dice che la danza del ventre sia una danza più intimista che una danza da gran palcoscenico. Questa considerazione è riferita alla distanza non troppo elevata che c’è tra danzatrice e pubblico. È una danza per certi aspetti intimi caratterizzata da particolari movimenti, tronco, collo, testa, occhi, che si possono apprezzare solo da vicino. Guardando le sue immagini lei sembra avere alle volte dei tratti orientaleggianti... Sì, anche se sono nata quì, e sono di fatto italiana come la mia famiglia, mi dicono che tra i miei antenati ci sia stato qualcuno di origine indiana. Personalmente, mi sono scoperta affine fin da piccola ad alcuni importanti elementi orientali.
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LA DONNA attraverso i proverbi
di Adelina Valcanover
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Sono una donna, non sono una santa. Non tentarmi, non sono una santa…” Chi non ricorda questa canzone di Canzonissima 1971 cantata da Rosanna Fratello? Pensandoci mi è subito venuto in mente un vecchio proverbio: “Dopo i cinquanta la donna o diventa matta o diventa santa.” Si deduce che ci sono in giro tantissime donne destituite da sentimento solo per aver superato la soglia del mezzo secolo e, dato che non si chiudono in convento, perdono qualsiasi raziocinio. Naturalmente proverbi che riguardano la donna ce ne sono a iosa e spesso di parte. “Moglie e buoi dei paesi tuoi”, mette in guardia gli uomini di non farsi incantare da donne che non siano del posto, onde evitare dispiaceri. Per i buoi sarà la stessa cosa, si presume. Spesso rivelano una certa sfiducia nel genere femminile tipo: “Dòne e orolòi l’è grant embròi” (donne e orologi sono un grande imbroglio), in altre parole né degli orologi e men che meno delle donne c’è da fidarsi. Probabile che sia vivo il ricordo di Eva e delle conseguenze della sua azione.
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Eccone altri che rispecchiano scarsa fiducia verso la fedeltà del gentil sesso: “Sol de marz, onde de mar, e amor de dòna, no te fidar.” (Non fidarti del sole di marzo, delle onde del mare e dell’amore delle donne). “Baso de dòna varda che el te ‘ncojóna” (Il bacio di una donna ti abbindola). Quest’altro proverbio sottolinea la tendenza della donna a perdere e a far perdere tempo: “Chi àseni para e dòne mena, se i crede de arivar a disnar no i riva gnanca a zena.” (Chi conduce asini o accompagna donne, se si illude di arrivare in tempo per il pranzo, non arriva nemmeno per l’ora di cena). Altro proverbio: “Né dòne né tela no se misura a lusor de candela.” (Né donne né tela si osservano al lume di candela), perché non si potrebbero vedere i possibili difetti. Le donne istruite? Sono viste come vera e propria invadenza di genere: “Dòne che slatina e galine che canta da gal, no ghé da farse en gran capitàl.” (Donna che ha studiato [che conosce anche il latino], e gallina che fa il gallo, non c’è da far gran conto). Le donne devono essere sempre affac-
cendate altrimenti: “Dòna de finestra no la val na menestra.” (la donna che sta alla finestra a passare il tempo, vale assai poco). Invece, apparentemente, questo detto parrebbe favorevole alle donne, ma nasconde in realtà una delusione, cioè il fatto che non è nato il primogenito maschio e viene giustificata). “En casa dei galantomeni, prima le dòne e po’ i omeni.” (In casa dei galantuomini prima nascono le donne e poi gli uomini). Questo fa proprio pensare alla misoginia pura e semplice: “La dòna l’è en dan per tredese mesi al’an.” (La donna è un danno per tredici mesi all’anno). Qui invece si sottolinea la furbizia femminile che riesce a superare perfino il diavolo: “Le dòne le ha fat la panada al diaol e po’ le ghe l’ha magnada.” (Le donne hanno preparato la zuppa al
diavolo e poi gliel’hanno pure mangiata). Per chi non lo sapesse la ‘panada’ è una minestra a base di pane abbrustolito e burro. Tradizionalmente era il primo cibo per la puerpera, perché considerato leggero e nutriente, veniva data anche ai bambini quando erano indisposti. Interessante l’espressione “far la panada al diaol” ossia ‘guadagnare per altri’. Questo proverbio per dire di usare cautela e garbo soprattutto pazienza: “Gropi, seradure e dòne bisòn torli con le
bone.” (Nodi, serrature e donne vanno presi con calma). E questo? “Doia de dona morta dura fin ala porta”. (Il dolore per la donna morta dura pochissimo). “Col fòc se prova l’oro, con l’oro la dòna.” (Col fuoco si misura l’oro, con l’oro la donna.) Questo poi… “Val pù ‘n om de paja che na dona de oro.” Vale più un uomo da niente che una donna d’oro). E via ‘proverbiando’.
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Concludo con questo: “Chi dice donna dice danno” e infatti le donne danno tanto: amore, sostegno, aiuto, consiglio, consolazione, cura, tempo… e danno la vita.
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Erbemille virtù dalle
di Silvia Tarter
Da sempre l’uomo, in ogni parte del pianeta, usa erbe aromatiche e piante spontanee per curare disturbi e patologie di vario tipo, ma anche per valorizzare la propria bellezza, insaporire le pietanze e preparare gustose bevande.
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estimonianze di utilizzi antichi delle erbe sono state rinvenute fin dai tempi degli Egizi, dove erano molto utilizzate in cucina, così come a fini terapeutici e nei riti sepolcrali. Nelle ricette degli Egiziani rientravano infatti spesso e volentieri radici di papiro tostate, cumino, coriandolo, aneto, menta e sedano. Nel meticoloso processo di mummificazione invece le erbe aromatiche servivano ad imbottire le cavità del torace dopo che erano stati asportati gli organi, profumando il corpo imbalsamato e, si credeva, contribuendo a preservarlo dal deterioramento. Anche i greci facevano grande utilizzo di erbe, sia in cucina che a fini curativi. Omero nell’Odissea nominava l’erba moly, ovvero la
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ruta -molto amata anche da Aristotele che la riteneva afrodisiaca- mentre Pitagora si nutriva invece di malva e asfodelo bolliti. Dalla tradizione greca inoltre arriva il Dio della medicina Asclepio, divenuto poi Esculapio per i Romani, che curava, e addirittura, per la leggenda, risuscitava i morti, sfruttando le virtù terapeutiche delle erbe. Al suo culto si ispirò Ippocrate, che diede per primo un fondamento scientifico alla medicina. Questi rimedi a base vegetale, nati originariamente dall’osservazione dei comportamenti degli animali, venivano raccolti in volumi illustrati, i cosiddetti erbari. Nel Medioevo poi, col recupero delle conoscenze antiche si ripresero anche le teorie dei medici greci e romani basate su cure a base di erbe, radici e spezie, nel cui utilizzo componente scientifica e aspetti più magici, spirituali e superstiziosi finivano col fondersi e confondersi. Prezzemolo, rosmarino, acanto, mandragore... diventavano rimedi in grado di far fronte a malesseri, malattie e comportamenti anche curiosi. Un dente di cane, ad esempio, “se sospeso al collo, elimina il dolore del morso di cane, fa avvertire se qualcuno sparla dietro la schiena e, al collo dei
fanciulli, fa spuntare i loro denti senza dolore" si legge in un erbario. Con l’evolversi della medicina e l’avvento della chimica, l’erboristeria ha abbandonato quel filone magico e superstizioso, rimanendo però una conoscenza tramandata parallelamente a livello scientifico, come scienza che si occupa di studiare le piante officinali, aromatiche e spontanee per fini terapeutici (fitoterapia), nutritivi o cosmetici, e a livello popolare, trasmesso da una generazione all’altra come un sapere pratico prezioso (pensiamo ai famosi rimedi delle nonne!). Negli ultimi anni infine, con la crescente tendenza verso uno stile di vita più naturale e sostenibile per l’ambiente è aumentato il ricorso a prodotti di erboristeria, sia nella dieta, con integratori, infusi e decotti, sia per la cura della bellezza del corpo, dove si prediligono sempre più cosmetici naturali, che hanno dato modo di sviluppare anche un nuovo e interessante settore di mercato.
Coccolarsi con un
MASSAGGIO “
Avrei bisogno di un bel massaggio...”. Chi non ha mai detto o sentito una frase come questa? Uno dei rimedi più efficaci per alleviare dolori e fastidi muscolari, o ridurre lo stress è proprio coccolarsi con un bel massaggio. Ricorrere al contatto fisico attraverso precisi movimenti delle mani è una pratica antichissima, effettuata da varie civiltà come terapia antidolorifica, per sciogliere la muscolatura, tonificare con movimenti decisi e sferzanti, o al contrario rilassare con un tocco più calmo e dolce. Esiste infatti un’innumerevole varietà di tecniche per far fronte a problematiche o esigenze differenti: dai massaggi lenitivi degli sportivi, a quelli distensivi per muscoli in tensione fino ai massaggi anticellulite
e drenanti per contrastare il ristagno dei liquidi. Spesso vengono utilizzati anche olii, unguenti e creme per agevolare il movimento delle mani sul corpo e che con il loro profumo contribuiscono a creare un’atmosfera rilassante. Alcune delle pratiche terapeutiche più in voga oggigiorno, ormai assimilate ai massaggi, sono poi lo shiatsu giapponese, dove il massaggiatore agisce effettuando una pressione con i pollici e il palmo delle mani (esistono naturalmente varie tecniche), il thai, eseguito a terra, senza l’uso di olii e solitamente piuttosto lungo, oppure l’ayurveda indiano, una pratica la cui teoria è ripristinare l’equilibrio tra i dosha, le energie vitali, ricorrendo a diverse azioni, come l’utilizzo di erbe,
unguenti e persino metalli. Naturalmente non sempre i massaggi sono adatti a chiunque, perché possono avere delle controindicazioni, specie per le persone con problemi alla pelle, reduci da interventi chirurgici, o affette da vene varicose e flebiti. Per questo è sempre importante affidare la cura del nostro corpo a delle mani esperte e competenti.
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L’associazione “Amici della Lirica”
PATRIZIA PATELLI, nuovo Presidente di Adelina Valcanover
Patrizia, ci dica qualcosa di lei. Sono nata a Torino 42 anni fa. Finito il liceo ho lasciato la mia città e, dopo qualche giro per l’Italia sono approdata a Pergine nel 2014. Sono madre per vocazione di due ragazzi adolescenti che amo e seguo appassionatamente. Ho una laurea in Etica e Deontologia della comunicazione e un Master in tecniche di narrazione, e proprio di scrittura e di comunicazione mi sono sempre occupata. Inseguo la gentilezza e la bellezza, non credo che salveranno il mondo, ma che lo rendano sopportabile, sì. Detesto l’arroganza, la voce dei padroni e chi mette in gabbia il cuore delle donne. Lei è il nuovo presidente dell’associazione “Amici della Lirica”. Che ruolo riveste questo gruppo nell’ambito culturale della zona? Innanzitutto devo ringraziare chi ha voluto e ha saputo accompagnarmi nell’assunzione di questo ruolo, Katarzyna Medlarska e Andrea Fuoli, i genitori dell’associazione, e poi tutti gli altri membri del direttivo, Cristina Costa, Flora di Franco, Paola Valcanover e il giovanissimo Michele Weiss. La presidenza è un ruolo che ho accettato con lusinga e orgoglio, perché so di poter contare su un gruppo affiatato e appassionato. Ringrazio poi chi mi ha e ci ha preceduto, perché stiamo lavorando su un terreno che è stato solidamente apparecchiato. Siamo un’associazione quasi tutta al femminile, preciso che abbiamo due maschietti formidabili, e non siamo tutti trentini di nascita, pur amando immensamente il territorio che abitiamo. Credo che queste due cose
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insieme abbiano e stiano creando un mix esplosivo. Le donne hanno gli occhi aperti sul futuro, sanno aspettare, accolgono e conservano, tengono acceso il fuoco, sono portatrici di vita e di speranza, amano anche quando si disperano e non si stancano mai di lottare. Il fatto di avere anime straniere ha fatto sì che in poco tempo abbiamo raggiunto traguardi insperati. Lo sguardo di chi arriva da fuori è uno sguardo spavaldo, estraneo alle dinamiche della consuetudine, che non ha paura di portare scompiglio, che rischia di sollevare polvere magari, ma che in questo modo crea tante nuove occasioni. Siamo un’associazione visionaria e coraggiosa. Quali sono le risposte del territorio? Ricordo molte passeggiate fatte per Pergine insieme a Katarzyna in cui siamo state fermate da qualcuno dei nostri soci o spettatori che ci ringraziava e si congratulava per l’ultimo concerto visto. Contiamo centinaia di persone che ci hanno dato e ci danno fiducia. Siamo stati sostenuti e incoraggiati dai Comuni dell’intera Valle e dall’assessore Sandro Beber che speriamo continui a credere nel nostro lavoro. Quali sono le principali difficoltà che si incontrano in questo particolare ambito culturale che fa parte della storia del belcanto e non solo? Dò una risposta originale: far quadrare i conti. E poi riconoscere la validità dell’offerta. Per quanto, grazie alla credibilità acquisita sul campo dal nostro soprano e dal nostro direttore d’orche-
Patrizia Patelli stra, riusciamo a contare sulla collaborazione volontaria del M° Mauro Trombetta e molti artisti, argomento sul quale personalmente mi sentirei di aprire molte parentesi, perché la cultura non dovrebbe mai essere svenduta, abbiamo spese vive di vitto e alloggio consistenti. Far suonare un’orchestra mobilita per giorni o settimane cantanti e musicisti che arrivano anche da fuori regione. Allestire un’opera lirica significa in aggiunta organizzare scenografie, impiegare tecnici, insomma muovere una macchina importante. La nostra offerta è qualitativamente molto alta. Gli artisti vengono scelti con grande attenzione. Abbiamo la fortuna di abitare un territorio con una forte vocazione e tradizione musicale, ma proprio per questo si crea spesso confusione tra ciò che è buono e ciò che punta all’eccellenza. Quali prospettive ha l’associazione che lei rappresenta? Far viaggiare la nostra musica. Portarla fuori regione e creare un ponte con
altre scuole musicali europee. Riuscire a contagiare con il nostro entusiasmo chi ancora non ci ha conosciuto, perché la musica, qualunque tipo di musica, è democratica, è davvero per tutti. È una sospensione del tempo. È prendersi cura di sé, mettersi in ascolto delle proprie emozioni. Questo vogliamo fare noi, regalare del tempo a ognuno affinché possa mettersi in ascolto dei propri battiti del cuore. In che modo pensa si possa sviluppare, anche presso i giovani, questo interesse? I giovani non hanno bisogno di consigli, a loro basta conoscere e ascoltare. Sono molto fiduciosa sul fatto che riusciremo ad avvicinare sempre più giovani alla nostra causa. Perché non abbiamo da educare nessuno né tantomeno da insegnare nulla. La musica arriva dove deve arrivare. Non esiste una musica alta e una bassa. Esiste la musica bella e la musica brutta. E quando una cosa è bella cosa importa se l’ha scritta Adèle o Mascagni? Puccini è stato una vera rock star dei suoi tempi e sicuramente ascoltava Bach. Non ci stupiamo certo che i Coldplay ascoltino Puccini. E allora ascoltiamola tutta la musica. Nei nostri concerti non c’è differenza tra musica classica e moderna perché la musica è una, anche se divisibile. Cosa si sta progettando per quest’anno? Gli ascolti di “Un’ora un’opera” con i
quali apriamo le attività di quest’anno, le masterclass di canto, concerti in collaborazione con l’Orchestra Giovanile Trentina, l’allestimento di una nuova opera lirica e, soprattutto, la collaborazione con scuole di musica nazionali ed europee. Allestiremo eventi insieme a talenti provenienti da altre arti che sapranno dare risalto alla nostra musica. L’associazione ha solo poco più di un anno di vita; molto è stato fatto sul territorio. Qual è il progetto importante che volete portare a termine quest’anno? Raddoppiare il numero dei soci. Per avere la forza di allestire al meglio la nostra nuova opera che andrà in scena nel mese di agosto. Quest’anno lavoreremo a “Il Tabarro” che segue “Suor
Angelica” nella trilogia di Puccini. Secondo Lei è determinante riuscire a collaborare con altre associazioni culturali? È fondamentale. Le associazioni sono facce di una stessa medaglia, sono mosse dagli stessi obiettivi, vogliono le stesse cose: esprimere una passione. Sono fatte del sudore di uomini e donne che impiegano il loro tempo libero per creare cultura, aggregazione, conoscenza, per “alleggerire” la vita di una comunità. Come potrebbe non esserci condivisione e collaborazione? Concludendo, esprima un pensiero, un’idea… per i lettori di Valsugana news. La musica nasce dal rumore. Non importa da dove vieni, ma dove decidi di andare.
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Be lle d e nt ro, be lle f u o ri
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utti i giorni abbiamo a che fare con l’ideale di bellezza femminile, martellati da pubblicità, bombardati da trasmissioni condotte o partecipate da donne avvenenti, tanto che il corpo della donna è continuamente ridotto alla sua dimensione più materiale, funzionale a veicolare messaggi a scopo di marketing. La bellezza vista così appare ad una sola dimensione, meramente estetica e visibile, desiderabile e, forse, magari in parte, conquistabile. Per gli antichi invece la bellezza non era considerata singolarmente e non era discinta dalla bontà, dalle qualità morali e intellettuali di una persona. La parola kalokagathìa usata dai greci sin dal V secolo a. C. stava infatti ad indicare, dall’unione dei due termini kalos, bello, e agathòs buono, l’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo. Il termine poi ha assunto significati diversi, identificando ad esempio, con Platone, nella bontà la conoscenza più che la virtù in battaglia, ma il legame indissolubile tra bontà e bellezza, tra cura fisica del corpo e cura di mente e interiorità è rimasto. Platone infatti scriveva nel suo Timeo: “Chi si dedica alla ricerca scientifica o a qualche altra intensa attività intellettuale, bisogna che anche al corpo dia il suo movimento, praticando la ginnastica, mentre chi si dedica con cura a plasmare il corpo, bisogna che fornisca in compenso all'anima i suoi movimenti, ricorrendo alla musica e a tutto ciò che riguarda la filosofia, se vuole essere definito, giustamente e a buon diritto, sia bello sia buono.” Mens sana in corpore sano scriveva poi il latino Giovenale nelle decima delle sue Satirae, dove smascherando la vanità dell’aspirazione a ricchezza e a potere intendeva comunicare piuttosto di pregare gli Dei di concedere all’uomo il dono della sanità dell’anima e della salute del corpo. Questo concetto poi, nell’interpretazione moderna del motto, ha finito col significare che occorre avere una mente sana in un corpo sano, unendo le due parti, come già avevano fatto i greci. Con l’evolversi del pensiero occidentale, in termini sia filosofici che scientifici (pensiamo all’evoluzione della psicoanalisi, delle scienze cognitivistiche e della medicina) si è andati sempre più in una direzione che supera un presunto dualismo tra la mente e il corpo a favore di una loro interdipendenza. Nonostante ciò però, tuttora l’immaginario che ci viene proposto si limita spesso ad un piano fisico e corporale, come dicevamo, soprattutto riferito alla bellezza femminile di cui viene trasmesso, ancora, quasi un unico modello standardizzato. Per sapersi difendere da questa comunicazione univoca e aggressiva la cultura può quindi venire in aiuto, per educare alla bellezza, imparare a riconoscerla e a ricercarla per noi stessi, non nella sola dimensione di un’irragiungibile perfezione fisica, ma in una sana armonia tra il corpo e la mente.
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CHI COLPISCE E COME PREVENIRLA
OSTEOPO R O SI I
FARMACIA COMUNALE DI CASTELNUOVO
assunzione di farmaci come i cortisonici antiinfiammatori o gli antidepressivi, per citarne solo alcuni, e il condurre una vita sedentaria, oltre a vizi come il fumo e l’eccessivo consumo di alcool. Vista la sua maggiore diffusione, parallela al crescente invecchiamento della popolazione, è davvero indispensabile cercare di prevenirla attraverso, cosa affatto banale, molta attività fisica, come corsa e camminate ma anche il ballo, assumendo una giusta dose di calcio nella dieta (circa 800 mg al giorno) e di vitamina D, che regola il metabolismo del calcio e viene sintetizzata anche dall’esposizione al sole.
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CONTROLLO E PREVENZIONE
RIMEDI NATURALI
• misurazione della prevenzione arteriosa • controllo rapido di: glicemia, colesterolo totale e frazionato, trigliceridi
ALLOPATIA
Cibi e alimenti dietetici e surgelati per CELIACI
OMEOPATIA
duce la statura delle persone e può causare disturbi respiratori, e la contrazione della cavità addominale, tanto che l’addome può diventare globoso con la conseguenza di disturbi intestinali. Ad esserne colpite sono soprattutto le donne, la cui massa ossea è inferiore a quella maschile: nel nostro paese infatti sono oltre 3,5 milioni le donne che ne soffrono, mentre gli uomini arrivano al milione, anche se il loro numero è in aumento. Spesso nelle donne la sua comparsa si accompagna all’avvento della menopausa –oltre a casi in cui viene anticipata da una magrezza eccessiva, come a causa dell’anoressia-, poichè in quella fase viene meno l’azione protettiva degli ormoni sessuali, gli estrogeni, prodotti dalle ovaie, che contribuiscono a regolare la produzione di calcio. Altre cause, sia negli uomini che nelle donne, possono essere l’eccessiva
FITOTERAPIA
n Italia il 7,5% della popolazione soffre di osteoporosi (Fonte: Fondazione osteoporosi onlus), una malattia sistemica dello scheletro che inizia per lo più in modo latente in età adulta per palesarsi in età senile, aggravando il naturale processo di indebolimento delle ossa dovuto all’avanzare degli anni. La massa ossea si riduce per via della progressiva riduzione del normale ciclo di rimodellamento dell’osso, con una diminuzione dei sali di calcio di cui è composta. Viene così compromessa la resistenza delle ossa (specie di colonna vertebrale, polso e femore) che espone quindi la persona ad un maggior rischio di fratture, in alcuni casi fatali, come accade spesso con la rottura del femore, o comunque portando all’invalidità e a un peggioramento della qualità della vita. Questa malattia si manifesta con dei forti dolori, un progressivo incurvamento della colonna vertebrale, che ri-
ANALISI PER L’EMOGLOBINA GLICATA
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BASILISCO VOLLEY MEZZOCORONA under 16:
Una squadra tutta al femminile Ci siamo chiesti com’è allenare una squadra tutta al femminile di adolescenti e Giorgia Fontana allenatrice delle under 16 del Basilisco Volley di Mezzocorona ce lo sintetizza così: «La gestione di un gruppo femminile è molto più complessa di quella di una squadra maschile e le giovanissime rappresentano spesso un interlocutore difficile».
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na squadra di adolescenti, ragazze o ragazzi che siano, rappresenta una sfida per ogni allenatore; infatti si deve accettare la loro vulnerabilità e canalizzare la voglia di vincere nella forza della squadra, consapevoli che un gruppo maschile e uno femminile necessitano di bisogni e strategie diverse: ci vuole pazienza e comprensione. Il Basilisco Volley vede come allenatore Diego Bosetti e successivamente l’affiancamento di Giorgia, lei mi dice, in quanto donna: «Mancava una sensibilità femminile che capisse quelle dinamiche adolescenziali da donna tipiche che un uomo non può capire». La “mister” assume diverse sfaccettature a seconda dei momenti che deve vivere con le sue atlete, da ruolo autoritario ad amica, da coach a mamma, in una ricerca continua di fiducia reciproca. Le dinamiche psicofisiche e relazionali si
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discostano molto tra i due sessi, se da un lato ci viene detto che conta solo la vittoria, il campo e la partita, dall’altra la competizione è spesso minata da una spiccata sensibilità a questioni extra sportive che allontanano l’attenzione dall’obiettivo della squadra stessa. L’allenatrice fa chiaro riferimento all’amicizia, all’invidia che a volte prevale tra ragazze, lo screzio facile, il distogliere l’attenzione in allenamento per piccole cose personali, tutti elementi che non portano la squadra a essere compatta: «Se manca l’armonia tra le giocatrici il rendimento sarà deludente. È difficile tra donne mantenerla, ci vuole più ascolto e sensibilità». Il rapporto tra atleta e allenatore nel settore femminile è dunque basato su un’attenta comunicazione esplicita da entrambe le parti, questo vuol dire che durante la preparazione è importante trovare lo spazio
di Patrizia Rapposelli
per il dialogo, fondamentale per far emergere le discrepanze di una squadra o quei piccoli screzi che spesso si vengono a creare tra “amiche-nemiche”, oltre che per far crescere la motivazione nel gruppo. Giorgia mi dice non essere facile; infatti negli adolescenti è forte il bisogno di autonomia di pensiero e di azione, il quale le porta a assumere atteggiamenti contradditori, di critica e ammirazione allo stesso tempo nei confronti di chi le allena. Nell’adolescenza l’incostanza emotiva risulta essere una prassi e ciò si ripercuote anche nella dinamica di squadra, mi viene detto che si deve saper tollerare e per farlo l’ascolto e la comprensione sono le vie da intraprendere: i ragazzi cercano qualcuno che li indirizzi con regole e autorevolezza, dando loro certezze di competenza e di affettività. «C’è il momento che le rimproveri e fai il
pugno duro, c’è il momento che le assecondi e ti metti alla pari. Ti devi avvicinare alla loro realtà per capirle». Arianna è il capitano della squadra e per il suo compleanno raccontano di averle preparato un cartellone con foto e frasi buffe; una volta arrivata in palestra per la partita le hanno messo una coroncina festeggiandola e chiedendo la complicità di Giorgia in modo tale da poterle fare una sorpresa. Un aneddoto che mette in luce la condivisione del piano esistenziale-bisogno d’affetto. Non c’è solo l’obiettivo vittoria, ma una continua richiesta di bisogni emozionali e personali che tengono controllati tutti quei fattori extra sportivi che incidono maggiormente sulla performance di una squadra femminile. Gli allenatori inoltre devono in primo luogo guadagnarsi il rispetto e l’attenzione della capitana, la quale aiuterà ad affrontare le dinamiche di squadra; tra le under sedici del Mezzocorona emerge la figura di Arianna, alla quale abbiamo chiesto cosa vuol dire per lei essere la capitana. «Non è un ruolo
facile, devi saper tenere il buon umore tra le compagne. Devi dare il buon esempio e in ogni situazione devi far vedere che fai di tutto per vincere o per dare il meglio. Deve portare serietà quando si lavora, ma sa anche quando è ora di scherzare». Se in una squadra maschile la sensibilità e gli “sfronzoli” toccano un secondo piano facilitando il ruolo del mister, nel gruppo femminile le dinamiche sono assai più varie e complesse, l’allenatore assume la responsabilità di funzionamento (competenze) e di mantenimento (armonia e coesione del gruppo) condividendo obiettivi singoli e di squadra, ricercando la vicinanza mentale ed emotiva con ognuna.
Giorgia Fontana
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Entrare in un negozietto o in una sartoria vintage è un’esperienza che lo shopping on line non riesce a sostituire. Dentro si respira un’aria particolare, un insieme di odori, colori e materiali che si possono toccare con mano. Un tripudio di stili, epoche, abbinamenti che si mescolano e fanno viaggiare nel tempo, catapultando la mente in un immaginario citazionista fatto di icone, aneddoti, atmosfere, e anche ideologie. Un capo di abbigliamento o un accessorio vintage non è semplicemente “di seconda mano”, ma conserva un valore, per la qualità della manifattura e la storia che rappresenta. Ecco perché le sartorie, gli “atelier” e i negozi vintage assumono un significativo aspetto della nostra quotidianità perché non solo richiamano alla mente i tempi che furono, ma indiscutibilmente possono farci rivivere quella moda che non ha mai perso la sua grande “originalità”.
LA MODA CHE NON PASSA
a parola vintage deriva dal francese antico vedenge, che a sua volta viene dal latino vindemia, vendemmia. Inizialmente quindi, veniva usata per parlare dei vini d’annata, la cui qualità migliora, com’è risaputo, proprio per via dell’invecchiamento. Da lì in poi il vintage ha finito per connotare un’innumerevole serie di oggetti, in cui rientrano non solo vestiti e accessori ma anche automobili, radio, elettrodomestici e oggetti di uso comune, a patto che non abbiano nulla a che vedere con la contemporaneità, ma vi si distanzino con uno stacco di almeno un ventennio. Per trasformarli in oggetti di culto infatti è necessario lasciarli decantare in una patina di tempo, che possa identificarli come caratteristici di un’era e, nel frattempo, renderli sempre più irreperibili aumentandone il valore. Pur rimanendo un settore di nicchia, sembra poi che il vintage non conosca crisi, tanto che si assiste, soprattutto nelle grandi città, a un proliferare di negozi e mercatini delle pulci, dove è anche possibile barattare oggetti. All’inizio però, dietro alla nascita di questo revival ci furono anche motivi economici. Fino a metà Novecento infatti i vestiti usati erano destinati ai poveri che non potevano permettersi dei nuovi acquisti. A metà degli anni ’60 però, nel 1965, nella Grande Mela venne aperta una delle prime boutique di abiti usati, il Vintage Chic, che metteva in vendita capi di
qualche decennio prima. L’idea ebbe molto successo tra le donne, per via della buona fattura dei tessuti, difficilmente riscontrabile nella produzione industriale di allora. Oltre alla qualità di alcuni materiali e alla relativa convenienza (cui ora si aggiunge anche l’attenzione alla sostenibilità ambientale), un altro motivo che induce oggi a orientarsi verso il mercato del vintage è la possibilità di indossare qualcosa di unico che permetta di distinguersi, in una realtà dove ormai sono le grosse catene di retail a basso costo a monopolizzare il mercato, tanto che ci si può vestire pressoché allo stesso modo in tutte le città. Portare qualcosa di vintage contribuisce invece a creare un proprio stile che esalti la personalità; oltretutto ci si può sbizzarrire, alternando, mixando e stratificando epoche diverse, nella logica postmoderna che ormai ci appartiene. Non mera nostalgia quindi, ma riuso creativo dei capi. La moda in fondo è fatta di questo, un ritorno continuo al passato a cui attingere, da rivisitare con nuove idee. E il vintage non può che essere l’emblema di una moda che non passa mai.
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ABORTO:
storia di una difficile applicazione della legge
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a sua ammissibilità è soggetta a convinzioni etiche, orientamenti religiosi e al modo in cui una cultura si pone di fronte al concetto di vita. Parliamo dell’aborto, inteso come interruzione volontaria di gravidanza (IVG), che a partire dagli ultimi decenni del XX secolo è stata autorizzata per legge in numerosi paesi del mondo occidentale. L'Unione sovietica (1919), l'Islanda (1935) e la Svezia (1938) sono stati tra i primi paesi a legalizzare varie tipologie di aborto. In Italia la sua regolamentazione avviene con la legge 194 del 22 maggio 1978. Prima di allora l'IVG, in qualsiasi sua forma, era considerata dal codice penale italiano un reato, punito con la reclusione. La normativa di allora infatti parlava di reato contro la stirpe e il numero degli aborti clandestini era assolutamente sottostimato. Le relative complicanze hanno portato a setticemie e conseguenti morti. La 194 consente alla donna, nei casi previsti, di poter ricorrere all’IVG in una
struttura pubblica, ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza, nei primi 90 giorni (12 settimane) di gestazione. Tra il quarto e quinto mese è invece possibile ricorrere all’IVG solo per motivi di natura terapeutica, per esempio nel caso di gravi malformazioni al feto e deve essere suffragata da un’articolata diagnosi prenatale. È un vero e proprio parto e spesso la diagnosi avviene in strutture che poi non supportano questo servizio. A Roma per esempio molti centri di natalità sono di proprietà religiosa e dunque contrari all’aborto. Altro problema riguarda la percentuale in crescita dei medici obiettori, dato che rende la 194 spesso inapplicabile per mancanza di personale disposto a metterla in atto. Il regolamento prevede l’assunzione di personale non obiettore ma che poi nel tempo cambia idea. Ciò va a pesare sull’attività dei pochi medici non obiettori, ospedalieri o dipendenti del SUMAI, che talora finiscono per effettuare prevalentemente la loro attività in questo settore. Secondo i dati del Ministero della Salute
di Laura Fedel
2016 nella provincia di Bolzano i ginecologi obiettori risultano il 92,7% e secondo i dati dell’APSS le interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) registrate presso gli istituti di cura della provincia di Trento nel 2015 sono state 726, con un decremento del 4,2% rispetto al 2014; 51 di queste (7,0%) sono relative ad aborti terapeutici. La media nazionale dei medici obiettori si aggira intorno al 70% e dunque le donne spesso, impossibilitate nel ricevere un’assistenza che dovrebbe essere garantita per legge, si rivolgono a soluzioni fai da te come l’utilizzo di una pillola anti-ulcera che ha come principio attivo il Misoprostolo il cui effetto off-label (ossia fuori dalle indicazioni del foglietto illustrativo) è quello di provocare contrazioni uterine e dunque favorire l’aborto. Una situazione questa denunciata dalla camera del lavoro di Brescia lo scorso anno che ha evidenziato un calo nelle IGV date soprattutto dalla mancanza di personale medico non obiettore. Le donne hanno risolto dunque in modo privato la “cosa” acquistando il farmaco on line.
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INTERRUZIONE TERAPEUTICA DI GRAVIDANZA (ITG) Avviene entro 22 settimane dal concepimento, anche se molte delle patologie vengono individuate prima dei 90 giorni. Si tratta di un parto anticipato che inizia con la somministrazione della pillola abortiva RU486 da personale non obiettore. A questo punto l’intero staff è costretto a seguire la paziente in quanto basta la presenza di un non obiettore per dare avvio alla procedura. Se la gravidanza mette in grave pericolo fisico e psichico la vita della madre può essere praticato senza le procedure richieste, inoltre l'eventuale obiezione di coscienza del medico non lo esime dal dover intervenire. La legge stabilisce che le generalità della donna rimangano anonime. Tuttavia la 194, che dovrebbe garantire un diritto, spesso non trova la sua completa applicazione a causa dell’obiezione di coscienza del personale ospedaliero (anestesista, ginecologo ecc) e determina un mondo sommerso di aborti clandestini pericolosi per la salute. Da un’inchiesta de L’Espresso del febbraio 2016 il rapporto del ministero della Salute sulle IGV ripete da anni le stesse stime: 15mila casi di aborti illegali fra le donne italiane, 3/5mila fra le straniere. Sotto il profilo legale c’è poi l’introduzione della multa a carico delle donne che abortiscono clandestinamente entro i
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90 giorni: il d.lgs. 8/2016 ha inasprito le sanzioni passando dalla multa fino a 51 euro alla sanzione da 5 a 10 mila euro. È chiaro che si tratta di una misura ingiusta, sproporzionata e per molte donne insostenibile che andrà ad affiancarsi alle problematiche inerenti l'effettiva applicazione della legge 194 nelle strutture sanitarie a causa dell’altissima percentuale di medici obiettori di coscienza. Con l’ulteriore conseguenza che molte donne costrette a ricorrere all’aborto clandestino esiteranno a rivolgersi ai sanitari, qualora dovessero insorgere complicazioni, per paura della super sanzione. È evidente che ciò si sostanzi in una grave compromissione del diritto costituzionalmente riconosciuto alla tutela della salute. Alle sopracitate difficoltà si aggiunge la recente proposta di legge sul diritto all’obiezione di coscienza per i farmacisti, presentata dalla Camera lo scorso 4 maggio, secondo la quale ogni farmacista ha il diritto di rifiutarsi di consegnare a chi li chiede (anche con regolare prescrizione medica) farmaci atti a produrre effetti anche potenzialmente abortivi. Non è difficile pensare che ciò potrà vanificare il fondamentale diritto dei pazienti alla consegna del farmaco, tanto più che le farmacie svolgono un servizio pubblico dal quale non possono esimersi.
ABORTO FARMACOLOGICO CON RU486 Introdotto in Italia nel 2009 dall’AIFA, Agenzia Italiana per i Farmaco, l’utilizzo del mifepristone (RU 486) è in aumento. Per effettuare l’aborto farmacologico (entro la 7° settimana di gestazione) si utilizza questo farmaco 48 ore prima del ricovero, per rendere maggiormente recettivo l’utero all’azione delle prostaglandine. Infatti il RU 486 è un farmaco che agisce sul progesterone, l’ormone che favorisce e assicura il mantenimento della gravidanza, bloccandone l’azione. La prostaglandina, somministrata due giorni dopo, provoca l’espulsione del materiale abortivo entro poche ore. Il suo impiego prevede l’ospedalizzazione della donna fino alla totale e completa espulsione del materiale abortivo. Il ricovero di 3 giorni, troppo lungo secondo alcuni esperti, rappresenta una spesa molto alta per il Sistema Sanitario Nazionale e a questo proposito l’associazione AMICA ha invitato il ministro Lorenzin a riflettere. “La soluzione farmacologica va incentivata rispetto a quella chirurgica, se i tempi lo consentono – dice Marina Marceca dell’Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto – e va assolutamente migliorata la funzione e l’efficienza del Day Hospital e dei consultori. Noi di AMICA abbiamo l’obiettivo di incidere nell’ambito culturale su questo argomento nella tutela della donna in tutti gli aspetti della
gravidanza. È necessario intervenire a monte per garantire un diritto previsto dalla legge”.
DAL RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA N. 568 DEL 28/01/2016 TENUTASI AL SENATO DELLA REPUBBLICA Per quanto riguarda la percentuale di ginecologi obiettori, la tabella fornita dal Ministero della salute indica un aumento su scala nazionale dello 0,8 per cento, che porta il dato nazionale ad attestarsi sul 70 per cento di ginecologi obiettori. Ma se su scala nazionale l'aumento non appare considerevole, a differenza del valore assoluto che già di per sé dovrebbe far riflettere sulla corretta applicazione della legge n. 194 del 1978, destano invece a parere dei proponenti più di una preoccupazione i singoli dati regionali. Non solo 15 regioni su 20 registrano un tasso di obiezione di coscienza superiore al 60 per cento, ma in alcune regioni questa percentuale risulta essere particolarmente allarmante, tanto da rendere quasi ridicola l'affermazione contenuta nella
relazione del Ministero, laddove si sostiene che il numero di ginecologi non obiettori sia congruo e sufficiente a garantire una copertura soddisfacente del servizio. Ci si chiede allora come sia possibile che nell'Italia meridionale ci sia una copertura soddisfacente di quello che dovrebbe essere un servizio garantito per legge, grazie alla legge n. 194 del 1978, e dalla Costituzione, grazie al principio di tutela della salute, sancito dall'articolo 32, se la percentuale di ginecologi obiettori è dell'83,2 per cento. Alcuni dati preoccupano in modo particolare, soprattutto se si considera l'aumento percentuale dell'obiezione di coscienza in un arco temporale di soli 7 anni. La tabella comparativa mostra come nella regione Basilicata ci sia stato, dal 2006 al 2013, un aumento del 46,2 per cento dei ginecologi obiettori, con una percentuale totale del 90,2 per cento,
mentre in Abruzzo si riscontra un aumento del 35,2 per cento. E la situazione non appare poi così migliore nelle regioni del centro o del nord Italia, visto che la Relazione mostra un tasso di obiezione dell'80,7 per cento nel Lazio, del 76,2 per cento in Veneto e, come abbiamo detto, addirittura del 92,9 nella provincia autonoma di Bolzano.
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Agire coordinamento di Levico Terme… ... un modo nuovo di “esserci”
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’è una parola con la quale, di questi tempi, pochi si arrischiano a iniziare un articolo. Per evitare il rischio di non essere letti, si usano termini più “soft”, significati derivati come “partecipazione”, “bene comune”, “interesse collettivo”, “comunità civile”, ecc…. Avrete già capito che stiamo parlando di “politica”, e forse alla terza riga mi sono già perso l’80% dei lettori. Vorrei cercare di convincere i pochi temerari rimasti nel dire loro che non stanno perdendo tempo, che questo che stanno leggendo è interessante di per sé e li riguarda da vicino e, forse, potrà aprire strade nuove al loro “esserci” nella società, o contribuire a modificare lo sguardo con il quale guardano alla “cosa pubblica”, sentendo, magari, anche una chiamata interiore a dare il proprio contributo. Perché è così che si vive! Tutto ciò premesso per presentare, con un’intervista ad Alberto Giacomoni del coordinamento levicense di Agire per il Trentino, il nuovo movimento che fa riferimento al consigliere provinciale Claudio Cia, partito ufficialmente anche a Levico Terme il 17 dicembre 2016; un nuovo modo di fare politica, o meglio, di essere
cittadini della “polis”. «L'idea di partire con un coordinamento di Agire a Levico Terme – dice Giacomoni - nasce da un contatto casuale tra il sottoscritto e il consigliere Cia. A Levico il centrodestra e la destra in generale hanno sempre faticato ad attecchire, ed è sicuramente una sfida impegnativa, ma nella mia vita ho sempre avuto più simpatia per chi arriva secondo, i primi mi stanno un po' antipatici». Ma come vi proponete di “agire”? «Sono tre i cardini della nostra azione: ascolto del cittadino, partecipazione, e professionalità. Un ascolto che è apertura senza condizionamenti alla realtà così come si presenta, una partecipazione che tiene conto dell’apporto possibile di tutti, e una valorizzazione della professionalità di ciascuno che, proprio perché è competente, dovrebbe sentirsi chiamato a rispondere per il bene comune». «In questa avventura – continua Giacomoni - sono riuscito a coinvolgere alcuni amici: Umberto Pedrin, Nicola Bruno, e Giuseppe Resta. Un giusto mix di esperienze ed età diverse, quello che ci vuole per far funzionare bene un gruppo».
di Franco Zadra
Claudio Cia - FONDATORE di AGIRE Come comunicate con il pubblico? «Agire per il Trentino ha una sua pagina fb e il suo sito internet. Anche noi dal 5 novembre 2016, utilizziamo Facebook come diario del nostro cammino politico da condividere con chi ci segue, e sono già quasi 200, focalizzandoci sulle problematiche locali. Con le "Cronache dal Consiglio Comunale" intendiamo raccontare in modo personale i punti salienti discussi nella seduta del Consiglio al quale partecipiamo da spettatori. Per fare un esempio, il post sulla discussione sulla nuova sede del municipio supera le mille visualizzazioni. Un interesse evidente per la “politica” che, forse, chi di dovere, non ha saputo ancora intercettare». Un altro esempio? «Il nostro sondaggio on line sulla guardia medica, cosa che nemmeno i 5 Stelle hanno fatto, ha coinvolto 90 votanti, tutti a favore del ripristino». E prossimamente? «Dal 16 febbraio scorso è partito il progetto "giovani", con Giuseppe Resta che si occuperà di raccogliere e raccontare le tematiche giovanili. Poi, illustreremo quanto costa il servizio di guardia medica a Levico, e faremo un sondaggio sulla Valdastico, ma siamo solo all'inizio, aspettatevi altre sorprese...».
CONOSCIAMO L’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO
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on l’inizio di marzo è partito un ciclo di incontri sul territorio, che mirano a far conoscere meglio la figura dell’Amministratore di sostegno. Il percorso, che si inserisce nel Progetto per l’Amministratore di Sostegno in Trentino attivo da qualche anno, è realizzato con il co-finanziamento dell’Associazione Comitato per l’Amministratore di Sostegno in Trentino, della Comunità Valsugana e Tesino e dell’A.P.S.P. S. Lorenzo e S. Maria della Misericordia, e ha ottenuto il patrocinio dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari. Ma chi è esattamente l’amministratore di sostegno? Si tratta di una figura di protezione giuridica (legge 6/2004), creata per tutelare le persone maggiorenni che non hanno (o in maniera limitata) suffi-
ciente autonomia per svolgere le attività della vita quotidiana e che quindi si trovano in una condizione di fragilità e necessitano di assistenza. Dal 2015 in Valsugana esiste un Punto Informativo presso l’A.P.S.P. di Borgo che offre supporto e informazioni a chi si avvicina o già opera in questa realtà, ma dopo un lavoro di monitoraggio del territorio è emersa la necessità di promuovere maggiormente questa figura e la sua adozione nelle situazioni di bisogno. Sono stati quindi organizzati degli appuntamenti serali (a partire dalle 20.30) per approfondire diversi aspetti di questa tematica. Ai primi 2 incontri, che si sono svolti il 2 e il 9 marzo ne seguiranno altri 3: il 16 marzo a Borgo Valsugana presso l’A.P.S.P. S. Lorenzo e S. Maria della Mi-
sericordia, dedicato a “L’amministratore di sostegno nelle scelte sanitarie: il consenso informato”; il 23 marzo sempre a Borgo nella sede della Comunità Valsugana e Tesino in Piazza Ceschi, intitolato “Quando un Comune diventa amministratore di sostegno: come gestire collettivamente questo incarico” e l’ultimo il 28 marzo a Roncegno Terme, presso l’A.P.S.P. S.Giuseppe, che tratterà de “L’amministratore di sostegno nelle delicata relazione con la persona fragile”. Per informazioni è possibile contattare l’Associazione “Comitato per l’Amministratore di Sostegno in Trentino”: info@amministratoredisostegnotn.it, 3338790383 oppure www.amministratoredisostegno.it.
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Quanto costa il tuo conto?
di Alice Rovati
Ogni anno i consumatori italiani fanno la stessa riflessione quando ricevono il rendiconto annuale e l’estratto conto di fine anno dei propri conti: si spende troppo in spese! Eppure nonostante i buoni propositi di cercare sul mercato un’alternativa che ci faccia risparmiare un po’, il più delle volte non si ha voglia di fare il trasloco nella convinzione che ciò comporti tanta burocrazia e tempi non proprio rapidi, oltre ai dubbi su cosa può succedere al mutuo stipulato con la banca attuale, al conto titoli, alle bollette che si pagano direttamente tramite la banca, agli assegni, al bancomat, etc...
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ell’ultima indagine di Bankitalia emerge tutta la pigrizia dei correntisti italiani: il 38% ha un conto aperto da almeno 10 anni e solo l’8% ne ha aperto uno nel 2015. In questo modo però, anche il mercato dei servizi bancari resta fermo: non si fa giocare la concorrenza, le banche non abbassano i costi dei conti per accaparrarsi i correntisti. Non ne hanno bisogno. Eppure basta dare un’occhiata al servizio online di Altroconsumo che mette a confronto più di 300 conti sul mercato per vedere come, per le stesse caratteristiche di correntista, si trovino conti che costano da 22 euro a 435 euro, con un costo medio di 218 euro. Insomma, vale la pena non arenarsi. A incoraggiare la concorrenza ci ha pensato, un anno e mezzo fa, il Parlamento, approvando una legge che obbliga le banche e gli istituti di pagamento (anche le Poste) ad adoperare una procedura rapida e semplificata a
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partire dal 26/6/2015: tutti i servizi finanziari e di pagamento che sono addebitati e/o accreditati sul conto devono essere trasferiti alla nuova banca entro 12 giorni lavorativi dalla richiesta e senza spese. Infatti la legge, oltre a ridurre i tempi del divorzio, ci risparmia anche l’inevitabile disagio di avere a che fare con la vecchia banca, perché basta compilare un modulo che autorizza quella nuova a occuparsi di tutto. Non solo. Per far rispettare i 12 giorni lavorativi, la legge ha previsto un indennizzo per il cliente in caso di ritardo. Inoltre, per gli operatori scorretti ci sono sanzioni: da un minimo di 30mila euro a un massimo del 10% del fatturato. Le banche continuano, di fatto, a ignorare la legge. È quanto emerso dall’inchiesta fatta da Altroconsumo a novembre 2016 in 203 tra agenzie bancarie e uffici postali in otto città dove ci si è messi nei panni di un cliente che vuole trasferire il conto corrente. In
metà delle agenzie visitate non conoscono le nuove regole. In un quarto delle agenzie hanno parlato delle nuove norme, ma solo per consigliare di seguire la procedura tradizionale perché la nuova, entrata in vigore “da poco” (un anno e mezzo!) a detta loro non funziona, anzi complica la chiusura e allunga i tempi. Pochi gli sportelli che hanno dato informazioni corrette (appena 22) e una mosca bianca che ha consegnato il modulo da compilare per fare il trasferimento: un ufficio postale di Napoli. Una varietà di interpretazioni che ha spinto Altroconsumo a chiedere senza indugio a Bankitalia, a cui sono stati inviati i risultati dell’inchiesta, di punire i comportamenti scorretti. Nel frattempo, chi subisce ritardi nella chiusura del conto, perché si continua a usare la vecchia procedura con tempi molto lunghi, non resta indifeso. Infatti, la legge prevede una tempistica massima, per cui se si sono sostenuti costi per il ritardo è possibile chiederne
il rimborso facendo reclamo alla banca. Se non si riceve una risposta soddisfacente entro 30 giorni si può fare ricorso all’Arbitro bancario e finanziario (www.arbitrobancariofinanziario.it). Per decidere se trasferire o meno il proprio conto corrente, è bene conoscere i costi, verificandoli dal rendiconto annuale e dall'estratto conto di fine anno. In particolare, si devono controllare le seguenti voci. • Operatività conto corrente: canone mensile, spese di invio e/c, spese di invio dei documenti di sintesi, versamenti degli assegni, spese di scrittura.
• Carte di debito (bancomat): canone, commissioni di prelievo dalla propria banca e da altra banca, commissioni di prelievo sul circuito internazionale. • Bonifici, assegni e Rid (Rapporto interbancario diretto, cioè quando autorizzi la banca ad accettare gli ordini di addebito di creditori, per esempio i gestori di servizi gas, luce, ...). • Carte di credito: canone annuo, invio dell'estratto conto, altre spese. • Costo per affidamenti o sconfinamenti, cioè la somma degli interessi passivi e delle spese sostenute se il conto è andato in rosso. • Imposta di bollo: 34,20 euro se la giacenza media nell'anno supera i 5mila euro. Il cliente che vuole cambiare conto corrente non deve fare altro che recarsi nella nuova banca e compilare il “modulo di autorizzazione” in cui indica i bonifici e gli addebiti diretti da trasferire, se intende trasferire il saldo positivo del conto e se intende anche chiudere il conto originario. Questa procedura deve, come già detto, con-
cludersi entro 12 giorni lavorativi dalla richiesta alla nuova banca. La legge ribadisce anche che, nel caso in cui venga richiesta anche la chiusura del conto originario, il consumatore abbia diritto al rimborso dei canoni annui pagati e riferiti al periodo successivo alla chiusura. Perciò, per esempio, se ho pagato una carta Pagobancomat 15 euro e il conto viene chiuso a giugno, mi dovranno essere rimborsati 7,5 euro. È bene infine ricordarsi che ai fondi comuni di investimento o alle polizze che ci ha venduto la banca che lasciamo non succede nulla: si rimane clienti della società di investimento o della compagnia assicurativa che li gestiscono. Basta comunicargli il nuovo Iban. *La dott.ssa Alice Rovati è laureata in Giurisprudenza, percorso europeo e transnazionale, con master in Europrogettazione. Giurista esperta in diritto dei consumatori, docente di diritto. È Rappresentante di Altroconsumo per la Provincia di Trento.
CALDONAZZO
Una FESTA per Agnese Agostini Menegoni
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iù di cinquanta persone di ogni età, amanti della storia in particolare, hanno partecipato presso la sala della Cultura di Caldonazzo all’appuntamento voluto dal comune di Caldonazzo in collaborazione con l’Università della Terza Età. Un incontro con protagonista la maestra Agnese Agostini Menegoni, autrice di una decina di libri riguardanti soprattutto la storia locale e tanti suoi personaggi. Anche il suo ultimo libro “Maso Strada e dintorni”, uscito alcuni mesi fa, è una ricca pagina di storia impreziosita da tante foto scattate dalla stessa maestra non più tanto giovane, poichè il prossimo 3 maggio raggiungerà 92 anni di vita. In quel piccolo Maso alla periferia di Caldonazzo, la maestra Agnese è nata, ha trascorso la sua prima gioventù e da tanti anni ormai è ritornata a risiedere e per questo lei vi è particolarmente affezionata. Molto apprezzate ed applaudite sono state le foto proiettate nel corso della serata e brillantemente commentate dall’autrice. Numerose anche le persone in sala che hanno potuto rivedersi a distanza
di tanti anni quando erano animati dalla loro gioventù. Accanto alla maestra Agnese sedeva il vicesindaco di Caldonazzo Elisabetta Wolf, alla quale abbiamo chiesto un suo pensiero sul patrimonio culturale che lascia questo importante personaggio: “Tutti i suoi libri, i suoi lavori, sono una ricchezza per la nostra comunità, un arricchimento culturale importante. Ma la maestra Agnese ci sorprenderà ancora con altre opere storico-letterarie”. (M.P)
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Kids as Dolphins, un progetto educativo
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a mia passione per il mare e per l’apnea è frutto dell’educazione che ho avuto da mio padre. Anche mia madre era una grande nuotatrice, ma per quanto riguarda i punti fermi dell’apnea, la sicurezza sott’acqua, li devo soprattutto a mio padre Clemente. Nato a Roma il 16 gennaio del 1931, era uomo di mare, diplomato all’Istituto professionale nautico, nocchiere della marina militare, guidava i Mas, i famosi motosiluranti. Come timoniere di Mas era ritenuto uno dei migliori, e ricevette un encomio perché
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fu il primo a risalire il Po con un motoscafo armato silurante, uno dei pochi mezzi a disposizione della protezione civile ante litteram, in soccorso alle popolazioni coinvolte nell’alluvione del 1951. Faceva gare di voga ed era un grandissimo nuotatore di fondo. È stato in quegli anni un pioniere dell’apnea, quando ancora non esistevano le attrezzature che abbiamo oggi. I miei nonni erano di Gaeta e quando venivo dall’Inghilterra, poiché sono nato in Gran Bretagna, andavo al mare a Gaeta. Là, a cinque anni, ho avuto il
mio battesimo del mare con mio padre che mi ha insegnato la subacquaticità, ovvero, quello che era il frutto della sua esperienza per quell’epoca. Appresi da lui le norme fondamentali del come comportarsi in acqua e a dieci anni, nel ‘65, mi regalò il mio primo fucile da pesca a molla, e mi cimentai nella prima forma di apnea che era la pesca subacquea. Questa attività, negli anni, è diventata una passione che mi ha aiutato a fare un lavoro introspettivo verso il mio modo di essere. Anche se in apparenza posso sembrare espansivo, tendenzialmente sono un lupo solitario. Per diversi anni ho pescato, frequentando diverse isole, in particolare le isole Tremiti. A differenza dei miei coetanei che seguivano i campioni del calcio, i personaggi che mi davano emozioni erano Enzo Maiorca e Jacques Mayol. Due opposti nel loro modo di approcciare l’apnea. Mi dava un’emozione straordinaria poter seguire i loro record. A metà degli anni Settanta un ragazzo della mia compagnia di apneisti ebbe un incidente, un black out sott’acqua, e morì a 18 anni. È stato un momento molto doloroso, una battuta d’arresto alla mia esuberanza giovanile, ma anche il momento in cui ho cominciato a comprendere gli insegnamenti di mio padre e a valorizzarli appieno. Il mio approccio al mondo “acqua” cambiò
radicalmente. Compresi, per esempio, l’importanza di non andare mai da solo, cosa che in quegli anni andava in controtendenza rispetto alla logica dei pescatori subacquei. Confrontarmi con il limite supremo della morte del mio compagno, ho modificato completamente il mio comportamento. L’apnea non era più una semplice attività sportiva, ma una disciplina, una filosofia da esplorare conoscendo i propri limiti. Nel 1977 conobbi Renzo Mazzarri, il più forte pescatore subacqueo di sempre. Nel 1988 nasce mio figlio, e nel 1989, dopo l’ennesimo incidente nei nostri laghi dove morì un giovane, presi atto che i ragazzi non venivano educati alla sicurezza in acqua e decisi di assumermi questo compito, almeno per quello che potevo fare. C’era tutto un bagaglio di conoscenza del mondo acqua e di consapevolezza dei rischi a esso connessi che dovevo passare, soprattutto ai bambini, poiché erano quelli più esposti, ma anche quelli che potevano e dovevano essere educati secondo i principi che avevo ricevuto da mio padre, per vivere l’esperienza di sub-acquaticità in sicurezza, traendone il massimo godimento. Non che mancassero scuole e maestri di subacquea, ma per quanto riguardava i bambini non si faceva altro che adattare la didattica rivolta agli adulti, a quelli che erano considerati degli adulti in miniatura. La mia idea che poi è diventata un vero e proprio progetto educativo ha voluto
passare da una visione adultocentrica, a una bambinocentrica. Il bambino al centro, con le sue capacità psico-motorie e la sua gioia nel vivere l’elemento acqua, quasi come fosse un piccolo delfino. Nel 1989 nasce quindi il progetto Kids as Dolphins (KAD), ora divenuto anche un manuale per istruttori dove sono raccolti tutti quegli strumenti di didattica e metodologia per l’insegnamento della subacquaticità che si sono sedimentati nella mia esperienza di vita. Nel 1995, Umberto Pelizzari, insieme a Renzo Mazzarri, Angelo Azzinnari e Marco Mardollo, fondano Apnea Academy, un'associazione ideata per la diffusione e l'insegnamento dell'apnea, che diventa poi
scuola di formazione e di ricerca per l'apnea subacquea. Apnea Academy fa suo il progetto educativo KAD cogliendone i valori sociali che veicola e valorizzando i risultati che avevo ottenuto fin dai primi momenti, lavorando con i bambini in acqua. Un progetto educativo, appunto, che porta i bambini alla conquista della loro autonomia, in una consapevolezza che li aiuta a risolvere i problemi e ad affrontare i rischi in modo ponderato e creativo. Una cosa tra tutte, per dire la bellezza e anche la necessità di portare avanti il progetto KAD, che è l’esperienza comune di molti bambini che ho seguito e che ora sono diventati istruttori KAD, è quando ti accorgi della solidarietà che cresce nel gruppetto di bambini del corso KAD che diventano via via sempre più attenti gli uni verso gli altri; diventa allora un gioco trasmettere loro le regole dello stare in acqua facendoli sentire sempre più di appartenere a questo mondo-acqua dove la responsabilità è gioia da condividere. E non è un caso che gli istruttori Kids as Dolphins si distinguano per… il sorriso.
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40anni di storia Corale polifonica di Calceranica:
Tutto è cominciato con un coro parrocchiale. Era il 1970 e l’organista dell’antica Pieve di S.M. Assunta, Angelo Martinelli, decise di riunire le voci di Calceranica sotto la propria direzione per accompagnare le messe e le liturgie della comunità, come secoli di tradizione della Pieve suggerivano. «E poi a quell’epoca c’era voglia di stare assieme e cantare» raccontano Ornella Andreatta e Ferruccio Martinelli, che da anni hanno fatto della corale una loro seconda casa.
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ggi la corale conta ventotto elementi, di ogni età, e diciotto fanno parte di quello che si definisce il “settore femminile”, ovvero sono donne. Sì perché l’unica differenza tra “coro” e “corale” come spiegano i due coristi, sta proprio nel genere: il primo è composto da “voci pari”, ovvero solo uomini o solo donne,
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mentre il secondo da “voci miste”. Ed è proprio l’unione di voci acute e grevi che caratterizza un tipo di musica unico. Una musica, quella dei cori e delle corali, che affonda le radici nella tradizione del nostro territorio, dove tra bande, cori e gruppi, pare che tutti facciano musica. Sorge spontaneo domandarsi se le nuove generazioni,
di Elisa Corni
abituate a ritmi più sincopati, a musiche più orecchiabili, partecipano a questo tipo di espressione canora. «La corale di Calceranica si può dire fortunata – spiegano Ornella e Ferruccio – abbiamo una sezione giovanile molto attiva, con circa quindici nuove leve che non si fanno spaventare dallo studio o dalla dedizione che questa musica richiede». Peccato che ci sia un solo ragazzo: infatti, se la partecipazione femminile nelle generazioni più nuove non sembra vedere crisi, altrettanto non si può dire dell’altra metà del pianeta. Cantare in un coro non è certo una passeggiata. Ci vogliono lunghi mesi di studio ed esercizio prima di avere dei risultati, e la costanza e l’impegno non si esauriscono certo nella fase iniziale del percorso di un corista; come spiega Ornella «la militanza in un’associazione di questo genere ha una grande importanza per tutti noi: grazie all’abnega-
zione e alla costanza si possono raggiungere traguardi anche inaspettati». Ruolo fondamentale in questo la hanno non solo i coristi ma anche il maestro. «Il maestro – racconta Ferruccio Martinelli – è colui che imprime lo stile, lo modella, che stimola individualità e favorisce l’amalgama. Il nostro maestro, un autodidatta, ci guida dal 1978 e rappresenta un patrimonio di cui andare fieri».
BORGO VALSUGANA
I FINANZIERI IN ASSEMBLEA
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Premiazione concorso Lago Maggiore Come fieri possono essere di organizzare da più di trent’anni la Rassegna Corale Nazionale di Calceranica, che si terrà in luglio con la sua XXXVIII edizione; un evento che permette alle corali di tutta Italia di conoscersi, scambiarsi opinioni, idee, ma soprattutto, di esibirsi. «Fino a oggi abbiamo ospitato 75 formazioni provenienti da tutta la penisola» racconta Martinelli. Ma le soddisfazioni non finiscono qui. Nei molti anni di attività la Corale ha potuto esibirsi in contesti particolari e unici. Come il concerto per gli ex internato nei lager nazisti o l’esecuzione in prima mondiale della “Sinfonia delle Dolomiti». «Ma forse la soddisfazione più grande – aggiunge Ornella – è quella di aver vinto un concorso nazionale alla prima partecipazione assoluta». E se qualcuno avesse voglia di cantare con voi? «Se qualcuno ha voglia di unirsi a noi possono contattarci a coralecalceranica@alice.it».
resso la propria sede in piazza Bordignon a Borgo Valsugana si è tenuta l’assemblea ordinaria dell’ANFI (Associazione Nazionale Finanzieri d’Italia), nel corso della quale sono state rinnovate anche le cariche sociali. Una associazione questa che rappresenta i finanzieri in pensione di tutta la Valle e che è intitolata alla memoria di padre Eusebio Jori. Guidata in questi ultimi 20 anni dal maresciallo a riposo Giuseppe Mascotto, non più disposto a ricandidare, questa piccola realtà si fa interprete spesso di iniziative umanitarie e di solidarietà anche verso i paesi poveri del mondo. Aperta tutti i mercoledì mattina, soci e simpatizzanti ma anche semplici cittadini, la frequentano volentieri sia per il clima di grande ospitalità che per il buon brindisi che a tutti viene offerto con amicizia e generosità. Ai lavori dell’assemblea, presieduti dall’assessore comunale di Borgo Rinaldo Stroppa, ha partecipato anche il primo cittadino Fabio Dalledonne, che ne è pure presidente onorario. In quell’occasione sono stati poi premiati con diploma di benemerenza per i 30 anni di iscrizione, i soci Baldassarre Zanghellini, Valerio Rover e Giorgio Zuppel. Questo il nuovo direttivo che resterà in carica per i prossimi cinque anni. Presidente: appuntato Adolfo Dzalagonia; vicepresidente maresciallo Flavio Abolis. Consiglieri: gli appuntati Fausto Fontana, Bruno Tomaselli e Renato Giordano. Sindaco effettivo il brigadiere Aldo Capraro e sindaco supplente l’appuntato Paolo Denicolò. (M.P.)
Voci giovanili al concorso Lago Maggiore ERRATA CORRIGE Nel numero di febbraio l’articolo EFFETTO NOTTE a pag 68/69 è stato redatto da Elisa Corni e non come erroneamente scritto da Chiara Paoli. Ci scusiamo con le nostre collaboratrici.
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La Canna Fumaria
L’AVVOCATO RISPONDE
Per costruire una canna fumaria, da parte di un condomino sulle parti comuni è necessario l’assenso del Condominio.
di Zeno Perinelli
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er rispondere al quesito formulato è necessario prendere in considerazione l’art. 1102 del Codice Civile il quale prevede espressamente: “ 1. Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa. 2. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.” In base a tale articolo ciascuno dei condomini potrà realizzare delle opere sulla cosa comune purché non ne alteri la destinazione ovvero impedisca agli altri partecipanti di farne uso, tanto più che la canna fumaria non è considerata una costruzione bensì un accessorio di un impianto e quindi non soggiacendo alla disciplina delle distanze ex art. 907 c.c. (In tal senso Cass. Civ. n. 16306 dd. 25.09.2012).
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La giurisprudenza di legittimità (ex pluris Cass. Civ. n. 19205 dd. 21.09.2011) ha stabilito che: “In caso di condominio al singolo condomino è consentito servirsi in modo esclusivo di parti comuni dell'edificio solo alla duplice condizione che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione e che lo stesso, ove tutte le predette esigenze risultino soddisfatte, non perda la sua normale e originaria destinazione, per il cui mutamento è necessaria la unanimità dei consensi.” Ulteriormente la costruzione della canna fumaria non potrà comportare la modifica della destinazione né arrecare pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio, quest’ultimo che si verifica non già quando si mutano le originarie linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme dell’armonico aspetto dello stabile. Sul tema è intervenuto il Tribunale di Trento (Trib. di Trento n. 432 dd. 16.05.2013) che ha stabilito e confermato che: “In materia condominiale costituisce opera lecita l'installazione di una canna fumaria sulla facciata comune, consentita ai sensi dell'art. 1102 c.c. Per costante orientamento della giurisprudenza, infatti, l'appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale, integra una modifica della cosa che ciascun condomino può apportare a sue cure e spese, sempre che non im-
pedisca l'altrui paritario uso, non rechi pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza dell'edificio e non ne alteri il decoro architettonico. L'esecuzione di tale opera non costituisce innovazione ma una modifica lecita finalizzata all'uso migliore e più intenso previsto dall'art. 1102 c.c., conforme alla destinazione del muro perimetrale che ciascun condomino può legittimamente apportare a sue spese, se non impedisce agli altri condomini di farne un pari uso, non pregiudichi la stabilità e la sicurezza dell'edificio e non ne alteri il decoro.” Alla luce di quanto appena esposto si può ritenere non necessaria l’autorizzazione dell’assemblea dei condomini per l’effettuazione dei lavori e conseguentemente l’installazione della canna fumaria.
L’avvocato Zeno Perinelli esercita a Trento, nello studio in Via Grazioli.
AGO CALCERANICA AL L
PENSIONATI E ANZIANI A RIUNIONE
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uest’anno l’assemblea generale ordinaria dell’Associazione Pensionati e Anziani di Calceranica al Lago si è svolta presso l’Albergo Gilda di Caldonazzo. La presidente Gilia Fontana, dopo il saluto di benvenuto, ha relazionato sull’attività svolta nel corso del 2016 mettendo in risalto le principali iniziative come le gite, i momenti conviviali, gli appuntamenti con musica e ballo in sede due volte al mese, le feste, i momenti culturali. Quindi ha presentato il programma di attività per il 2017 elencando la nutrita serie di nuove iniziative come la festa della donna, i momenti musicali, i due soggiorni al mare in giugno e settembre, altri incontri, nonché la collaborazione con la Caritas per venire incontro alle necessità di tante persone che hanno bisogno di aiuto. Poi la segretaria Enrica Malpaga ha illustrato la situazione economica dell’Associazione il cui bilancio, grazie anche al sostegno finanziario del Comune e della Cassa Rurale, chiude al 31 dicembre 2016 con un attivo di 411 euro. Presenti ai lavori, che si sono conclusi con un momento
conviviale fra la sessantina di soci presenti, anche il sindaco di Calceranica Cristian Uez e la sua vice Cinzia Tartarotti, che hanno espresso lodi per l’attività che questo piccolo ente svolge in favore delle persone della terza età. (M.P.)
LEVICO TERME
FRANCESCATTI è PRESIDENTE
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l presidente del Gruppo Pensionati e Anziani di Levico Terme Marco Francescatti è stato riconfermato alla guida del Gruppo per il prossimo biennio. I lavori dell’assemblea sono iniziati con un minuto di silenzio in ricordo di quei soci che nel 2016 hanno lasciato questo mondo. Poi è passato alla relazione dell’attività svolta lo scorso anno, ricordando soprattutto le principali iniziative come le attività sociali, il corso di pittura, la vigilanza scolastica, le feste a Malga Sassi sull’altopiano delle Vezzene e tanto altro. Ha quindi presentato il programma di attività per il 2017 che comprende, fra le altre, un soggiorno al mare nel mese di giugno; la festa dei compleanni con cadenza bimestrale; il “pranzo di primavera”; la gita culturale a Monza per i soci iscritti all’UTED; alcune feste alpine a Malga Sassi; una gita pellegrinaggio in Alta Val di Non il 16 settembre; la festa dei nonni per domenica 8 ottobre; “Natale Insieme” fissato per domenica 17 dicembre. Per la parte economica, ha continuato il presidente, il bilancio del 2016 si è chiuso con un avanzo di 128 euro. Presenti ai lavori il vicesindaco Laura Fraizingher, il consigliere provinciale Gianpiero Passamani e don Ernesto Ferretti che hanno espresso lode per l’attività che il
Gruppo svolge in favore di tante persone non più giovani della comunità e di altri iscritti provenienti dai paesi vicini. Si è quindi proceduto all’elezione del nuovo direttivo che risulta ora così composto: Presidente riconfermato Marco Francescatti, Rosellina Dalmaso Vicepresidente; Rosanna Vettorazzi Segretaria; Luisa Vettorazzi Cassiera. Consiglieri: Arturo Benedetti, Rosy Avancini, Paolo Gaigher, Franco Corrà e Aurelio Dalmaso. (M.P.)
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Fra storia e leggenda
Castel San Pietro
di Andrea Casna
Un maniero leggendario Sono poche le informazioni su questo antico guardiano di pietra. Come nel caso di Castel Selva, anche per Castel S. Pietro è Agostino Perini (Statistiche del Trentino, 1852) a dare qualche dato storico. Situato sul Monte Ciolino «di esso non si ravvisano che diroccate vestigia; poche muraglie con qualche traccia di torre sono i pochi ruderi sfuggiti dalla catastrofe subita nel 1385 per opera di Antonio della Scala». La storia di questo castello, quindi, è legata a quello di molte altre fortezze della Valsugana. Castel Selva e le fortezze di Caldonazzo (Torre dei Sicconi e la Corte) subirono, infatti, la violenza militare del signore della Scala nel 1385. Guerra, ricordiamo, scatenata da Siccone II di Caldonazzo per il controllo dei pascoli del Vezzena. Lo stesso Perini, infatti, scrive che il castello S.Pietro fu «sfasciato» durante la signoria dei Castelnuovo/Caldonazzo e «la sua giurisdizione fu incorporata a quella di Castel Telvana».
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e origini del maniero sono comunque ancora oggi avvolte nella nebbia dei tempi. Recenti scavi archeologici hanno portato alla luce oggetti in pietra, ceramica, monete romane, e una piccola statuetta di Apollo. Dati che dimostrano un’antica frequentazione della zona già in età pre-romana. Le origini del maniero, come punto di controllo e di difesa, vanno collocate fra il XII e il XIII secolo. Fu castello/torre dei signori di Telve. Nel 1331 fu acquistato dai signori di Caldonazzo, al tempo anche proprietari di Castel Telvana sopra Borgo Valsugana. Come detto, si ritrovò al centro degli scontri del 1385 subendo l'attacco delle truppe scaligere per poi essere distrutto e abbandonato. Ora è un rudere, e a testimoniare il suo antico ruolo rimangono resti di una doppia cinta muraria e di una torre. Si narra, poi, di antiche cacce selvagge per mano del Beatrik, essere demoniaco che ancora oggi, pare, frequenti i boschi di Castel S. Pietro. Stando ai racconti popolari, il Beatrik, a dorso del suo cavallo nero e con i suoi cani, andava a caccia nei giorni fra Natale e l'Epifania. Al suono dei suoi tremendi rumori la
gente del posto scappava per rinchiudersi in casa. Chi s'imbatteva nel Beatrik, infatti, rischiava di ricevere in regalo un cosciotto di capriolo che subito dopo, però, si trasformava nella gamba di un essere umano. In questo modo il malcapitato rimaneva segnato dalla disgrazia e maledetto per l'eternità. L'unico modo per sfuggire alla maledizione era restituire il dono al mittente minacciando il Beatrik con qualche oggetto sacro. Mauro Neri, nel suo libro «Le mille leggende del Trentino» (il volume dedicato al Trentino Orientale), riporta l'antica leggenda delle «Castellane e i Fantasmi del Principe». Scrive Mauro Neri: «Non molti anni fa un uomo e due donne soprannominate le “castellane”- andarono ad abitare in una stamberga costruita a ridosso di uno degli alti muri superstiti di Castel S. Pietro. La gente di Torcegno cercò di scoprire il perché di quella scelta: la misteriosa congrega, infatti, viveva isolata, cibandosi dei frutti del bosco e non facendosi mai vedere in paese, se non per attingere di quanto in quanto un secchio d'acqua fresca alla fontana della piazza. Un giorno venne deciso su quella vita strana e due uomini furono mandati alle rovine del castello a interrogare i tre. “A noi
piace vivere così - rispose Angela, delle due donne la più anziana -. Vi abbiamo fatto qualcosa di male? Abbiamo rubato nei vostri orti? Ci siam portati via qualche calice d'oro dalla vostra chiesa? No? E allora di che avete paura”... “D'accordo – fece uno dei due messi – ma noi temiamo che qualche criminale di passaggio vi faccia del male”. “Oh, per questo non devi preoccuparti. Noi siamo ben difese e protette dai fantasmi dei principi!” “Da che cosa?” (chiesero i due uomini). “Ma certo: devi sapere che ogni notte, da dietro a quel muro laggiù, escono in fila, uno per uno, gli spiriti degli antichi proprietari di questo maniero. Si dispongono in cerchio attorno alla nostra casetta e cantano inni
soluzioni giocherellando N
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La soluzione: HOABONTI religiosi fino all'alba. Così nessuno si può avvicinare e noi viviamo tranquilli”. I due tornarono in paese e riferirono ogni cosa: da quel giorno le due donne e l'uomo vennero finalmente lasciati in pace anche da quelli di Torcegno, che naturalmente si guardarono bene dallo sfidare le potenze dell'oltretomba!».
“cima della catena del lagorai”
La soluzione quesito a schema: il clown La soluzione del rebus: rettifica necessaria
ICO S. GIULIANA DI LEV
FESTA IN PAESE
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ome tutti gli anni nella terza domenica di febbraio la frazione all’estremo Sud di Levico festeggia la propria Patrona Santa Giuliana. E così domenica 19 febbraio la piccola frazione, che conta poche centinaia di anime, ha festeggiato alla grande la sagra del paese che è stata organizzata dal Gruppo Parrocchiale. La festa è iniziata con la celebrazione di una S. Messa in canto e solennizzata dai canti di due cori: quello parrocchiale della frazione e un coro di Levico Terme. All’omelia il parroco ha ricordato la figura e le opere di questa grande Santa. Al termine, come per antica tradizione, tutti gli intervenuti hanno potuto raggiungere la vicina canonica dove, nel locale seminterrato, sono state distribuite patate lesse e sardelle, accompagnate da buon vino. Per questo la sagra di Santa Giuliana è conosciuta come la “Sagra della sardella”, che attira sempre tante persone anche dai paesi vicini. Le offerte, unitamente al ricavato di un ricco vaso della fortuna, sono sempre destinate alle necessità più urgenti della parrocchia. (M.P.)
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LEVICO TERME
I FANTI IN ASSEMBLEA
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i è svolta domenica 12 febbraio presso la propria sede a Barco, l’Assemblea ordinaria della sezione levicense del Fante, per l’approvazione del bilancio di previsione e del consuntivo 2016. Un incontro molto partecipato al quale hanno presenziato anche il Sindaco Michele Sartori, il Consigliere provinciale Gianpiero Passamani, il Comandante della Stazione Carabinieri di Levico Maresciallo Gianluca Trentin. La riunione è stata introdotta dalla lettura della relazione da parte del Presidente della sezione Guido Orsingher, nella quale ha evidenziato la necessità di privilegiare la presenza di iscritti locali a noi più vicini, di promuovere rapporti con altre Associazioni d’Arma intessendo con loro rapporti sempre più collaborativi ed efficaci. Ha rilevato come in modo sempre più evidente si stiano riducendo gli appartenenti ed iscritti a questi organismi nei diversi livelli territoriali, dovuto ad una serie di concause tra cui lo scarso interesse nell’appartenere alle diverse Associazioni d’arma condividendone i valori fondanti e l’innalzamento dell’età degli iscritti, per cui si deve ricorrere a persone che non derivano dal naturale ricambio generazionale proveniente dal servizio militare, un tempo obbligatorio. Infine una scarsa propensione, soprattutto nelle nuove generazioni, a dedicare del proprio tempo all’associazionismo sorgente di progresso e solidarietà sociale. Ha rilevato il concreto clima collaborativo nel nuovo Direttivo in conseguenza del quale ciascuno, o in gruppo, ha sempre dato la propria disponibilità, consentendo di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Si sono quindi poste in evidenza le attività 2016 della Sezione che è stata partecipativa ad iniziative locali, manifestazioni, incontri e rievocazioni storico-culturali. Ricorrenze come la cerimonia della “Battaglia del Basson” a ricordo dei Caduti del 115° Reggimento Fanteria Brigata Treviso che, nell’intento di aprire “la via per Trento”, ebbe gravissime perdite ricordate ed impresse, a perenne memoria, sui cippi antistanti i luoghi del sacrificio, di 1048 Fanti e 43 Ufficiali caduti per la Patria. Il Presidente ha ringraziato poi le autorità per la loro costante presenza alle iniziative promosse dall’associazione levicense, così come la Cassa Rurale Alta Valsugana ed altri Enti per il sostegno economico. Il segretario-cassiere Enrico Fontana ha poi illustrato i dati di bilancio chiuso al 31 dicembre 2016, quindi si è proceduto alla consegna da parte delle autorità presenti, di due targhe ricordo ai Fanti Tullio Bosco e Fabio Pallaoro, iscritti da una sessantina d’anni. (M.P.)
PERGINE
Auser: allegra tombolata
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l primo appuntamento del 2017 per l’Auser di Pergine, è stato il gioco della tombola che si è svolto presso il Teatro delle Garberie. Vi hanno partecipato oltre 60 iscritti che hanno potuto poi ascoltare anche musica e ballare in compagnia del duo Mirta e Umberto, e l’incontro si è concluso con una merenda offerta a tutti. Molto soddisfatto il presidente di questa importante associazione umanitaria Elia Bernardi, che al termine ha illustrato il programma dell’attività nei prossimi mesi. (M.P.)
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SELVA DI LEVICO
LA FESTA DI SAN SEBASTIANO
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ttimo successo ha ottenuto anche quest’anno a Selva di Levico la festa patronale di San Sebastiano, che comprendeva, fra le tante manifestazioni, la tradizionale gara delle slitte della legna. La ricorrenza, articolata su due giorni, è da sempre organizzata dal Gruppo Castel Selva in collaborazione con il Gruppo Alpini, il gruppo Missionario, la Parrocchia e il Comune. Nel pomeriggio del primo giorno c’è stato il tradizionale campanò, mentre la sera presso l’hotel Paoli di Lochere di Caldonazzo, gli appassionati del ballo hanno potuto danzare partecipando al “Ballo de san Bastian”. Ma la parte più attesa ed intensa della festa si è avuta nel secondo giorno, la domenica, con una solenne Messa al mattino, seguita dalla distribuzione in piazza, di grostoli e vino per tutti. Nel pomeriggio è stata la volta delle “fritole” per tutti i presenti, preparate dagli Alpini, e la disputa della 28^ edizione della gara delle “Slitte della legna”, nonché la gara individuale per il 7° “Palio del Castello” per quartieri denominato “Trofeo Rivetta”. Una manifestazione quella della gara delle slitte che si richiama ad
un lontano passato, quando con quel rudimentale mezzo costruito interamente a mano da abili artigiani, si portava a valle, attraverso percorsi solitamente innevati o anche su quei selciati di pietra, la legna da ardere, il fieno o altri prodotti della terra e pure, più di mille anni fa, anche la Castellana. La gara anche quest’anno si è disputata sull’antico percorso di circa 1 chilometro, che dal sovrastante “Castello di Selva“ porta alla piazza centrale attraverso la via dei “Boscaroi”. Ogni slitta, tirata da due concorrenti maschi, trasportava una damigella che durante il percorso doveva affrontare alcune prove di abilità. All’arrivo in piazza, i concorrenti uomini dovevano segare un grosso tronco nel minor tempo possibile e il punteggio, sommato a quello realizzato dalla ragazza, determinava la graduatoria di merito. Sette i quartieri partecipanti venuti anche dai paesi vicini. Il primo classificato è stato il “LEVICO BROX”, composto da Massimiliano Frisanco, Gabriele Frisanco con damigella Tiziana Frisanco (vedi foto), mentre il Palio dei quartieri è stato vinto dal “Quartiere Levico”. (M.P.)
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AUGURI PIERINA
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ierina Armellini di Borgo Valsugana è stata recentemente festeggiata per i suoi 104 anni di vita. Attorno a lei, nella sala all’interno della Casa di riposo “Redenta Floriani” di Strigno che la ospita da qualche anno, si sono riuniti i famigliari, altri parenti e molti ospiti dell’Istituto che hanno brindato alla sua salute. Nata a Borgo il 23 gennaio 1913, Pierina dovette partire come profuga a soli due anni assieme alla mamma Angela. Un momento della vita che lei, nella sua ancora piena lucidità mentale, ricorda con grande emozione. Nel 1937 si sposò con Candido Armellini e dalla loro unione nacquero tre figli: Sergio, Bruno e Franca, quest’ultima l’unica ancora in vita. Rimasta vedova nel 1955, da brava mamma dovette, da sola,
provvedere alla crescita dei figli. In campo lavorativo, Pierina gestì dal 1974 al 1982, il bar Sport in Corso Ausugum, sempre a Borgo Valsugana. Poi, nella stessa via, aprì l’edicola di giornali e tabacchi che oggi è gestita dalla figlia Franca, dove lavorò per lunghi decenni e dove ancora oggi lei vuole qualche volta ritornare per dimostrare di essere ancora in grado di servire autonomamente i clienti. (M.P.)
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Terramare: dal Trentino a Venezia sulle tracce degli ambienti naturali
CAPITOLO II:
viaggio attraverso un territorio di Elisa Corni
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ello scorso numero abbiamo fatto la conoscenza dei ricercatori che la scorsa estate hanno percorso 500 chilometri in bicicletta alla scoperta degli ambienti naturali del Trentino lungo una rete di aree protette, le cosiddette LTER. Alcune di queste si trovano proprio nella nostra Provincia, e sono state inserite nel percorso di Terramare, come per esempio il Lago di Tovel o il Lago di Garda, dove ricercatori, insegnanti e turisti sono arrivati il 7 luglio scorso. Terramare, però, è anche stata l’occasione per conoscere il territorio sotto diversi punti di vista. Quello ambientale, ma anche quello sociale ed economico. Infatti, giunti ad Arco e parcheggiate le biciclette per la notte, i partecipanti e gli abitanti della cittadina del Trentino meridionale hanno preso parte a un evento d’eccezione. Gerri Stefani e Andrea Zignin hanno organizzato una serata in collaborazione con alcune realtà locali estremamente attive ma, al contempo, attente all’ambiente e al territorio. «La nostra idea – spiegano – è stata quella di coinvolgere le realtà e le attività locali, quelle più particolari, per valorizzare il loro operato». È per esempio il caso dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) dell’area del Garda e del Sarca invitati alla serata - come il Gas Gos - che si sono occupati del catering della serata; assieme all’Associazione Rotta Inversa, ai produttori “bio” locali, all’associazione La Pimpinella che tutela
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le semenze antiche e ad altre realtà locali attente a tradizione e territorio, ai coltivatori di prodotti quasi scomparsi, oltre alla scienza, Terramare ha visto protagonisti l’amore e la tutela per la propria terra. La tutela e la comunicazione scientifica sono state invece protagoniste indiscusse di altri due eventi nel Trentino Occidentale. Al Lago di Tovel, riserva LTER e una delle «cartoline più famose del Trentino». Qui Stefani, Zigni, D’Alelio e gli altri pedalatori scientifici, hanno incontrato Matteo Zeni, guardaparco del Parco Naturale Adamello Brenta, che ha presentato loro il noto e discusso progetto “Life Ursus” per la reintroduzione dell’orso in Trentino; ma anche il Dott. Salmaso della FEM, che ha introdotto alcuni degli aspetti scientifici dello studio del Lago di Garda. Il lago è anche sito LTER e i turisti che hanno partecipato alla pedalata hanno avuto l’occasione di mettere mano alla ricerca. Infatti, nelle acque limpide del lago, hanno potuto partecipare a un campionamento limnologico, ovvero alla raccolta di informazioni sulla temperatura dell’acqua, sulla ricchezza di plancton e clorofilla, o per esempio sulla sua torbidità. Grazie
a campionamenti come questo, infatti, «è possibile osservare come i cambiamenti fisici, biologici e chimici delle acque dello splendido lago siano collegati ai cambiamenti climatici» spiega Domenico D’Alelio. Ma non è solo grazie al campionamento che i presenti all’evento hanno potuto mettere mano alla scienza: grazie alla collaborazione con ricercatori del MUSE e della Fondazione Edmund Mach, occhio al microscopio e via: alla scoperta dei microorganismi che vivono nelle acque del lago. La limnologia è il ponte che conduce i girovaghi su due ruote in un’altra valle. A Levico Terme, infatti, comincia l’avventura valsuganotta di Terramare. Qui ancora una volta i pedalatori scientifici incontreranno ambiente, natura e scienza, ma anche realtà locali per la salvaguardia delle tradizioni e buona compagnia. Continua sul prossimo numero…
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