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I mulini di Caldonazzo
Storie di casa nostra
I mulini di Caldonazzo
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Erano ben quattro in un lontano passato, i mulini a Caldonazzo costruiti lungo il torrente Centa per poter attingere da quel rio l’acqua per l’alimentazione. Come ci ha testimoniato la maestra e storica Agnese Agostini, si trovavano lungo il greto di quel torrente in località Pineta, un tempo rione Caorso, che venne abbandonato nel 1758 a causa di continue inondazioni e l’acqua, che proveniva dal lago di Lavarone, usciva dalla roccia formando le cascate del Vallempac. Di questi manufatti sono ancora visibili alcuni residui cementiti, come quello del Goto (Coto) situato a poca distante dalla strada romana “Imperiala” e che vediamo in questa foto di Carpentari presente nel libro della maestra “All’ombra della Vigolana”, così come quello dei Cleccheri (Polentoni), stessa firma nella medesima pubblicazione. L’ultimo ad essere abbandonato, ci ricorda ancora la signora Agnese, 95 anni compiuti il 3 maggio 2020 ma ancora lucida da far invidia ad una ragazzina nonchè autrice in passato di corpose pubblicazioni storiche come “all’ombra della Vigolana” che ci mostra in questa foto, ma anche tante altre, fu il mulino dei grandi Prati che divennero artisti di fama mondiale portando alto il nome di Caldonazzo e sul quale si è soffermata a raccontarci la sua ricca pagina di storia. In origine, ci dice, il padrone era Domenico Prati e la proprietà passò poi al tredicesimo figlio, Cesare Giulio, che visse dal 1860 al 1940 e che pure lui divenne pittore per la passione trasmessagli dal fratello maggiore, il famoso Eugenio Prati. Nel 1896, all’età di 36 anni, dopo aver frequentato l’Accademia di Brezza a Milano, Cesare Giulio va in America, in Uruguay, attratto dall’entusiasmo per l’arte che sembrava offrire buone prospettive di lavoro e anche su richiamo dei fratelli più anziani di lui Leone, Probo, Stefano e Anacleto. Nel 1903 ritorna a Caldonazzo dove trasforma il piccolo mulino artigianale, che serviva solo per uso personale e per pochi altri privati, in mulino industriale, lavorando così grandi quantità di granoturco ed altri prodotti che provenivano non solo dalla piana di Caldonazzo, ma soprattutto dall’Argentina e dall’Ungheria. Oltre al mais in quel mulino si macinava il frumento, l’avena, l’orzo, la segala e la panizza la cui farina si usava per confezionare una particolare polenta. Nella zona di Caldonazzo, infatti, la panizza era coltivata da tante famiglie di allora, ed è per questo che gli abitanti di Caldonazzo ancora oggi vengono chiamati i “panizzari”. di Mario Pacher