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A parere mio: prima l’italiano
A parere mio
PRIMA L’ITALIANO?
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«Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani» affermava il conte di Cavour fin dai primi istanti di vita dell’impresa dei Mille. Non c’è dubbio, infatti, che la lingua faccia parte dell’identità di un popolo e sia un forte collante di unità nazionale. Lo sapeva bene anche Hitler con la sua utopia della “grande Germania” che nel corso del Novecento insanguinò l’Europa per tentare di cucire in un’unica “Heimat” le popolazioni teutoniche e dominare tutte le altre. Ma del potere unificatore della lingua comune era convinto, con ben altri scopi, anche Alberto Manzi, il celebre maestro che nei primi anni 60 impartiva lezioni via etere nel programma Rai “Non è mai troppo tardi”.
Non era sicuramente troppo tardi per le milioni di persone che in età avanzata tentavano, grazie a questa DAD ante litteram, di imparare quella che da poco più un secolo si fregiava del titolo di lingua nazionale. Oggi ci troviamo davanti a un vero e proprio analfabetismo di ritorno, soprattutto tra le giovani generazioni (anche i cinquantenni in rete non scherzano) che tra un “se io avrei” e un anglicismo all’ultimo grido, causano infarti quotidiani a centinaia di insegnanti di lettere, categoria ormai sottoposta all’egida del WWF come specie a rischio. Resisterà dunque la lingua di Dante e di Manzoni all’assalto della modernità e all’invasione dei vocaboli “british style”? Sapremo mantenere la nostra identità o siamo condannati a essere travolti dalla globalizzazione fino a diventare una colonia al servizio di Sua Maestà? Tutti gli opinionisti del Belpaese sono concordi, chi con entusiasmo e chi con ostracismo, sul fatto che stiamo subendo una vera e propria invasione di vocaboli ed espressioni anglofone nel nostro parlato quotidiano. C’è chi è preso dai propri “meeting” lavorativi e chi, al contrario, passa le giornate nel “relax” più totale. Senza nemmeno accorgercene stiamo subendo delle di Francesco Zadra
Dante Elighieri
Alberto Manzi
trasfusioni lessicali che rischiano di far cadere in disuso, pardon “far diventare out”, espressioni secolari della nostra lingua. Ma qual è la soluzione? Dobbiamo accogliere nelle nostre conversazioni qualsivoglia parola straniera per sentirci “cittadini del mondo”? O ci dobbiamo trincerare dietro a pile di “Zingarelli” al grido di “prima l’Italiano”? L’invasione d’oltremanica non è l’unica minaccia cui è esposto il nostro idioma: oggigiorno ci si “tagga” nelle foto di gruppo, si dispensano “like” a destra e manca e i manager dei più importanti tour operator si confrontano sul livello di “instagrammabilità” di una destinazione turistica. Insomma: sembra che l’italiano non sia immune nemmeno a quella che Manfred Spitzer, nel suo famoso saggio, definisce senza mezzi termini “demenza digitale”. Si parla sempre più spesso di “Italia” ma sarebbe più corretto parlare di “Italie” in quanto nella nostra penisola, forgiata nel corso dei secoli da contrade, rioni, città-stato, campanili e repubbliche marinare, esiste una piccola Italia a sè stante in ciascuna provincia. È quindi naturale che siano nati centinaia di dialetti, proverbi e accenti che hanno dato poi frutto
a quella che viene considerata la più musicale e ricca delle lingue. Basta infatti valicare l’antica frontiera austro-ungarica che il trentinissimo “bolognino” assume un’aura mistica e viene canonizzato in “sanpietrino”. Non c’è poi da stupirsi dell’alto grado d’ignoranza diffusa tra i nostri connazionali quando abbiamo più di cinquanta diverse espressioni per dire che abbiamo “bigiato” o “marinato” la scuola. Coincidenze? Io non credo. Il dialetto dovrebbe essere considerato una ricchezza poichè senza di esso non avremmo l’Italiano. Eppure frotte di pedagoghi e blogger improvvisati insistono nel ritenerlo una minaccia per il corretto apprendimento della lingua in tenera età, se non addirittura uno stigma di ignoranza e provincialismo. Mi permetto di dissentire! Per quanto poco o nulla possa valere, a fini statistici, la mia esperienza personale vuole che abbia appreso i rudimenti della lingua tricolore solo dopo i quattro anni di vita, grazie a una “full immersion” (a proposito di inglesizzazione...) dovuta alla scuola materna. Prima di allora il dialetto era il mio pane quotidiano e non mi pare che ciò mi abbia svantaggiato a livello linguistico. Anzi, la realtà dei fatti ci mostra come l’apprendimento
A parere mio
del dialetto possa contribuire alla creazione di sinapsi nei bambini, nonché sia un potente strumento di integrazione nelle nostre comunità. Come dimenticare il video, divenuto virale, dell’ambulante magrebino che, sotto gli sguardi attoniti e divertiti dei passanti, declamava panegirici in lingua trevigiana circa la qualità della sua merce? Per cui, a mio parere, gli illustri filologi da tastiera, laureati all’università della vita, possono benissimo, per usare un’espressione tanto cara alla gente trentina, “nar a farse onzer”. Insomma, che ci piaccia o no, la “lingua pura” non esiste e le influenze straniere ci sono sempre state: pensiamo alle nonne valsuganotte che ordinano un “plateau” di mele al mercato o ai contadini mocheni che “müss per forza” ogni mattina si alzano per arare i campi. Per questo trovo ridicolo vagliare col setaccio ogni espressione che non abbia il “pedigree”. Sono sicuro che, se sapremo valorizzare la nostra cultura e tenerci stretti i nostri “fatidici vati”, potremo assumere vocaboli d’oltre confine a piccole dosi senza che questi avvelenino le nostre conversazioni (Mitridate docet) e soprattutto senza che ci sia bisogno di andare con gli amici a una “dinner” o, peggio, a vedere un “filmo”.