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I protagonisti della politica LORENZO DELLAI Pagina
I Protagonisti della politica
di Waimer Perinelli
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LORENZO DELLAI
LA POLITICA È UNA COSA SERIA
“L’autonomia è importante se non è banalizzata a pura amministrazione e se non è da museo: deve essere capita nel suo valore di progetto comunitario e continuamente rinnovata rinnovata”. Lorenzo Dellai. Ve lo ricordate? Sindaco di Trento dal 1990 a 1998 consigliere regionale, dal 1999 al 2012 presidente della Provincia autonoma di Trento, nel 2013 eletto deputato. Nel 2018 ricandida nel collegio della Valsugana ma non viene rieletto. “Non avevo messo l’orecchio a terra, dice, e non avevo sentito il cambiamento dell’umore degli elettori, la resa ai movimenti sovranisti ”.
Rimpianti?
“Nessuno, nessun risentimento, nessun rimpianto, sono grato alla vita, mi ha dato molto, proprio dove mi ero preparato seguendo fin da giovanissimo gli insegnamenti di don Milani. Quello della scuola di Barbiana, quello che, per la generazione cattolica nata fra il 1950 e 1970, è stato un faro”. Lorenzo Dellai festeggia a novembre, il giorno 28, il sessantaduesimo compleanno. Ci salutiamo. “Scusami, dice, devo restare all’aperto sono in astinenza dal mio sigaro mattutino e ho bisogno di un caffè”. E’ venerdì e Dellai smonta dal turno settimanale di raccolta alimenti a favore di Trentino Solidale, l’associazione di volontariato sociale coordinata da Giorgio Casagranda. Il viso è stanco, segnato da un velo di barba bianca curata, lo sguardo acuto, gli occhi ruotano attorno inquadrando la scenografia, poi si fissano sull’interlocutore. Ci siano trovati tante volte per servizi televisivi ma è la prima volta che c’incontriamo come due conoscenti al bar.
Cosa fa un uomo che dalla politica ha avuto tutto?
“Studia per capire l’evoluzione del suo mondo e scopre che è tutto cambiato, che i giovani vivono in un’altra dimensione fatta di computer, digitale, comunicazione diretta e cerca di trovare una risposta ai nuovi problemi” E’ per questo che ha fondato Codice Sorgente, una scuola di politica alla quale collaborano docenti universitari, come Antonio Schizzerotto, e altre persone della società civile. “E’ un’associazione indipendente, assolutamente non di partito, aperta a tutti. Per me, dice, è un modo per investire non solo sulle competenze ma anche sulle sensibilità politiche. Una scuola dove ognuno segue un proprio percorso in questo momento di cambiamenti epocali. Gli incontri sono seguiti da una ventina di giovani all’anno e fra loro alcuni sindaci, amministratori, desiderosi di apprendere la difficile arte di operare fra leggi, leggine, nodi e trappole, per il bene comune”. La politica è una malattia diceva un ex presidente, non negativa, ma come diceva Carlo Goldoni riferen-
Lorenzo Dellai
dosi al teatro: “Chi vi si avvicina non sapiù staccarsene ”.
E Lorenzo Dellai è un’eccezione?
“No, è un modo nuovo di fare politica. Io sento il dovere di dare una mano ma, non ho ambizioni personali, né voglia, né sarebbe ragionevole tornare. C’è, aggiunge, un ruolo di aiuto, di supporto esterno da parte di chi, come me, ha il dovere di dare un contributo, senza essere invasivo.”
Allora da insegnante di una politica vissuta intensamente: cosa manca oggi alla politica?
“Manca la rappresentanza di una forza capace di agire fra una minoranza di tendenza leghista e una minoranza contraria alla lega. C’è una forza che nel paese è maggioranza solo che è fragile, incerta, indecisa, perciò divisa. Eppure risponde all’esigenza, alla domanda di apertura e confronto. Una maggiorana ben viva anche nelle valli trentine”.
C’è nell’aria una nuova Margherita?
“Assolutamente no! È stata una positiva esperienza, ma la storia si fa guardando al futuro. Si deve pensare ad un soggetto nuovo “
Ma anche ai partiti, i quali per crescere, hanno bisogno di leader.
“Più che un partito vedo un’area capace di ricreare il senso della Comunità, un soggetto nel quale si deve manifestare un leader con una proposta condivisa da cui nasce la legittimazione. Non c’è tempo da perdere non si può aspettare l’incoronazione”.
Quale futuro vede per l’autonomia?
“Grazie al lavoro fatto ed a quello che si può fare sullo Statuto non vedo tanto grandi pericoli sul piano giuridico. Vedo piuttosto la mancanza di una visione complessiva del senso autonomistico. Si guarda troppo al passato e poco al futuro, alle nuove generazioni. La nostra autonomia è nata quando il valore centrale era il territorio. La rivoluzione digitale ha travolto questo concetto, oggi sulla Rete si impone il concetto del personale: dell’Io. La nostra autonomia era fondata sul Noi, sulla cooperazione, sulle associazioni, la solidarietà, se non torniamo a questi valori e sappiamo applicarli al mondo moderno, saranno svuotati dai centralismi. Il trentino è mutato a livello antropologico e culturale, e l’autonomia così come l’abbiamo finora vissuta pare destinata a perdere il senso di se stessa, di non essere più carismatica verso il popolo. E’ importante ma non più sufficiente rinnovare tradizioni, costumi, storie del passato, se non si affronta il futuro con progetti innovativi si rischia di rimanere un’isola in mezzo al mondo che cambia. Il momento importante della nostra autonomia è stato quando, sfidando il centralismo dello Stato, abbiamo fondato l’università, innovato con istituti tecnologici, la Fondazione Kessler...Sono anni in cui abbiamo seminato. Poi è venuto il momento della raccolta. .”
Allora siamo contenti?
“No, per nulla, abbiamo avuto un buon raccolto, non sempre riconosciuto, ma è tornato il momento della semina e questa spetta soprattutto ai giovani. La nostra cultura contadina ci ammonisce che senza una buona semina non si raccoglie nulla.”
I Protagonisti della politica
Monti e Dellai - Unione per il Trentino (da Wikiwand)
Viaggio in Valsugana
di Marco Nicolo’ Perinelli*
TRAFFICO, BUCHE E BUFALE
“Sì, viaggiare, evitando le buche più dure, rallentando per poi accelerare...” cantava Lucio Battisti nel 1977. Una canzone che casualmente passa per radio mentre sto percorrendo la SS47 della Valsugana, diretto a Trento, alle 7.40 del mattino. E non posso che sorridere mentre sono nell’ennesima colonna all’altezza di Ischia. Una colonna lenta, formata da veicoli di ogni genere e tanti, tantissimi camion. Davanti a me un automezzo pesante con targa slovacca, dietro uno con targa austriaca. “Che strani questi valsuganotti – penso tra me e me - che decidono di spostarsi con veicoli con targhe straniere”. Eh già, perché, come mi è stato spiegato più volte in questo periodo, l’ultima dallo stesso Presidente Fugatti, che la Valsugana è intasata dal traffico locale. E quindi non posso che pensare che siano tutti veicoli partiti al massimo da Borgo o da Pergine. Al di là delle battute, è evidente per chiunque percorra questa arteria stradale tutti i giorni che il traffico pesante è tutt’altro che locale e che negli ultimi anni è costantemente in aumento. Certo, esiste una percentuale altissima di veicoli leggeri che si muovono tra la valle e la città, un traffico che potrebbe essere smaltito da una rete di mezzi pubblici efficienti, a partire dalla ferrovia. Se non fosse che le autocorriere sono bloccate nel traffico esattamente come gli altri veicoli e che il treno rimane una utopia, con tempi di percorrenza di oltre un’ora tra Borgo Valsugana e Trento, 36 km di distanza su un tracciato del 1896. E mentre ovunque in Europa si parla di Agenda 20-30, di sviluppo soste-
La SS della Valsugana (da Il Giornale di Vicenza)
nibile, di tutelare l’ambiente, da noi si progettano arterie stradali vecchie di 50 anni, prospettandole come soluzioni a tutti i problemi del traffico. Parlo di quella Valdastico che, forse, allora avrebbe potuto effettivamente deviare il traffico pesante dalla Valsugana, soprattutto con una uscita a nord, ma che oggi sembra solo uno specchietto per le allodole. Partiamo da un dato oggettivo: la Pedemontana veneta è una realtà: mentre qui si discuteva sui massimi sistemi, poco a più a sud i lavori andavano avanti a passo spedito e presto anche il collegamento tra Dueville e Bassano sarà completo. Chiunque abbia percorso la nuova autostrada veneta, ha potuto rendersi conto di quale opera sia e soprattutto del fatto che tutto il traffico veicolare veneto e parassitario proveniente dall’est Europa ha ora un corridoio diretto su Bassano del Grappa e da lì la comodissima, gratuita, “Autostrada” della Valsugana che lo porta direttamente a Trento: non si capisce perché un autotrasportatore dovrebbe arrivare a Laste Basse, in Veneto, tornare a sud verso Rovereto, per poi rimettersi in direzione nord. E’ evidente che a noi Valsuganotti la A31 così come progettata dal governo provinciale con uscita a Rovereto Sud non serve a nulla, se non a distogliere l’attenzione da altri problemi. E mentre qui si chiacchiera, le decisioni importanti vengono prese altrove, come ho avuto modo io stesso di constatare recandomi a Roma presso il Ministero delle Infrastrutture a inizio ottobre. Dobbiamo calarci nella realtà: la SS47 è destinata a essere sempre più congestionata e si deve intervenire qui, non altrove. Investiamo seriamente nella ferrovia accelerandone i tempi, ma non solo con una elettrificazione che non serve a nulla su un tracciato di due secoli fa e mettiamo in sicurezza la ss47 togliendola anche dai laghi con una galleria tra Novaledo e Pergine. Quanto potremmo fare in Valsugana con quei 3 miliardi di euro destinati all’anacronistico progetto Valdastico? Siamo una Provincia che potrebbe puntare ad essere oilfree, come stanno facendo i nostri vicini sudtirolesi, e invece progettiamo il futuro su progetti di mezzo secolo fa. Sì , viaggiare, mi viene da dire, ma evitando le bufale.
* Marco Nicolò Perinelli è Giornalista, sindaco di Tenna
Le donne e la Società
di Laura Mansini
LE DONNE LIBERE DELL’AFGHANISTAN
Nell’osservare quanto è accaduto nel mese di ottobre nelle nostre città italiane, nella nostra bellissima e libera nazione, colpita come tutto il mondo dal Covid, dal quale stiamo uscendo grazie alla scienza, al Governo e soprattutto all’intelligenza e generosità dell’ ottantacinque per cento degli Italiani che si sono fatti vaccinare, sono rimasta sconvolta. Come può essere che un gruppuscolo di no vax, no green pass, ai quali si sono aggiunti facinorosi di estrema destra e di estrema sinistra, in un periodo di elezioni, con le quali i cittadini di grandi città e di una regione stavano per votare, possa mettere la Capitale ed altre città come Trieste, Genova sotto scacco, assaltando a Roma la sede della CIGL, bloccando porti, cercando di creare una situazione di completa anarchia. Fortunatamente la democrazia ha vinto e tutto si è svolto correttamente. Ha vinto comunque l’astensionismo e questo è un male. Mi sembra che si rinunci a delle scelte fondamentali per la vita delle future generazioni. Questo mi ha fatto ricordare quello che è accaduto in Afghanistan negli scorsi mesi quando sono giunte le prime notizie del ritiro delle truppe americane e dell’ONU da questa martoriata regione. In quell’occasione ho iniziato a scrivere alcune riflessioni, perché era giunta voce che l’esercito Afgano aveva perso la guerra contro i Talebani, i quali, dopo vent’anni, sono tornati padroni della Capitale. Le mie paure più recondite si sono avverate. Sono brani tratti da un mio diario personale, scritto per non dimenticare e per aiutarmi a riflettere su che cosa mi sembra stia accadendo, certamente in modo meno cruento anche da noi che per ora godiamo di una bella democrazia, nella nostra bellissima Italia; tuttavia anche qui inizia ad entrare il tarlo della violenza, lo si è visto, come dicevo sabato 9 ottobre a Roma. A Kabul come a Roma, sta accadendo quanto, con un po’ di attenzione, si poteva presagire. “Osservando ciò che sta accadendo, in queste giornate estive, in Afghanistan, scrivevo in agosto, siamo colti da improvvise ataviche paure. Vedere Kabul invasa da carri armati, fucili e giovani barbuti con copricapi antichi, come antiche ci sembrano queste invasioni barbariche, ci riempie il cuore di una grande tristezza e di timore per il nostro futuro. Quando lunedì 16 agosto, alla sera, ho visto su RAI 2 i filmati che la Fondazione Pangea Onlus inviava con le immagini di donne e bambini nascosti in case, per ora sicure, frutto di un progetto di asilo-centro donna, create con lo scopo di offrire servizi indispensabili alle donne ed ai loro figli, ho provato un forte senso di impotenza. Ancora una volta le donne ed i bambini, sono le prime vittime di queste battaglie apparentemente insensate, frutto di una cultura religiosa barbara. In nome di Allah, di una Sharia, che impone un complesso di regole di vita e di comportamenti per la condotta morale e religiosa dei fedeli e soprattutto delle donne, le quali divengono proprietà dei padri, dei fratelli, dei mariti. “ Eppure ricordiamo che dal 26 gennaio 2004 le Afghane hanno ottenuto gli stessi diritti dell’uomo, rifacendosi alla Costituzione del 1964 . “ Che dire, non spetta a me giudicare culture così lontane, tuttavia mi chiedo perché non sia stato possibile in questi
Zahara Ahmadi, imprenditrice profuga afghana (Religion Today)
ultimi 20 anni di egemonia occidentale, creare le situazioni per allargare la cultura dalle città come Kabul, che ha visto le donne studiare, laurearsi, diventare dottoresse, avvocate, giornaliste, ottenendo riconoscimenti sociali e politici , anche alla campagna. Le mie paure più recondite si sono avverate. Ora non c’è più nessuno a difendere i diritti acquisiti in questi ultimi anni. Le prime a soccombere, come sempre sono le donne, quelle colte, emancipate, che hanno perso immediatamente il lavoro, che si stanno nascondendo sotto il Burka, che hanno trovato la morte fuggendo, o meglio cercando di fuggire.” Queste mie riflessioni, nate nei primi giorni dell’apocalisse di Kabul, si stanno evolvendo. Ho osservato quanto sta accadendo ora e sto scoprendo, con immenso orgoglio, che questi vent’anni non sono trascorsi invano perché la cultura della democrazia si è fatta strada soprattutto nelle giovani donne che ho visto prendere decisioni importanti scendendo in piazza, davanti agli ospedali, affermando il diritto-dovere di curare i loro ammalati, e poi sono scese le insegnanti, le giornaliste, donne di cultura, lavoratrici, col velo ma senza Burka, a volto scoperto. Brave e coraggiose, capaci di sfidare vecchi sacerdoti della Sharia, anziani di un antico regime che rispondendo alle domande dei giornalisti se ci saranno donne nel nuovo governo Talebano rispondono “ No nel governo, forse in altri ruoli non di potere”. Non la pensa così Zahama Ahmad, trentaduenne imprenditrice , costretta a fuggire dal suo paese perché colpevole di lavorare con successo e di aver contestato il nuovo potere. “Io credo che le donne debbano andare al potere - ha dichiarato, intervenendo alla presentazione del festival del Cinema Religion Today- ” Anzi spero che presto in Afghanistan venga eletta una donna Presidente di un paese finalmente libero e democratico” Il mio diario ora si ferma qui, ma tornando ai fatti di casa nostra antichi timori si sono risvegliati in me, non solo paure di violenze, ma del ruolo della donna in politica. La cosa più sconcertante è che non abbiamo donne sindaco in questa tornata elettorale, la famosa quota rosa non conta, e sembra lontano il tempo in cui potremo vedere una donna Presidente della Repubblica italiana.
Donna afgana con il burqa (da Wikipedia)
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Le donne e la Società
Donna afgana (da Wikiwand)
La Storia siamo noi
di Cesare Scotoni
Il Ritorno al “Divide et Impera”
(che non è mai andato via)
La Storia degli Imperi è tornata di estrema attualità dopo la Caduta del Muro il 9 novembre 1989. La Prima Guerra Mondiale aveva visto il tramonto dell’Impero Austroungarico, dell’Impero Russo, dell’Impero Turco e dell’Impero Tedesco e l’abbandono da parte degli Stati Uniti d’America di quella decisa Neutralità verso le vicende europee che aveva ispirato la Costituzione del 1778. Il Secolo Breve (copyrigth di Eric Hobsbawm) dunque iniziava in quel 1914 e finiva con il ritorno sui pennoni del Kremlino della Bandiera della Grande Russia. Nel frattempo anche il Regno Unito aveva ceduto il Suo Impero e, come la Francia per il suo ed entrambe i Paesi avevano rimodulato il modo di declinare quella Sovranità sovranazionale e colonialista. Il patto di Varsavia, costituito nel 1955, in contrapposizione ad un’Alleanza Atlantica costituita in chiave anticomunista già nel 1949 ed a cui anche la Germania aveva aderito poi
nel maggio del 1955, si scioglieva e ricominciava così quel Grande Gioco (dal libro di Peter Hopkirk) cui la Guerra Fredda aveva messo la sordina e destinato a modificare i rapporti di forza tra gli alleati che riscoprivano i propri interessi sovrani, pensando ad una Russia sempre più permeabile all’Occidente consumista e ad una Cina che avrebbe impiegato anni per diventare protagonista economica e militare nello scacchiere asiatico e centro asiatico. Come sempre le cose presero pieghe assai diverse e gli scenari si rivelarono diversi, ma non le ambizioni dei giocatori. Perché questa digressione su Imperi ed Imperialismo? Perché pur declinandosi ora le Teorie Imperiali con modalità più moderne alcune logiche ne restano elemento costitutivo e la Storia può insegnarci molto. Per quello, in Italia, Storia e Geografia son sempre più neglette: il conoscerle potrebbe evitare il ripetersi degli er-
Divide et impera
Dividi (i tuoi avversari) e comanda Caio Giulio Cesare
rori più eclatanti che accompagnano le scelte del nostro Paese proprio dal termine del Secolo Breve, che l’autore fissa nel 1991. Otto Von Bismarck scriveva: “Nei conflitti europei, per i quali non c’è un tribunale competente, il diritto si fa valere soltanto con le baionette.” ed oggi possiamo tranquillamente dargli ragione. In un’Unione Europea incapace di darsi una Costituzione e normata solo sulla base di un’accozzaglia di accordi bilaterali il regolamento di conti cominciò in Jugoslavia già nel 1991 e si protrasse fino al 1999 con gli accordi di Daytona e lo scandalo del Kossovo (più uno scontro in Macedonia nel 2001). E quella vicenda vide Germania e Turchia ritrovarsi nuovamente alleate. Veniamo al Dividi et Impera, il modo più semplice che i Romani utilizzavano per “tenere i confini dell’Impero” senza immobilizzarvi troppe truppe. La Corruzione, l’intervenire nella Politica locale, il fomentare conflitti che evitassero a potenziali avversari di coalizzarsi, le Alleanze a Geometria Variabile, i legami commerciali ed il Mito Imperiale cui ancorarsi. Son solo 22 secoli che se ne scrive e che si praticano. Purtroppo c’è chi lo fa per mantenere una propria Sovranità Nazionale e chi invece il Dividi et Impera lo applica solo per distruggerla e sopravvivere politicamente e con profitto al disastro. La dissoluzione Jugoslava fu per l’Italia un passaggio ferale in cui il porto d’approdo poteva essere solo un’Unione Europea che divenisse un soggetto politico. A trazione Franco Tedesca e contro gli inglesi. La Presidenza Prodi della Commissione Europea dal 1999 al 2004 fallì nel tentativo di allargare l’Unione per farne coincidere gli interessi con quelli di un’alleanza Atlantica in cerca d’autore. L’affondamento del Progetto di Pratica di Mare con le vicende giudiziarie di Berlusconi furono un successo inglese e con il fallimento del referendum in Francia sulla Costituzione Europea il 29 maggio 2005 l’Italia perse la possibilità di quel ruolo centrale nel Mediterraneo. La crisi subprime del 2009 e le vicende Libiche, Siriane lo certificarono e solo l’insuccesso tedesco a Kiev, con le vicende di piazza Maidan ed il ruolo di un’Inghilterra a quel punto espressamente “fuori” dell’Unione offrono ora ad un Paese con più Padroni che Servi, la possibilità di offrirsi come testa di ponte di un’Alleanza Atlantica dove la Polonia sta già sostituendo la Germania nello scacchiere e l’Italia la politica gioca con la testa rivolta alle elezioni amministrative piuttosto che ad aumentare il proprio peso in un’Europa che non sarà quella sui cui Prodi perse la partita. Il Dividi et Impera in ogni caso lo inventammo noi e forse dovremmo farne tesoro.
La Storia siamo noi
La parola ai cittadini
di Emanuele Paccher
Referendum sulla giustizia: facciamo chiarezza
La Lega, assieme al Partito radicale, sta raccogliendo le firme per indire sei referendum abrogativi. Ma qual è il procedimento da seguire? Quali norme si vogliono abrogare?
Il 2 luglio è ufficialmente partita la campagna per la raccolta delle firme. Lega e Partito radicale vogliono portare al voto dei cittadini sei referendum abrogativi, tutti in tema di giustizia. Questa possibilità è prevista dall’articolo 75 della Costituzione, secondo il quale 500.000 cittadini o 5 Consigli regionali possono proporre l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge. Successivamente, dopo il deposito delle firme, la Corte Costituzionale si pronuncerà sull’ammissibilità del referendum. Per fare un esempio, non sarebbe ammissibile un referendum abrogativo in materia tributaria, così come sarebbe inammissibile un quesito espresso in modo non chiaro, tale da indurre in errore i cittadini. Piercamillo Davigo, già Presidente della seconda Sezione Penale della Corte suprema di Cassazione, ha dichiarato che vi sono dubbi di ammissibilità sul referendum in questione, poiché potrebbe minacciare l’indipendenza della magistratura. Ma la questione è controversa, e non mancano autorevoli voci contrarie. Se verrà superato il vaglio della Corte, ci si rivolgerà ai cittadini, di norma tra il 15 aprile e il 15 giugno. Per ottenere l’abrogazione della legge dovranno partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto, e la votazione dovrà dare una maggioranza di “sì” al quesito abrogativo. Questo punto probabilmente sarà il più delicato: nelle ultime tornate referendarie (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2016) ha sempre prevalso il non voto. Come si capisce, l’iter è complesso e piuttosto lungo. Ma andiamo ora ad analizzare nel merito le proposte, soffermandoci su alcuni nodi cruciali della riforma. Innanzitutto, si vuole introdurre la responsabilità diretta dei magistrati. Al giorno d’oggi il cittadino colpito da accuse inesistenti o che finisce in carcere da innocente non può chiedere direttamente conto al magistrato dei suoi errori. Il cittadino può presentare domanda di riparazione solamente allo Stato, in particolare rivolgendosi al Presidente del Consiglio. Lo Stato poi farà domanda di rivalsa nei confronti del colpevole. L’eccezione a tale procedura si ha nel caso di danno da reato (come nel caso di corruzione in atti giudiziari), in cui il magistrato è direttamente responsabile. Un altro punto riguarda la separazione delle carriere di pubblico ministero e di giudice, poiché in Italia le due figure fanno parte dello stesso corpo giudiziario, e i giudici possono diventare Pm, e viceversa, più volte nel corso della loro carriera. La legge attualmente fissa un limite di quattro passaggi, con alcune restrizioni, come ad esempio l’impossibilità di cambiare ruolo all’interno dello stesso distretto. Poi, si vuole modificare il sistema di elezione del consiglio superiore della magistratura: al momento un magistrato che voglia candidarsi deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme. Con il referendum si vorrebbe eliminare tale vincolo. Infine, si vorrebbe dare più spazio alla componente non togata nella valutazione professionale dei magistrati, limitare la possibilità di ricorrere al carcere preventivo e abrogare la cd legge Severino, eliminando pertanto l’automatismo dell’incandidabilità alle cariche politiche in caso di condanna per specifici reati. Vale la pena di ricordare che i quesiti referendari sono “indipendenti”, nel senso che l’insuccesso di uno dei sei referendum non preclude la possibilità che un altro giunga all’abrogazione di una norma.
Storie di casa nostra
di Waimer Perinelli
MISERIA E PIETÀ: LA SANTA DI SUSÀ
Sono al cimitero di Susà, frazione di Pergine Valsugana, 536 metri sul livello del mare, 974 abitanti, ai piedi del Chegùl e delle Terre Rosse. E’ una ancor tiepida giornata di sole invernale. Il Camposanto è all’ombra della chiesa parrocchiale di San Floriano. L’aria è tersa, da qui si vedono distintamente la valle dei Mocheni, in basso il fiume Fersina e il centro di Pergine con la sua grande chiesa e, un po’ staccato, arroccato, il castello. I cimiteri di montagna sono spesso in posti panoramici come se i defunti volessero vedere il mondo dal luogo dove riposano.
Sono salito a Susà alla ricerca di una tomba in particolare. So che la defunta si chiama Rosa Broll, nata presumibilmente nel 1858. Non conosco la data della sua morte ma sono a conoscenza di alcuni particolari sconcertanti della sua vita e ad informarmi è un articolo di giornale scritto da Benito Mussolini. Il futuro duce era venuto in questo borgo minuscolo, dominio dell’Impero d’Austria, nel giugno del 1909, in qualità di giornalista, capo redattore del giornale Il Popolo di Cesare Battisti. Era salito da Trento, pare a piedi, per intervistare la stessa persona di cui cerco la tomba ovvero la donna chiamata per fede o ingenuità popolare, la Santa di Susà. Mussolini, era da quattro mesi in Trentino, dirigente della Camera del lavoro, socialista, attaccabrighe, profondamente anticlericale. Nell’articolo pubblicato il 12 giugno il giornalista descrive, con ironia verso la Chiesa e con toni umani, compassionevoli, l’incontro con Rosa Broll. Ecco la sua cronaca ““Dopo pochi minuti mi trovo davanti alla “ Santa” . Io m’aspettavo di vederla discendere dall’alto, adorna delle sacre costellazioni e invece compare da un uscio cigolante e sgangherato. Ho dovuto fermare il mio saluto perché lei mi ha gelato con un esordio di que-
Santuario di Montagnaga
sto genere: «I cavalieri (i bachi da seta) non mi lasciano neppure il tempo di morire». – Ma troverete una mezz’ora per me? La «Santa», al secolo Rosa Broll, accoglie la mia preghiera e si siede.” Mussolini la descrive come una donna bassa, dai lineamenti secchi, dagli occhietti chiari, grandi, vivaci. Le chiome sono grigie, ma ricche. Aveva 51 anni. La storia per sommi capi è quella di una giovinetta sedotta e ingannata da un giovane prete il quale, per coprire poi le malefatte la tenne segregata in casa attribuendole opere di fede e miracoli. Mussolini le chiede di raccontare la sua vicenda. “Voi supponete forse lo scopo
della mia visita… Ho saputo dei vostri casi giovanili… La storia la conosco; però ignoro molti det-
tagli. – Oh! – esclama la Rosa – tutti sanno le mie avventure. – Ma voi sapete che passando da bocca a bocca la verità si altera sino a diventare una bugia. Ditemi, ricordate l’anno in
cui avete conosciuto don Antonio
Prudel?- Fu nel 1874.- E vi conobbe subito ?- Anca massa. Avevo allora sedici anni e lui ne aveva venti. Mi faceva la corte da alcune settimane e mi conquistò. Divenni la sua amante.- E mai sua
Storie di casa nostra
La Santa bambina
sposa?- Anca.”. In effetti il racconto prosegue con una finta cerimonia matrimoniale che, secondo Rosa, don Prudel, il seduttore, organizzò al santuario della Madonna di Pinè, per poi portarla a vivere in paese come fosse una cugina. Ma perché santa? chiede Mussolini“Io stavo chiusa giorno e notte in casa…risponde Rosa, La gente cominciava a mormorare… Si trovava strana la mia reclusione… Allora don Prudel si mise a propagare la novella della mia santità. Due volte alla settimana veniva a comunicarmi, seguito da un gran codazzo di fedeli… Ogni venerdì, poi, regolarmente, mi faceva sudar sangue…
Diventavo santa patoca.” Da lei si recavano contadini dei dintorni e da lontano portando doni e chiedendo grazie.
Mussolini s’informa anche dei possibili figli avuti dalla donna.
Una domanda: il vostro matrimonio con don Prudel è stato
fecondo? – “Oh sì, abbastanza… ma poco fortunato… Il primo figlio – un maschio – fu abbandonato sulla porta della chiesa di Pergine ... Venne quindi raccolto ma dopo 15 mesi morì. – Permettete… Chi vi assisteva durante il parto? – Ma lui! Lui don Prudel! … – E dopo?- Abortii di quattro mesi e poi dopo un anno e mezzo circa ebbi una bambina. Questa fu portata di notte a Levico dentro una sporta e lasciata sulla soglia della chiesa.... – E la bambina? . – Venne raccolta e riportata a Susà da una Luisa Carlini. Morì dopo una ventina di mesi, pora popa.” Da questa vicenda prese avvio un’inchiesta che portò ad un processo concluso senza conseguenze per il sacerdote che venne però trasferito in una parrocchia di San Lorenzo in Banale. Lei Rosa Broll, la Santa, perse ogni povera cosa. Sospettavo che non avrei trovato la sua tomba. Troppo povera per avere ospitalità tanto lunga in Camposanto, troppo modesta e ingenuamente scandalosa la sua vita. E’ il destino degli ultimi, dei poveri, di chi non ha voce. Benito Mussolini e Cesare Battisti ne fecero un atto d’accusa alla Chiesa e fu scandalo, subito dimenticato. Nella mia visita a Susà ho intervistato un po’ di abitanti: nessuno ricordava. Ma anche fosse, oggi con i tempi che corrono, di scandali ce ne sono ben altri e c’è grande lavoro per un Papa come Francesco impegnato nella moralizzazione della Chiesa.
Mussolini a Trento
Benito Mussolini arrivò a Trento nel febbraio 1909 perché chiamato dal Partito Socialista austriaco per dirigere l’Avvenire del Lavoratore e la Camera del Lavoro di Trento. Sotto braccio teneva la «Gazzetta dell’Emilia» che titolava «Cronache letterarie, il Futurismo»: un primo assaggio del Manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti. Ad aspettarlo alla stazione c’erano Cesare Battisti con la moglie Ernesta Bittanti, e altri amici socialisti. Mussolini divenne ben presto caporedattore del Popolo (giornale socialista diretto da Battisti). I suoi articoli infiammarono l’animo dei “compagni trentini” scandalizzando gli esponenti del ceto medio e del clero. Considerato una minaccia, il pretesto per emanare il decreto di espulsione non tardò ad arrivare. Il furto alla Banca Cooperativa e la diffusione per mezzo stampa, alla redazione dell’Alto Adige, di un’edizione sequestrata dell’Avvenire del Lavoratore, fornirono alla polizia la giustificazione per arrestarlo. Processato a Rovereto fu poi scarcerato e condotto in auto a Mori, poi in treno ad Ala (dove fu salutato da un gruppo di compagni), per poi partire per Verona. Si chiudeva così l’esperienza a Trento del futuro Duce d’Italia: un’esperienza giornalistica e politica descritta da Luigi Sardi nel libro Il compagno Mussolini (2009, Temi). Nella città fedele all’Austria e al Papa, Mussolini contribuì a diffondere il verbo socialista e l’anticlericalismo con articoli come l’intervista alla Santa di Susà. (Andrea Casna)
Musica e vita
di Gabriele Biancardi
LA VITA E LO SPORT A SUON DI MUSICA
La musica e il cibo hanno mille proprietà. Sul secondo punto lascerei stare, so fare a malapena un toast, per cui non metto becco. Sulla musica mi permetto un ragionamento. Non è una banalità ricordare che esiste una melodia per ogni situazione, un sottofondo per una cena romantica o un’infuocata serata, brani adatti alle riflessioni. Canzoni per combattere la tristezza o per accentuare la gioia. Si sfocia anche nella cura con la musicoterapia. Insomma, la musica è il filo conduttore di tutto ciò che ci accompagna e viviamo. Solo una volta in tutta la mia vita, ho incontrato una persona che mi ha confessato di non amare e quindi non ascoltare nulla. Devo dire che è stato scioccante, mai avrei pensato che si potesse non sentire mai nulla di nessun genere. Se ogni tanto i gusti differenti hanno scatenato discussioni, anche piuttosto accese, mi permetto di sottolineare che la musica è democrazia. Il mio giudizio ha lo stesso peso di chiunque altro. Secondo me non esiste bella o brutta, tuttalpiù suonata male. Ecco questo si. Qualunque orecchio anche non allenato, percepisce suoni stonati, fuori tempo e questo procura fastidio. Conosco fior fiore di professionisti in grado di snocciolare testi di Gigi d’Alessio o Claudio Baglioni, (da molti ritenuti autori banali) e allo stesso tempo, rudi boscaioli mostrare tutta la collezione di Salomon Burke o Dizzie Gillespie. Ma se torniamo a parlare di uso della musica, voglio fare un parallelismo con lo sport. Da venti anni ho il piacere di fare lo speaker al volley provinciale di eccellenza. A1 maschile e ora anche A1 femminile. So che può sembrare irrilevante, ma ad ogni stagione, uno degli argomenti più seguiti dagli atleti e atlete è la musica per il riscaldamento. Sì, proprio quella che va a tutto volume nei 45 minuti che precedono la partita. Nella mia immaginazione, ho sempre pensato che una scaletta fatta da grandi classici del rock, Ac/ Dc, Deep Purple, Living Colour e altri totem, andassero bene. Magari una spruzzatina un filino paracula con inserti di pop commerciabilissimi e sfruttati all’osso. Jump dei Van Halen, Final countdown degli Europe. Tutti noi abbiamo fatto qualche esercizio in palestra, con le cuffie a tutto volume su “gonna fly now”, brano che accompagna gli sforzi cinematografici di Rocky Balboa. Invece nel corso degli anni, i gusti si sono modificati, si sono plasmati attorno ai gusti e soprattutto all’età degli atleti. Ho visto una sorta di evoluzione e cambio di “tonalità”. Allora, pur soffrendo nell’autostima, da qualche anno faccio scegliere a loro. La tecnologia in questo senso aiuta moltissimo. Venti anni fa si andava i compact disc con un lavoro manuale piuttosto intenso. Ora arrivano loro con un cellulare e una scaletta fatta seguendo quelli che, secondo loro, sono i pezzi che possono, anzi devono, infondere carica agonistica. Ho dovuto ricredermi sullo stile, ero convinto che non si potesse scendere sono i 130 bpm, invece mi ritrovo, sopratutto con le ragazze, ad ascoltare insospettabili e reggaetton, qualche ballata trap. Gli uomini sono un pochino più basic, brani che attingono
I Queen (da Montagem new)
dalle classifiche pop con venature di indie. Non sono comunque convinto che valga per tutti. Mi sono accorto nel tempo che alcuni si estraniano completamente da ciò che echeggia al palatrento. Trovano o cercano la concentrazione in un silenzio interiore. Ma, da quando i Queen hanno scritto “We are the champions”, non c’è evento sportivo, dai mondali di calcio alla gara di briscola da Giggi er pataccaro, che non suoni a tutti volume! Ecco perché sono convinto che non solo la musica, ma tutta l’arte sia democrazia pura. Certo, puoi essere un musicista preparato che tecnicamente puoi spiegare le scale pentatoniche, oppure un arrangiatore che ti sa dire il perché vanno usati gli archi invece che i fiati. Ma alla fine, sei tu. Se “avrai” del già citato Baglioni è riuscito ad intaccare certe venature della tua sensibilità, puoi essere macho finché vuoi. Quando sei in macchina e parte con “avrai sorrisi...” tu muovi la testa e canti a squarciagola. Perché la bellezza è tutta qui. Nel poter immergersi in ciò che più ti emoziona.
Scrittori di casa nostra
di Massimo Dalledonne
MATTEO LORENZI
Per Matteo “Kabra” Lorenzi è il secondo romanzo. Li ha scritti a quasi un anno di distanza uno dall’altro. Dopo Siero Nero, presente ancora nelle diverse librerie del Trentino e della Valsugana, ora tocca a “Kaeru”. È una parola giapponese dai tanti significati. Principalmente vuol dire “rana” ma significa anche “cambiare, sostituire, tornare all’origine, tornare a casa”. Un volume di 252 pagine. Un romanzo ricco di azioni e di intrecci che, come ricorda a Valsugana News lo stesso autore, gli è venuto di getto, quasi a urlare al mondo… Siero Nero era una cosa ma Matteo Lorenzi è anche questo! “Con Siero Nero – ci racconta – sentivo la necessità di fermare su carta un percorso, una vita, sentimenti, dolori ed emozioni. Poi ho deciso di seguire il mio estro creativo e voltare pagina con una storia che ha radici molto televisive e cinematografiche”. Di professione grafico pubblicitario, Matteo Lorenzi ha una grande passione. La musica. Come si legge nel suo curriculum “dal 1998 suona in una rock band che propone brani inediti di cui è compositore sia per la parte musicale che per quella testuale. Autore anche di un musical per ragazzi, di cui ha firmato le canzoni e il copione, dal 2015 ha portato avanti un progetto parallelo di musica cantautoriale, con lo pseudonimo di Kabra, e svariate attività di collaborazione come compositore e collaboratore di rubriche musicali online, in cui si è occupato spesso di recensire uscite discografiche di artisti emergenti”. Alla musica ha dedicato il suo primo romanzo, Siero Nero. Ora, con Kaeru, ha cambiato stile e contenuti. Non più un libro dove si parla in prima persona. Con questo secondo romanzo ha deciso di evolversi e di affrontare tipologie diverse di scrittura. “Ho scelto di portare in primo piano gli eventi, i fatti nudi e crudi, spesso scevri da giudizi, lasciando al lettore il compito di costruirsi un sentimento, un moto emotivo verso i vari protagonisti della storia”. Tre i protagonisti del suo nuovo libro. Tre i protagonisti. Marcello Spatonzi, una delle persone più inutili sulla faccia della terra. Denny Di Venuto, il fortunatissimo vincitore di quella ormai famosa estrazione del Lotto del 2005. Ōshima Kobayashi, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico giapponese di scarso successo. E la trama? “Nella primavera del 2015 – ci racconta l’autore - un evento di incredibile portata sta per cambiare totalmente le abitudini della famosa cittadina di Corintola Terme. Un esperimento sociale estremo e senza precedenti si abbatterà con imprevedibili conseguenze sulla vita di un suo abitante, scelto tra milioni di potenziali protagonisti ignari in tutto il mondo, travolgendo come un fiume in piena soprattutto il destino di alcuni personaggi: Marcello, Denny e Ōshima. Tre figure agli antipodi tra loro. Uomini totalmente immersi nelle proprie diversissime vite che tuttavia scopriranno sulla loro pelle di avere in comune moltissime cose, e non certo per pura casualità. L’intreccio imprevedibile degli eventi li porterà alla resa dei conti, con la consapevolezza che alla fine, per quanto possiamo credere di essere liberi, c’è sempre qualcuno o qualcosa più grande di noi, artefice dei nostri destini”. Un romanzo destinato agli amanti del thriller. Un libro scritto di getto da Matteo Lorenzi che sarà presente venerdì 19 novembre, alle 18.30, alla presentazione del libro presso la biblioteca comunale di Borgo Valsugana.
Matteo Lorenzi durante la presentazione di Kaeru
Economia e Finanza
di Emanuele Paccher
Alla scoperta del PIL
Il prodotto interno lordo (PIL) è il valore dei prodotti e dei servizi realizzati all’interno di uno Stato in un determinato periodo di tempo, generalmente di un anno. Nel calcolo conta la realtà geografica in cui un prodotto o servizio viene realizzato: se un’impresa tedesca vende nel territorio italiano, il valore delle sue vendite entrerà a far parte del PIL dell’Italia; così come se un’impresa italiana opera nel territorio francese, il valore delle sue prestazioni entrerà a far parte del PIL della Francia. Tale indicatore economico è definito “lordo” poiché comprende anche gli ammortamenti, ossia il deprezzamento di tutti gli apparati che compongono il sistema produttivo, i quali perdono valore con il decorso del tempo e con il loro utilizzo. Andando un po’ più nello specifico, il PIL è dato dal seguente calcolo: consumi delle famiglie + spese per investimenti + spesa pubblica + esportazioni – importazioni. In sostanza, il PIL è il reddito complessivo che un paese è in grado di produrre nel corso di un anno solare. Ma a cosa serve il PIL? Il PIL è uno dei principali indicatori di salute di un sistema economico, dato che rappresenta la capacità del sistema di produrre e vendere beni. Spesso è poi utile ricavare il PIL pro capite, ossia il PIL diviso per il numero di abitanti del Paese, in modo da ottenere la ricchezza media annua prodotta da ciascun individuo. Questo indicatore è particolarmente importante poiché sull’andamento passato e presente del PIL gli economisti possono fare stime sugli andamenti futuri, decidendo come e dove destinare le risorse economiche. In prima battuta possiamo dire che avere un elevato prodotto interno lordo significa poter godere di una migliore qualità della vita all’interno di uno Stato. Il confronto, tanto discusso specialmente in ambito europeo, tra deficit e PIL consente di comprendere la capacità di uno Stato di fare fronte agli impegni presi. Compresa quindi l’indubbia rilevanza che il prodotto interno lordo ha sulla salute della nostra economia, occorre porsi una domanda fondamentale: ma un PIL elevato comporta necessariamente un maggiore benessere sociale? Molti aspetti ci inducono a rispondere negativamente. Innanzitutto il PIL tiene conto solo delle transazioni in denaro, tralasciando tutte le prestazioni a titolo gratuito, come quelle svolte in ambito familiare e quelle di volontariato. In alcuni Stati in via di sviluppo, in cui l’economia è prevalentemente familiare, una strategia di sviluppo basata esclusivamente sulla crescita del PIL può far diminuire il benessere di questa popolazione. Dopodiché, e forse questo è l’aspetto prioritario, il PIL non fornisce alcuna misura della distribuzione del reddito all’interno della società. Una società in cui vi è una enorme ricchezza, la quale però è distribuita tra pochi ricchi e moltissimi poveri, ben difficilmente potrà considerarsi felice. Stati con PIL simile possono avere differenze notevoli in termini di distribuzione del reddito, e quindi differenze enormi in termini di benessere. Infine il PIL tratta tutte le transazioni come positive: anche il riciclaggio del denaro entrerà a farne parte, così come i profitti generati da imprese che provocano un grandissimo inquinamento atmosferico e persino i ricavati delle imprese funerarie. Con un po’ di sarcasmo il filosofo Zygmunt Bauman ha detto: “Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il PIL non cresce”. In conclusione, il PIL è ancora oggi un importantissimo indicatore economico capace di fotografare quella che è la ricchezza di un Paese, specialmente guardando al PIL pro capite e confrontandolo poi con il deficit di bilancio. Tuttavia, non bisogna elevarlo ad indicatore salvifico e portatore sempre e comunque di benessere. Un PIL elevato non per forza ci rende più felici.
Anche la preghiera contro il Covid
di Claudio Girardi
LA COMUNITÀ DEGLI SCALZI ALLE LASTE
Come un santuario può aiutare nel 2021
Tutto comincia nella seconda parte del 1500, con un capitello posto poco fuori Trento, al bivio delle strade per la Valsugana e il Nord; il capitello è decorato da uno splendido affresco raffigurante la Madonna con il Bambino: lo stesso di oggi! Con il tempo, Il capitello è diventato chiesetta in legno; la chiesetta è diventata poi il santuario di oggi. Nel 1641 i Carmelitani Scalzi di Austria assumono la cura pastorale del santuario e edificano un grande convento. A seguito degli sconvolgimenti della rivoluzione francese, il convento fu requisito e i frati espulsi; l’edificio del convento fu usato per svariate funzioni. Nel 1941 i Carmelitani della Provincia Veneta, in accordo con il Vescovo di Trento, tornano a servizio del Santuario, provvedendo a un sostanzioso restauro del convento. Oggi la comunità è composta da un decina abbondante di religiosi, con il compito di curare la formazione dei giovani desiderosi di consacrarsi al Signore nel Carmelo. Ne parliamo con padre Gianni Bracchi, maestro dei Novizi del convento di Trento.
Padre Gianni chi frequenta il santuario?
Il santuario della Madonna delle Laste è ufficialmente riconosciuto come santuario diocesano; la devozione alla Madonna delle Laste è molto diffusa e sentita, sia in città che nelle valli del Trentino. Vengono persone di ogni età, singolarmente, come famiglie o gruppi di pellegrini. Non si tratta di grandi numeri; ma il raccoglimento e la preghiera sono certamente intensi. Molti vengono per essere accolti in confessione e nel colloquio dai Padri, sempre presenti. A volte si tratta di incontri occasionali e brevi; a volte di un cammino che tende a diventare stabile e duraturo.
Per accogliere bisogna essere preparati. Come si svolge la vostra vita quotidiana?
Il ritmo della vita è dettato dall’amore per Gesù, dall’attenzione ai confratelli e dalla cura per del santuario e del popolo di Dio. La preghiera comunitaria scandisce la vita dei frati: mattina, mezzogiorno, tardo pomeriggio e sera. Ogni giorno c’è la celebrazione Eucaristica con la presenza dei fedeli; non manca mai una breve riflessione sulla Parola di Dio. Ma al cuore di tut-
Il santuario della Madonna delle Laste (Trento)
Anche la preghiera contro il Covid
Il Santuario della Madonna delle Laste a Trento (da Pineta Hotels)
to, ci sono i due momenti di Orazione Mentale: è la preghiera personale, il rapporto di intimità con Il Signore, che deve estendersi in tutti i gesti della giornata: affinché preghiera e vita arrivino a coincidere! Ci sono momenti settimanali di verifica della vita comunitaria; tempi di fraternità e di ricreazione; tempo per lo studio e la preparazione all’apostolato; la cura e la manutenzione della casa e del grande giardino, l’attenzione ai bisogni degli anziani e degli ammalati, le spese a fare, ecc. Ognuno dei fratelli ha un suo compito, all’interno o all’esterno della comunità, tutto vissuto nell’obbedienza al Priore che “tiene il posto” di Gesù.
Dopo il covid secondo Lei sono aumentati i poveri che bussano al convento?
Certamente; c’è chi aiuta noi frati, e noi aiutiamo altri che hanno bisogno: con una mano si riceve, con l’altra si dona. Un mio confratello ama spiegare che ci sono te categorie di poveri: i poveri che non hanno niente per vivere; i poveri che non hanno nessuno con cui vivere; i poveri che non hanno perso le ragioni per vivere. Da noi vengono soprattutto le ultime due categorie di poveri. Noi cerchiamo di offrire loro accoglienza e compagnia, per seguire insieme Gesù: Via, Verità e Vita.
C’è qualche cosa di particolare nel vostro santuario?
Un aspetto interessante è quello della cura del canto liturgico. Abbiamo due corali: una di adulti, e una di giovani, che animano le Messe della Domenica mattina. Oltre che essere un momento aggregativo e formativo per i coristi stessi, la corale diventa uno strumento di evangelizzazione e di testimonianza: sia nel santuario, sia in altre chiese. Abbiamo avuto molte richieste di Concerti-meditazione in giro per la Diocesi di Trento e anche altrove. Dopo la pausa dovuto all’obbligo distanziamento, speriamo che questa bella attività possa riprendere.
Antica Farmacia Erboristeria ROMANESE
Fondata alla metà del 1700