Strategie di relazione con l'utente psichiatrico

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Ilaria Zeppi

Strategie di relazione con l’utente psichiatrico

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Prima Edizione: 2018 ISBN 9788899566098 © 2018 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 (2 linee r.a.) Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Maggio 2018 in Italia da UniversalBook srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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Ai miei ragazzi, che ho amato e che mi hanno amato piĂš di chiunque altro.

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Introduzione

Introduzione Cap. 1 - La reindividuazione del sé: restituire la qualificazione 1. Il senso di unicità per l’integrazione del Sé 1.1 L’esercizio improduttivo del controllo 1.2 Il rispetto dell’autodeterminazione 2. La presa in carico attraverso la dimensione affettivo-emotiva 2.1 Le caratteristiche della buona relazione nel contesto psichiatrico 2.2 Le differenti tipologie di operatori 3. Codice materno e codice paterno: il compito genitoriale del lavoro d’équipe 3.1 Eziopatogenesi della schizofrenia e dinamica familiare 3.2 La differenziazione dei due codici ed il lavoro genitoriale d’équipe 4. La compliance: l’affidamento vs la complicità utilitaristica Cap. 2 - Il superamento dell’ambivalenza 1. L’informazione all’utente e l’indefinitezza del percorso riabilitativo: il “segreto” operativo da smascherare

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2. Congruità di parole e comportamenti: abolire i doppi messaggi degli operatori 2.1 L’illusione dell’approccio teorico integrato 2.2 La mancata fiducia nell’operato del singolo 2.3 L’espressione comunicativa duplice degli operatori 3. Il disagio generato dalla forzatura alla responsabilità e all’adeguatezza 4. Il mondo interno dell’operatore: l’accessibilità all’utente delle emozioni dell’educatore Cap. 3 - Interiorizzare la tolleranza alla frustrazione 1. La sopportazione dei no e l’accettazione del riadattamento 2. La disciplina e il limite: comunicare e condividere la regola per il proprio benessere 3. L’eccezione alla regola: la modalità operativa soggettivata al caso 4. Il rispetto degli spazi fisici e relazionali 5. Aspettative di un rapporto alla pari e generazionalità utente-operatore 6. La relazione terapeutica come fattore protettivo al burnout: risonanza emozionale e rischi per l’operatore 7. La formazione al lavoro con l’utente-persona Cap. 4 - L’espressione del delirio quale outsight della motivazione individuale 1. Caratteristiche e definizione del delirio quale difesa per il soggetto 2. L’associazione tra temi motivazionali e temi deliranti 8 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata

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3. Il delirio quale espressione motivazionale del soggetto 3.1 Espressioni deliranti derivate dall’interesse al valore personale 3.2 Espressioni deliranti derivate dall’interesse alla potenza 3.3 Espressioni deliranti derivate dall’interesse all’affiliazione 3.4 Espressioni deliranti derivate dall’interesse alla felicità 3.5 Espressioni deliranti derivate dall’interesse all’identità 4. Prevenzione e gestione dell’acting-out nel rispetto della motivazione individuale Cap. 5 - La dinamica relazionale interna come riproduzione della dinamica familiare 1. Le dinamiche familiari patogene e la psicosi 2. Prospettiva per l’evitamento del gioco psicotico rivale/alleato 3. Interiorizzazione e integrazione degli oggetti buoni/ cattivi: il lavoro sulla relazione 4. Il sabotaggio del sistema familiare al percorso riabilitativo Cap. 6 - Il lavoro sulle emozioni ed il superamento della disintegrazione 1. L’esperienza traumatica psicotica: una frattura esistenziale 2. Il ruolo della spiritualità nel trattamento. Una visione umanistico-esistenziale

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2.1 Pratica spirituale e remissione dei sintomi 2.2 Interazione tra coping spirituale e sintomi psicotici positivi 2.3 La resistenza del modello psichiatrico tradizionale alle pratiche spirituali 2.4 Assessment ed intervento spirituale in psichiatria 3. La psicoeducazione sull’ansia e sul disagio: il so-stare nel dolore 4. La trasmissione dell’improduttività della rassicurazione 5. L’abbandono della strumentalizzazione del farmaco 6. L’opportunità insita nella perdita e la promozione della fiducia negli eventi 7. La CBT integrata alla spiritualità

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Conclusioni

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Bibliografia

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Introduzione

Non è necessario che tu mi ascolti, non è importante che tu senta le mie parole, no, non è importante. Sono io che entro nel tuo silenzio. Josif Brodskij, Verso il mare della dimenticanza Nella mentalità comune il lavoro che viene espletato all’interno del contesto psichiatrico è per lo più raffigurato con il ricorso a fantasie ed immagini che richiamano pratiche di contenimento opprimenti, una somministrazione coatta, doverosa, puntuale ed irreversibile dei farmaci, un assistenzialismo pragmatico e silenzioso realizzato al cospetto di un letto e in una camera scarna. Si immagina che la disciplina venga applicata in maniera muta e attraverso scambi relazionali conditi di timore, tutela personale ed accostamento sbigottito di un mondo interno altrui incomprensibile. La società generalmente condivide il preconcetto che la malattia mentale costituisca una minaccia e che le percezioni ed i comportamenti di un malato mentale debbano destare allarme. Il lavoro di riabilitazione viene pertanto concepito dai più come basato su una mera assunzione protratta di psicofarmaci, come un arduo tentativo di restituzione del paziente alla normalità del sentire e del percepire la realtà e come una rettifica progressiva di un comportamento di devianza e disadattamento sociale che 11 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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non permetterebbe altrimenti al soggetto di vivere integrato. Per l’addetto ai lavori il quadro si presenta in maniera nettamente diversa. L’operatore psichiatrico sa che il grosso della riabilitazione si realizza proprio a partire dalle prime battute di scambio relazionale con l’ospite della struttura, ovvero dal suo primo ingresso in comunità. Solitamente l’utente psichiatrico è già reso avvezzo alle dinamiche connesse alla somministrazione del farmaco, sia che egli l’intenda come una protezione dal proprio mondo depressivo o delirante, sia che egli se la rappresenti come una coartazione obbligata del proprio mondo espressivo e della propria creatività comportamentale. Per lo più egli non pone resistenza al farmaco, tanto più oggi che le conoscenze sui principi attivi di ciò che assume sono estraibili da internet o da altre fonti informative di largo consumo. Anche l’adattamento obbligato ad un nuovo ambiente fisicamente inteso come quello della struttura psichiatrica sembra essere una variabile tenuta in scarsa considerazione dall’utente. La più importante resistenza posta all’ingresso in una struttura riguarda piuttosto il mondo interpersonale che vi vige dentro. Il paziente psichiatrico si mostra estremamente sensibile alle relazioni che si muovono dentro la struttura, ai volti e alle modalità di approccio interpersonale che scorge tra gli operatori e tra operatori ed ospiti. Egli mostra da subito di intuire la natura affettiva, le prerogative e la sensibilità specifica di ciascun educatore e – pur restando in osservazione – appare specializzato nell’individuare i soggetti a cui rivolgersi per certi suoi bisogni piuttosto che altri. Lo sguardo dell’utente e la critica rivolta alla struttura per scegliere se restare oppure no, sembra muovere proprio dalla rilevazione che vi sia rispetto per la propria moti12 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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vazione essenziale (si tratti di integrità personale, di espressione della propria potenza, di affiliazione o del riconoscimento del proprio valore) e dall’attenzione a che non vi si rintraccino potenziali elementi di denigrazione, svilimento del Sé e vincolo coatto alle possibilità di espressione della propria particolarità. L’occhio vigile dell’ospite è specificatamente orientato ad inquadrare chi l’accoglierà. Ecco perché sorridiamo dell’ingenuità della rete dei servizi quando si crede di convincere un utente all’accettazione di un percorso riabilitativo con la promessa di lauti pranzi o di attività gradite che più si confanno ai suoi interessi. Il mondo che interessa all’ospite psichiatrico riguarda prettamente quello delle persone, di un’esperienza familiare in grado di sostenere quella che egli spesso definisce a se stesso una “convalescenza”. E -si sa- quando si deve guarire da un dolore dell’anima, la miglior soluzione è individuare un posto dove si possa intuire di poter essere finalmente amati e dove ci si possa sentire speciali…un senso di specialità che solo raramente il paziente psichiatrico ha potuto sperimentare prima. Lavorare in una struttura psichiatrica è un’opportunità di riabilitazione e di reintegrazione per l’utente, tanto quanto di esperienza umana per l’operatore: la familiarità indotta dal vivere insieme quotidiano, l’avvicinamento della sofferenza, il contatto con un’alterità diversa che ordinariamente spaventa, sono occasioni per maturare una sensibilità inconsueta e l’apprezzamento di valori esistenziali fin troppo deprezzati in relazione all’interesse odierno ad affermarsi, a godere, a superare il limite, senza o contro l’esistenza dell’Altro (M. Recalcati, 2013). In questo volume esploriamo le caratteristiche della relazione tra operatore ed utente psichiatrico che con più probabilità si associano alla riuscita del trattamento riabilitativo, osservando 13 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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come determinate risorse umane ed interne alla struttura siano essenziali per restituire qualificazione all’utente, per applicare la disciplina e il giusto confine relazionale con lo stesso e per trasmettere regole ed obiettivi che siano resi comprensibili ed integrati nella prospettiva più ampia del proprio benessere. Osserviamo ad esempio come occorra prestare una particolare attenzione all’esercizio del controllo, alla possibilità di apportare impropriamente castrazione, etichettamenti, giudizi, regolamentazione estrema nel processo di riabilitazione di soggetti che da troppi anni sono vittime di disconferme, squalifiche, denigrazioni e doppi messaggi. Mostriamo piuttosto come sia opportuno e proficuo saper mantenere la lealtà, l’apertura, aggirare la mistificazione ed il nascondimento, superare l’indefinitezza del percorso riabilitativo. Secondariamente introduciamo un’originale interpretazione dell’espressione delirante ed allucinatoria del paziente di tipo cognitivo-causale, ponendola a confronto con le tradizionali interpretazioni psicodinamica, sistemica e cognitivista. In relazione ad un’ottica sistemica di presa in carico della famiglia, osserviamo come sia frequente la riedizione all’interno della struttura psichiatrica di mosse relazionali e giochi familiari noti attivati dall’utente e proponiamo alcune soluzioni di tipo relazionale per spezzare quelle stesse dinamiche disfunzionali. In ultimo, documentiamo la funzionalità della trasmissione di principi psicoeducativi sulla realtà e sull’ordine di intendimento dell’esistenza e degli eventi, riconoscendo la valenza attribuita dalla letteratura americana ed inglese alla spiritualità quale componente utile in fase di assessment e nel trattamento del paziente psichiatrico. Qui, dimostriamo la possibilità di restituire significato all’evenienza traumatica della psicosi nel contesto di una più ampia narrazione di Sé e di una più matura interpretazione dei propri 14 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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eventi di vita. Riconoscendo infine il bisogno del paziente di recuperare una connessione con l’umanità più ampia e con una dimensione universale che trascende dalla sua storia ma che ha le potenzialità per infondergli speranza nel futuro, suggeriamo modalità operative che possono essere utilizzate a sostegno dell’anima dell’individuo sofferente e della ricostruzione di un senso integro del Sé.

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La Reindividuazione del Sé: restituire la qualificazione

“...la follia è emblema e sigillo di fragilità, di fragilità estrema, ma insieme di solitudine, di solitudine amorosa, che anela alla luce di una parola amica, e di uno sguardo silenzioso; ma la follia è anche la sorella sfortunata della poesia...” E.Borgna, nr. 290/2015 di Animazione Sociale, pp. 3-15

1. Il senso di unicità per l’integrazione del Sé Il soggetto che accede al servizio psichiatrico si fa portatore di una frammentazione profonda esperita tra il Sé e la realtà esterna. Nel corso della sua storia personale egli è stato il più delle volte vittima di maltrattamenti, fisici e verbali, abusi, minacce alla propria integrità, disconferma e squalifica nette perpetrate per tutto lo sviluppo ontogenetico, da parte delle figure di attaccamento e dalle figure relazionali incontrate successivamente. Il non essere stato in grado di soddisfare le aspettative del contesto di appartenenza sia per quello che attiene al funzionamento sociale che al mantenimento di ruoli, ha contribuito al sentimento di alienazione e al comportamento di ritiro rela-

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zionale che lo caratterizzano. Egli adduce pertanto un senso di profondo malintendimento del Sé da parte dell’ambiente ed un concetto della propria persona ricco di attributi negativi, che richiamano il fallimento, l’inadeguatezza, la non amabilità, e che giustificano a se stesso il significativo respingimento dall’altro relazionale sperimentato negli anni. Si parla di disintegrazione, quando si argomenta in merito alla condizione psicotica, facendo riferimento alla profonda disconnessione di aspetti permeanti del Sé: sentimenti, valori, identità, rapporto con la realtà, con il proprio corpo e con gli altri, spinta alla realizzazione. Una persona integra non è scissa né dal proprio mondo interno né dall’ambiente, né tantomeno dagli scopi che lo riguardano e che danno significato alla sua esistenza; una persona integra si avvale della reciprocità e della condivisione con gli altri per ricavarne piacevolezza e supporto. Per lo più invece il paziente psichiatrico porta ancora con Sé quella “paura senza sbocco” e quello sbigottimento di cui parla Liotti riferendosi all’emozionalità del bimbo dinanzi al volto ostile/maltrattante della madre avviluppata in lutti irrisolti: con la stessa impotenza percepita del bimbo che versa in una condizione di dipendenza obbligata dalla madre disturbata e si frammenta negli stati rappresentativi del Sé, il soggetto psicotico non riesce a realizzare una connessione tra quanto gli è occorso e la propria responsabilità nel far sì che ciò avvenisse. Egli vive nell’incomunicabilità dei significati e nell’alienazione, condizione che riguarda tanto il rapporto con i propri sentimenti (di cui si perde l’accessibilità o da cui ci si sente minacciati) quanto il rapporto con gli altri, investiti di paure, ansia, controllo, cinismo. Chi si è originariamente preso cura dell’ospite, gli ha instillato dentro oggetti permanenti negativi che fanno riferimento al suo essere fuori luogo, stupido, invalido, brutto, vulnerabile, di18 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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pendente, malato, destinato a fallire: oggetti -questi- che hanno trovato conferma nelle relazioni successive, anche ad opera dei comportamenti disadattivi di difesa messi in atto dall’individuo. Il soggetto psicotico è disconnesso da se stesso e dagli altri, non entra in intimità con l’altro o lo fa in maniera strana e incongrua, ha perso il proprio funzionamento sociale e il contatto con i propri significati esistenziali. Egli teme il contatto emotivo e fisico, ha imparato a distanziarsi per sopravvivere o per far fronte ad emozioni intense e distruttive (P. Carozza, 2006). Come Liotti (2008) suggerisce, il paziente psichiatrico si caratterizza per modelli rappresentativi interni di Sé e dell’altro frammentati, molteplici e scarsamente gestibili, che restituiscono senso di imprevedibilità e di terrore nello scambio relazionale con l’altro. Il primo bisogno del paziente psicotico che accede alla struttura comunitaria è pertanto quello di riacquisire una totalità ed integrazione rappresentativa del sé, attraverso l’esperienza di una coerenza cognitiva, emotiva e comportamentale introdotta dall’operatore che quotidianamente si relaziona con lui. Il tentativo della restituzione di un senso a quanto occorso è demandato all’operatore. È auspicabile che i pensieri cui l’operatore dà voce convergano per ciascun paziente sempre in una stessa direzione e verso una specifica finalità migliorativa del suo stesso sé. Le emozioni espresse dall’operatore -pur essendo talora caratterizzate da un eccesso di intensità- dovrebbero essere sorrette da una stabile fiducia nella persona che è l’utente. I comportamenti che lo caratterizzano nell’interazione dovrebbero essere fondati su un’idea stabile dell’individuo-paziente e spiegati in virtù della sua dimensione esperenziale specifica. Solo così l’ospite potrà avere l’opportunità di derivarne un senso di unicità riconosciuta 19 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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del proprio stesso sé, e muovere i primi passi per l’emissione di comportamenti e pensieri coerenti con quella identità veicolata stabilmente dall’esterno e sentita integralmente dentro di sé. Successivamente, l’ospite avrà la possibilità di riqualificare il proprio stesso Sé scoprendo limiti e potenzialità fino ad allora inespressi, specie di tipo relazionale. Il rimando di caratteristiche di originalità e di fattezze particolari del Sé da parte dell’operatore costituisce un feedback importante che l’ospite potrà accogliere o respingere, mentre imparerà ad esplorare ed asserire pezzi della propria verità d’essere nello scambio interazionale quotidiano. Lo spazio strutturato delle attività e la temporalità scandita della vita in comunità sono particolarmente consoni perché – in questo processo di ricostruzione e riscoperta del Sé – il paziente si senta rassicurato da sequenze interattive che si ripetono ogni giorno e rispetto alle quali egli possa acquisire sempre maggiore familiarità e governo progressivo delle idee e delle azioni. Certo è che l’équipe ha il compito di svolgere un lavoro coerente ed ininterrottamente sostenuto dalla visione complessiva di ciascun utente: la modalità operativa non può essere casuale né di volta in volta gestita come ci si relazionasse con parti dell’altro che possono sostenere alternativamente ironia, commenti impropri, suggerimenti spiccioli e mal direzionati, frammenti di conversazione superficiali. Il ritmo veloce e dispersivo delle interazioni e della definizione delle attività talora espone a questa possibilità di errore, al dimenticare cioè che davanti a Sé si ha una persona strutturalmente giovane e poco definita, che manca ancora di un senso integro del Sé e per la quale un’interazione non propriamente amorevole o eccessivamente critica può costituire un ulteriore tassello di frustrazione e di rimando del proprio senso di indegnità. 20 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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L’operatore non può e non deve consentirsi l’espressione di intolleranze personali al mondo interno dell’utente, per quanto esso possa determinarsi come ridondante, stancante, richiedente, ed indipendentemente dal fatto che la sua espressione si risolva in un sintomo scarsamente gestibile, in una condotta comportamentale poco arginabile, in un pensiero reiteratamente addotto nel dialogo o in uno stato umorale poco sostenibile. Negli anni di esperienza psichiatrica capita di assistere all’operato di educatori che sbuffano al solo sentir ripetere certi contenuti (che pur riconducono a tematiche importanti e vissute con intensità dal soggetto), che incitano troppo precocemente all’iniziativa pazienti timorosi dell’esposizione con modalità brusche, implicanti la fisicità, che rimandano all’ospite la propria inadeguatezza nel vestirsi o nell’addobbarsi, che lo deprezzano per la conduzione troppo vuota della propria giornata, o che lo denigrano più o meno velatamente per l’incapacità di superare blocchi dell’espressione verbale. Il mondo interno dell’utente produce pressoché immediatamente una risonanza emozionale spiccata nell’operatore, che si traduce -quando non ragionata od oggetto di una supervisione- in un’altrettanto immediata scelta operativa dannosa per l’ospite. Non va mai dimenticato che una relazione buona con l’ospite di una struttura si incrina e perde in affidabilità pesantemente conquistata attraverso i giorni, non appena l’operatore si permette di scivolare in atteggiamenti e modalità non pensate per quell’ospite e a rischio di desedimentare la stessa integrazione del Sé che si sta faticosamente costruendo. La legittimazione con cui l’operatore talora si autorizza a rimandare all’ospite l’irritazione emotiva che gli produce, non solo non ha valenza terapeutica, ma ripropone al cospetto dell’ospite una reazione che ben troppe volte avrà sperimentato entro 21 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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il sistema familiare o sociale in cui era inserito, e che di certo non ha che confermato il suo essere inadeguato e non amabile. Per definizione, il soggetto psicotico difetta delle abilità comunicative usuali: non corrisponde nella reciprocità dello sguardo, è lento nel gestire l’alternanza dei turni, manca dei segni e delle espressioni convenzionali di assenso o di introduzione di una conversazione. Sovente, egli mostra un cattivo governo del confine, sia quando debba rispettare la distanza interpersonale con l’altro, sia quando debba contenersi in relazione ad una comunicazione diadica già avviata: la probabilità che si interponga nello spazio altrui in maniera inopportuna o che invada lo spazio dell’interlocutore è alta almeno quanto la possibilità che – sollecitato- resti impassibile o chiuso nel più totale ritiro. Il compito dell’operatore non è quello di osteggiare da subito la modalità di espressione tipica del soggetto ed indurre un’acquisizione improvvisamente diversa: l’ospite non va bambineggiato, se si avverte che il suo Sé è stato pesantemente dequalificato e svalorizzato, né precocemente adultizzato, se la sua espressione infantile è servita a tutelarlo da ben più profondi drammi. Mentre presterà attenzione a non qualificarsi lui stesso come soggetto denigrante, l’operatore non dovrà neppure dipingersi come assistente pronto e solerte, sempre disponibile a sostituirsi all’ospite nell’espletare i compiti quotidiani. In primo luogo l’intervento necessitato ed urgente da parte dell’operatore potrebbe risuonare all’utente come l’espressione di una volontà di distanziamento dalla relazione. In secondo luogo, la dimostrazione di un’operosità in eccesso rimanda ad un senso di sacrificio e di disciplina interna del Sé che il soggetto deve più probabilmente maturare, e rispetto al quale può avvertirsi come profondamente lontano.

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È facile osservare come sia più semplice per l’operatore sostituirsi all’ospite nel rigovernare la sua stanza, nel cucinare, nel sistemare la tavola, nel suggerirgli lui per primo parole ed intendimenti della realtà apparentemente scontati che invece non sono ancora comprensibili o maturi nell’ospite per essere sufficientemente assimilati ed interiorizzati. Il lavoro di acquisizione di una solidità del Sé richiede il passare attraverso il tempo vuoto di ore improduttive, la pesantezza del fare, la frustrazione del bisogno non immediatamente soddisfatto, il ricorso al confronto dialogico, il prodursi reale dell’esperienza ed il fronteggiamento autonomo di piccole situazioni difficili per derivarne successo ed autoefficacia. L’ospite ha l’importante esigenza di imparare che non tutti gli stress esperiti si risolvono in un senso di fallimento o inadeguatezza generalizzati o in una catastrofe che perdura nel tempo. E questa conquista può essere realizzata solo se, mentre egli fa, l’operatore resta al suo cospetto, non fa al suo posto. È facilmente comprensibile infatti che – se esiste sempre qualcuno che fa per lui e che preferisce fare al suo posto per guadagnarne in precisione o risparmiarne in tempo – oltre al vantaggio derivatone per l’ospite in termini di deresponsabilizzazione e sottrazione spicciola della propria persona, il costrutto che ne deriva è “io non vengo ritenuto mai abbastanza abile per essere ingaggiato personalmente”. Gli operatori muovono inevitabilmente emozioni: nello scambio relazionale con l’ospite sono soggetti in ogni istante alla riproduzione disfunzionale di cliché interattivi che hanno prodotto sofferenza e che hanno minato nell’utente il senso di fiducia nel proprio Sé. Ma il loro obiettivo deve rimanere quello di sottrarre il paziente al caos interiore, ripristinare sicurezza nelle relazioni, conferire senso a quanto occorso, maturare l’in-

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tegrazione di aspetti buoni e cattivi del Sé e dell’altro. 1.1. L’esercizio improduttivo del controllo Affinché il paziente possa concedersi entro la struttura di maturare un senso di unicità del Sé protetto e via via più solido, la prima attenzione dell’operatore crediamo debba essere rivolta all’esercizio talora arbitrario del controllo. Il controllo può essere esercitato in relazione alle risorse del soggetto (specie quelle economiche), alle sue possibilità esperenziali, ai suoi contatti con la famiglia, all’espressione delle sue istanze istintuali, ai suoi stessi interessi prioritari. Può capitare che l’operatore finisca con l’intendere che il controllo vada applicato a prescindere, su un personaggio -quale si caratterizza talora l’utente psichiatrico- privo di limiti, disordinato, senza una dimensione, inabile a scegliere con il proprio stesso giudizio, a rischio di ulteriori fallimenti, esposto all’errore. Il problema in questo caso è innanzitutto nella mente pregiudizievole ed iperprudente dell’operatore e nella conseguenza relazionale profondamente svantaggiosa che si produce. È vero infatti che se si impedisce all’ospite di gestire le proprie risorse economiche come gli aggrada, con più probabilità si eviteranno le conseguenze spiacevoli del dispendio economico e dell’abbuffata o dell’acquisto compulsivo fuori dalla struttura; come pure è vero che limitare l’intervallo temporale in cui può interagire a casa con i suoi familiari riduce la probabilità che sopraggiungano le dinamiche disfunzionali che maggiormente hanno messo in crisi il soggetto. Ma d’altro canto è pur vero che con un eccesso di limite applicato si veicolano al soggetto nell’ordine: • l’etichetta di disadattato inabile a sperimentare e/o ad as24 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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sumersi responsabilità; • la volontà di castrazione della sua essenza particolare (“ignoro i tuoi desideri e ti rimando in ogni caso alla regola costrittiva e restrittiva, al di là della soggettività del tuo caso”); • la necessità di una regolamentazione esterna data la considerazione dei suoi sistemi di controllo interni come non validi. Julie E. Hall (2004) esplora in uno studio qualitativo come la variabile del controllo influenzi le norme relazionali che regolano il lavoro degli infermieri impegnati in setting psichiatrici d’urgenza. Ella descrive come il controllo costituisca un elemento determinante dell’attività infermieristica in psichiatria, quasi un rituale quotidiano ove si esprimono la sorveglianza vigile e la gestione dei comportamenti “difficili”, quelli giudicati come inaccettabili o indesiderabili. Frequentemente invero viene espressa nel sentire comune l’associazione tra malattia mentale, pericolosità e devianza (Coppock e Hopton, 2000; Morrall,1999; Sayce, 2000) e l’intervento psichiatrico in urgenza spesso viene relato alla doverosità del controllo. L’alto focus della letteratura sulla valutazione del rischio sociale e psicopatologico, sulla necessità della vigilanza, della restrizione, della forza e del contenimento corrobora tale prospettiva (Breeze e Repper, 1998). Da sempre infermieri e psichiatri sono stati criticati dal movimento antipsichiatrico per le regole associate al controllo che hanno caratterizzato la loro professionalità. A dispetto delle posizioni più recenti che abbracciano un approccio umanistico, l’esperienza dei servizi psichiatrici è ancora caratterizzata da bisogni insoddisfatti, dall’assenza di una presa in carico individualizzata e dalla mancanza percepita 25 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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di potere dell’équipe sulla decisionalità dell’intervento, demandata interamente al medico competente (Baker S., 2000). Esisterebbe inoltre una bassa evidenza dell’importanza riconosciuta alla relazione ed alla responsabilità di autodeterminazione del paziente (Repper, 2000). Nello studio qualitativo di Anthony e Crawford (2000) gli infermieri intervistati esprimevano l’accordo che gli utenti dovessero essere coinvolti nel progetto di cura e che l’espressione dei loro bisogni dovesse essere centrale nella definizione dello stesso; tuttavia, i fattori che sembravano non favorire tale coinvolgimento erano rintracciati nella mancanza di tempo, negli atteggiamenti negativi del personale, nell’ambiente caotico, nella mancanza di motivazione del paziente e nel suo stato mentale impoverito. Dall’analisi delle interviste semistrutturate somministrate da J.E.Hall, emerge come gli operatori sociali del reparto psichiatrico d’urgenza riconoscono la necessità che il reparto si costituisca come luogo sicuro di trattamento, in grado di ridurre al minimo il sentimento di disgregazione e la stigmatizzazione e di favorire un reinserimento del paziente quanto più veloce. Tuttavia l’esperienza del ricovero nel reparto è riportata in termini ambivalenti: da una parte si respirerebbe un’atmosfera amichevole, di affaccendamento, di risate e scherzi, priva di aggressività espressa, dove regole e confini sono rispettati e l’utenza si sentirebbe riconosciuta; dall’altra risulterebbe espressa un’atmosfera di tensione e di oppressione, generata dalla sorveglianza degli accessi al fine di prevenire la fuga dal reparto, con la possibilità che si producano urla, pianti ed elevate manifestazioni emotive. Molte descrizioni relate al focus riconosciuto della professionalità degli operatori sembrano centrarsi sulla sorveglianza ed il controllo: restrizione della libertà, prevenzione del danno a Sé o agli altri, contenimento comportamentale. Piuttosto che 26 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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coinvolgersi e comunicare con il paziente, viene riferito che il sorvegliare la porta e l’assicurarsi di sapere dove si trova il paziente è divenuto una consuetudine e garantisce un’apparente tutela: la vigilanza finisce così con l’essere depersonalizzata e dominata dalla distanza interpersonale, oltre che inefficace a gestire il rischio. Eppure, tutti gli operatori concordano sul fatto che sia possibile coinvolgersi nella relazione terapeutica con i pazienti, considerata cruciale per aiutarli a sentirsi sicuri, compresi e supportati, e il coinvolgimento relazionale viene ritenuto determinante per derivarne un feedback positivo sulla propria preparazione alla cura e all’ascolto. Gli infermieri riferiscono come lo spendere più tempo nella relazione diadica con i pazienti sia funzionale a facilitare il problem solving e a far loro sviluppare strategie di fronteggiamento. Certo è che se l’interpretazione della società è quella per cui la malattia mentale rappresenta devianza, coloro che ne vengono etichettati sono facilmente privati del diritto all’autodeterminazione. Anche la pratica degli operatori sociali finisce con l’essere influenzata dalla relazione individuata tra malattia mentale e pericolosità, tanto più quando nei servizi la responsabilità di valutare il rischio e di prevenire il danno è demandata agli stessi operatori. Il sistema dei servizi di salute mentale assume che gli operatori debbano avere buon senso e saper esercitare una sapiente valutazione delle condizioni che si vanno a determinare. Higgins e al. (1999) trovano che un eccesso di restrizione e di contenimento dei pazienti costituisca talora un meccanismo reattivo da parte degli operatori sociali ai tanti incidenti sfortunati pubblicizzati in campo psichiatrico ed alla critica pubblica espressa in relazione al loro operato, cosicché gli operatori reagirebbero maggiormente alle pressioni esterne piuttosto che esercitare la loro autonomia professionale. Osserveremo più 27 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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avanti tra l’altro come la percezione di una mancata autonomia decisionale inerente l’esercizio della propria professione sia la variabile maggiormente associata al rischio di burnout per gli operatori. Nello studio di J.E.Hall si evidenzia altresì come gli infermieri facciano riferimento alla pratica della sedazione e del contenimento con poca emozionalità, come se rispondere all’aggressività sia divenuto automatico, un fatto routinario accettato. Breeze e Repper (1998) suggeriscono che gli operatori potrebbero accogliere le difficoltà espresse dal paziente come una minaccia al loro potere e al loro controllo, tanto più quando essi dovessero avvertire l’impressione di uno scarso potere decisionale nel disporre le proprie pratiche di lavoro. Potrebbe essere questa la ragione per cui essi finirebbero con l’avvalersi impropriamente del modello di intervento improntato all’esercizio del controllo e del modello sociologico della devianza. In effetti, quando il paziente psicotico reiteri più volte l’impossibilità di gestire la frustrazione del proprio bisogno, divenendo provocatorio, tacciando l’operatore di scarsa professionalità o recriminandogli la volontà di perseguire i propri interessi, è facile che l’operatore si irriti ed esacerbi il controllo. Seppur egli stia producendo un effetto disfunzionale a livello educativo e relazionale, l’operatore resterà più probabilmente fermo sull’opportunità di mantenere il punto convincendosi che sia per il bene del paziente. Ecco allora come diventi frequente che -dopo anni di disconferma esperiti e di tentativi della famiglia di ricondurre il soggetto ad una limitazione forzata del Sé che riduca la probabilità di reincorrere nello scompenso e nell’esacerbazione sintomatologica- l’applicazione del controllo rappresenti per l’utente la

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riproduzione della squalifica del Sé e la restituzione di una profonda mancata fiducia nella sua persona. Chiariremo più tardi cosa intendiamo quando sottolineiamo l’importanza di evitare la direttività, l’imposizione, l’impressione di abuso di potere e di inappropriatezza della regola applicata tout-court. Il paziente psichiatrico non equivale né per vissuto né per modalità al soggetto invischiato nelle dipendenze: egli non trae giovamento da una strutturazione estrema e da una regola imposta con durezza ed intransigenza, giacché il problema di fondo non consta nella debolezza dell’Io che cede alle lusinghe di una sostanza, ai sobillamenti relazionali o alle possibilità manipolative offerte dall’ambiente, volendo conservare una confusività dei confini. Il paziente psichiatrico se ne differenzia proprio per il bisogno di chiarezza del proprio mondo interno e per la trasparenza espressa: egli non manipola, non è generalmente malizioso, non pensa ad utilizzare l’ambiente relazionale in maniera utilitaristica, ed è più facile che –nel rispetto della fiducia relazionale consolidata con l’operatore- si sforzi di controllare le proprie stesse intemperanze. Ecco perché il controllo acceso rischia piuttosto di rievocare al paziente psichiatrico l’oggetto cattivo interno o gli oggetti relazionali negativi con cui si è rapportato fino a quel momento, finendo con l’amplificare il vissuto emotivo associato all’operatore che si fa portatore di disciplina. Ne deriva una disgregazione del potere riabilitativo dell’équipe tutta, che viene parcellizzata in oggetti parziali alternativamente buoni e pericolosi, cui l’utente riterrà di doversi relazionare di volta in volta in maniera differente sulla scia della loro stessa particolarità e differenziazione soggettiva. La singolarità degli operatori così descritta diviene pertanto una fonte potenziale e rinnovata di al-

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larme, poiché per anticiparne le mosse e difendersene l’ospite potrà presupporre di doverne stimare i probabili comportamenti attraverso l’episodicità degli scambi, controllandone a sua volta l’agire e dimenticandosi inevitabilmente della ricostruzione del proprio stesso Sé. Piuttosto, l’obiettivo principe dell’équipe è quello di restituire all’utente il senso della propria specialità vista, accolta e compresa. 1.2. Il rispetto dell’autodeterminazione È ampiamente riconosciuto in letteratura come nella pratica della riabilitazione psichiatrica l’intervento degli operatori debba essere rivolto alla conquista, all’incremento e al rispetto dell’autodeterminazione del paziente nella cura della propria salute (Maritta Valimachi, 1998; P.Deegan, 1988, 2005). La malattia psichiatrica di per Sé inficia l’indipendenza della persona: la mancanza di autonomia può essere causata dallo stigma, dal contesto istituzionale, dalle difficoltà comportamentali e dall’inabilità del paziente a riferire di sé. Talora le voci dei pazienti psichiatrici impediscono loro di esercitare un controllo e di attivare scelte libere in merito alla propria vita (Norman e Parker, 1990; Beech e Norman, 1995). Il dizionario della lingua inglese Collins Cobuild (1993) fornisce due definizioni del concetto di determinazione: in primo luogo essa “è la qualità mostrata quando si decida di fare qualcosa e non si permette a nessuno di essere fermati”; secondariamente “è l’atto di decidere o di stabilire”. Nel contesto della salute mentale l’autodeterminazione è stata definita come la partecipazione del paziente alle decisioni che influenzano la sua vita senza costrizioni imposte da altri. Downie (1985) ha riproposto

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il concetto di autodeterminazione come la capacità di pervenire a decisioni ed effettuare piani senza il governo di nessun altro. Eiken e Catalano (1994) descrivono l’autonomia del paziente come il diritto all’autodeterminazione, all’indipendenza e alla libertà di determinare le proprie azioni in accordo ai piani che egli stesso ha scelto. Mappes e Zembaty (1986) hanno discusso tre aspetti dell’autonomia: la libertà di un’azione intenzionale e volontaria in contrasto alla coercizione; la libertà di operare una scelta; l’effettiva deliberazione focalizzata su fattori interni, ovvero la capacità degli individui di ragionare razionalmente e di esercitare i propri piani di azione senza paura o altra emozione che li renda meno razionali. Dallo studio di Valimachi (1998) si evince come i pazienti psichiatrici posseggano una chiara definizione interna del concetto di autodeterminazione, sia nelle caratteristiche intrapersonali che negli aspetti interpersonali. L’aspetto intrapersonale del concetto di autodeterminazione è da essi descritto come il diritto di decidere per se stessi, di fare ciò che vogliono, di prendersi cura di Sé come loro aggrada, di esprimere ciò che pensano, di opporsi al trattamento, di essere ciò che sono e di vivere come a loro piace: essi riconoscono nell’autodeterminazione la libertà di fare, l’opportunità di esprimere opinioni e di rifiutarsi, l’avere il permesso di fare, l’essere capaci di agire senza essere costretti. In ultimo autodeterminazione per i pazienti psichiatrici significa “poter decidere circa le proprie cose personali e circa le questioni associate al trattamento”. In relazione alle qualità interpersonali del concetto di autodeterminazione i pazienti psichiatrici riconoscono l’importanza che venga loro riconosciuto il diritto incondizionato di scegliere ciò che è meglio per loro nel contesto di ogni area della propria vita in assenza di qualsiasi limitazione imposta da altri. Ciono31 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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nostante, una forma di autodeterminazione condivisa è considerata parimenti importante allorché possano permettersi di esporre i propri diritti all’équipe degli operatori (o a tutta o a parte di essa) e laddove venga intravista la possibilità di una reciprocità con gli stessi. I pazienti affermano come la propria autodeterminazione venga limitata allorché i diritti personali siano negati anche temporaneamente, oppure riconosciuti solo in caso di miglioramento o di buona condotta (“l’équipe non ci impartisce ordini se siamo adeguati nelle attività e se stiamo in salute”); l’autodeterminazione è riferita come assente quando i pazienti vengano costretti o quando l’équipe non si presti alla condivisione, ma operi al solo scopo di applicare restrizioni. Ora, è un pregiudizio invalso quello per cui le persone con gravi disabilità psichiatriche non possano operare scelte né apprendere particolari competenze. Le istituzioni improntate al tradizionale modello medico tendono per lo più a decidere in sostituzione dell’utente e a non farlo partecipe della definizione dei suoi obiettivi riabilitativi. Schauer, Everett e del Vecchio (2007) sostengono che la cura psichiatrica dovrebbe essere condotta nel rispetto e nella rispondenza alle preferenze, ai bisogni ed ai valori di ogni singolo paziente. I valori dei pazienti dovrebbero guidare tutte le decisioni cliniche, promuovendo la partecipazione centrata del paziente e il trattamento fondato sul decision-making. Anche ai familiari verrebbe riconosciuto un ruolo decisionale nella cura dei propri congiunti. L’importanza delle attività partecipate fa parte di tale decision-making. La recente enfasi sul processo di condivisione dell’autodeterminazione nella cura della salute mentale è il riflesso del lungo focus protrattosi già da tre decadi nell’ambito della riabilitazione psichiatrica in relazione all’importanza della 32 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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scelta autonoma dei pazienti. La condivisione implicata nel decision-making è un processo di collaborazione interattiva tra gli operatori della salute mentale e il paziente, che viene abituato a prendere decisioni sulla sua salute partecipando attivamente a tutte le fasi della riabilitazione. Adams e Drake (2006) specificano che nel processo di condivisione decisionale gli operatori assurgerebbero al ruolo di consulenti per il paziente, lo aiuterebbero a reperire informazioni, a discutere opzioni, chiarire valori e preferenze e supporterebbero l’autonomia dello stesso. Tale approccio operativo si fonda sulla credenza per cui la riabilitazione psichiatrica vada realizzata con la persona, e non sulla persona. Un siffatto processo collaborativo ha lo scopo di ridurre la discrepanza di conoscenze e di potere tra operatori e paziente, una volta che quest’ultimo sia reso esperto sulle possibilità di autonomia e di controllo circa la propria salute mentale. Osserveremo anche come la produzione delirante ed allucinatoria possa essere resa più controllabile riconnettendola al significato peculiare che assume per il soggetto, quando ovviamente questi si consenta di partecipare l’operatore dei propri contenuti più delicati. La condivisione del processo decisionale si colloca tra il modello tradizionalista medico-paternalistico e il modello delle scelte informate. Nel modello paternalistico il paziente è considerato malato e l’operatore usa la sua conoscenza per individuare il miglior trattamento per il paziente fornendogli informazioni rilevanti solo ai fini di supportare il corso d’azione raccomandato, sino ad ottenerne il consenso. Il dovere del medico in questo caso si limita a fornire spiegazioni prima e non durante l’applicazione del trattamento farmacoterapico. Nell’ambito del decision-making piuttosto, il paziente perviene al consenso esprimendo preferenze reali per una o più d’una tra le diverse opzioni 33 Edizioni Psiconline © 2018 - Riproduzione vietata


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di trattamento. Gli operatori in questo caso adducono informazioni che hanno a che vedere con la malattia, le strategie di trattamento, i rischi, i benefici e le evidenze di base che supportano l’efficacia della terapia. Il paziente è considerato un esperto dei propri valori, esprime le proprie preferenze e gli obiettivi personali da raggiungere. Riconoscere le proprie esigenze ed ottenere che siano rispettate è già di per sé una conquista per il paziente psicotico. Poter condividere i propri bisogni e i propri valori con l’équipe aumenta non solo l’efficacia personale dell’utente, favorito da linee-guida per l’assunzione di decisioni, ma lo aiuta altresì a recuperare la coerenza e la continuità con se stesso, a partire da ciò che è soggettivamente prioritario per Sé (P.Carozza, 2006). Nel rispetto dell’autodeterminazione, il paziente smette di perseguire obiettivi confusi e ambivalenti, suggeriti da altri, ma ha l’opportunità di connettere ciò che sente ed in cui crede alle azioni che attiva. L’operatore ha dunque il compito di acquisire valori ed atteggiamenti dell’utente per fornire degli aiuti decisionali ad hoc ed assicurarsi che il paziente faccia delle scelte deliberate e definite soggettivamente. La chiarificazione dei valori d’altra parte aiuta il paziente a considerare il significato e la valenza soggettivi di ciascuna opportunità o minaccia che si prospettino entro la gamma delle opzioni di trattamento. Alcuni studi indicano che lo stress psicologico del paziente venga notevolmente ridotto da tale modalità operativa di condivisione dell’autodeterminazione, mentre l’uso della comunicazione centrata sul cliente aumenterebbe la qualità del suo stato funzionale. I migliori esiti infatti sono stati trovati associati a quelle condizioni in cui il paziente sentiva di aver pienamente espresso se stesso e di aver ricevuto tutte le informazioni richieste.

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