Fausto Tentorio martire per la giustizia di Giorgio Bernardelli (estratto)

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€ 12,00

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Fausto Tentorio martire per la giustizia

Fausto Tentorio martire per la giustizia

Prefazione del card.

GIANFRANCO RAVASI GIORGIO BERNARDELLI

92C 167

«I vostri sogni sono i miei sogni, le vostre battaglie per la libertà sono le mie battaglie per la libertà, voi ed io siamo compagni nella costruzione del Regno di Dio»

GIORGIO BERNARDELLI

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Giorgio Bernardelli

FAUSTO TENTORIO martire per la giustizia Prefazione del card. Gianfranco Ravasi

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Š EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2015 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-215-9556-1

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Prefazione

Domenica 21 settembre 2014: in una luminosa mattinata ero in Brianza, a Santa Maria Hoè, il luogo di nascita di mia madre e l’orizzonte più caro dei ricordi estivi della mia infanzia, adolescenza e giovinezza. In quel giorno ero stato invitato a celebrare il centenario della parrocchia che aveva come sede la splendida chiesa appartenente in passato ai Servi di Maria, dedicata all’Addolorata e a sant’Antonio abate. Al termine della messa solenne, tutta la comunità si era raccolta nell’ampia piazza antistante che da quel giorno si sarebbe trasformata in “Piazza padre Fausto Tentorio”. In quei momenti, mentre si snodavano i discorsi commemorativi e le testimonianze, circondati come eravamo dalle colline verdeggianti della Brianza, avvolti dal sole del primo autunno, davanti a me passavano in dissolvenza tante immagini intense e irrevocabili di mezzo secolo prima. E il volto di padre Fausto era ancora per me quello esile ma vivace di allora, come lo era il suo corpo di ragazzino che ogni mattina, dopo la messa dell’alba, era di fronte a me, seduto sui gradini dell’antico coro monastico ad ascoltarmi. Ero in quegli anni studente di teologia a Roma e poi giovane sacerdote, e d’estate ritornavo in vacanza con la mia famiglia nella nostra casa materna: in quegli istanti il suo viso era fisso su di me, più di quello degli altri chie5

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richetti, compreso suo fratello Felice. Ho solo un ricordo preciso di quanto dicevo a quei ragazzi: nei giorni in cui si celebravano le memorie liturgiche dei martiri leggevo loro il racconto della “passione” di quei santi, traducendola dalle letture latine del Mattutino del Breviario Ambrosiano. Mai avrei pensato che in filigrana a quelle narrazioni spesso truci e impressionanti potessero emergere il volto e la storia di quel ragazzino che mi stava allora di fronte. Questi pensieri e memorie, in quella domenica di settembre, si associavano ad altri ricordi, in particolare a quando avevo ritrovato – sia pure per un arco di anni limitato – il giovane Fausto come alunno tra i banchi del Seminario Teologico milanese dove insegnavo la Sacra Scrittura. Da lì egli sarebbe passato a quel futuro missionario che avrebbe costituito la sostanza più autentica della sua esistenza e che ora è il cuore delle pagine che seguiranno. Ebbene, ogni prefazione ha sempre due coordinate implicite o esplicite che si incrociano tra loro. C’è una dimensione “soggettiva”, personale che lega chi scrive l’introduzione alla persona dell’autore del libro o al tema che egli sviluppa. E c’è un aspetto più “oggettivo” che riguarda la qualità, lo stile, le caratteristiche dell’opera. La prima coordinata ha per me pochi altri tratti oltre a quelli che ho già evocato, perché la mia vita si sviluppò poi lungo percorsi diversi rispetto a quelli di padre Fausto. Proprio per questo erano rimasti nel nostro rapporto solo contatti indiretti attraverso notizie che mi giungevano da conoscenti comuni, oppure in eventi particolari come la sua ordinazione sacerdotale nel giugno 1977, o incroci occasionali che le mie sorelle avevano con lui durante i suoi rari ritorni a Santa Maria Hoè dalle Filippine. Era scontato per me immaginare la sua totale e assoluta donazione in quel 6

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ministero di fede e di amore in una terra così lontana dalle sue radici: fin da piccolo brillava in lui una luminosità nello sguardo nel quale idealmente s’affacciavano la sua generosità e la sua passione per un ideale. Una frase, spesso evocata, del suo testamento potrebbe infatti essere quasi il motto simbolico della sua esistenza umana e sacerdotale: «I vostri sogni sono i miei sogni, le vostre battaglie per la libertà sono le mie battaglie per la libertà, voi e io siamo compagni nella costruzione del regno di Dio». E il suggello di questa pienezza di donazione a Dio e ai “fratelli più piccoli” è stato in quel 17 ottobre 2011 che corrisponde a un’altra mia memoria particolare di padre Fausto. La sera dell’indomani – che era anche il giorno del mio compleanno – la notizia del suo martirio mi giunse proprio da un vescovo missionario mio amico che, telefonandomi per gli auguri, mi comunicava questo evento drammatico. È proprio da qui che si dirama il secondo filo, quello più “oggettivo”, di questa mia semplice prefazione. In realtà, la biografia che ora i lettori seguiranno è di una tale trasparenza e intensità da non esigere nessuna guida di lettura o commento. Giorgio Bernardelli, che è un noto giornalista che scrive per il quotidiano Avvenire oltre che per le riviste del Pime, ha offerto a padre Fausto il dono migliore: ha spogliato il suo racconto dalla retorica che spesso accompagna le agiografie, ha lasciato parlare i fatti e i testimoni, ha disegnato un ritratto che non sconfina nell’icona aureolata, ha identificato la matrice profonda degli ideali, dell’opera e del sacrificio di padre Fausto, ossia quel Regno di Dio che era anche il cuore della predicazione e dell’azione di Cristo. Basterà, dunque, ascoltare la sua voce narrante per incontrare una figura che merita le parole del monaco Zosima nel 7

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celebre romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij: «L’umanità non riconosce i suoi profeti e li massacra; ma gli uomini amano i loro martiri e venerano coloro che hanno torturato». La testa mozzata di Giovanni Battista parla dal vassoio ancor più forte di quando era sul suo collo. Ha ragione il proverbio orientale che afferma: «Il giusto, come il legno di sandalo, profuma l’ascia che lo colpisce». La potenza del martire, che è vittima, è paradossalmente più alta di quella del suo carnefice perché il suo sangue feconda la storia e continua a gridare la verità anche al suo stesso assassino. La spada recide i corpi, ma le idee e l’amore sono indistruttibili, e la stessa mano omicida porterà con sé una stimmata che la santità del martire vi ha lasciato. La croce di Cristo piantata nella storia ne è la gloriosa dimostrazione, come lo è la bara di padre Fausto «costruita col legno di mogano che ho piantato qui in Arakan», per usare le parole del suo testamento. Proprio per questo egli continua a testimoniare indirettamente la sua carità sia attraverso la Fondazione a lui dedicata, sia attraverso l’associazione Non dimentichiamo padre Fausto che ha sede proprio in quel paese di Santa Maria Hoè da cui è sbocciata la vita di Fausto Tentorio e dal quale anch’io sono partito con questa mia testimonianza, che ho posto in premessa all’appassionato e dolce ritratto che Giorgio Bernardelli ha disegnato con le sue parole. “Ricordare”, come è noto, è un vocabolo che contiene il termine latino cor/cordis, “cuore”: è quindi un “riportare al cuore” e non soltanto una pallida commemorazione nostalgica. Padre Fausto, anche attraverso l’associazione a lui intitolata e questo racconto biografico, continuerà a vivere nel cuore di chi l’ha incontrato e amato e di chi lo conoscerà proprio attraverso queste pagine. 8

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Egli, però, continua a vivere soprattutto in unione a quel Signore che ha tanto amato e seguito. È per questo che vorrei concludere col bellissimo dialogo che un filosofo cristiano dell’Ottocento, il danese Søren Kierkegaard, ha immaginato, nel suo Diario, tra Dio e il suo “testimone” (non dimentichiamo che la parola di origine greca “martire” significa appunto “testimone”): «Quando il testimone della verità arriva alla morte, dice a Dio: Grazie anche delle sofferenze che mi hai dato. Grazie a te, infinito amore! Ma Dio gli risponderà: Grazie a te, amico mio, per l’uso prezioso che ho potuto fare di te!». Card. Gianfranco Ravasi

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Introduzione

PADRE FAUSTO, LA TERRA E IL REGNO

È lunedì mattina nella parrocchia dell’Arakan: la porta si apre e padre Fausto si dirige verso la tettoia sotto la quale è parcheggiata la sua auto. Dalle sue montagne lo aspettano sessanta chilometri di strada fangosa per scendere a Kidapawan, dove i preti della diocesi si ritroveranno quella mattina per l’incontro con il vescovo. Non può sapere, il missionario, che nella penombra ad attenderlo c’è già appostato un killer, pronto a scaricargli contro un intero caricatore, prima di fuggire via su una moto guidata da un complice. Non può sapere che quell’ora, messa in conto ormai già da parecchio tempo, è arrivata davvero; perché le pallottole stavolta metteranno fine al suo impegno quotidiano con i poveri, per la costruzione del Regno di Dio in una terra sfigurata dagli egoismi degli uomini. Il 17 ottobre 2011 tante persone in Italia l’hanno scoperta così la storia di padre Fausto Tentorio, missionario del Pime, ucciso nella tormentata Mindanao, la grande isola del sud delle Filippine. Con una notizia improvvisa, per un giorno rimbalzata da un tg all’altro e accompagnata dalle immagini di un Paese lontano, come sempre succede quando a morire è un missionario italiano. Un altro volto di quella nuova stagione di martirio che – oggi – vede i cristiani in tante regioni del mondo tornare a pagare con la 11

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vita la propria fedeltà al Vangelo. In questo caso un prete cinquantanovenne, giunto nelle Filippine tanti anni prima dalla Brianza; un uomo che amava ascoltare più che parlare, ma che, se c’era da stare dalla parte dei deboli, non si tirava indietro. Un uomo che per tutti, nell’incantevole valle dell’Arakan, era diventato Father Pops, il missionario che con la moto si arrampicava fino ai villaggi più lontani per stare accanto ai manobo, la popolazione tribale originaria di quella terra. Ma chi era davvero padre Fausto? Per quale ragione è stato ucciso a Mindanao? E perché, anche in un Paese cattolicissimo come sono le Filippine, oggi si continua a morire per il Vangelo? Sono le domande più profonde che questa storia porta con sé. Domande forse anche un po’ scomode, se si accetta di non liquidarle con l’emozione del momento o qualche parola di circostanza. Perché quello di padre Tentorio è un martirio che parla del tema della giustizia: pone in tutta la sua drammaticità la questione concreta dell’impegno per i poveri nel mondo di oggi e ricorda che stare dalla parte degli ultimi non è uno slogan, ma una disponibilità a donare la vita, fino in fondo. A portare alla morte questo missionario italiano non è stata infatti – in senso stretto – una motivazione religiosa. È morto per il suo impegno in difesa dei diritti dei tribali, i primi abitanti di Mindanao, le popolazioni ormai relegate nelle aree più periferiche dell’isola, dove provano a difendere le loro ultime foreste. Restando comunque nel mirino di chi vorrebbe mettere le mani sul legname pregiato, sui minerali del sottosuolo, sui fiumi, sulle terre fertili di questo paradiso che rischia di essere perduto, un pezzo alla volta. Martire, dunque, sì. Il diciannovesimo della storia del Pontificio Istituto Missioni Estere. Ma padre Fausto Ten12

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torio è comunque l’icona di un martirio un po’ controcorrente; un martirio, in un certo senso, “di periferia”. Perché la morte di padre Tentorio ha a che fare con temi poco frequentati abitualmente nei nostri martirologi: questioni legate ad alberi tagliati illegalmente, titoli di proprietà della terra strappati con l’inganno a gente che non ne conosceva nemmeno il valore, modelli di agricoltura comunitaria da contrapporre a grandi piantagioni o multinazionali minerarie. Piccole storie di resistenza a quel mercato globale che, in nome della corsa alle materie prime, riduce oggi interi gruppi etnici al rango di “scarti” da eliminare. Martire della giustizia e della salvaguardia del creato, dunque. Con una storia per alcuni aspetti simile a quella di suor Dorothy Stang, l’irmã Dorote come era chiamata in Brasile questa religiosa americana delle suore di Nostra Signora di Namur. Lei venne colpita a morte il 13 febbraio 2005 in Amazzonia per il suo impegno a fianco dei contadini poveri minacciati dalle imprese del legname e dai latifondisti che non si fanno scrupoli a uccidere chi dà più importanza ai diritti umani che ai loro interessi. Solo che dell’Amazzonia, della sua foresta, degli appetiti di questi affaristi e della lotta delle popolazioni indigene, sono in tanti a parlare. La sua salvaguardia è una grande questione globale. Invece della Mindanao in cui viveva padre Fausto Tentorio non parla nessuno: è un Far West dove succedono esattamente le stesse cose; ma in un contesto più piccolo e molto più lontano dagli occhi del mondo. Anche se poi alcune delle banane che troviamo al supermercato vengono proprio da lì; e la sede della grande multinazionale, che a Tampakan vuole costruire un’immensa miniera di oro e rame a cielo aperto sulle terre dove da secoli vivono i b’laan, sta in Svizzera, a poche centinaia di chilometri da casa nostra. 13

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Ecco allora questo libro con cui vogliamo provare a rompere questo silenzio, raccontando per esteso la storia di padre Fausto Tentorio, martire consapevole per la difesa della terra. Con un racconto che è anche un viaggio dentro una grande periferia, com’è appunto per il mondo di oggi l’isola di Mindanao nelle Filippine: senza un planisfero davanti ben pochi di noi sarebbero in grado di dire qualcosa sulla regione dove padre Tentorio è stato ucciso. Eppure è un luogo quanto mai significativo per i missionari italiani – e per il Pontificio Istituto Missioni Estere in particolare. Lo dimostra più di ogni altra parola una fotografia scattata nel 1984 che ritrae il gruppo dei quattordici missionari del Pime presenti allora nella regione; in trent’anni tre di quei sacerdoti sono stati uccisi e altri due hanno vissuto l’esperienza durissima del rapimento. Nel caso dell’assassinio di padre Salvatore Carzedda nel 1992 e dei sequestri di padre Luciano Benedetti e padre Giancarlo Bossi, si può parlare di vittime della violenza dei movimenti islamisti. Perché Mindanao è la regione delle Filippine dove la presenza musulmana è più radicata e dove la grande emigrazione dei coloni dalle isole del nord – a lungo incoraggiata dalle autorità di Manila – ha creato una polveriera che solo recentemente un difficile processo di pace sta provando a ricomporre. Ma quello della violenza delle milizie di Abu Sayyaf e degli altri gruppi fondamentalisti islamici non è l’unico volto del martirio oggi a Mindanao. Molto più prosaicamente rispetto ai proclami del califfato islamico e delle sue succursali, nelle Filippine tuttora si uccide anche in nome della corsa al controllo della terra da coltivare o da sventrare con ambiziosissimi progetti minerari. E proprio la morte di padre Fausto Tentorio – e prima ancora quella del suo 14

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confratello e amico padre Tullio Favali, ucciso nel 1985 – stanno lì a dimostrarlo. Due morti che sfatano anche qualche idea forse un po’ troppo barricadera sulla persecuzione contro i cristiani nel mondo di oggi. Perché è vero, esiste la violenza intollerante degli “altri” contro di “noi” e soprattutto in alcune zone del pianeta è un fenomeno in crescita preoccupante. Ma questo non ci può far dimenticare che ci sono anche altri posti come Mindanao, dove a preti, suore, laici, può capitare di venire uccisi da persone che magari si dichiarano cristiane, salvo poi calpestare e insanguinare la parola di giustizia che il Vangelo di Gesù inequivocabilmente annuncia. Pur non esistendo ancora una verità giudiziaria, tutto lascia pensare che nel caso di padre Fausto – il 17 ottobre 2011 – le cose siano andate proprio così. Con un’ulteriore postilla interessante: se gli assassini probabilmente erano cristiani, i tribali che Tentorio difendeva, mettendo consapevolmente a rischio la sua stessa vita, nella stragrande maggioranza dei casi cristiani non lo erano. Sono infatti popolazioni in gran parte rimaste legate ai loro culti tradizionali e la loro “conversione”, come vedremo, non era affatto la prima preoccupazione di padre Fausto. A lui stava molto più a cuore che potessero sopravvivere. E che potessero incontrare attraverso di lui, a Mindanao, dei cristiani che non cercassero di ingannarli o di depredarli. Martire, dunque, della condivisione gratuita della vita con gli ultimi; martire del Regno (parola chiave nella spiritualità di padre Fausto) che rende presente Cristo anche fuori dai confini ufficiali dell’accampamento: esiste un martirio più periferico nel mondo di oggi, così segnato dalla questione delle identità? È proprio papa Francesco a insegnarci che i poveri e le periferie sono un Vangelo prezioso per tutti noi. E proprio 15

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da questo genere di storie, allora, può valere la pena di ripartire per ritrovare il senso più profondo della testimonianza cristiana. Ed è il motivo per cui, anche a qualche anno di distanza ormai dalla sua morte, vale la pena di ripercorrere dal principio la storia di padre Fausto. Una storia che in fondo non è affatto solo sua: «I vostri sogni sono i miei sogni, le vostre battaglie per la libertà sono le mie battaglie per la libertà, voi e io siamo compagni nella costruzione del Regno di Dio», spiegherà nel suo testamento con una frase scritta apposta in cebuano, perché tutti a Mindanao potessero comprenderla. Non erano parole di circostanza, ma il riassunto di una vita. Perché – lo vedremo – il missionario venuto dall’Italia aveva cominciato a morire molto tempo prima di quell’appuntamento con il killer. E d’altra parte il suo martirio non è finito il 17 ottobre 2011; va avanti nei sogni e nelle battaglie di quanti nelle Filippine di oggi lottano per la giustizia nel suo nome. Continuando anche a morire, esattamente come è successo a lui. Questo libro, dunque, vuole essere un’occasione per fare memoria di tutto questo. Ed è un messaggio che, insieme al Pime e alla famiglia Tentorio, rilanciamo proprio in quest’anno 2015 che per Milano è segnato dall’evento dell’Expo. La storia di padre Fausto, nato e cresciuto nell’arcidiocesi ambrosiana, arriva sugli scaffali proprio mentre la sua terra d’origine si propone al mondo con un programma ambizioso come lo slogan «Nutrire il pianeta, energia per la vita». Un’affermazione importante. E sono fortunatamente molte le voci che in questi mesi stanno cercando di cogliere l’occasione dell’Expo 2015 per ricordare lo scandalo della fame, che vede ancora oggi nel mondo oltre 800 milioni di persone (un abitante ogni nove del pianeta) restare senza il necessario per vivere. 16

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C’è però sempre un grosso rischio di fronte a queste cifre: fermarsi agli slogan, alle dichiarazioni di principio, tanto belle quanto a buon mercato. Lo ha ricordato anche con una certa durezza papa Francesco in un video-messaggio inviato nel febbraio 2015 proprio agli organizzatori dell’Expo: «Ci sono pochi temi sui quali si sfoderano tanti sofismi come quello della fame – ha commentato –; e pochi argomenti tanto suscettibili di essere manipolati dai dati, dalle statistiche, dalle esigenze di sicurezza nazionale, dalla corruzione o da un richiamo doloroso alla crisi economica». Se si vuole andare oltre i sofismi e provare a capire che cosa può voler dire davvero oggi “nutrire il pianeta” occorre invece fare i conti proprio con storie come quella di Fausto Tentorio. Perché, nella sua frontiera dell’Arakan, di persone che non avevano di che nutrirsi lui concretamente ne ha conosciute tante. E, con la sua vita e la sua morte, ha insegnato che la lotta alla fame non è mai qualcosa di gratuito. Lavorare per il diritto alla terra e l’autosufficienza alimentare, in molte situazioni del mondo di oggi, significa ancora opporsi a interessi e poteri che schiacciano chi è in condizione più debole. Con quel meccanismo che, con una chiarezza straordinaria, papa Francesco mette a nudo quando denuncia la “cultura dello scarto”, che rende interi gruppi di persone qualcosa di sacrificabile in nome del profitto. Prima ancora che il mondo scoprisse il successore di Pietro venuto dalle villas miserias dell’Argentina, padre Tentorio quest’idea l’aveva già capita molto bene. Era esattamente questa la molla che l’aveva portato a scegliere di spendere senza riserve la sua vita di missionario dalla parte di chi in Arakan era stato spogliato di tutto. Ma aveva anche capito che questo avrebbe comportato un prezzo: vivere da tribale con i tribali non era poesia, era la scelta coraggiosa 17

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di chi accetta di assumersi un rischio. Di chi non ha paura di patire la fame insieme a loro, di lottare insieme a loro. Perché solo chi è disposto a donare la vita – alla fine – la gente è in grado di nutrirla davvero. Nutrirla prima di tutto rispettando la terra. Un altro filo rosso che ricollega in maniera molto forte la vicenda di padre Tentorio all’attualità ecclesiale di oggi è l’enciclica sulla salvaguardia del creato che papa Francesco si appresta a pubblicare. Per la prima volta la Chiesa pone specificamente il tema ecologico al centro del suo documento più rilevante da un punto di vista magisteriale. Ma anche su questo la vita del missionario brianzolo è stata in qualche modo un segno; con i suoi gesti, infatti, padre Fausto ha sempre mostrato il legame inscindibile che esiste tra il rispetto delle leggi della natura e l’attenzione agli uomini che la abitano. Ricordando che anche il disboscamento delle grandi foreste, oggi, è un modo per uccidere in nome del dio denaro. Difendere la terra perché possa nutrire tutti: alla fine era questo nelle Filippine il sogno di padre Fausto. Portato avanti attraverso un metodo chiaro: la scommessa sull’educazione delle nuove generazioni dei manobo, l’etnia tribale delle montagne dell’Arakan che aveva imparato ad amare e servire. Con loro, passo dopo passo, il missionario italiano aveva scelto l’azzardo del Regno. «Più gli anni passano e più diventa difficile fare o prendere decisioni radicali... – confessava Tentorio in una bella lettera del 1995 –. Presente e futuro sono nelle nostre mani proprio perché siamo esperti del passato: sappiamo già come andrà a finire o che cosa ci capiterà. Vogliamo che tutto sia calcolato, tutto ben preparato, i vantaggi e gli svantaggi ben equilibrati: non si fa un passo se non si è sicuri che il piede appoggi sulla terra ferma». 18

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«Tutto questo è positivo – precisava subito – ma potrebbe uccidere la gioia dello stupore, la sfida dell’imprevedibile. Il rischio c’è, ma è proprio questo fattore “rischio” a dare “sapore” alle scelte. Il rischio del Regno, il rischio della missione, il rischio del matrimonio: tutta la nostra vita è un rischio se la poniamo al servizio del Regno. Rischiare è non essere più padroni di se stessi: vuol dire limitare le proprie libertà, vuol dire accettare liberamente che qualcun altro interferisca nella nostra vita, con tutte le conseguenze che questo può comportare». «Non c’è amore senza rischio», diceva padre Fausto. Alla fine sarebbe stato proprio questo a portarlo al tragico epilogo del 17 ottobre 2011. E a rendere la storia di un prete vestito come un manobo una pagina di Vangelo vivo, tutta da raccontare.

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INDICE

Prefazione del card. Gianfranco Ravasi Introduzione. Padre Fausto, la Terra e il Regno Ringraziamenti

I. II. III. IV. V. VI. VII.

Il missionario di Santa Maria Hoè Gli anni di Columbio Tullio prima di Fausto Destinazione Arakan Una rete per i tribali «I vostri sogni sono i miei sogni» Quel che resta di Pops

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