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Giovanni D’Alessandro
LA TANA DELL’ODIO Romanzo
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Š EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2013 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino ISBN 978-88-215-7808-3
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Alle nuvole rosse come fuoco – e poi rosa e poi oro, a poco a poco – di quel tramonto del ‘59 quando tutte le cose erano nuove
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The evil that men do lives after them, The good is oft interred with their bones. Il male che gli uomini fanno vive dopo di loro. Il bene finisce spesso sotto terra con le ossa. (William Shakespeare, Giulio Cesare, III, 2)
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Lui ha visto cose che nessun bambino dovrebbe vedere. Cose dopo le quali si muore, perché chi le fa uccide tutti, affinché nessuno le racconti. Cose dopo le quali, se anche l’odio non è arrivato a ghermire per uccidere, vivere non importa più, per essersi la vita spinta sino al punto dove continuarla era quasi uguale a finirla; il confine ultimo era a un passo, oramai, e bastava un soffio per varcarlo, scivolando nel nulla. Lui ha visto cose dopo le quali un bambino non è più un bambino e non avrà mai avuto nove anni. La sua infanzia s’interromperà, per dar corso a un’altra età senza nome. Tutti i successivi anni si avvolgeranno attorno a quel grumo di dolore, troppo grande anche per un adulto e che sarà in agguato ogni anno, ogni mese, ogni giorno. Non vi saranno più compleanni, dopo il maggio ‘92; lui crescerà, ma la crescita non avverrà per aggiunta, avverrà per sottrazione, tentando di cancellare. E, pur non apparendo tale agli occhi altrui, già da bambino diventerà un sopravvissuto senza tempo. Perderà anche il suo nome. Imparerà a disimpararlo. Le sillabe ascoltate dalla nascita – Jusuf – che gli facevano girare gli occhi verso chi le pronunciava, gli diverran9
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no estranee. Come potrebbero non divenire tali, quando non esiste più una madre a pronunciarle, o un padre che con esse lo chiami sulle sue ginocchia, o un fratello più grande, che con quel nome lo inviti a giocare, mettendosi a inseguirlo per le stanze di casa e minacciando di fargli chissà cosa, quando lo prenderà? Meglio non far esistere le sillabe di quel nome. Meglio non esistere. Anche quando la vita, dopo quei primi nove anni in Bosnia, è andata avanti quasi di altri venti.
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I
Peppe era partito presto per la montagna. Si era ritagliato tre giorni per sé e, come faceva quasi ogni anno, aveva deciso di concederseli prima che iniziasse l’estate. Questa si presentava piena, con gli esami più impegnativi da affrontare per la specializzazione in Chirurgia nell’ospedale dove lavorava, il più grande della città. Tre giorni senza andare in ospedale rappresentavano una rarità per uno specializzando e infatti non erano capitati dall’inizio dell’anno o, se c’erano stati, li aveva passati in città, nei dintorni, senza pernottare fuori, tranne un week end sulla neve a gennaio, in cui era andato a sciare all’Aprica, non lontano da casa. Ma sciare significava un’altra montagna. Voleva dire neve in quota. Bella, certo, ma annegata in una pratica di massa, scandita dalle attese e dall’organizzazione – con l’arrivo, il parcheggio, la fila agli impianti di risalita, il pranzo in affollati locali, di cui avrebbe fatto volentieri a meno – e insomma tutta un’altra cosa coi riti e i ritmi di una cultura urbana trasferitasi lassù. La montagna, per lui, era l’opposto. Era fuga dagli altri verso sé. Nudo approccio all’altezza, per amarla dove nessun altro c’era a guardarlo mentre la amava, ansiman11
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do su di lei; esplorazione della sua fisicità, perlustrazione delle sue vie più nascoste e sensibili, dove il respiro diventava un’entità a sé che, evocata dallo sforzo, emergeva e prendeva a parlargli, trasmettendogli ispirazioni profonde. Gli occhi si concentravano in trance sugli scarponi, scegliendo i passi più sicuri. E, quando era affaticato, se la ferrata approdava a un punto panoramico, dopo essere salito poteva sedersi su una roccia, a fissare un punto lontano. Senza ospitare alcun pensiero. Ricacciando indietro il pensiero. Tenendolo a bada lassù dove la rabbia del vento mugghiava storie di altre vite. Si conquistava il premio della solitudine. Era salito fin dove nessuno poteva raggiungerlo, poteva stipulare una transitoria tregua col mondo. Non doveva rispondere, essere educato o sorridere. Non doveva fingere d’essere felice, fingere di ascoltare gli altri, fingere di essere lì, quando era in un altrove molto lontano. Per questo amava la montagna nelle stagioni in cui la trovava deserta. Aveva letto il verso di una famosa poesia di Thomas Stearns Eliot, che diceva In the mountains, there you feel free, Sui monti, là ti senti libero. Non era un lettore tecnico di poesia – non si riteneva all’altezza: da medico, pensava che ognuno avesse la sua specializzazione –, ma si accostava a essa con riverenza, come a un distillato della mente umana, ricercandovi le parole che avrebbe voluto trovarvi, scritte per lui da qualcun altro. Leggeva quindi ogni tipo di poesia, narrativa e saggistica dedicate alla montagna col rispetto di un profano avventuratosi in un territorio non suo. Cercava in Buzzati, Chatwin, Corona, De Luca, ma anche Petrarca e Wordsworth, e tanti altri che in ogni tempo avevano dedicato pagine alla montagna, tracce della magia che trasmetteva. Erano 12
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gli scrittori, no? Toccava a loro afferrare e rendere le parole ch’essa materializzava nella mente. Non era d’accordo con la traduzione di quel verso di Eliot: «Sui monti, là ti senti libero». Cioè lo era in parte. Secondo lui, Eliot aveva voluto dire: sui monti, là ti senti te stesso, che non voleva dire libero, voleva dire “riconsegnato a ciò cui appartieni” o sei convinto di appartenere e, se appartieni, per definizione non sei libero, dal momento che il primo verbo contraddice il secondo. O forse, ecco, il feel free del poeta significava «liberarsi dal fingere di essere liberi». Riconsegnarsi ai propri pensieri e ricordi. Rientrare nella casa del silenzio per sfuggire all’alienazione delle parole. In questo senso forse la traduzione era giusta. E quindi finalmente, dopo tanto studio e lavoro, si prendeva tre giorni. «Finalmente» sarebbe stato l’avverbio giusto, solo che non si adattava a lui. Considerava il dovere come la dimensione normale della sua esistenza e il resto una variante: essere impegnato, essere preso era una realtà che lo accompagnava da sempre. Fosse stata sua abitudine voltarsi a guardare gli anni alle spalle, avrebbe detto che erano stati tutti una tirata. Laurea a tempo di record, con lode, in Medicina. Esame di Stato. Ingresso, in circostanze abbastanza fortunate, in Chirurgia per la specializzazione, con quel camice che sembrava aspettarlo da sempre come un’uniforme, da indossare anche prima di entrare in azione operando, come in una dimensione militare. Ecco, se uno avesse voluto definirlo, avrebbe potuto dire questo del dottor Giuseppe Vergagni: un gran bel ragazzo dal look un po’ militare e poco sorridente: serio, Gesù, serissimo. Uno di quei giovani che con l’aspetto, il 13
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comportamento, il modo di essere trasmettevano un messaggio metaverbale da far involontariamente sgranare gli occhi a chi ci entrava in contatto, portandolo a sintonizzarsi sulla stessa interrogativa frequenza di attenzione. Che ha fatto questo bel ragazzo per essere così refrattario alla spensieratezza? – leggeva Peppe negli occhi degli altri, al primo contatto con lui; ci s’era abituato ormai. Sembrava inconsapevole del suo fisico. Molto alto, atletico, bello di lineamenti, scuro di carnagione con occhi nerissimi – in cui scintillava una non aggressiva intelligenza, ma da cui la gioia sembrava esser stata sfrattata come un’inquilina abusiva –, Peppe dava l’impressione di ruotare intorno a qualcosa di sconosciuto a tutti. Se ne accorgeva parlando con gli altri e allora emetteva segnali, contrari, di comunicazione, come un natante che segnalasse il suo ingresso in porto suonando educatamente la sirena, e già rimpiangendo il mare alle spalle. Per questo contrasto tra l’aspetto e il comportamento, ispirava agli amici, quelli più in confidenza, un mix di tecniche di rianimazione, fatte, sin dall’adolescenza, di schiaffi sulla nuca, cazzotti al petto, tirate di capelli e simulate o reali pacche in direzione del basso ventre, a indicare la parte che appariva più bisognosa di una scossa per tornare a vita, reclamando contro un fisico tenuto così low profiled. Peppe sorrideva, ma non ricambiava. E quanto alla sfera attinente alla parte sollecitata, che non aveva bisogno di scosse, in effetti era oggetto d’inquietanti interrogativi tra le ragazze. Il rapporto di Peppe con loro le lasciava sgomente. Faceva sesso rimanendo serio com’era sempre; usando il proprio corpo, senza inibizioni, per apprezzate meccaniche, dopodiché stop. «Tutto sul fisico», aveva detto la 14
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più disperata, fallita l’impresa di conquistarlo, «niente sull’emotivo, niente sul comunicare, e anche quando stiamo insieme, aspetta che sia tu a prendere l’iniziativa; non dice una parola, mentre lo facciamo e dopo; anche se obiettivamente non ci stai a pensare, per come va, durante». Era così. Fare sesso, per Peppe, era una cosa che arrivati a un certo punto della serata, o nottata, o gita che fosse, bisognava fare, quale naturale seguito di perentori preliminari, come si offre a una ragazza di riaccompagnarla a casa o di condividere un ombrello se piove; a parte il tributo a una propria necessità naturale, dalla quale non sembrava disposto, tuttavia, a farsi condizionare oltre un certo limite. «Dopodiché, fine»; – aveva proseguito la leader delle disperate – «cala il silenzio, anzi peggio: sembra che non veda l’ora di lasciare il luogo del delitto; non dice niente, ma ti guarda come se trovasse strano che tu non abbia la stessa voglia di andartene da lì... meno male che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto» A meno di non essere poco obiettivi, il rapporto di Peppe con le donne somigliava a un contratto a prestazioni fisiche, con annesse fasi convenzionali di educazione, premura, attenzione, tutte presidiate dall’implicita clausola di essere a scadenza e di mantenersi al di qua della soglia del coinvolgimento emotivo, pena l’immediata risoluzione. Ciò era qualificato dagli amici maschi, con ammirazione, come «un comportamento da grandissimo stronzo»; mentre dalle donne, le non molte in verità con cui aveva avuto una storia, lo stesso comportamento era definito con l’intonazione con la quale si rimanda qualcuno a uno psicologo. 15
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Comunque fosse, su una cosa si ritrovavano tutti, amici e amiche e fidanzate: «Peppe era uno chiuso; ma proprio chiuso»; e la valutazione si fermava lì. Difficile infatti capire cosa s’intendesse per «chiuso», ne risultavano inadeguate tutte le declinazioni. «È uno molto riservato» era la più affettuosa. «Non parla mai di sé» ne isolava un aspetto, ma non spiegava. «Non vuole legarsi» era una sintesi a valle del suo comportamento, e veniva espressa tanto dalle femmine quanto dai maschi, i quali aggiungevano «e fa bene». «Ha paura di aprirsi» era un’altra frase, delle meno amicali, femminile di regola quanto a provenienza, e lo ascriveva alla categoria dei paurosi di farsi male. «Lo tormenta qualcosa dentro» segnava già un avvicinamento più pericoloso al nucleo nascosto dentro di lui e muoveva domande che rimanevano senza risposta. Il che riportava al mistero iniziale del perché un pezzo di santantonio così bello e bravo, con tutti quei numeri, anziché darci dentro a godersela, si facesse assorbire da «qualche microchip fulminato che ha dentro la testa» Peppe aveva sentito quest’ultima frase e, abbassando gli occhi, aveva annuito, dentro di sé. Era il minimo che potessero dire di lui e gli andava anche bene, come prezzo da pagare; fosse dipeso da lui, avrebbe usato altre locuzioni, su se stesso, meno generose. Riguardo a un’altra cosa erano però tutti d’accordo: che fosse bravissimo sul lavoro. Possedeva quella particolare sintesi tra astrazione e manualità che fa la meccanica del chirurgo nato. Era una macchina silenziosa, incapace di avvertire fatica, un atleta, quanto a presenza in sala chirurgica, che lo aveva fatto stimare dai medici più anziani già quand’era studente interno, perché non se ne vedevano molti così. Il massimo di disponibilità 16
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era per lui il minimo da dare. Andava incontro all’impegno cercandolo, e lo assolveva in un modo che stupiva. Cercava di stare in sala operatoria e in reparto più che poteva, come nei luoghi eletti della sua vita lavorativa. Ricettivo nella individuazione e veloce nell’elaborazione dei dati, era prudente nella diagnosi e nella prognosi, facilitato, in questo ponderare il giudizio, dal non essere un parlatore, ma la scarsa comunicatività si sposava qui col camice, diventando sul lavoro prudenza nel pronunciarsi e anche altro: riservatezza, calma, autocontrollo. Aveva insomma una vocazione per il suo mestiere, se mai se n’era vista una in Chirurgia e ciò spiegava perché ne stesse bruciando le tappe. Ma era modesto, e se sbagliava o doveva correggersi, lo faceva accettandolo come se non avesse aspettato altro che di migliorare; né s’inorgogliva dei risultati ottenuti e dell’apprezzamento riscosso dai colleghi, i quali già si avviavano a considerarlo come un riferimento, pur giovane com’era. L’altro aggettivo usato per descriverlo era, infatti: maturo. Molto maturo per la sua età, ventinove anni ancora da compiere. * * * Aveva preparato lo zainetto e il trolley dalla sera precedente. Un altro dei vantaggi del partire da solo era fare in solitaria queste ascensioni, che non raccontava soprattutto ai suoi genitori, per non allarmarli. A loro diceva soltanto: «Vado domani e dopodomani in montagna. Parto dopo pranzo, sto fuori due notti. Forse il telefonino non prende quando sono su». Laconico, com’era nel suo stile, chiudeva così i contatti col mondo. «Ci vai da solo?», gli chiedeva la madre. «Solo per il viaggio», 17
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