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Ieri avvenne VALSUGANA IN GUERRA Pagina
Ieri avvenne
di Andrea Casna
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Valsugana in guerra (1915-1918)
Quando gli alpini cercarono di prendere alle spalle forte Busa Verle
Nell’agosto del 1915, mentre sull’altopiano del Vezzena infuriavano gli scontri, gli italiani erano in Valsugana, all’altezza di Ospedaletto e in Val di Sella. Ad ovest, all’altezza di Levico gli austriaci avevano già predisposto una linea difensiva di sbarramento. Era lo sbarramento di Tenna: una lunga linea difensiva che da Caldonazzo, attraverso il Monte Sommo, si collegava ai Forti di Tenna e delle Benne, per risalire fino alla Busa Granda. Nel corso dell’estate del 1915, esattamente nel mese di agosto, i reparti italiani tentarono di aggirare le forze austroungariche sull’Altopiano con lo scopo di prendere alle spalle Forte Busa Verle. Un’operazione che viene raccontata nel diario di Giovanni Strobele: un trentino, originario della Valsugana, arruolato volontario nell’esercito italiano. Strobele fu uno dei quasi novecento trentini che decisero, nel 1915, di “morire per l’Italia”. Quasi mille, quindi, i trentini che si sono arruolati volontari nell’esercito di Vittorio Emanuele per coronare un sogno: vedere Trento diventare una città italiana. Un sogno che si avverò nel novembre del 1918 quando le truppe italiane entrarono vittoriose in una Trento stremata e messa alla fame dopo quattro anni di guerra. Fra questi novecento “irredentisti” troviamo, come detto sopra, anche il valsuganotto Giovanni Strobele. Esattamente era nato il 19 giugno 1895, a Strigno da Alberto e Rosina Osti. (morirà nel 1976). Prima della guerra era impiegato presso la Banca Cooperativa di Trento e si arruolò volontario il 28 maggio del 1915 nell’esercito italiano, nel sesto e settimo reggimento alpini per poi, nel primo dopoguerra, partecipare anche alle campagne militari in Africa. Fu anche un alpinista e uno scrittore di guide e articoli di montagna. Già nei primi mesi di guerra viene inviato in Valsugana. Lo storico Luca Girotto, nel suo lavoro dal titolo «La lunga trincea. 1915-1918. Cronache della Grande Guerra dalla Valsugana alla Val di Fiemme» (Gino Rossato Editore), riporta un estratto molto interessante proveniente proprio dal diario di Giovanni Strobele (Guerra mondiale 1915-1918, depositato presso l’archivio della Fondazione Museo Storico del Trentino). Si tratta, nel dettaglio, di un tentativo italiano di prendere il Monte Persico (Levico) per risalire verso il Pizzo di Levico. Nel dettaglio, come scrive Girotto, il piano prevedeva la discesa degli alpini nella zona del Sella, attraversare il vallone di Barco, superare Monte Persico per costeggiare le pendici settentrionali del Pizzo per poi prendere l’antico sentiero del Menador fino al monte Calmo per raggiungere lo Spiazzo della Volpe al fine di attaccare alle spalle Busa Verle. Il tentativo fallì a causa dell’intervento da parte degli standchützen e delle artiglierie posizionate sulla collina di Tenna. Qui un estratto del racconto di Giovanni Strobele: «Scendiamo in silenzio da Porta
Il racconto di Giovanni Strobele
Ieri avvenne
Manazzo appena fa buio e dietro viene steso il cavo del collegamento telefonico (...) e giù fino a dove sale la mulattiera da Barco (Frazione di Levico). La compagnia si nasconde su un cucuzzolo nel bosco e il ten. Calvi (ed altri) ci nascondiamo trai i cespugli ai lati della mulattiera per evitare sorprese. Sentiamo discutere ad alta voce in tedesco, e di colpo ci troviamo davanti un ufficiale austriaco ed alcuni soldati. Spariamo; il tenente è ferito, cade. Gli standschutzen spariscono!(...). Scende intanto la sera del 24 agosto e si avvicina l’ora dell’azione sull’altopiano. Il forte Tenna intanto tira qualche colpo a casaccio verso il posto ove era stato ferito l’ufficiale». Verso le 20, si legge sempre nel diario, inizia l’attacco italiano al grido “Savoia”: i fanti lanciati all’assalto vengono fermati dall’artiglieria e dalle mitragliatrici austriache. La missione non ottiene i risultati sperati. «Prima che faccia chiaro risaliamo -scrive sempre Strobele- a Porta Manazzo. Gli austriaci sparano qualche colpo verso di noi all’impazzata. Non abbiamo nessun ferito. Ora che ci penso, non so come la compagnia avrebbe potuto fare ad aggirare il Pizzo di Levico. C’è da attraversare prima il profondo vallone di Barco, salire sul m.Persico, attraversare un alto vallone, risalire sul m. Calmo e poi salire ancora fino a Busa Verle».
Ritratto di Giovanni Strobele
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Il Circolo Fotografi co Luigi Cerbaro in collaborazione con Valsugana News in occasione del 55esimo anniversario del Circolo
ORGANIZZA il CONCORSO FOTOGRAFICO LE QUATTRO STAGIONI IN VALSUGANA
Il concorso inizia il 3 novembre 2021 e terminerà il 21 settembre 2022 ed è riservato a tutti i residenti dell’Alta e Bassa Valsugana, del Tesino, Pinetano e Vigolana compresi. Il concorso è suddiviso in 4 categorie:
Autunno, Inverno, Primavera, Estate.
E ognuna terminerà con lo scadere delle varie stagioni. Le classifi che - per stagione e quella fi nale - saranno stabilite in base ai like ricevuti su Facebook. Al termine di ogni stagione sarà stilata la classifi ca temporale e quindi annunciati i vincitori. Regolamento su Facebook gruppo e pagina Circolo Fotografi co Cerbaro - Borgo Valsugana. Per ulteriori informazioni: circolofotografi cocerbaro@gmail.com
In caso di utilizzo improprio e illegale o per appropriazione indebita delle foto pubblicate su Facebook del Circolo fotografi co Luigi Cerbaro, quest’ultimo declina qualsiasi responsabilità civile, penale ed economica. Per la pubblicazione delle foto aventi come soggetto dei minori è obbligatoria la liberatoria sottoscritta da entrambi i genitori.
Il cinema allo specchio
di Nicola Maschio
BLACK MIRROR
Quando la tecnologia cambia la vita
Una vita influenzata dalla tecnologia e non viceversa. È il (possibile?) futuro disegnato e raccontato da Black Mirror, serie che tanto ha fatto parlare di sé sul portale Netflix ma che ancora, dopo diverso tempo, lascia aperte molte interpretazioni. Black Mirror si costruisce su diversi episodi, ognuno dei quali ha vita propria. Non c’è una storia unica, ma tanti spunti di riflessione che hanno come filo conduttore la tecnologia, il cambiamento digitale e le ripercussioni (positive e negative) che questi elementi hanno nella vita di tutti i giorni. Sostanzialmente, la serie spinge a chiedersi: in un mondo che giorno dopo giorno si sta incanalando sempre di più su una strada “devota alla tecnologia”, quanto ne saremo realmente dipendenti nel prossimo futuro?
Black Mirror: le tante trame
Come accennato in precedenza, non esiste una storia di Black Mirror, ma ci sono invece tante e diverse realtà che, un episodio dopo l’altro, vengono poste allo spettatore quasi come fossero degli interrogativi. Ogni puntata spinge a farsi delle domande. Qual è il ruolo della tecnologia oggi? Quale potrà essere in futuro? E se davvero il mondo dovesse cambiare in una direzione digitale, quali conseguenze avrebbe questo sulla nostra socialità, sul nostro modo di essere e sulle nostre abitudini? Si parla infatti di social media, di dispositivi in grado di simulare emozioni o controllare la mente, di intere campagne elettorali fondate sull’apporto tecnologico. Insomma, le tematiche sono tante e le sfumature di ognuna veramente complesse, ma straordinariamente attuali.
I personaggi
Ancora una volta, occorre ragionare in termini generali. Ogni personaggio ha una sua storia, i suoi trascorsi e le sue peculiarità. Tutti però sono legati dal sottile filo che, come già spiegato qualche riga più in alto, riguarda il tema della tecnologia. Le emozioni, i rapporti tra i protagonisti, addirittura la loro vita verte attorno all’influenza di quello che è a tutti gli effetti il mondo tecnologico, predominante nella loro esistenza.
Il messaggio: Black Mirror ipotizza un futuro diverso, ma migliore o peggiore?
Non è chiaro se l’intento di Black Mirror sia quello di sensibilizzare rispetto alle problematiche che l’eccesso di digitalizzazione e tecnologia potrebbe comportare alla specie umana o se invece, più generalmente, gli ideatori volessero azzardare diversi scenari per capire come ognuno di essi potrebbe influenzare la nostra vita. Quel che è certo è che Black Mirror rappresenta un incredibile punto di partenza per tantissimi ragionamenti rispetto a tematiche che oggi vengono trattate quotidianamente. Ci sono coloro che fondano la propria vita sui social network e sull’approvazione degli altri, entrando così in un circolo vizioso dove consenso genera consenso e, di contro, la disapprovazione porta all’esclusione sociale. C’è poi chi sceglie di utilizzare la tecnologia per punire i colpevoli di terribili reati, ed in questo caso viene da chiedersi come possa evolvere il concetto di “giustizia” in un mondo ad alta influenza tecnologica. Ancora, altri scelgono di usare quest’ultima per raggiungere obiettivi personali. I punti di vista su Black Mirror, le interpretazioni e le conclusioni che ogni persona elabora al termine di ogni episodio, sono fortemente personali. Ma è proprio qui che emerge la vera natura di una serie che, oltre a spingere a ragionamenti profondi, porta ognuno di noi ad interrogarsi sul futuro.
La storia parlata
di Waimer Perinelli
LADINI
UNA LINGUA UN POPOLO
La signora Maria, persona intelligente e cortese, negli anni 70 abitava in via Grazioli a Trento. Era nata a Cortina d’Ampezzo quando regnava Francesco Giuseppe,ma non si sentiva austriaca, era molto trentina, ma soprattutto ladina. Nei primi anni del 900 parteggiava per l’Italia, con i sostenitori di Cesare Battisti, ma con moderazione perché non amava le cose urlate e le manifestazioni di piazza. A vent’anni aveva sposato un imprenditore di Trento, uno spirito inquieto, da cui ebbe due figli prima che partisse per il Sud America in cerca di fortuna. Vi trovò la morte e Maria non tornò più nell’ampezzano fra i ladini, ma di questi il Trentino, l’Alto Adige, cosi’ come la provincia di Belluno, abbondano. Ladine sono quelle comunità che parlano e scrivono una lingua con antiche reminiscenze latine non sempre uguali fra i diversi territori abitati. Nell’area centro- orientale della regione Trentino-Alto Adige, in Val Gardena (Gherdeina), la usano 8148 abitanti, 80-90 per cento della popolazione; in valle di Fassa è parlato dall’82, 8 per cento degli abitanti, 7.553 persone, che usano ben tre varianti: la moenat, la brach e la caset. A queste comunità ladine consolidate, unite geograficamente e culturalmente ai ladini dell’Aldo Adige-Sud Tirol, cercano di aggregarsi da una ventina d’anni i nonesi, abitanti della Valle di Non con addentellati della Valle di Sole e di Rabbi. A trascinarli nell’avventura culturale è l’associazione Retia (Rezia) guidata da Caterina Dominici, la rossa di capelli e, un tempo, di pensiero. La politica conservatrice li classifica però come discendenti dalla cultura celtica preromana. Ma i nonesi insistono e le opposizioni al loro progetto sembrano più amministrative che culturali, perché lo Statuto di autonomia assicura ai ladini trentini almeno un seggio sicuro nel Consiglio Regionale e i ladini dell’area fassana, che ne hanno finora sempre usufruito, non sono disposti a cederlo e nemmeno a vederselo contendere. Hanno meno privilegi ma uguale forte sentimento di appartenenza i ladini del Veneto alpino, delle valli Badia e Marebbe, 9.222 abitanti fra i quali il 95% ha come lingua madre il ladino-badioto, classificata come Cadorino. Abitano a Cortina, a Calanzo, Auronzo..Borca. Usano il Fedom o ladino dell’alta val Cordevole o Livinallese, gli abitanti di Livinallongo del Col di Lana e del colle di Santa Lucia. Queste zone, classificate come ladino-atesine, secondo gli studiosi, soffrono di contaminazioni venete. Da questi monti, a cascata si scende infatti nell’Agordino, ad Alleghe, Falcade-Falciade, in piena provincia di Belluno, dove viene classificata anche una lingua o parlata, semi ladina. La questione non è di poco conto. Anzi. Recentemente anche in provincia di Belluno, grazie alla normativa sulle minoranze linguistiche storiche (legge 482/1999), sono stati riconosciuti ladini i comuni del Cadore, del Comelico, dell’Agordino, della valle del Biois, dell’alta val Cordevole, e della val di Zoldo. È attivo l’Istituto Ladin de la Dolomites- istituto “Cultural Cesa de Jan”, (Istituto Culturale delle Comunità dei Ladini
La storia parlata
Storici delle Dolomiti Bellunesi), con sede a Borca (Borcia) di Cadore. Recentemente è stato concluso il progetto SPELL che mira ad una lingua ladina standard. Si è iniziato con la standardizzazione e l’informatizzazione del patrimonio lessicale e successivamente si sono realizzati un dizionario e una grammatica di base. L’obiettivo, per nulla segreto, è di agguantare le norme già esistenti nella Provincia autonoma di Bolzano dove la lingua ladina è ufficialmente riconosciuta in base all’articolo 102 dello Statuto di autonomia sulla valorizzazione delle iniziative ed attività culturali e la minoranza ladina viene tutelata con l’insegnamento nelle scuola pubbliche e la facoltà di usare la lingua ladina nei rapporti con la pubblica amministrazione. In Alto Adige nelle scuole delle località ladine la lingua si insegna al pari dell’italiano e del tedesco. Con un limite, sulla base della delibera n 210 del 27 gennaio 2003, è possibile usare la lingua ladina negli atti degli enti pubblici e normativi, solo nelle forme del ladino unificato della Val Badia e della val Gardena. Un esempio per i cugini veneti, con l’invito a fare presto e bene uniformando le diversità e lottare insieme per salvaguardare identità, lingua, cultura. In tempi di Euregio non sarebbe male avere un congresso a Cortina d’Ampezzo, nell’ Ampezzan, all’ombra del monte Cristallo di Cortina, quello a cui guardava, con affetto, la signora Maria.
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Il personaggio
di Francesco Zadra
DAVIDE ZAMBELLI, uno strudel di simpatia
Entusiasmo travolgente, 24 anni e un accento da vero “trentinàz”. È questo l’identikit di Davide Zambelli, giovane chef della Val di Sole che, reduce dalla vittoria a La Prova del Cuoco, decide di lanciarsi in un’impresa folle quanto geniale: allestire uno studio televisivo in garage per unire il talento in cucina con la passione per l’intrattenimento. In pochi anni i suoi tutorial hanno fatto il giro della rete superando addirittura il milione di visualizzazioni. Non c’è da stupirsi, perché Davide mixa con brio modernità e tradizione, rendendo piacevole, ancorché utile, seguirlo nel creare step by step degli squisiti manicaretti. Siamo andati a trovarlo per fare due chiacchiere (non il dolce di Carnevale, sebbene Zambelli ne sia perfettamente in grado). Eccoci quindi sbarcati nelle terre solandre, precisamente a Stavel, “frazione” di Castello a sua volta frazione di Pellizzano.
Davide, come nasce la passione per la cucina?
Ho cominciato per caso: quand’ero piccolo ci trovavamo con i cugini a casa dei nonni e mio nonno mi diceva «dai Davide vei a darme ‘na man en cosina»; mi è sempre piaciuto aiutarlo a impastare e armeggiare tra i fornelli… da lì ho cominciato ad aiutare anche mia mamma in cucina, dato che a casa siamo in sette e c’è sempre un gran da fare. Insomma è nato tutto in famiglia, del resto anche il mio bisnonno era uno chef rinomato che gestiva un ristorante in Val di Pejo.
E com’è proseguita la tua formazione?
Finite le medie ho iniziato ragioneria, avevo mezza idea di passare al turistico dopo il biennio perché mi piacevano le lingue. Ma ben presto mi sono accorto che contabilità, diritto, e indici di bilancio non facevano per me. Mia madre, memore della mia passione culinaria, mi ha quindi proposto di passare all’alberghiera di Ossana e ho detto «dai proviamoci, che magari ‘sta passione diventa un lavoro!».
Avevi finalmente trovato la tua strada!
In realtà no. Sono partito facendo sia sala che cucina, ed ero indeciso: mi piaceva l’idea di cucinare ma mi mancava il contatto con le persone. Ho scelto di proseguire con cucina facendo tirocinio in alcuni ristoranti e i miei dubbi sono stati confermati: l’ambiente è molto rigido e bisogna essere rapidi, no te podi star lì a contarghela su. Quindi sono ritornato a scuola per prendere anche la qualifica di cameriere. Potevo così esprimermi al meglio e intrattenere i clienti facendo stupidate, ero però lontano dai miei amati fornelli.
Hai partecipato a La Prova del Cuoco per chiarirti le idee?
È una storia un po’ strana perché mi ha iscritto mia zia, a mia insaputa. Di colpo mi sono trovato al provino a Padova con una semplice crostata, ma si vede che ho saputo raccontargliela così bene che ho passato la selezione e sono finito in TV con la Clerici. Grazie a questa avventura ho capito la mia mission: unire la passione per la cucina con la mia indole “da comediante”.
E così ti sei rimboccato le maniche…
Esatto, con la quota vinta (inizialmente 30.000€ ma poi, tra tasse e balle varie, è scesa a 15.000) ho ristrutturato un vecchio locale vicino al garage per trasformarlo in una cucina professionale con tutto il necessario per registrare video. Mia mamma non poteva trovarsi ogni due giorni la “sua” cucina sotto sequestro per le mie riprese.
A quale target ti rivolgi?
Secondo le statistiche sono seguito principalmente da due fasce d’età: 18-24 e over 60. Mi piace pensare che la mia cucina sia un ponte tra generazioni.
Il tuo canale youtube, attivo ormai da tre anni, gode di una community molto vivace, ma è tutto rose e fiori?
Guarda, su internet si trova veramente di tutto. Dalle vecchiette che ti vorrebbero adottare fino a proposte di matrimonio da perfetti sconosciuti (sia donne che uomini), passando per le avances più trash: mi hanno pure chiesto di vendergli le mie mutande…
Be’, poteva diventare un bel business…
Non ci avevo pensato! Purtroppo ho trovato anche haters pronti ad insultarmi per il mio aspetto fisico e altre cattiverie gratuite. Ma a queste persone basta non dare corda e si sgonfiano da sole. Tutto sommato sono contento, i video vengono commentati da tanta bella gente che mi fa sentire benvoluto e apprezzato nei miei pregi e difetti. Mi arrivano perfino messaggi da italiani emigrati all’estero che attraverso le mie ricette riscoprono emozioni e sapori che credevano dimenticati.
Cucina italiana orgoglio nazionale. A proposito, per chi mette l’ananas sulla pizza: pena capitale o ergastolo?
Sono contrario alla pena di morte, ma qualche annetto di galera non glielo toglie nessuno…
Sui tuoi canali social traspare un rapporto dolce e genuino con tua nonna Lina, come le hai spiegato il tuo mestiere d’influencer?
G’ho ben spiegà ma no l’ha ancor capì. È un mondo talmente diverso da quello in cui è cresciuta che non è facile spiegarglielo. Ogni tanto la “sfrutto” per qualche comparsata nei video, fa la timida ma so che sotto sotto se la gode. Ma devo stare attento a non esagerare sennò la me manda en monega.
Il personaggio
Come hanno impattato sulle tue attività la pandemia e il lockdown?
È stato un periodo pesante, come per tutti. Per fortuna vivendo in montagna uscivo spesso a far due passi nel bosco attorno casa. Ho cercato di fare la mia parte per sollevare il morale ai followers proponendo ricette economiche e con ingredienti facilmente reperibili durante il lockdown, il tutto accompagnato da qualche gag comica. Mi scoccia, però aver dovuto rinunciare a molti miei eventi e show cooking, in cui il contatto con la gente è centrale, ma a breve conto di riprendere.
Per il futuro che cosa “bolle in pentola”?
Punto alla conduzione di programmi televisivi culinari ma con un format che mi permetta di esprimere la mia vena artistica: suono la chitarra e il violino, e nutro fin da bambino la passione per il canto. Non sai quanti spettacolini in mansarda si sono sorbiti i miei familiari…
Futuro giudice di Masterchef?
No, mi scarterebbero subito: son masa bon.
Potete trovare le ricette di Zambelli su: www.davidezambelli.com
Ieri avvenne
di Massimo Dalledonne
VIGILIO CECCATO
Un benefattore. Così lo definisce Antonio Zanetel nel suo volume “Dizionario biografico di uomini del Trentino Sud-Orientale”. Il cavaliere Vigilio Ceccato è scomparso esattamente un secolo fa. Era il 15 novembre del 1921, infatti, quando, all’età di 54 anni, moriva a Bordighera. Nato a Cinte Tesino, ancora giovane partì dal suo paese natale come commerciante ambulante, seguendo la via intrapresa da molti suoi convalligiani. Faceva il pertegante: così venivano chiamati, nella parlata tesina, i mercanti girovaghi. Era gente intraprendente e coraggiosa che, “pertica su pertica” batteva le strade portando sulle spalle, nella “casèla”, un carico d’arte, di religione e di piccole mondanità che venivano distribuite tra le folle d’Europa e del mondo. Un’attività iniziata verso il 1600 e che si sviluppò nella metà del 1700 quando l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, chiamata dalle popolazioni tesine e valsuganotta Teresona in senso di affettuoso rispetto, concesse ai girovaghi delle particolari prerogative. Come ricorda Zanetel “dotato di particolare intelligenza fece fortuna e mise in piedi a Mosca una ditta per il commercio di quadri, incisioni e oggetti d’arte che, tra l’altro, godeva il privilegio di servire la Casa Imperiale, oltre alla nobiltà russa”. Viglio Ceccato, però, più che per la sua attività commerciale viene ricordato per la sua grande bontà d’animo. Soprattutto per la preziosa opera di assistenza che profuse a favore dei soldati italiani (trentini e valsuganotti) che facevano parte dell’esercito austro-ungarico. A Mosca, infatti, ricopriva le cariche di console onorario d’Italia, presidente della Camera di Commercio e della Società Dante Aligheri. “Si sentiva legato all’Italia – si legge nel volume – che considerava la sua patria. E questo nonostante si fosse allontanato da Cinte e dalla conca del Tesino sin dalla giovane età”. Ecco come lo ricordava a suo tempo Pietro Carraro di Strigno, allora prigioniero e ricoverato in un ospedale per le ferite. Nelle sue memorie. “Ai prigionieri donava cibo, indumenti, vestiari e li visitava negli ospedali. Aveva un conforto per tutti e per molti di loro divenne come un padre affettuoso. Durante la mia permanenza a Mosca però un giorno fui anche confortato: all’insaputa nella camerata è comparso un signore, andava cercando trentini. Costui era un certo cavaliere Ceccato di Cinte Tesino. Il suo atto caritatevole fu ricordato da tutti i feriti trentini che si trovavano in quell’ospedale, perché a ciascuno ci ha regalato un rublo in argento”. Ancora Antonio Zanetel. “In questa azione altamente umanitaria e patriottica Vigilio Ceccato coinvolse altre famiglie oriunde del Tesino come i Fietta, gli Avanzo, i Tessaro ed i Broccato, Collaborò inoltre attivamente con la commissione che il governo italiano aveva inviato in Russia per trattare il rimpatrio degli irredenti. Dopo aver perduto, causa gli eventi rivoluzionari, tutta la sua sostanza, frutto di decenni e decenni di lavoro, tornò in patria nel 1918”. Vigilio Ceccato visse gli ultimi anni a Trento e morì, per motivi di salute, cento anni fa a Bordighera. Per ricordare la sua figura il comune di Cinte Tesino gli ha intitolato una via del paese.
Da sinistra Guido Larcher, G.B. Vigini e Vigilio Ceccato (foto Trentino Cultura)
Da sinistra Cavalier Vigilio Ceccato, Covi e il Maggiore Tonelli (foto Trentino Cultura)
Il Campione
di Alessandro Caldera
GIUSEPPE MEAZZA,
il “Balilla” a cui intitolarono uno stadio
Ogni città può essere identificata con un uomo che ha contribuito a renderla celebre o immortale nel tempo. Pensiamo a Leonardo che addirittura deve il suo cognome al borgo di provenienza, oppure a San Francesco d’Assisi, o per non allontanarci troppo dal nome appena citato, a Totti capace, a modo suo, di rivoluzionare la storiografia romana per ergersi ad ottavo re della Capitale. Il racconto di oggi ci porta a parlare di una delle mete più conosciute dai turisti che si accingono a visitare il nostro amato Paese: Milano. Una precisazione però va fatta: non parleremo della Milano del XXI secolo, nota per la sua modernità ed avanguardia, ma di quella dei primi anni del Novecento pura, ma intaccata ben presto dai due tragici conflitti mondiali. L’anno in questione è il 1910 e l’uomo in grado di stabilire un legame magico con il capoluogo lombardo si chiama Giuseppe, detto “Peppino”, Meazza. Nato e cresciuto nel popolare quartiere di “Porta Vittoria”, la prima a cadere in mano agli insorti durante le famose “Cinque Giornate”, il futuro centravanti azzurro rimase orfano di padre, perito nel 1917 in piena Grande Guerra, venendo pertanto accudito interamente dalla povera madre e vedova Ersilia. Il primo contatto con il mondo del calcio lo ebbe all’età di 6 anni, quando incontrò dei ragazzi, provenienti da aree limitrofe come ad esempio Porta Romana, ribattezzati successivamente i “Maestri Campionesi”, che giocavano con un pallone fatto di stracci. A 12 anni finalmente entrò a far parte di una squadra, il Gloria F.C., mentre sullo sfondo iniziò ad intravedersi l’anno 1924. Dal punto di vista della storia del nostro Paese, il momento in questione è quello nel quale l’Italia sperimentò, in prima persona, il modus operandi del Partito Fascista, sublimato e riassunto dal tragico “Delitto Matteotti”. Nel nostro racconto quella data chiave sancisce invece il primo incontro tra Meazza e l’Inter, un amore però basato su un clamoroso e paradossale retroscena. Prima dell’approdo nella compagine nerazzurra, Peppino fu infatti scartato dal Milan, a causa di una conformazione fisica troppo gracile che ingannò gli scout rossoneri e che li portò a compiere un imperdonabile errore, visto che poi l’attaccante di Porta Vittoria è ancora oggi tra i migliori realizzatori all-time della “Beneamata”. Per quanto concerne le abilità e le doti di Meazza, il primo ad avvedersene fu un certo Fulvio Bernardini, mediano interista della seconda decade novecentesca, che lo segnalò all’allenatore dell’epoca: Arpad Weisz. Il tecnico magiaro la cui fine sopraggiunse troppo presto, una mattina di gennaio ad Auschwitz per colpa della abominevole macchina nazista, su consiglio del già citato Bernardini lo aggregò giovanissimo alla prima squadra, fatto che portò il centravanti
Giuseppe Meazza (1935)
Il Campione
Leopoldo Conti a proferire la famosa frase: “Adesso facciamo giocare anche i Balilla?!” Oggi possiamo dire che sì, il Balilla, termine che si usava appunto per designare i ragazzini , poteva giocare eccome e questo lo capirono a loro spese le difese italiane che furono perforate una dopo l’altra dal giovane prodigio. A livello di militanza nel nostro campionato, Giuseppe si legò per 14 stagioni all’Inter, dove vinse 3 Scudetti e una Coppa Italia, traguardi raggiunti tutti prima del famoso “piede gelato”, ossia un’occlusione ai vasi sanguigni del piede sinistro, che ne limitò la carriera. Ecco perché la vita calcistica di Meazza a partire dal ’40 non è più rilevante; a 30 anni non ha più l’esplosività dei giorni migliori, gioca persino alla Juventus e al Milan, oltre che a Varese e all’Atalanta, senza però incidere mai, prima di fare ritorno nel 1946 dove tutto era iniziato. Il genio e l’estro di Peppino contribuirono a far uscire il calcio italiano da una dimensione provinciale. Sotto la gestione di Vittorio Pozzo, l’allenatore più vincente della storia Azzurra, l’Italia ottenne ben 2 mondiali e per la prima volta poté giocarsela alla pari con gli Inglesi, i maestri del gioco. Sul giocatore e sulla persona sono state scritte moltissime storie, quello che si dice è che non fosse schivo ed impacciato ma al contrario molto sicuro delle proprie potenzialità. Capello sempre pieno di brillantina, amore per il gioco, lauti stipendi e un’automobile sono questi alcuni dei tratti che lo avrebbero caratterizzato, al punto da renderlo un’icona per il tempo. Al di là delle possibili speculazioni quello che è certo è che, a quasi 69 anni, un carcinoma ha deciso di portarselo via anche se come disse Gianni Brera: “Lui stesso negli ultimi anni era assai poco convinto in cuor suo che quella vita meschina meritasse più di venire vissuta”. Oggi Giuseppe Meazza detto “Peppino” è però ancora tra i simboli di Milano, dal momento che lo stadio di San Siro dal 2 marzo 1980 porta il suo nome.
Giuseppe Meazza (da Storie del Calcio - Altervista)
Salute & Benessere
di Rolando Zambelli, titolare dell’Ottica Valsugana, è Ottico Optometrista e Contattologo
Corretto utilizzo delle lenti a contatto morbide
Le lenti a contatto (LaC), in base ai materiali con cui vengono prodotte, si possono suddividere in due categorie: lenti a contatto rigide gaspermeabili e lenti a contatto morbide. Le LaC morbide si dividono in due grandi famiglie a seconda dei materiali (polimeri) con cui vengono costruite, LaC in Idrogel e LaC in Silicone Idrogel. Si possono suddividere anche in base alla tipologia di porto: monouso o a ricambio frequente (settimanali, quindicinali, mensili, trimestrali, semestrali e annuali). È importante seguire le indicazioni che il contattologo in sede di applicazione spiega, il portatore deve attenersi a queste regole di igiene e manutenzione per ottenere il meglio dalle LaC usandole in modo efficace e sicuro.
Metodologia per un utilizzo efficace e sicuro delle LaC morbide
● Prima di applicare la LaC DEVI lavarti ed asciugarti accuratamente le mani ● NON usare l’acqua per pulire le LaC ● Per le LaC a ricambio frequente, dopo ogni utilizzo, pulisci (strofinando la lente con la soluzione unica consi-
gliata dal contattologo sul palmo della mano), disinfetta, risciacqua e conserva nella soluzione consigliata ● Le LaC monouso (o giornaliera) dopo ogni utilizzo
DEVONO essere gettate. ● Richiudere sempre il flacone della soluzione conservante ● Dopo ogni utilizzo il portalenti deve essere svuotato (non lasciare la soluzione e riutilizzarla), dev’essere pulito (NON con l’acqua, ma con la soluzione di manutenzione delle LaC) e poi asciugato. ● Il contenitore DEVE essere sostituito una volta al mese ● Utilizza le LaC per il tempo per cui sono indicate (una settimana, 15 giorni, un mese, . . . ) e per il tempo che il contattologo consiglia (es: solo qualche ora al giorno) ● Applica le LaC prima di truccarti e rimuovile prima di struccarti ● NON usare le LaC nel mare o in piscina (oppure indossa gli occhialini da nuoto e poi getta via le lenti) ● NON dormire con le LaC, a meno che non siano lenti apposite ● Le LaC e le soluzione di manutenzioni sono state scelte appositamente per te: non cambiare tipo senza aver prima consultato il tuo applicatore. ● In caso di fastidio, arrossamento o altri disturbi NON applicare le LaC, contatta immediatamente il tuo contattologo e/o rivolgiti al medico oculista. È importante che il portatore verifichi periodicamente con il contattologo che la soluzione di manutenzione e le lenti stesse continuino ad essere le più idonee, vanno quindi effettuate visite di controllo periodiche per evitare qualunque possibile complicanza.
Fonti: SOPTI (Società Optometrica Italiana), Assottica
Medicina & Salute
di Erica Zanghellini
Stai attenta
che poi prende il vizio
Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase. Tanti neo genitori o comunque genitori di bambini piccoli si saranno sentiti ripetere questa espressione, in più occasioni. Di solito quella principe è quando si ha in braccio il proprio figlio. Ma è proprio vera questa cosa? Veramente possiamo paragonare un atto d’amore, di coccola come questa, a un vizio? La scienza dice di no, si possono leggere svariati studi sul tema su come un adulto responsivo ai bisogni del minore nel breve ma, soprattutto nel lungo temine, sia promotore per lo sviluppo di una serie di capacità indispensabili per il benessere personale. Uno su tutti, la teoria dell’attaccamento di Bowlby, ma possiamo anche leggere qualche studio più recente di etnopediatria per esempio. Comunque il fulcro di queste ricerche sta proprio ad indicare che ci sarebbero molti benefici per il bambino a essere preso in braccio, coccolato o comunque in generale tenuto a stretto contato con la propria figura di riferimento, che di solito è la madre ma, non esclude che in alcuni casi questo ruolo possa essere ricoperto da un’altra figura di accudimento. Perché questo? Perché il bisogno di contatto è un bisogno primario, innato e che non abbiamo solo noi essere umani (lo possiamo infatti trovare, anche nel mondo animale). Si riscontra in tutti i bimbi del mondo, al di là dell’origine o della cultura, insomma possiamo escludere che sia un’abitudine appresa. E soprattutto sappiate che può influenzare anche il successivo sviluppo del bambino. Un bimbo che sente di aver a disposizione un adulto emotivamente connesso e che risponde ai suoi bisogni più intimi ed emotivi sarà un bambino che costruirà una rappresentazione di sé come un essere umano degno di fiducia e di amore degli altri. Al contrario un bambino a cui non verrà data risposta ai suoi bisogni di contatto e/o rassicurazione sarà un minore che crescerà con l’idea di non essere meritevole di attenzione e d’amore. Anche perché quando
Medicina & Salute
un bambino piange o manifesta la necessità di avere una vicinanza col proprio cargiver di riferimento è in un momento dove si è attivato un bisogno, un malessere. Spesso e volentieri alla base della paura di viziarlo c’è la convinzione che per favorire lo sviluppo dell’indipendenza del bambino sia opportuno un precoce distacco del genitore. Ma non è così, non c’è nessuna evidenza scientifica che confermi che bambini cresciuti ad alto contatto creino danni o ritardi al bambino, anzi dobbiamo ricordarci che lo sviluppo dell’indipendenza di un figlio parte proprio da un legame che naturalmente e fisiologicamente è di dipendenza dall’adulto. Il contatto è un bisogno primario pari al necessità di nutrirsi.Solo nel momento in cui il bambino ha sviluppato una relazione sicura/amorevole può andare a scoprire il mondo e quindi affrontare i primi distacchi o mettersi in gioco con i primi atti di indipendenza. Quello che ho scritto non vuol dire che dobbiamo avere sempre e comunque il bambino in braccio, o entrare in crisi quando in quel momento non è possibile rispondere repentinamente al suo bisogno. Come ogni cosa la verità sta nel mezzo, ovvero essere sufficientemente responsivi al bisogno di accudimento del bambino e nel momento in cui leggiamo nel suo comportamento disagio, aiutarlo e sostenerlo emotivamente quando possibile. Questo è un passaggio fondamentale ma, anche molto complicato, soprattutto per le mamme, che spesso sono le figure di riferimento del bambino per due motivi principali: * il primo perché se non sono stata io una bambina supportata, ascol-
tata è difficile rimanere in contatto con i bisogni del proprio figlio; * due perché sicuramente i ritmi della nostra società non aiutano. Ritmi troppo serrati, aspettative irrealistiche e giornate che comunque durano ventiquattro ore. Le mamme o chi si occupa principalmente dell’accudimento dei bambini, spesso e volentieri si devono districare tra mille compiti giornalieri e non è semplice assolvere tutto. Sarebbe bello che l’intera società mettesse in discussione il tutto e capire quanto di questo sia pregiudizio culturale e quali invece, sono e saranno sempre i bisogni delle generazioni future che dovrebbero avere la priorità su tutto.
Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Tel- 3884828675
L’avvocato risponde
di Erica Vicentini *
HO PRESTATO MA NON SONO STATO PAGATO
Un lettore ci pone un quesito molto interessante, che riepilogo come segue. Dopo aver dato in prestito ad un amico una somma di denaro considerevole (euro 6.000,00) alla presenza della moglie (immagino di lui), il debitore purtroppo è deceduto. Alla richiesta del nostro lettore-creditore di vedersi restituita la somma di denaro prestata al decuius, la moglie ormai vedova ha risposto che non riconosceva il prestito al marito perché aveva utilizzato i soldi per scopi personali: quindi faceva capire la volontà di non restituirli.
Quante volte capita a tutti, nella vita quotidiana, di aiutare, del tutto in buona fede, un amico economicamente in difficoltà. Nel caso di specie, purtroppo, è intervenuto un fatto imprevedibile e grave che ha reso complessa una situazione che potrebbe sembrare a prima vista lineare e quasi ovvia. La vicenda, infatti, tocca questioni giuridiche molto diverse fra loro, che si intersecano e rendono la risposta articolata: si è di fronte ad un contratto verbale, stipulato in presenza solo di un testimone, fra un soggetto deceduto debitore e il creditore che intende richiedere l’adempimento. Partiamo da una premessa obbligatoria: nel nostro ordinamento, è sempre difficile il recupero di una somma di denaro data ad altri a titolo di prestito (senza interessi) o mutuo: la strada è lunga e passa da un accertamento giudiziale per poi arrivare all’esecuzione coattiva con il precetto ed il pignoramento. Ciò ovviamente se la restituzione non avviene in via bonaria, ossia per volontà del debitore, con pagamento spontaneo. Ritengo che, dal punto di vista della esistenza e validità del contratto, i dati che il lettore ci fornisce risultino sufficienti per ritenere che non vi siano ostacoli: il contratto, infatti, è stato stipulato in forma orale (immagino con la vecchia “stretta di mano”) che è del tutto sufficiente e valida per un contratto di questo tipo (artt. 1325 ss c.c.): si è creato quindi un vincolo fra le parti che contempla reciproci diritti e doveri. In più, ci viene pare che al momento della stipulazione del contratto era presente una testimone: questo elemento è sicuramente importante anche se la testimonianza non è un mezzo di prova “forte” come può esserlo un contratto scritto e firmato. È fisiologico che il creditore chieda oggi l’adempimento a coloro che ritiene eredi anche se, da quanto ci viene esposto, non sappiamo se, al momento della stipula del contratto, sia stata pattuita una certa scadenza o termine dopo il quale fosse esigibile il pagamento. Nel caso di debitore deceduto, di regola i debiti che aveva contratto in vita confluiscono nel c.d. asse ereditario e, quindi, ricadono sugli eredi che accettano l’eredità. Poco importa qual è stato il motivo del debito o delle spese sostenute dalla persona
L’avvocato risponde
deceduta: di regola, sulle figura dell’erede confluiscono tutte le posizioni soggettive (attive ma anche passive) che erano in capo al decuius. Uno dei problemi che si pone, quindi, è verificare il primo luogo se la moglie e gli altri chiamati all’eredità abbiano accettato o meno di diventare eredi (artt. 459, 470 ss c.c.). Esistono vari modi di acquisto dell’eredità: espressa, tacita, semplice o con beneficio di inventario. Laddove la moglie (o altri chiamati all’eredità) accettino di diventare eredi a tutti gli effetti, non vedo ostacoli a che il nostro lettore (e creditore) richieda l’adempimento del contratto di prestito stipulato in via orale dal decuius. Vero è, però, che l’adempimento potrebbe non essere spontaneo. In tal caso, è necessario l’intervento di un avvocato che, di regola, dapprima diffida il debitore a pagare in maniera spontanea: ciò a mezzo di una c.d. lettera monitoria. Laddove il debitore non paghi, sarà necessario instaurare un giudizio civile in Tribunale per accertare la sussistenza del credito e vedere condannati i debitori-eredi alla restituzione della somma. Solo in tal modo, infatti, sarà possibile avere un titolo per poter poi andare a recuperare coattivamente (ad esempio con un pignoramento) la somma dovuta: non esistendo un contratto scritto, l’accertamento del Giudice sarà in primo luogo volto a verificare l’esistenza dell’accordo fra le parti (anche a mezzo di testimoni) nonché la dazione effettiva della somma di denaro. Ottenuto il titolo, ovvero la sentenza di condanna, il nostro lettore-creditore potrà recuperare coattivamente la somma dagli eredi che hanno accettato l’eredità. Ovviamente, solo un’analisi completa di tutti i documenti e di tutte le circostanze rilevanti può permettere un parere esaustivo e una valutazione sulla necessità o meno di una causa.
*Avvocato Erica Vicentini, del Foro di Trento, Studio legale in Pergine Valsugana, Via Francesco Petrarca n. 84)
Chi desiderasse avere un parere su un problema o tematica giuridica oppure una risposta su un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com
Conosciamo la legge
di Erica Vicentini *
LA RINEGOZIAZIONE DEL MUTUO
Negli ultimi anni spesso si sono registrate situazioni di precarietà economica tali da rendere difficoltoso il pagamento persino delle rate del mutuo di casa. Mutui, magari, contratti anni fa a tassi e piani di ammortamento più alti di quanto oggi potrebbe riscontrarsi ma dettati dalle condizioni del mercato immobiliare di allora e da condizioni economiche-reddituali spesso differenti: il riferimento corre, ad esempio, alle situazioni di perdita del lavoro o altri imprevisti che hanno condotto a dover scegliere se pagare il mutuo di casa o sbarcare il lunario. Ovviamente anche per gli Istituti di credito l’esposizione di passività rilevanti non è una situazione facile da gestire: anche se non sempre il Cliente trova la porta aperta per parlare di rinegoziazione del mutuo. Per questo, si sono susseguiti a livello normativo vari tentativi volti a incentivare questi tavoli di confronto fra Cliente (consumatore) e Banca mutuante. L’ultimo interessante strumento è stato previsto dall’art. 40 ter legge 60 del 2021, che ha tentato di introdurre un’ipotesi vincolata di Rinegoziazione del mutuo a vantaggio del Cliente-consumatore. Va detto, però, che i requisiti previsti dalla norma sono particolarmente stringenti, soprattutto con riferimento all’anticipo che viene richiesto al Cliente debitore per poter accedere alla rinegoziazione. Le condizioni prevedono, in primo luogo, che il Cliente debba rivestire la qualifica di consumatore (e non essere, quindi, imprenditore o altro) e il creditore sia una banca, una società che ha acquistato crediti incagliati un intermediario finanziario autorizzato, garantito da ipoteca di primo grado su un immobile adibito ad abitazione principale. A ciò si aggiungono i requisiti di tipo economico, che sono certamente delicati: il debitore deve aver già rimborsato almeno il 5% della quota capitale e non solo della quota dovuta a titolo di interessi, su un credito complessivo di massimo euro 250.000,00 e deve offrire un importo specifico, pari al prezzo base dell’asta ridotto del 25% o, se l’immobile è stimato ma non si è ancora tenuta la prima asta, il prezzo di stima, oppure ancora nel caso in cui il debito residuo sia inferiore al valore dell’immobile anche con la riduzione del 25% va offerto l’intero importo del debito residuo comprensivo di spese di pignoramento e di interessi L’istanza così redatta può essere presentata solo una volta entro il 31 dicembre 2022 e deve essere già pendente procedura di pignoramento immobiliare. Al ricorrere di queste condizioni si crea quello che possiamo considerare un diritto del soggetto cliente-consumatore di sedersi al tavolo con la Banca per rinegoziare il mutuo, facendo valere le contingenti condizioni economiche per riquantificare conseguentemente la rata di ammortamento. Spetta poi al creditore verificare il merito creditizio, nel senso soprattutto di verificare l’affidabilità del cliente debitore in rapporto a eventuali ulteriori posizioni di debito pendenti.
*Avvocato Erica Vicentini, del Foro di Trento, Studio legale in Pergine Valsugana, Via Francesco Petrarca n. 84)
Chi desiderasse avere un parere su un problema o tematica giuridica oppure una risposta su un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com
L’ ultimo carador di Borgo Valsugana
di Massimo Dalledonne
GIORGIO DIVINA
Iboschi ed i sentieri della Valsugana, soprattutto quelli della Bassa, Giorgio Divina li conosce bene. A mena dito, come si dice da queste parti. Per 37 anni, da quando aveva raggiunto la maggiore età, infatti, ha fatto il “carador”. In italiano si può tradurre in carrettiere. Andava nei boschi a recuperare la legna, sia per i privati che per le aziende. Ci andava a piedi, tutti i sacrosanti giorni che Dio ha mandato sulla terra. Dal 1959 al 1996. Per ben 37 anni. “La mia era una famiglia di contadini – ci racconta – e ricordo che anche mio padre voleva seguissi le sue orme. Ma io avevo altro in testa e appena ne ho avuto la possibilità ho preso un cavallo ed ho iniziato a fare il carador”. Classe 1941, nato e residente a Borgo, Giorgio Divina ha iniziato la sua attività nel 1959. Un lavoro duro, pieno di sacrifici. Nei boschi ed in montagna si andava con il carro trainato dal cavallo. Dal lunedì al sabato. La domenica si riposava. Come erano le sue giornate? “Da casa si partiva alle 6 di mattina – ci racconta – ma la sveglia suonava due ore prima. Bisogna strigliare e dare da mangiare al cavallo. In media si lavorava 8-10 ore al giorno”. Ma cosa faceva el carador? “Il nostro compito era quello di trasportare il legname, come si dice in paese “le bore”, dal cantiere di lavoro, da dove venivano tagliate fino alla strada. Poi venivano i trattori per trasportarle a valle”. Per i primi anni Giorgio lavorava tanto con i privati, poi, con il passare del tempo sono arrivate le richieste delle aziende della zona. “Quando ho iniziato a lavorare, in paese ricordo che facevano questo mestiere anche Pio Divina e Rino Rizzon. Per un periodo ho lavorato insieme a Giorgio Micheli di Scurelle”. Un mestiere, quello del carador, fatto di sudore (tanto) e fatica. Giorgio Divina l’ha fatto, ininterrottamente, per 37 anni, Fino al 1996. Gli ultimi anni li ha fatti come manovale, per una impresa edile del paese. Poi è andato in pensione. Da 15 anni fa il marito e, soprattutto, il nonno a tempo pieno. Ma i ricordi di una intera vita trascorsa nei boschi della Valsugana e del Trentino, quelli non se vanno via. In casa ancora tante foto, molte in bianco e nero, che lo ritraggono al lavoro. Sia negli album che sulle pareti in salotto. Non
L’ ultimo carador di Borgo Valsugana
solo nei boschi della sua amata Val di Sella ma anche in Calamento, Suerta, Porchera, Musiera. “Ho lavorato per diverso tempo in altre vallate trentine, così come a Pinzolo e nel Veneto. Si partiva il lunedì mattina e si tornava il sabato pomeriggio”. Quanta fatica! “E’ vero, ma soprattutto negli ultimi anni si faceva più fatica a recuperare i soldi che a lavorare…. I tempi sono cambiati, così le persone. Una volta una stretta di mano aveva un preciso significato! Poi tutto è cambiato”. Quando era lontano da casa, Giorgio passava la notte nelle casere di montagna, nelle malghe e nelle stalle presenti sul territorio. In 37 anni di lavoro ha avuto tre cavalli. Tutti razza norica. “Il primo che ho avuto è stato Sauro, è rimasto con me una decina di anni. Poi è arrivato Moro con cui ho lavorato per tanti anni, è stato davvero un amico fedele ed una spalla insostituibile nei boschi. L’ultimo si chiamava Bajo, l’ho tenuto fino a quando ho chiuso l’attività”. Il cavallo era una preziosa risorsa per i “caradori”. Indispensabili. Tra uomo e animale c’era una grande sintonia. Lavoravano all’unisono. “Ricordo che nei primi anni di attività, quando si doveva portare a valle del legname da cantieri in alta quota, usavamo anche le teleferiche. Per farle funzionare si usava la forza del cavallo e, ogni tanto, c’era anche qualche ancoraggio che si rompeva”. Si lavorava con i privati e con le ditte della Valsugana. “In tutti questi anni ricordo con piacere i diversi carichi di legname fatti per conto della ditta Sartori di Borgo, la Remo Girardelli di Scurelle, Francesco Debortoli di Ronchi e Giovanni Pecoraro di Telve”. Di avventure, nei boschi, Giorgio ne ha passate tante. Una però è rimasta impressa nella mente. “Mi trovavo in località Canaia, sopra Borgo. Dovevo tirare della legna a valle e, una volta completato il carico del carro, ho attaccato il cavallo preparandomi per la partenza. Ricordo che mi sono distratto per pochi secondi e, quando mi sono girato, cavallo e carro (legname compreso) erano spariti”. Cosa era successo? A proposito di simbiosi tra uomo e animale, il cavallo era talmente abituato ai ritmi del suo padrone che, una volta legato, era partito da solo, Verso casa. Ed è lì che, dopo una corsa disperata, il suo padrone, sudato e spaventato, lo ha trovato. Giorgio Divina, l’ultimo “carador” di Borgo Valsugana. Sono trascorsi 25 anni dal suo ultimo viaggio. Con Bajo ed il suo carro. Una intera vita nei boschi della Valsugana e del Trentino. Una ultima domanda prima di salutarci. Ma anche ai suoi tempi c’era la malattia del bostrico? “Sì. Ricordo che in primavera il legname, come si diceva, andava in amore e con el manaroto (l’ascia in italiano) si staccava la corteccia. Le ditte, infatti, volevano il legname lavorato così. In questo modo il bostrico, come si dice, non trovava tanto pane per i suoi denti, a differenza di come avviene oggi. E le ramaglie che restavano a terra la portavamo tutte via. Nel bosco restava ben poco. E, soprattutto, il bosco, ieri, era sicuramente più pulito!”.
Storie di casa nostra
di Massimo Dalledonne
PIETRO SAMONATO
Così si legge nel volume “Bieno – La nostalgia di uno sguardo perduto” di Katiuscia Broccato. Una storia, quella di Pietro Samonato, che merita davvero di essere raccontata. “Le donne hanno pur diritto a una parte nella storia dei perteganti – si legge - storia che fu di uomini ma con la certezza, la stabilità, la continuità riposta nel mondo femminile. Le donne avevano il compito di provvedere alle necessità materiali della vita quotidiana durante l’assenza dei mariti”. Lavori nei campi, la cura del bestiame, preparare i cibi, filare, tessere, cucire... e allevare i figli. Queste erano le vicende di molte donne, soprattutto di quelle che si erano sposate con un pertegante. Alcuni di loro si sono fatti strada e posizione in paesi lontani, partiti senza un soldo in tasca e ritornati con patrimonio, esperienza e carisma. Altri, meno intraprendenti o fortunati, hanno comunque mantenuto dignitosamente le loro famiglie e hanno sempre tenuto il contatto con le radici natie e vivo il desiderio di ritornarci. “Uno di questi era Pietro Samonato, figlio di povera famiglia che si dette al commercio di stampe per conto dei Remondini di Bassano. Come tale si trovò a esercitare in piazza Navona a Roma e a essere inconsapevolmente coinvolto in uno spiacevole affare che gli procurò qualche mese di prigione”. La sua vicenda è raccontata da Mariano Avanzo nella rivista della Provincia autonoma di Trento “Il Trentino” del giugno 2000. E riportata nel volume di Katiuscia Broccato. “Nel 1766 Giovanni Battista Remondini fece eseguire una stampa del Giudizio Universale. Tale immagine era la copia di una precedente edita a Parigi che, a sua volta, era la copia di un’altra fatta eseguire dai Francescani e dedicata al cardinale Annigoni. Poiché la stampa era destinata prevalentemente al mercato spagnolo, l’incisore cui venne affidato l’incarico ritenne opportuno sostituire lo stemma del cardinale con quello di Carlo III senza preoccuparsi del fatto che lo stemma fosse accanto ad un gruppo di diavoli che sembravano agitarsi per prenderlo”. Tirata in quattromila copie e spedita in tutta
Europa essa venne diffusa senza alcun problema fino a quando, nel maggio del 1772, giunse al Remondini questa lettera: “Quelli Tesini che vendono stampe vicino a Piaza Navona sono carcerati perché hanno esposto una stampa del Giudizio Universale, nella quale vi è l’arma del re di Spagna dalla parte dei demoni vicino all’inferno, essi hano deposto che l’hano avute dai Remondini”. Come si legge ancora nel volume “Bieno – La nostalgia di uno sguardo perduto” di Katiuscia Broccato “l’equivoco, dunque, era stato quello di credere che la stampa fosse una satira dei Gesuiti contro quel Re che allora li maltrattava. Proprio in quegli anni, infatti, i sovrani borbonici erano entrati in lotta aperta contro l’invadenza della Compagnia di Gesù e, dal momento che i Gesuiti erano diffusi ovunque, si pensò che essi avessero in qualche modo “manovrato” - visti anche i loro ottimi rapporti con i Remondini - la creazione dell’immagine del Giudizio universale. Ne seguì una diatriba che coinvolse Venezia, il papato e la Spagna e che rischiò di incrinarne i rapporti e le relazioni commerciali. Difatti le autorità spagnole avevano minacciato una sorta di blocco mercantile e la risonanza internazionale della questione atterriva un po’ tutti per la sproporzione tra l’effettiva entità del motivo e l’imprevedibilità delle implicazioni. Solo dopo alcuni processi fu dimostrato che la stampa era stata realizzata ad esclusivo scopo di lucro e venne dimostrata anche la buona fede del Remondini il quale, dopo aver manifestato l’intenzione di ritirarsi in convento per attendere pacificamente la morte, si era poi spento in Tesino dove si era rifugiato”. Ma chi era il commerciante che aveva esposto e venduto l’immagine incriminata? Era Pietro Samonato di Bieno, titolare di un negozio di stampe in piazza Navona che, pur se ignaro di tutte le motivazioni che stavano alla base del suo arresto, fu condotto in carcere in catene dalle guardie del papa dopo che gli ambasciatori degli stati borbonici, Francia, Spagna e Regno di Napoli, avevano inviato una protesta ufficiale a Clemente XIV. Scrivono al proposito documenti conservati nell’Archivio Remondini al Museo civico di Bassano del Grappa: “Fatale giorno fu quello del dì 21 Aprile del corrente anno 1772 nel cui memorabil giorno seguì in Roma la carcerazione dell’onestissimo uomo Pietro Samonato Tirolese, del quale essendo seguito l’arresto da Birri fù egli subito da questi condotto alla di loro Guardiola, ivi strettamente custodito con catena al piede senza che nessuno potesse parlargli ne accostarsi come se fosse stato Reo di Morte”. Sei mesi furono necessari a Pietro Samonato per essere scarcerato. Sei mesi passati a scrivere lettere e memoriali a quanti potevano essere, a sua conoscenza, in grado di toglierlo da quell’impiccio; sei mesi nei quali egli venne nominato “mastro di casa delle Carceri” con compiti di sorveglianza, oltre che sul vitto anche sulla moralità di tutti i carcerati. “Persona fiera –si legge ancora nel volume “Bieno – La nostalgia di uno sguardo perduto” di Katiuscia Broccato - il Samonato non si accontentò dello scampato pericolo tanto che, al momento della scarcerazione, presentò ai Remondini una pesante nota delle spese e perdite per recuperare i guadagni del periodo di forzata inattività”.
Storie di casa nostra
Pietro Samonato e le stampe proibite
Che tempo che fa
di Giampaolo Rizzonelli *
CHI, COME E DOVE RIEMPIE GLI OCEANI DI PLASTICA?
In questo numero non parlerò di clima o meteorologia ma di un argomento che mi sta particolarmente a cuore, ovvero quello dell’inquinamento da plastica negli oceani. A tal riguardo il sito www.ourworldindat.org ha presentato a maggio 2021 un report redatto da Hannah Ritchie i cui dati mi hanno stupito e fatto capire che quello che stiamo facendo noi in Italia e in Trentino non è altro che una goccia nell’oceano, tanto per stare in tema di mare. La maggior parte della plastica negli oceani proviene da fonti terrestri: dal 70% all’80% è plastica che viene trasportata dalla terra al mare attraverso i fiumi o le coste, il restante 20%-30% proviene da fonti marine come reti da pesca, lenze, corde e navi abbandonate. Se vogliamo contrastare l’inquinamento da plastica, dobbiamo impedire che entri nell’oceano dai nostri fiumi. Il problema è che abbiamo centinaia di migliaia di foci fluviali attraverso le quali la plastica raggiunge gli oceani. Per dare priorità agli sforzi di mitigazione dobbiamo capire quali di questi fiumi trasportano la plastica al mare e quali contribuiscono maggiormente. Il report esamina la distribuzione della plastica nei fiumi del mondo; perché alcuni fiumi trasportano molta plastica mentre altri ne hanno pochissima? Quali paesi rappresentano la quota maggiore di inquinamento da plastica? Studi precedenti suggerivano che la maggior parte della plastica provenisse solo da alcuni dei fiumi del mondo. L’ultima ricerca, appena pubblicata su Science Advances ha rivoluzionato questo approccio, Lourens Meijer ha sviluppato modelli a risoluzione più elevata da cui si è scoperto che i fiumi hanno immesso negli oceani circa 1 milione di tonnellate di plastica nel 2015 (con un’incertezza che va da 0,8 a 2,7 milioni di tonnellate). Circa un terzo delle 100.000 foci fluviali prese a campione hanno trasportato plastica in mare, mentre gli altri due terzi non immettevano quasi plastica nell’oceano, ma, soprattutto, l’ultima ricerca suggerisce che i fiumi più piccoli svolgono un ruolo molto più importante di quanto si pensasse in passato (si veda Fig. 1). Nel grafico di figura n. 1 vediamo quali sono i dieci maggiori “fiumi contributori”, con la relativa percentuale rispetto al globale. Sette dei primi dieci sono nelle Filippine, due sono in India e uno in Malesia. L’inquinamento da plastica è dominante laddove le pratiche locali di gestione dei rifiuti sono carenti. Ciò rende chiaro che migliorare la gestione dei rifiuti è essenziale. In secondo luogo, i più grandi fiumi che trasportano plastica tendono ad avere città nelle vicinanze. Città come Giacarta in Indonesia e Manila nelle Filippine sono drenate da fiumi relativamente piccoli, ma sono responsabili di una quota consistente delle immissioni di plastica. Peraltro i bacini fluviali hanno alti tassi di precipitazioni, il che significa che la plastica viene riversata nei fiumi e la portata dei fiumi verso l’oceano è alta. Gli autori illustrano l’importanza del clima, del terreno del bacino e dei fattori di prossimità con un esempio. Il bacino del fiume Ciliwung a Giava è 275 volte più piccolo del bacino del fiume Reno in Europa, genera il 75% in meno di rifiuti di plastica, tuttavia immette 100 volte più plastica nell’oceano ogni anno (da 200 a 300
Fig. 1 - Principali fiumi che immettono plastica in mare (% sul globale)
Che tempo che fa
tonnellate rispetto a solo 3/5 tonnellate). Il Ciliwung immette molta più plastica nell’oceano, nonostante sia molto più piccolo perché i rifiuti del bacino vengono generati molto vicino al fiume, il che significa che la plastica entra in primo luogo nella rete fluviale, per poi finire nel vicino oceano. Inoltre, piove molto di più, il che significa che i rifiuti di plastica sono più facilmente trasportabili rispetto al bacino del Reno. Passiamo quindi ad analizzare l’immissione globale per continenti i cui dati sono davvero impressionanti (si veda Fig. 2). Nel grafico vediamo la ripartizione delle immissioni di plastica globali nell’oceano per regione. L’81% della plastica oceanica viene immessa dall’Asia che ospita il 60% della popolazione mondiale. L’Africa è responsabile dell’8%; Sud America per il 5,5%; Nord America per il 4,5% e l’Europa e l’Oceania insieme meno dell’1%. Le Filippine rappresentano più di un terzo (36%) delle immissioni di plastica, non sorprende dato che ospita sette dei primi dieci fiumi. Questo perché le Filippine sono costituite da tante piccole isole dove la maggioranza della popolazione vive vicino alla costa. Ma è un importante aggiornamento sulla nostra precedente comprensione dove si pensava che Cina e India dominassero. L’India rappresenta il 13% e la Cina il 7%. Le persone spesso trovano sorprendente questa distribuzione globale. Dal momento che i consumatori nei paesi ricchi tendono a usare molta più plastica, le persone si aspettano di contribuire molto di più all’inquinamento da plastica di quanto non facciano effettivamente. E non si tratta solo della popolazione: anche su base pro capite, i paesi ricchi contribuiscono con pochissima plastica all’oceano. I paesi europei, ad esempio, immettono meno di 0,1 chilogrammi di plastica a persona. Questo rispetto a 3,5 kg nelle Filippine o 2,4 kg in Malesia. I paesi ricchi producono molti più rifiuti di plastica pro capite rispetto ai paesi più poveri. La maggior parte produce da 0,2 a 0,5 kg per persona al giorno, rispetto a 0,01 in India o a 0,07 kg nelle Filippine. Anche quando moltiplichiamo per la popolazione i paesi ricchi generano molto. Il Regno Unito, ad esempio, genera il doppio dei rifiuti di plastica rispetto alle Filippine. Quello che poi il report mette in evidenza è come vengono gestiti questi rifiuti, i paesi a reddito medio basso tendono ad avere scarse infrastrutture di gestione, con i rifiuti che possono essere scaricati al di fuori delle discariche e quindi più facilmente possono raggiungere i fiumi e finire quindi in mare. Il report quindi pone l’accento su cosa si può fare per migliorare questa situazione, i paesi ricchi possono sostenere i paesi a reddito medio-basso nel miglioramento delle infrastrutture di gestione dei rifiuti e vietare l’esportazione di qualsiasi plastica in altri paesi in cui potrebbe essere gestita male. Per fermare l’inquinamento da plastica nei nostri oceani abbiamo bisogno di un approccio globale per ridurre i rifiuti e gestirli in modo appropriato per impedirne la dispersione nell’ambiente naturale.
Fig. 2 - Plastica immessa negli oceani suddivisa per continente
* Giampaolo Rizzonelli è appassionato di meteorologia e climatologia
Novaledo in cronaca
di Mario Pacher
IL TORRENTE ROGGIA
Sono molte ed interessanti le pagine di storia che descrivono grandi opere in Valsugana realizzate soprattutto per salvaguardare il patrimonio e che nel contempo portare, con il lavoro, sostegno all’economia vita. Negli archivi abbiamo trovato dei documenti autentici riguardanti fra li altri, i lavori attorno al Torrente Roggia per difendere molte case e campi dalle inondazioni e dalle piene di quel Rio. Lavori questi che sarebbero stati eseguiti in due riprese: prima con il “Consorzio Torrente Roggia Sponda Destra” nato nel 1.846 e successivamente con il progetto del “Consorzio Torrente Roggia Sponda Sinistra”, il cui atto costitutivo porta la data di approvazione del 9 marzo del 1871. E’ quindi facilmente intuibile come anche il Torrente Roggia di Novaledo, che dallo stato di abbandono è stato una decina di anni fa parzialmente recuperato a cura del Servizio Ambientale della Provincia, costituì un tempo un’importante bacino di difesa dalle abbondanti acque piovane che minacciavano sia le campagne adiacenti che le abitazioni. Negli atti si trova scritto anche che per poter eseguire questi lavori si dovette logicamente occupare il suolo di privati e procedere a diversi espropri creando grande malcontento e proteste dei proprietari per possibili sperequazioni nella quantificazione degli indennizzi. Proprio a questo proposito nel fascicolo storico abbiamo trovato un ricorso manoscritto datato 20 gennaio 1907 indirizzato all’Inclito (illustre) Imperial Capitanato Distrettuale di Borgo in cui si nota una particolare sottomissione del cittadino verso le istituzioni, e che per questo usa modi oggi ritenuti di esagerata soggezione, come “al riverente ufficio” e, al momento della firma, “umilissimo e devotissimo servo”. Molte definizioni poi contenute nel ricorso, non fanno più parte del nostro parlare quotidiano, mentre, come lo si riscontra spesso anche in altri scritti, i nomi di famiglia dei nonni rispuntano quasi di regola attraverso le generazioni. Durante la Grande Guerra le opere furono gravemente danneggiate per colpa anche dell’esercito che, spinto dalla necessità di procurarsi acqua potabile, creò delle aperture sulle tubature in legno dell’acquedotto comunale poste all’interno del torrente, lasciando poi scorrere l’acqua lungo i versanti. Nell’alveo del torrente Roggia i tedeschi inoltre avevano costruito degli sbarramenti e trincee per impedire l’avanzata dell’esercito italiano. Un’azione militare questa che si rivelò determinante. Verso gli anni ’30 vennero rinforzati e in parte rifatti gli argini sul conoide perché il Torrente Roggia, in presenza di abbondanti piogge, possa ritornare ad essere ancora una garanzia sia per le abitazioni che per la campagne circostanti.